Projects' Recook

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“La cucina è di per sé scienza, sta al cuoco farla diventare arte.” Gualtiero Marchesi, Master Chef

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Istruzioni per l’uso. Capitolo VII

Quinta portata: il piatto forte

La sintesi del percorso formativo: il progetto di tesi

Capitolo VI

Quarta portata: affinare la tecnica

Lavorare su temi specifici: il progetto di restauro

Capitolo V

Terza portata: cucinare per tutti

Progettare la cittĂ : il piano urbano

Capitolo IV

Seconda portata: cucinare per tanti

Progettare edifici pubblici e di interesse collettivo

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Introduzione

La minestra riscaldata

Capitolo I

Imparare a cucinare

Il primo approccio: involucro,volume, analogia

Capitolo II

Seguire lo chef

Progettare “in stile” dei grandi maestri del ‘900

Capitolo III

Prima portata: cucinare per uno Progettare l’unità abitativa

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a Mamma e PapĂ ,

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Introduzione

La minestra riscaldata

E’ vero, hai ragione. Introdurre una raccolta di progetti personali attraverso l’uso di una locuzione quale “minestra riscaldata” non è di certo il massimo per autopromuoversi; è chiaro, infatti, che tale espressione idiomatica è iscrivibile nel lungo catalogo linguistico di tutti quei modi di dire che assumono valenza espressamente negativa. Sebbene sia utilizzata perlopiù in ambito sentimentale, essa può essere riferita, in termini generici, a qualsiasi cosa, situazione, o qualsivoglia fatto/vissuto, che dopo un determinato periodo di tempo viene ripreso o riproposto. La minestra riscaldata è, a detta di molti, una pietanza sciapa e poco appetibile; e questo per due semplici motivazioni: innanzitutto perché essendo stata

preparata giorni addietro, si presuppone non abbia quella freschezza di sapori che solo gli ingredienti appena cucinati sanno darti; ed in secondo luogo perché avendola presumibilmente mangiata di recente, preferiamo allietare il nostro palato stimolandolo con altre sapidità piuttosto che ritornare nuovamente sulla medesima pietanza. Ecco allora che l’idea di raccogliere i miei lavori e risistemarli in questa sorta di libro-racconto-ricettario potrà sembrare noiosa e poco originale. D’accordo. Ma c’è un però… Non è detto intanto che un concetto che nell’ideologia comunemente radicata ci sembri giusto ed appropriato, nello specifico si riveli sempre azzeccato. E’ questo direi che vale anche nel caso della fatidica 12


minestra. Va detto che, nello specifico, gran parte della dietrologia semantica è dovuta al fatto che molti di noi associano questo termine alla classica brodaglia a base di verdure, che le nostre mamme ci rifilavano da piccoli quando stavamo poco bene; un piatto, questo, che nemmeno appena preparato entusiasmava i più, figuriamoci se rifilato nuovamente nei giorni a seguire. Eppure, se riflettiamo sul fatto che all’interno della macrocategoria delle minestre rientrano tutta una serie di altre portate quali pasta asciutta, tortellini, timballi (e via dicendo), forse il nostro punto di vista a riguardo potrebbe drasticamente cambiare. Immaginando ora che al posto della solita sbobba tra gli avanzi in frigo sia rimasta una bella porzione di

succulenti lasagne: l’idea di riscaldarla e riassaporarla il giorno seguente non sembra più così terribile e disgustosa. Anzi. Senza considerare il fatto che, forse non ci crederete, ma esiste qualcuno a cui piace la minestrina in brodo... E che dunque, in tutti i casi, riassaporare un qualcosa già mangiato può procurare un duplice piacere: tanto nel gusto ritrovato, quanto nella possibilità di usufruirne senza che ci si debba mettere nuovamente ai fornelli. Allo stesso modo in Architettura, riproporre postumi certi lavori del passato, può provocare una ritrovata piacevolezza ed interesse verso quei progetti su cui tanto tempo abbiamo lavorato, e che adesso si ripresentano ai nostri occhi senza il gravoso peso del 13


duro lavoro svolto per realizzarli, e dunque liberi da quel condizionamento tematico e temporale in cui sono stati preparati. Che dire invece della perduta freschezza? Di certo quella non possiamo mica riesumarla! Anche in questo caso, a mio parere, ci sarebbe da ridire; col tempo e l’esperienza (in cucina così come nella vita) ho capito che certe pietanze si apprezzano meglio se assunte postume rispetto la loro preparazione. Ricordo con piacere mia nonna che, nel cucinare determinati piatti, mi ammoniva sempre su come bisognasse aspettare che si raffreddassero prima di

poterli mangiare, affinchè gli ingredienti avessero il tempo di stabilizzare quei legami chimici che la cottura aveva creato ma che necessitavano di un ulteriore tempo di riposo per raggiungere la consistenza ed il sapore che ci eravamo prefissati raggiungessero. E così, seppur quel buon profumo non mi autasse certo a sopportare l’attesa, sapevo che aspettando sarei poi stato ripagato dal risultato. Capirai bene dunque, mio caro lettore, che il valore retrospettivo in questa raccolta di progetti universitari assume una valenza didattica fondamentale; visto e considerato, perlopiù, che non si tratta di lavori scompaginati, bensì di un collettivo di esperimenti 14


concettuali e pratici che hanno come fine ultimo quello di formare le capacità compositive dello studente, attraverso una consequenzialità di problematiche via via crescenti. Una condizione, questa, che valorizza oltre ogni modo l’aspetto compendiario e pedagogico; ed allora ben venga questa minestra riscaldata, se può aiutare a fornirci una coscienza più matura e critica di come (e in qual misura) formazione e insegnamenti ricevuti ci aiutano ad essere dei professionisti migliori forgiando ed influenzando il nostro modo di fare Architettura. Ad ogni modo. Buon Appetito.

