Giovanni Ingrosso - Zsuzsanna

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GIOVANNI INGROSSO

Zsuzsanna


BANFF: UNO STRANO INCONTRO Agosto 2008 Banff, Alberta, Canada Un’altra giornata di quel viaggio volgeva al termine. Mia moglie Chiara ed io avevamo lasciato Calgary la mattina presto per incamminarci lungo l’Highway, la Trans Canadian, attraversando i magnifici scenari delle Rocky Mountain canadesi a bordo di una Ford Escape 4x4 nuova di pacca, targata Alberta, ancora odorosa di plastica e di pelle. Lungo la strada c’eravamo fermati in posti panoramici a guardare quello scenario “technicolor” ed a mangiare a tavoli da pic nic in mezzo ai boschi, spiati da animaletti di ogni genere e con la sensazione di vivere in un film di avventure stile Passaggio a Nord Ovest. Erano più o meno le quattro della sera quando entrammo in città. L’albergo sulla Banff Street era un classico albergo di montagna: costruito in legno, con decorazioni che ricordavano posti come Pinzolo e Cavalese. Per arrivare fin lì avevamo un paio di volte sbagliato strada, perché avevo fretta, ma curioso com’ero, non ascoltavo le precise indicazioni da navigatore satellitare di Chiara. Guardavo in giro attratto dalla folla variopinta, dai negozi di souvenir e dalla ricerca del segnale di un posto dove andare più tardi a mangiare. Perché non volevo finire in un qualunque locale alla McDonald a mangiare la stessa roba che potevo mangiare in Galleria a Milano e a bere la stessa birra che potevo bere sui Navigli, circondato da turisti asiatici che squittivano e si intrufolavano ovunque.


Io invece cercavo un locale canadese, pieno di Canadesi, dove bere birra canadese e mangiare cucina canadese, cazzo. Finalmente, seguendo le istruzioni di Chiara, il navigatore satellitare umano, arrivammo al nostro albergo. Ci sistemammo nella stanza di quell’Hotel similsanmartinodicastrozza. Non avevamo trovato posto nel mitico Fairmont, così l’agenzia ci aveva sistemato nel più modesto, ma comunque gradevole Ptarmigan Inn. I portieri ci avevano accolto, come al solito, con la tipica cortesia anglosassone: “How’s Your day?”, sembrava che ogni Canadese fosse seriamente interessato a come avevi passato la tua giornata! Una cosa quasi commovente per noi Milanesi, abituati a farci gli affaracci nostri e a dire a fatica buon giorno alle persone che incrociamo. Insomma, a me quell’accoglienza era sembrata una specie di: “Benvenuti tra noi...” ma detto seriamente, non come un semplice e ripetitivo slogan pubblicitario, e la cosa mi piaceva, mi dava una sensazione di sicurezza e di familiarità, accompagnato dal gradevole senso di avventura che ci dava l’idea di essere nel cuore delle Montagne Rocciose, a ottomila chilometri dalla nostra affollata Italia, fra orsi, alci, chipmunk ed altre bestiole più o meno simpatiche e più o meno avvicinabili! Ci sistemammo in camera e fatte le solite cose che si fanno quando si arriva in albergo dopo un viaggio, decidemmo di uscire per visitare il posto. Per strada c’era tanta gente di ogni tipo: dalle signore giapponesi abbigliate come immagini femminili della pubblicità americana degli anni ‘50, alle ragazzine in


miniminiminigonna e infradito di ogni foggia e colore, ai ragazzini che sembravano scappati da un manga, con i capelli pettinati in modo improbabile almeno quanto il loro colore. C’erano signore americane con abbondanti esuberi di grasso che non si turbavano a mettere in mostra, Canadesi abbigliati come se il loro armadio fosse il deposito di una pesca di beneficenza, vecchiette che sfoggiavano abbigliamenti casual in tinte pastello da Barbie Vintage, alpinisti dall’aria poco lavata con scarponi e zaino in spalla, insomma di tutto un po’. Era una bella giornata. Nei giorni precedenti aveva piovuto e questo aveva contribuito a schiarire ancora di più l’aria trasparente di quel luogo. Percorremmo tutta Banff Avenue fino ad un ponte che attraversava il Bow River e decidemmo di scendere giù, per camminare lungo il fiume. Il paesaggio sembrava lo scenario di un film western, tanto tipico da parer finto: ci aspettavamo che, da dietro l’ansa a monte del ponte da cui eravamo discesi, spuntasse una canoa piena di Huron, con le loro tipiche creste, che vogavano a tutto spiano. Ci dirigemmo verso sud, lungo il fiume, attraverso un parco lungo una strada fiancheggiata da alberi altissimi, non so se pini, abeti, larici o sa il diavolo che altro genere di sempreverde, che conduceva alle Bow Falls. Al di sopra delle cascate la strada proseguiva fino al Fairmont Hotel, l’albergo in puro stile America anni trenta, che a Chiara ricordava tanto l’hotel maledetto di Shining e per questo motivo era ben contenta di non averci trovato posto. Camminavamo chiacchierando e notando qua e là particolari di quel paesaggio sorprendente e scherzando