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Capitolo I

Imparare a cucinare Il primo approccio: involucro, volume, analogia

Quando decisi di studiare Architettura, sapevo bene cosa fosse ma non avevo idea di come farla. Era un po’ come la questione del cibo: fin da piccolo sei a contatto con esso ed impari a conoscerlo, ma una cosa è distinguere quello o l’altro piatto, un’altra è avere idea di come sia fatto realmente e di come prepararlo; con la differenza che in cucina, rispetto l’ Architettura, se hai avuto la fortuna di avere in casa qualcuno che cucinasse, anche indirettamente inizi a farti un’idea su come funzioni il processo culinario e di quali fasi necessita per realizzarlo (sfido inoltre qualcuno a trovare dei tutorial su YouTube, alla stregua di quelli di cucina, su come progettare un edificio!). C’è da dire inoltre, che tra i futuri architetti si possono

trovare tre categorie di privilegiati: coloro i quali hanno avuto la fortuna di crescere in un ambiente ricco di bellezze architettoniche a cui ispirarsi; coloro i quali hanno avuto fin da piccoli la possibilità di conoscere i segreti dal mestiere frequentando studi professionali di amici o parenti; e coloro i quali hanno avuto entrambe le opportunità. Riguardo a me, non appartenendo a nessuna di queste categorie, capirete bene che il mio primo approccio alle pratiche architettoniche è stato, per forza di cose, difficile e faticoso. A prescindere dall’importanza di insegnamenti e consigli di professori in gamba e colleghi più navigati, una grande spinta morale e pratica mi è stata fornita non tanto da un architetto e né tantomeno da un 18


conoscente, ma da un certo Bruno Munari. Se ce ne fosse bisogno ricordarlo, uno dei più importanti esponenti del panorama artistico e del design italiano del ‘900 morto circa dieci anni prima che imparassi a conoscerlo ed apprezzarlo. . Ricordo con piacere il mio primo libro acquistato di Munari: Da cosa nasce cosa, e di come lo divorai letteralmente nel giro di poche ore. Una delle cose che mi colpirono di più di quel volume, fu la parte in cui l’autore invitava a prestare attenzione alle fasi di preparazione di un semplice piatto di riso verde. Il paragone tra il procedimento culinario, estrapolato da un ricettario gastronomico, e le fasi di ideazione, progettazione e realizzazione del processo creativo mi sembrarono allora più un gioco intellettualistico

e provocatorio che una similitudine effettiva dei processi. Notti insonni a rimuginarci sopra mi aiutarono a capirne il vero significato allegorico: Munari non aveva di certo intenzione di sminuire la complessità del progetto (architettonico o di design che fosse) rispetto alla preparazione di un semplice piatto di riso; ne tantomeno voleva dimostrare che bastasse appellarsi ad una sorta di “libretto di istruzioni” per garantire dei buoni risultati in termini di sviluppo creativo di un’idea. Quello che in realtà il designer milanese stava cercando di dirmi era un concetto molto più semplice ed allo stesso tempo illuminante: il modo migliore per far fornte ad un problema del tutto nuovo e che a noi 19


sembra insormontabile (nel mio caso approcciarmi per la prima volta alla progettazione) è quella di affrontarlo passo dopo passo cercando di assorbire, per quanto possibile, i processi e le conoscenze di chi prima di noi si è trovato di fronte a problematiche analoghe. Ed il piatto di riso verde ne è l’esempio calzante: sebbene in genere la sua preparazione risulti relativamente semplice, chi si trova a doverlo cucinare per la prima volta potrebbe riscontrare notevoli difficoltà, se non fosse che l’uso di un ricettario (e quindi di una processualità consequenziale e sperimentata) fornisce l’aiuto necessario nel realizzarlo, in termini di guida e di sviluppo del nostro percorso di apprendimento. Mi apprestai così a superare le mie remore iniziali e iniziai a preparare il mio “riso verde”. 20


riso verde per quattro persone- schema illustrativo del procedimento, “Da cosa nasce cosa� di Bruno Munari.

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PORTATA: CUCINA:

Cubo City Laboratorio di progetto I (1° anno)

MASTERCHIEF:

Prof. Arch. F.Ghersi

TEMPO DI COTTURA: DIFFICOLTÀ:

1 settimana

Principiante

Cubocity è un esercizio progettuale compositivo sui rapporti tra interno ed esterno, tra contenuto e contenitore. L’ esercizio consisteva nello studio delle relazioni di un sistema di piani costruito in uno spazio cubico con la superficie esterna del cubo stesso. Il lato del cubo è di 10,8 cm., pari a 3 parti da 3,6 cm, ognuna delle quali è a sua volta divisibile in 3 parti da 1,2 cm. (pari a 4 sottomoduli minimi da 3 mm.).

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Su questo sistema di modulazione dello spazio si doveva progettare e costruire un cubo in cartoncino costituito da un sistema di piani interni, tra loro ortogonali, e la superficie esterna del cubo che, immaginata integra in origine, doveva essere ritagliata in relazione alla posizione e alla dimensione dei piani interni secondo criteri logici stabiliti da ciascuno studente.


PORTATA: CUCINA:

L’oggetto analogico Laboratorio di progetto I (1° anno)

MASTERCHIEF:

Prof. Arch. F.Ghersi

TEMPO DI COTTURA: DIFFICOLTÀ:

1 settimana

Principiante

Team: Bellobuono M, Federico A, Giannone F, Leone S.

L’ oggetto analogico è la costruzione di un oggetto tridimensionale in analogia con un immagine bidimensionale; l’immagine diventa contemporaneamente il punto di partenza del processo creativo ed il referente di una sua possibile lettura a posteriori sull’oggetto. Il referente scelto dal mio team è stata una foto di Ugo Mulas, scattata durante la biennale di Venezia del ‘68, dove l’artista Spadari veniva trascinato via da un gruppo di militari in seguito ad una contestazione. La funzione del primo soldato a sinistra (quello in movimento) è quella di “reprimere” la protesta dell’artista. Paradossalmente però,

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nello scatto il repressore diventa egli stesso il represso: la figura del soldato risulta infatti l’unica ad essere sfocata, mentre le altre rimangono perfettamente definite. Nel nostro oggetto analogico ritroviamo due elementi, l’uno di fronte all’altro: uno specchio circolare (rappresentate idelamente il soldato) ed un parallelepipedo nero (che rappresenta invece la figura dell’artista). Lo specchio, nella sua condizione di rottura, reprime l’immagine di fronte, riproducendola deformata; allo stesso tempo però, proprio perchè rotto, non fa altro che reprimere se stesso, e dunque anche la sua immagine.


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Capitolo II

Seguire lo Chef

Progettare “in stile” dei grandi maestri del ‘900

Nella prima parte di questo percorso, abbiamo ricordato come qualsiasi tipo di problematica spaziale, compositiva, ideativa ed analogica ha a che fare, in un certo senso, col fare architettura. Esorcizzare la paura verso il primo approccio creativo attraverso la realizzazione di “oggetti frivoli” come cubocity e l’oggetto analogico, cioè liberi da ogni tipo di risvolto funzionale e pratico, può essere un buon trampolino di lancio verso obiettivi via via più impegnativi e di difficile lettura. Lavorare sui vari procedimenti del progetto e sull’idea creativa, di fatti, è solo un primo passo verso la definizione di un effettivo processo architettonico, che necessita di tutta una serie di conoscenze pratiche e funzionali che devono, per forza di cose, delineare

prima e supportare poi, le esigenze estetico-creative di ogni progettista. Ogni buon cuoco che si rispetti, infatti, prima di poter anche solo pensare di sprigionare la propria creatività inventando un piatto tutto suo, deve apprendere tutta una serie di regole (conoscere i vari alimenti e i loro sapori, quali sono gli utensili del mestiere e come utilizzarli ecc.) che sono alla base della buona cucina. Allo stesso modo un architetto deve assimilare il maggior numero di nozioni, regole, conoscenze tecniche prima di approcciarsi nella progettazione pratica; una volta acquisite delle buone basi teoriche e tecniche, resta comunque il problema di non avere ancora i requisiti adatti per dare al progetto un impronta compositiva propria ed originale. 26


Una buona idea può essere talvolta quella di affidarsi ad una progettazione “in stile” , cioè seguendo i principi e le regole di alcuni tra i grandi architetti che hanno fatto la storia dell’architettura del ‘900. I miei “masterchef”, nello specifico caso, hanno avuto le fattezze delle colonne portanti dell’avanguardia modernista di quello che sarà chiamato International style. Stiamo parlando di Charles-Édouard Jeanneret-Gris (in arte Le Corbusier), Ludwing Mies van der Rohe e Walter Gropius.

Architecture’ Masterchef, da sinistra: Gropius e il Bauhaus, Le Corbusier e Villa Savoye, Mies van der Rohe e la National Gallery.

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PORTATA: CUCINA:

Esercizi di stile Laboratorio di progetto I (1° anno)

MASTERCHIEF:

Prof. Arch. F.Ghersi

TEMPO DI COTTURA: DIFFICOLTÀ:

10 ore ciascuno

Esordiente

Esercizi di stile prende il nome da l’omomonimo libro di Raymond Queneau che ha suggerito l’idea di poter stimolare l’acquisizione di una coscienza del linguaggio dell’architettura attraverso una serie di esercizi che sperimentino le diverse declinazioni della modernità: Mies ed il neoplasticismo, Gropius e il razionalismo, Le Corbusier ed il cubismo. La scomposizione e l’autonomia dei piani di Mies, l’incastro e

Gli “stili” dei tre architetti rappresentati da degli schemi concettuali.

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l’articolazione dei volumi di Gropius, la figura contraddetta e la dialettica tra recinto e oggetto di Le Corbusier. Su queste specificità sintattiche veniva richiesto di sperimentare in una extempore (otto/dieci ore) per ciascuno dei maestri citati, attraverso la quale realizzare un progetto di casa unifamiliare non eccedente i 200 mq. (con relative piante, sezioni, prospetti e assonometria).


Esercizi di stile

Walter Gropius

pianta piano terra 1.living room 2.cucina/lavanderia 3.bagno 4.studio 5.garage

pianta primo piano 6.affaccio soggiorno 7.camera da letto 8.bagno 9.ripostiglio

N

A 2 B

7

9 8

B’ 5

6

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1 3

A’ 29


Prospetto Sud

Prospetto Est

Prospetto Nord

Prospetto Ovest

Sezione A-A’

Sezione B-B’

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pianta piano terra

8.bagno 9.lavanderia

1.living room 2.garage 3.bagno di servizio

Esercizi di stile

pianta secondo piano 10.camera da letto 11.bagno 12.laboratorio botanico 13.tetto giardino

pianta primo piano 4.soggiorno 5.sala pranzo 6.cucina 7.terrazzo

Le Corbusier

N

9 8 2 3

A

7

4

A’

10 11

1

5 6

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13

12

N


Le Corbusier, Still Life (1920)

vista assonometrica

Prospetto Est

Sezione A-A’

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B

N

Esercizi di stile

Mies van der Rohe 4

A

3

1

A’

2

pianta piano terra 1.ingresso 2.living+cucina 3.bagno 4.camera da letto 5.studio

5

B’

Prospetto Est

Sezione B-B’

Sezione A-A’

Prospetto Ovest

vista assonometrica

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Laboratorio di Progetto I - La casa di Piero Manzoni / Ortigia, Siracusa (IT)


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Capitolo III

Prima portata: cucinare per uno Progettare l’unità abitativa

Siamo dunque arrivati al primo vero piatto da cucinare da soli (ed in modo del tutto personale): la casa unifamiliare; una particolare tipologia edilizia destinata ad abitazione per un solo nucleo famigliare, indipendente da altre unità abitative e, generalmente, corredata da un giardino ad usufrutto della stessa. Come progetto finale del primo anno si richiedeva la costruzione di una casa-studio per un’artista in una delle due aree gemellate proposte nel corso. Le due aree scelte si fronteggiano su sponde opposte del Porto Grande di Siracusa: una ad Ortigia, a lato della sede della facoltà in piazza Federico di Svevia, e l’altra in prossimità della spiaggia di Punta del Pero. Sebbene queste due aree trovino il loro rapporto nel reciproco guardarsi attraverso il Porto, esse

possiedono caratteristiche del tutto differenti: da una parte l’antico e denso tessuto della città, dall’altra la trama organica del paesaggio naturalistico. L’obiettivo dello studente era quello di esprimere questo rapporto dialettico a partire dall’individuazione della coppia di artisti a cui le due case fossero dedicate. Una mia personale riflessione su cosa rappresenta ed ha rappresentato nel corso dei tempi la figura dell’artista mi portò a scegliere un improbabile duo: l’artista concettuale Piero Manzoni e il poeta decadente Gabriele D’Annunzio. L’incompatibilità ideologica tra i due non si può certo riassumere banalmente nella mera distanza temporale (concettualismo da una parte, superomismo e decadentismo dall’altra) ma è frutto di una profonda 38