sulla possibilità che dal bosco spuntasse qualche animale in cerca di “merendine”, magari umane, cosa che, poi scoprimmo, era tutt’altro che inverosimile in Canada. Non c’era in giro moltissima gente, solo piccoli gruppi sparsi, che ritornavano dalla visita alle cascate o che erano andati a piedi a vedere il Fairmont, che era invece più facilmente raggiungibile in auto, seguendo una comoda strada asfaltata. Un’anziana signora era seduta su di una panchina. Era vestita come tutta la gente del luogo, in modo più casuale che casual. Doveva avere una settantina d’anni ed era magrissima. I capelli, che una volta erano probabilmente biondi e ricci, adesso assumevano il colore di una via di mezzo fra il biondo ed il grigio, raccolti e tirati su. Aveva lineamenti molto fini, che da giovane dovevano averla resa piuttosto bella. Il naso era leggermente aquilino, piccole rughe circondavano la bocca e gli occhi ed invece che rovinarle l’aspetto, le davano la strana espressione di vecchia bambina. Fumava e guardava il fiume. Le passammo accanto e ci rivolse la parola: “How’s Your day?” Rispondemmo con il solito: “Nice, thank and you?”. Capì che il nostro accento aveva più probabilità di arrivare da Rho che da Calgary. Cominciammo a parlare del più e del meno, più che altro per cortesia. Noi un po’ imbarazzati, vista la scarsa abitudine verso l’inglese parlato, che ci costringeva ogni tanto a chiederle di ripetere. La signora aveva dei grandi occhi, vivaci e molto dolci, rotondi, che ricordavano un po’ quelli dei cervi, ma con il colore del cielo in estate. Sembrava esile, ma non so bene perché, dava l’idea di una


persona dotata di grande forza. Nonostante gli abiti un po’ dimessi, aveva un che di particolare, di aristocratico. Sì quello era il termine giusto: aristocratico. Il suo aspetto tradiva una certa fierezza, molto ben nascosta da una cortesia riservata, un po’ misteriosa, come un gatto che si avvicina e ti annusa, ma non si lascia toccare e ti guarda con l’aria di non volersi avvicinare più del necessario, pur curioso di scoprire qualche cosa di più di te. Parlavamo di quanto fosse bello vivere in un paese dai grandi spazi e di come ci impressionassero quei fiumi lenti e maestosi, quelle cascate abbondanti circondate di fumo, quelle acque cristalline e dal gelido colore del ghiaccio. Ci chiese che mestiere facevamo e le rispondemmo. Aggiunsi che oltre al lavoro, provavo a scrivere romanzi, soprattutto di spionaggio. Sembrò che la cosa l’avesse colpita. “Where you come from?”, ci chiese con una strana, sorniona, espressione, “Italy – esclamai, cercando un tono gioviale ‐ and you Canada as origin?” “Sono europea, in origine. Vengo più o meno dall’Ungheria”, rispose con uno strano, enigmatico e contemporaneamente imbarazzato sorriso e con un italiano appena un po’ strascicato, che dava l’impressione che insistesse leggermente sulle consonanti come le “p” e le “r”, quasi raddoppiandole. Chiara ed io facemmo la faccia da scemi. Effettivamente, se la signora aveva voluto farci un piccolo scherzo, c’era riuscita! “Aah risposi ‐ dicendo un’ovvietà ‐... ma lei parla italiano”, sperando che mi spiegasse come mai. Sorrise con l’espressione di chi aveva capito cosa volevo, con un


sorriso indulgente e dolcemente ironico: “Si abbastanza... mia madre mi ha insegnato.” “Italiana? ‐ mi guardò interrogativa ‐ Sì, intendo... Sua madre era italiana?” “No Uncherese... ma parlava italiano!”, disse con una c che soppiantava la g di ungherese. S’apriva un ampio spazio per ficcare il naso negli affari della signora, ma ebbi l’impressione che all’improvviso la donna fosse divenuta incerta: dava l’idea che certi argomenti non li volesse affrontare. Forse si era esposta un po’ troppo, ed ora pensava che fosse meglio scivolare via su un passato con qualche scheletro nell’armadio. La mia fervida fantasia stava disegnando avventurosi scenari, ma forse era semplicemente una persona un po’ originale, che prima aveva pensato di attaccare bottone e poi aveva cambiato idea. Chiara, naturalmente, intuì che stavo partendo in un tentativo di indagine e mi guardò con un’aria fra l’ironico ed il repressivo, ma si capiva che anche lei stava incuriosendosi, così continuai l’interrogatorio: “Eh...Come mai parlava italiano?” La signora sorrise mestamente: “Mia madre era Uncherese, mio padre era Italiano!” La mia invadente curiosità cresceva, la guardai molto interessato. “E si sono conosciuti qui, in Canada?” “No, si conobbero in Spagna, durante la Guerra Civile.” Eravamo nel campo della pura letteratura: Per chi suona la Campana o giù di lì. Insistetti: “Ah, ma allora ci deve assolutamente raccontare la loro storia!” L’atteggiamento reticente si accentuò, quasi avessi osato