Artisti a confronto. Piero Manzoni (a sinistra) e Gabriele D’Annunzio (a destra); sullo sfondo il profilo di Siracusa con Ortigia in alto e Punta del Pero in basso.

antitesi caratteriale e comportamentale che va al di là della diacronia storico-temporale. D’Annunzio vive in maniera egocentrica e assoluta: alla continua ricerca della bellezza, del lusso, della grandiosità; miticizzando la sua figura di artista-divo e uomo d’azione, aiutato dalla nascente società di massa. Manzoni, invece, percepisce la realtà attraverso quella concezione di “vita-teatro” che non concentra su se stesso ma sull’uomo, sugli animali, sulle piante, sul mondo in generale; senza alcuna intenzione di riuscire a capire il perché delle cose ma accettandone il loro incessante fluire. Da questa discordanza sostanziale scaturisce la diversa consapevolezza del compito dell’artista all’interno

della società: per D’annunzio l’artista è il veggente che attraverso le sue doti eccelse riesce con l’arte a oltrepassare quel velo di Maya schopenhaueriano che è il mistero del mondo; per Manzoni, invece, l’arte non è altro che il manifestarsi di tutto ciò che ci circonda, al di là della percezione e del pensiero dell’uomo-artista il cui unico scopo diventa quello di evidenziare, tramite il mondo e le sue realtà, ciò che astrattamente è già predelineato. Se l’arte è dunque, come la definisce Piero, un “puro atto”, un “procedimento scientifico di fondazione”, l’artista non può che essere un banalissimo marchingegno atto a mostrare tale complessa sintesi della vita e dei suoi misteri. L’arte dunque, per Manzoni deve esistere ed esiste, al di là delle esigenze 39


formali dell’artista. Si tratta dunque di riuscire a tradurre due linguaggi differenti dell’arte, traslandoli nel campo dell’architettura e cercando di mantenere, per quanto possibile, le individualità di taluno in modo da creare un analogia immediata tra l’opera architettonica e l’artista di riferimento. Il punto di partenza di questa traslazione di significati è stato un gioco concettuale e metaforico tra l’architettura e il castello di sabbia. Il castello di Piero Manzoni sarebbe di quelli che si fanno lasciando cadere la sabbia bagnata dal pugno, in modo che questa si distribuisce in maniera amorfa e casuale, dove la forma che né verrà fuori sarà figlia della volontà della stessa di venire su in quel preciso

modo e non in un’altro; il castello di D’Annunzio, invece, sarebbe di quelli che si fanno con i secchielli riempiendoli fino al bordo di sabbia bagnata, poggiandoli sul bagnasciuga e battendo fino a quando il secchio vien tirato e rimane la forma perfetta, delineata, frutto della bravura di chi con cura lo ha creato. E’ giunto ora il momento di passare ai fatti: bisogna innanzitutto capire che, in architettura, i concetti precedentemente espressi metaforicamente tramite il castello di sabbia, assumono un risultato formale diametralmente opposto. Nel senso che il castello di Manzoni, per esempio, è molto più vicino ad un edificio di Vittorio Gregotti piuttosto che ad uno di Frank Gehry, che paradossalmente è il corrispettivo 40


Castelli di sabbia. Illustrazione. Sulla sinistra Manzoni e il suo castello “spontaneo”, sulla sinistra D’Annunzio e il suo castello fatto col secchiello.

architettonico del castello di D’Annunzio. In che senso? Non deve ingannare l’apparenza. Costruire il castello “alla Manzoni” non significa creare una struttura incredibilmente articolata e complessa e senza alcuno raziocinio (come la sua immagine metaforica), ma tutto il suo contrario; creare una struttura di quel tipo significa “forzare” l’architettura e il suo rapporto con il mondo, cercando di indurre se stessa verso una determinata forma, creare insomma il castello “alla D’Annunzio”. Lasciare dunque che l’architettura venga fuori come vorrebbe lei, e non come la vorremmo noi, significa lasciare che essa sia la conseguenza dell’ambiente in cui l’abbiamo pensata, e che, una volta costruita, riesca a restituire all’ambiente quelle caratteristiche

da cui ha preso spunto. Un procedimento di questo tipo non significa, a mio parere, limitare la potenzialità creativa dell’architetto ma, anzi, permette di assumere una consapevolezza dell’impossibilità di “invenzione” che non venga fuori da un referente di alcun tipo. Ricordo che a mare, da bambino, ho sempre fatto i castelli di sabbia lasciando che la questa si distribuisse a suo piacimento, ed ho sempre distrutto invece quelli fatti coi secchielli dagli altri bambini; forse è per questo che ho scelto di concentrare il mio progetto sulla casa di Piero Manzoni.

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PORTATA: CUCINA:

Twins Project Laboratorio di progetto I (1° anno)

MASTERCHIEF:

Prof. Arch. F.Ghersi

TEMPO DI COTTURA: DIFFICOLTÀ:

6 mesi

Esordiente

La casa sorge nei pressi di un antico bastione adibito oggi a terrazza; la forma dell’abitazione viene fuori proprio dal volume del bastione, traslato e rotato fino a raggiungere un allineamento con l’antico edificio che gli sorge accanto. Avendo da scegliere tra due lotti di terreno dove posizionare la casa degli artisti, la scelta per Manzoni non poteva che essere quella di Ortigia; da una parte perché il lotto di Punta del Pero risultava per le

sue caratteristiche (zona naturale) più vicino ai gusti e alle esigenze di Gabriele D’Annunzio, dall’altra perché posizionare Manzoni tra le piccole case di Ortigia, in un sistema distributivo preciso e ordinato, per certi versi Mondriano, rappresentava un’ottima opportunità di confronto (o se volete di scontro) semantico, sperando di riuscire a creare una bella dialettica tra vecchio e nuovo, antichità e modernità.

Inquadramento territoriale

Isola di Ortigia

Punta del Pero 42


Allineamenti

2m

0 1m

5m

N

Planimetria di progetto

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Schizzi e disegni di progetto

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2m 5m

N

B

1

B’

A’

1m

A’

0

B

2

4

5

3

7

6

8 pianta primo piano

pianta piano terra

4.affaccio sul living 5.bagno 6.studio 7.galleria espositiva 8.terrazza/bastione

1.living room 2.bagno di servizio 3.cucina/sala pranzo

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A

A

Sezione A-A’

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B’


Modello di studio

Prospetto Ovest

Prospetto Est

Prospetto Nord

Sezione B-B’

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Laboratorio di Progetto II - Xenion Center / Siracusa (IT)


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Capitolo IV

Seconda portata: cucinare per tanti Progettare edifici pubblici e di interesse collettivo

locuzione De Gustibus, se la nostra soggettività ci porta a realizzare un piatto che risulti poco gradito alla maggior parte dei nostri commensali, al di là del reale valore culinario, risulterà comunque un fallimento. Ma come fare a capire cosa possa piacere alle persone in questione? Bisognerebbe chiederlo uno ad uno, qualora il numero non fosse realtivamente elevato, e poi rielaborare i risultati cercando di creare una risposta univoca che punti a soddisfare la massima compatibilità tra le parti. E se non li conoscessimo? O ancora, se il numero fosse talmente elevato da escludere una soluzione di questo tipo? Come comportarsi? A venirci incontro, in questo caso, sarà l’accuratezza

Cucinare per sè è un conto, cucinare per più persone è invece tutta un’altra storia. Quando infatti si cucina per enne soggetti, specie se questo specifico gruppo di individui rappresenta una “comunità” con caratteristiche comuni, una storia e delle tradizioni peculiari ad un determinato luogo, si deve tenere conto di diverse varianti. Bisogna intanto valutare che le nostre scelte culinarie saranno soggette al giudizio non di un singolo ma di una pluralità; e che quindi, pur essendo consci dell’impossibilità di accontentare la totalità dei soggetti in questione, bisogna entrare nell’ottica di preparare una tipologia di portata che tenga conto della variabilità di gradimento a vasta scala. Per cui, lungi dal confutare l’ineluttabilità della 52


Laboratorio di Progettazione Architettonica II, Concept di progetto

delle informazioni che sapremo reperire su quel determinato gruppo di persone; sebbene infatti, conoscere usi e costumi dei nostri commensali non ci dia la certezza di preparare una portata a tutti gradita, può aiutarci a non commettere delle gaffe culinarie (tipo servire del maiale ad un gruppo islamico o di fede ebraica). Stiamo parlando ancora di cucina? Oppure parliamo di Architettura? O di entrambi? Se rileggessimo queste poche righe sostituendo le parole “portata” e “commensali” con “progetto” e “commitenza/fruitori” ci accorgeremmo subito che il senso del discorso rimarrebbe invariato. Alla fine dei conti, davvero basta accontare i nostri invitati per realizzare un piatto di successo?

Se parlassimo esclusivamente di cucina probabilmente si; ma quando parliamo di un complesso edilizio, specie se di interesse e uso pubblico, la questione diventa molto più delicata di quanto pensiamo. Il valore etico della nostra professione infatti, specie quando lavoriamo su grande scala, e su questioni di interesse pubblico, dovrebbe portarci a mettere da parte le nostre smanie di protagonismo in favore di una coscenza sociale che tenga conto del bene assoluto del cittadino/fruitore. Risulterebbe “etico” servire esclusivamente dolciumi e piatti ipercalorici a degli ospiti con evidenti problemi di obesità? O ancora, escludere totalmente dalla dieta di un bambino frutta e verdura per il semplice motivo che preferisce non mangiarne? 53


Bisogna quindi essere un po’ masterchef ed un po’ nutrizionisti; apparecchiare e servire dei piatti da ristorante stellato, ma tenere anche conto della salute e del fabbisogno dei nostri convitati alla stregua di una mensa della scuola. Un vero casino insomma. Senza considerare il fatto che, anche per le cose più semplici da cucinare, moltiplicando il numero delle persone da servire, aumenta anche esponenzialmente la difficoltà nel gestire la cucina nonchè la probabilità d’errore. Ciò detto, prendete uno studente del secondo anno e mettetelo di fronte a questo problema da risolvere; aggiungete dei suoi colleghi, con background e gusti differenti formando dei gruppi di lavoro con il compito di trovare una soluzione convincente che

metta d’accordo tutti, studenti in primis, e professori in secundis. Ed il gioco è (si fa per dire) fatto! Il nostro compito dell’epoca era quello di realizzare un edificio polifunzionare per turisti e viaggiatori nella zona adiancente alla stazione ferroviaria ed il terminal bus della città di Siracusa, che fungesse da incipit per una riqualificazione dell’area in evidente stato di degrado ed abbandono. La prossimità geografica con i ruderi archeologici, nonchè la storicità del luogo e le sue inscindibili connessioni con la cultura greca, non potevano non influenzare il nostro concept progettuale e l’idea che questo nuovo centro potesse incarnare appieno i principi ellenistici di accoglienza. Per i greci l’ospitalità era un rito fondamentale della 54


Xenion Center, una nuova idea di accoglienza; statua di Zéus e foto sopralluogo nell’aria della stazione ferroviaria e dei bus di Siracusa

vita della polis, dovuto alla profonda convinzione che dietro lo xenìa (l’ospitato) potesse celarsi una divinità, tanto che Zeus veniva chiamato anche Xenios, ovvero protettore dei viandanti. Da qui l’idea che questo nuovo complesso, lo Xenion Center, dovesse, attraverso le sue funzioni e la sua estetica, fornire un’adeguato benvenuto ai numerosi viaggiatori, studenti e turisti che si apprestavano a visitare una delle più belle cittadine della Sicilia orientale, non adeguatamente rappresentata da quell’area fatiscente e carente di servizi. A livello prettamente compositivo poi, la volontà condivisa di lavorare costantemente sulle dualità semiotiche: antichità/modernità, linearità/frammento. La condizione tutta contemporanea del linguaggio

architettonico di assoluta ambiguità, la bellezza e la forza di affermare un concetto e poterlo contraddire. Ed allora ecco che l’incoscente coraggio di un gruppo di studenti diventa l’azione concreta di prendere due elementi così diversi tra loro, quali il cemento e la pietra, e di sfidarne limiti e peculiarità costruttive per ridargli nuovo significato e identità. La pietra che diventa leggera, decostruita, libera; ed il cemento che invece si appropria di quell’idea ancestrale di pesantezza, linearità, sostegno quali i liti si fanno portatori da secoli.