troppo. Mi sorrise, e sorrise anche a Chiara: “È una storia lunga... Forse voi non avete tempo...”, disse con un gesto vago della mano e con un giro della sigaretta. “La verità è che mia moglie ed io amiamo i racconti. Io in particolare mi diverto a scrivere storie di azione. Siamo quindi ansiosi di sentire cosa volesse raccontarci”, anche a costo di regalare una serata di un giorno di ferie ad una vecchietta, magari un po’ folle, pur se dall’aspetto interessante. Tirò un sospiro. Lo sguardo nel vuoto, sembrava essersi persa nei ricordi di un passato lontano. Qualcosa la turbava. Guardò l’orologio e il cielo, poi disse: “It’s late, I think I have to go.” Strano, pareva che improvvisamente volesse fuggire. Forse si era resa conto che stava per raccontare più di quello che

doveva, ma contemporaneamente sembrava non voler rinunciare a togliersi un peso a lungo rimastole sul cuore. Magari per fare questo aveva scelto noi due, perfetti estranei, come fanno certi indigeni della Papuasia che catturano un pesce, gli raccontano i loro peccati e poi lo ributtano nel fiume, perché li porti con sé fino al mare. La nostra curiosità era diventata qualche cosa di più: un modo di rendersi utili forse? “Perché non ci accompagna per un pezzo ‐ insistetti ‐ e ci racconta questa storia?... Se non la disturba!” Aveva gli occhi lucidi, mosse la testa come per scacciare un cattivo pensiero. Il sorriso del gatto riapparve: “Sa, è uno strano caso, ma proprio oggi cadeva il compleanno di mia madre. È morta nel 1989, la notte in cui cadde il muro. Era davanti alla televisione: la trovammo lì, con uno strano sorriso sulle labbra. Sembrava felice. Probabilmente


perché quello a cui aveva assistito era l’accadimento sperato per tutta la vita... E, in qualche modo, aveva contribuito a che avvenisse.” Mi sembrò di capire che avesse deciso di assecondare la nostra curiosità. Anche Chiara lo capì e si sedette su di un sasso, un pochino platealmente, con l’aria di una che si rassegna a far tardi in quel posto, pur di scoprire un mistero. La guardai un po’ sorpreso: “Davvero?... E come successe?” “Va bene. Era tanto che non parlavo italiano... Forse mi perdonerete se sbaglio qualche volta …” Mi venne da dire se sbaglia la corrigerò, ma poi mi ricordai che era ungherese, non polacca. Quindi lasciai perdere la battuta infelice e le chiesi di continuare, tanto parlava benissimo! “Quello che vi racconterò è scritto nel diario di mia madre e un po’ me lo ha raccontato lei. Certe volte mi chiedevo come conoscesse certe cose di mio padre, ma poi ci passavo sopra. Due persone che si amano si scambiano segreti anche molto intimi su sé stessi. Successe molto tempo fa, sembrano passati mille anni. È una storia difficile da credere, ma lei non avrebbe voluto che fosse dimenticata. Io sto diventando troppo vecchia, e questa storia potrebbe finire nel nulla insieme con me. La conosco ormai solo io, quindi la lascio a voi. Non so perché, ma quando vi siete avvicinati ho sentito un piccolo dolore al petto. Nella mia famiglia questo è un segnale, il segnale di una premonizione.” Prese fiato un attimo e tirò una boccata dalla sua sigaretta, poi cominciò: “Mia madre era comunista ungherese. Era nata nel 1912, a Siofok. Era figlia di due persone che avevano aderito alla repubblica dei soviet di Bela Khun, lei


conosce...?” Annuii vagamente, avevo sentito parlare di quell’interludio post bellico prima del trattato di Trianon, in cui l’Ungheria era stata per alcuni mesi un paese comunista. “Quando Khun fu rovesciato, loro scapparono in Russia, a Mosca. Vivevamo all’Hotel Lux, dove c’erano anche parecchi Comunisti Italiani. A mia madre piaceva l’italiano. Fra i libri salvati da mio padre c’era un’edizione di Pinocchio con figure... Lei voleva leggerlo, così chiese aiuto ad un comunista italiano, uno di Napoli mi pare, ma non mi disse mai il suo nome. A poco a poco imparò la vostra lingua. Nel 1933, aveva solo 21 anni, ma la reclutarono nella GRU, (Glavnoe Razvedyvatel'noe Upravlenie, Direttorato Principale per le Informazioni), il servizio segreto dell’Armata Rossa, e la sua conoscenza dell’Italiano fu ritenuta utile. Quando scoppiò la guerra di Spagna i Russi intervennero a fianco della Repubblica, fu spedita in Spagna, con il servizio informazioni militari. Un giorno, vicino Guadalajara, gli Italiani si scontrarono con i Repubblicani. Alcuni feriti furono catturati dalle brigate internazionali. Tra questi c’era un ragazzo Italiano di Roma.”


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