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PORTATA: CUCINA:

Il muro scavato Laboratorio di progetto II (2° anno)

MASTERCHIEF: Prof. Arch. E.Fidone, Prof. Arch. C.Truppi TEMPO DI COTTURA: DIFFICOLTÀ:

6-8 mesi

Intermedio

LE SETTE VARIANTI

Team: Federico A, Filoramo D, Garozzo A, La Verde C.

1. Volume

Situato nella parte Sud-Occidentale della città di Siracusa, tra la stazione ferroviaria, il terminal bus ed un’area archeologica in stato di abbandono, si è progettato un centro di accoglienza polifunzionale che accolgliesse le mansioni di nuovo terminal bus, alloggi temporanei per viaggiatori ed altri servizi (igenici, ristorativi, informativi ecc). L’incipit creativo comune, come punto di partenza del progetto, era quello di “muro scavato”, il cui iter

2. Sottrazione

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progettuale era vincolato da sette varianti compositive. Il progetto prevedeva anche un ripensamento della piazza adiacente alla stazione esistente. Nella soluzione da noi proposta partivamo da un blocco puro lavorato attraverso una serie di interventi architettonici e dall’incastro di una serie di megaliti irregolari per dare al fruitore una sensazione di continuità tra gli antichi manufatti e questa sorta di “nuovi ruderi” .

3. Slittamento

4. Trasla


azione

5. Addizione

6. Scavo

7. Incastro

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N

10m

0

10m

0 N

Pianta Piano Terra

25m

5m

5m

Pianta Piano Interrato

25m

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N

10m

0

10m

0 N

Pianta Primo Piano

25m

5m

5m

Pianta Coperture

25m

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Esploso Bidimensionale Assonometrico 60


Esploso Tridimensionale 61


Prospetto Nord-Ovest

Prospetto Sud-Est

0

50m 10m

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Sezione A-A’

Sezione B-B’

0

50m 10m

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Particolari Tecnologici

0

50m 10m

0

50m 10m

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Modelli di studio

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Xenion Center- Render di progetto

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Laboratorio di Progetto III - Back to Coast, la liberia sul parco / Siracusa (IT)


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Capitolo V

Terza portata: cucinare per tutti Progettare la città: il piano urbano.

Superate le prime difficolta legate alla realizzazione di un’abitazione unifamiliare prima e di un complesso edilizio multifunzionale dopo, generalmente nello studente di architettura si inizia ad infondere una certa sicurezza nel gestire le diverse problematiche e tiplogie di richiesta legate alla progettazione architettonica. Nemmeno il tempo però di assaporare quella bellissima sensazione di “confidence” in risposta alle esigenze della didattica universitaria, che il terzo anno mi ha subito catapultato in un inaspettato e sconfortante sentore di inabilità e inettitudine; un nuovo ostico (e all’apparenza invalicabile) ostacolo minacciava la mia scalata alla laurea: il progetto urbanistico.

Una cosa è cucinare per sè, o per un gruppo più o meno ristretto di persone; un’altra è invece strutturare un menu che sarà servito ad una conferenza internazionale che conta ennemila partecipanti (o peggio, al matrimonio del cugino Calogero che tra amici, parenti e conoscenti, ha pensato bene di invitare praticamente tutto il paesino di Pizzo Calabro ed interland). Cucinare “per tanti” aveva sollevato diversi dubbi e tematiche a cui si era provato a rispondere con non poche difficoltà; da dove iniziare invece quando si parla di cucinare “per tutti”? Partiamo dalla premessa che, sia che si parli di cucina che di urbanistica, definire un menu/progetto a vasta scala presuppone il fatto che l’atto realizzativo debba 72


inevitabilente, in maniera più o meno conspicua, essere delegato a soggetti terzi. Il masterchief infatti, non potrà avere il controllo su ogni singolo piatto che verrà servito, così come l’urbanista non sarà l’artefice di ogni singolo costruito all’interno della pianificazione urbana; per tale ragione, caro lettore, capirai bene come in questo settore risulti fondamentale più che in altri ambiti definire una strategia e delle linee guida nella maniera più dettagliata possibile al fine di fornire quante più indicazioni (e divieti) agli esecutori effettivi delle singole unità. Altro fattore fondamentale da non sottovalutare è che, salvo eccezionalità imponderabili (una terza guerra mondiale, una calamità naturale di dimensioni

mastodontiche, o un asteroide che si schianti sulla terra) difficilmente oggi vi verrà chiesto di costruire una città partendo da zero, ma si dovrà ad ogni modo tenere conto delle preesistenze, che sono a loro volta una stratificazione continua di numerosi interventi e manipolazioni avvenute nel susseguirsi delle varie epoche e avvenimenti del passato. Interessante, a questo proposito, riportare le parole di uno dei più grandi teorici urbanisti vissuto a cavallo tra ‘800 e ‘900: Camillo Sitte. Sitte si concentra in particolar modo sullo studio delle città antiche al fine di trovare nella mutabilità delle superfici e degli stili una sorta di corollario di regole generali che rimangano invariate nel tempo. Per dare una valutazione di qualità Sitte si rifà all’atto 73


della visione quale «meccanismo fisiologico che dà origine alla percezione dello spazio su cui riposano tutti gli effetti architettonici». Pensare dunque una strategia che si sviluppi in termini assolutamente generalizzanti e uniformi, immaginando però un’esecuzione che tenga conto di situazioni particolareggiate e differenziate. Semplice no? Entrando nello specifico del progetto assegnatoci, si richiedeva un ripensamento della parte sudoccidentale della città di Siracusa, in particolar modo quella porzione di territorio che si estende dal Molo Sant’Antonio fino alla Riserva Naturale Orientata Ciane-Saline. Quello che i numerosi sopralluoghi e le diverse

analisi sul terriorio hanno portato alla luce, è stata la considerazione che la città stesse perdendo la concreta possibilità di sfruttare pienamente l’enorme potenzialità che il litorale della Maddalena poteva offrire in termini di fruizione e sfruttamento del terrorio. Quello che si presentava ai nostri occhi era l’immagine di un area dilaniata nel recente passato da insediamenti scellerati e privi di un ragionamento urbanistico che, non solo aveva privato la città e i cittadini di uno sbocco sul mare chiudendosi in fabbricati di tipo industriale e manifatturiero in una conformazione urbana amorfa e insensata, ma che oggi si presentava in evidende stato di degrado ed abbandono. 74


Laboratorio di Progettazione Architettonica III, Area di progetto

La nostra proposta, che oggi con sguardo retrospettivo potrei definire forse troppo utopica e romanticamente eroica, prevedeva lo sventramento dei numerosi costruiti in disuso nonchè lo spostamento più in alto delle diverse attività di tipo artigianale, commerciale e turistico presenti nell’area per la realizzazione di un grande parco lineare (in parte naturalistico, in parte attrezzato) che fungesse da legante tra la riserva naturale a sud-ovest e il centro storico cittadino a nord-est. Un’idea, quest’ultima, già palesata in forma del tutto embrionale e disordinata, all’interno del PRG vigente del Comune di Siracusa, scandagliato a fondo nei suoi vari punti, e che si è provato a risistemare attraverso la proposta di una variante al piano che ridisegnasse

il territorio in maniera più omogenea rispetto alla “zoonizzazione” a macchie con cui si presentava. Una volta realizzato il Masterplan generale, ogni singolo studente si è poi occupato di approfondorire uno dei temi proposti nel piano. Nello specifico, il mio compito è stato quello di disegnare parte del parco urbano che si affacciava sul litorale, così come la progettazione del sistema di servizi che fungesse da filtro tra la città ed il parco, arrivando pure ad una scala architettonica in uno dei tanti blocchi del suddetto sistema:vale a dire la biblioteca sul parco.

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PORTATA: CUCINA:

Back to Coast Pt.1 (Progetto Comune) Laboratorio di progetto III (3° anno)

MASTERCHIEF: Prof. Arch. G.Dato, Prof. Arch. V. Latina TEMPO DI COTTURA: DIFFICOLTÀ:

6 mesi +

Esperto

Team: Alessandrello A, Federico A, Leone S, Leonforte A.

L’incipit è quello di stabilire un ritrovato contatto con il paesaggio e con il mare, senza bisogno di “fuggire dalla città”. Liberare la costa, dunque, per ridare un’identità ed una dignità all’area, attraverso un’azione forte che miri necessariamente ad attuare un procedimento di tipo inverso: non è più la natura che si “sposta” a causa della città, ma è la città che si sposta per lasciare spazio alla natura. L’ iniziativa si attua nello specifico

inquadramento e analisi del territorio

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attraverso l’espropriazione nella fascia costiera di tutte le attività artigianali, commerciali e turistiche che si sono insediate nel tempo in maniera impropria e selvaggia, riproponendole nella parte alta del litorale e lasciando spazio ad un grande parco urbano costiero, che “nasca” dalla riserva Ciane-Saline a Sud-Ovest della città e si estenda longitudinalmente verso Nord- Est fino ad arrivare all’area archeologica del Ginnasio Romano.


archivio fotografico sopralluogo progetto

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Schizzi preparatori di progetto

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Metaprogetto

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Sezioni di Studio Masterplan di progetto

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L’idea di creare un parco che unisca

PORTATA: CUCINA:

Nella progettazione del parco stata prestata particolare attenzione nell’integrare la vegetazione con le caratteristiche climatiche proprie del nostro sito, cercando, per quanto possibile, di istaurare una relazione uomonatura che si sviluppi attraverso un senso di “appartenenza” e di “riconoscimento” verso tutti gli elementi (viventi e non) presenti all’interno dell’area.

Back to Coast Pt.2 (Progetto Individuale) natura e città mette in evidenza il è Laboratorio di progetto III (3° anno)

MASTERCHIEF: Prof. Arch. G.Dato, Prof. Arch. V. Latina TEMPO DI COTTURA: DIFFICOLTÀ:

6 mesi

Esperto

problema dell’integrazione tra la zona d’ingresso all’area e la città stessa. La soluzione applicata è stata quella di creare una sequenza di spazi aperti, racchiusi da una cortina edilizia (la piazza sulla stazione, l’area archeologica, la piazza sul mare) che diventassero una vera e propria “lineboard” di separazione, nonché un sistema di “accoglienza” all’ area.

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Reference di progetto: Residenze universitarie a Chieti - Antonio Monesteroli, Giorgio Grassi

Studio del prospetto: il cambio di ritmo tra reference e progetto

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Pianta Copertura

Sezione C-C’

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Sezione A-A’

Sezione B-B’

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Laboratorio di Progetto IV - After Quake / Villa Sant’Angelo (IT)


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Capitolo VI

Quarta portata: affinare la tecnica Lavorare su temi specifici: il progetto di restauro

Superato anche lo scoglio della pianificazione urbana e territoriale, possiamo affermare senza timore di avere affrontato il tema della progettazione sotto diversi punti di vista e nelle principali scale di progetto. Se fino ad adesso, però, la richiesta che ci veniva fatta prevedeva il concepimento di costruzioni ex-novo, e che dunque ci lasciavano carta bianca dal punto di vista creativo e della libertà di espressione, quello che ci si richiedeva arrivati al quarto anno di magistrale era di applicare ed integrare la nostra progettualità ad una realtà precostutuita e con una precisa identità: era il momento di confrontarci con il progetto di restauro. Provando ad immaginare una situazione analoga in ambito culinario, un esempio che renda bene l’idea

della difficoltà di approccio in un tipo di progetto del genere, è quella della reinterpretazione di un piatto tradizionale in chiave contemporanea. Lavorare su una ricetta definita, conclamata nella sua composizione e perfettamente strutturata nei suoi processi, modificandone la sua natura identitaria al fine di provare a darle nuovo significato e sapidità è un compito arduo e non privo di insidie. Confrontarsi con il passato è qualosa di assolutamente normale e necessario per qualsiasi tipo di attività che abbia la prospettiva e la pretesa di definirsi “nuova”; conoscere ciò che è stato e capirne i processi che hanno portato ad un simile risultato in termini formali così pure teorici, è il primo passo verso la definizione di un qualcosa che possa dirsi innovativo, 94


Ruderi della piazzetta De Andrè a Villa Sant’Angelo

diverso, contemporaneo. Quando però questo confronto diventa lampante, tangibile, concretamente palpabile; quando il passato diventa una traccia reale, segmento, frammento da preservare ed integrare nel nuovo, ecco che la dialettica semantica si fa pericolosamente evidente: il confronto può diventare scontro, la contaminazione diventa commistione, ed il passato può diventare un ingombrante ospite pronto a ridimensionare la portata del nostro intervento o, peggio, esserne miseramente svilito. Per queste ed altre ragioni, il progetto di restauro rappresenta per i masterchief in questione una sorta di salto qualitativo non indifferente verso la consacrazione di una propria professionalità, matura

e personalizzata. Ricordo bene i giorni passati tra le macerie di Villa Sant’Angelo, piccolo paesino dell’entroterra abruzzese dilaniato dal terremoto del 2009 e quasi completamente distrutto dal sisma; i sopralluoghi e le misurazioni effettuate in edifici squartati e pericolanti, le passeggiate lungo le viuzze abbandonate in un’atmosfera tetra e spettrale. Quello che si chiedeva a noi giovani studenti di architettura era di provare ad immaginare il futuro di luoghi a cui il presente era stato brutalmente ed inaspettatamente strappato da una calamità naturale senza precedenti. Interi scomparti di città erano stati irrimedibilmente cancellati dal sisma, gran parte delle macerie erano 95


ancora lì a bloccare le strade, a riempire le piazze vuote invece di persone, relegate, quest’ultime, ad una vita-non-vita all’interno di prefabbricati temporanei ubicati fuori città. Come restituire dignità a quei luoghi? Come poter esprimere ed esaltare la propria creatività senza dimenticare di evidenziare e nobilitare le preesistenze? Come e in che misura restituire il ricordo di quegli spazi senza che il nostro slancio compositivo ne fosse totalmente o parzialmente compromesso? Queste ed altre domande ci tormentavano ogni sera dopo estenuanti giornate di rilievi e valutazioni; l’area che avevano deciso di assegnarci era forse la più complessa da gestire: un isolato a stecca quasi interamente crollato al proprio interno e con i muri

perimetrali pericolosamente instabili a cui si andava ad aggiungere uno spazio limitrofo, leggesi ex Piazzetta De Andrè, completamente occultato dalle macerie di alcuni edifici adiacenti parzialmente o totalmente crollati. Un addizione di spazi caratteristici che non ci sono più; frammenti di vita che rimangono nell’immaginazione collettiva di chi ha vissuto assiduamente quei luoghi per anni, e che oggi si ripresentano al cittadino in una conformazione spaziale completamente stravolta, inghiottita incondizionatamente dalle macerie. Il ripensamento formale e ideologico di questo “pezzo” di città si concretizza attraverso una duplice linea progrettuale: da una parte l’idea di concepire la nuova realtà architettonica come un “luogo del 96


Schizzo preparatorio di progetto Laboratorio 4

ricordo”, dall’altra una soluzione che strizzi l’occhio alle nuove esigenze contemporanee del riuso e della sostenibilità. Riciclare le macerie, dunque, come soluzione pratica alle esigenze economico-sociali, ed allo stesso tempo come atteggiamento eroico-semantico di ricostruire il nuovo col vecchio sotto un unico imponente segno. Ripartire da quello che era per re-invetare quello che sarà; il sistema degli orti interni, viene ripreso ed esteso lungo tutto il sistema dei costruiti ancora esistenti, creando un giardino mistico che penetra e si dirama lungo i vecchi ruderi, fino a culminare nella matericità imponente del “gabbione” principale, contenitore di frammenti nonchè luogo di metabolizzazone catartica del dolore.

Così succede nell’isolato adiacente, che nella sua nuova conformazione estetica-formale, brutalmente mutata, gli antichi e dettagliati prospetti rimasti in piedi duettano dialetticamente con la fredda pulizia di una struttura inglobata in acciaio e policarbonato, in parte a vista. La sua anima polifunzionare (unità abitativa, cantine, museo contemporaneo, museo del ricordo) mantiene invece la complessità funzionale della vecchia struttura, dove convivono diverse unità abitative ed attività.

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PORTATA: CUCINA:

After Quake Laboratorio di progetto IV (4° anno)

MASTERCHIEF: Prof. Arch. B.Messina, Prof. Arch. C.Carocci TEMPO DI COTTURA: DIFFICOLTÀ:

6 mesi+

Professionista

Team: Federico A, Grasso C, Miranda F, Salemi S.

Ripartire da zero. Il sisma ha provocato danni inestimabili alla città oltre a segnare fortemente la vita dei cittadini di Villa Sant’Angelo. L’antico isolato di fattura nobiliare all’ingresso della città oggi è un corpo senza vita, squartato dal terremoto. Gran parte del suo interno non esiste più, non resta che un macabro proscenio su un deserto di macerie. Il concept di progetto si sviluppa dalla condizione di permanenza delle vecchie mura

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con l’idea che possano diventare la “pelle” di una nuova struttura, simbolo della ricostruzione. I blocchi fluttuanti, nascosti su tre lati dal vecchio paramento murario si mostrano in tutta la loro sincerità strutturale sull’unico lato completamente crollato: duri ed ermetici di giorno, leggeri e trasparenti di notte. Nella coscienza che niente sarà più come prima, la consapevolezza che nulla sarà dimenticato.


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Dettagli tecnici di progetto

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Render di progetto - vista su Piazza De Andrè

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Render di progetto - vista sul Museo della Memoria

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Render di progetto - vista sui giardini di Piazza De Andrè

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Render di progetto - vista notturna sull’edificio e la piazza

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Tesi Sperimentale di Laurea - Urban Tac, spazio pubblico nel quartiere Sperlinga / Niscemi (IT)


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Capitolo VII

Quinta portata: il piatto forte La sintesi del percorso formativo: il progetto di tesi

Eccoci qui. Dopo un lungo e travagliato percorso, arriva per ogni apprendista Masterchef il momento di abbandonare il nido della scuola di cucina per provare a trasformare tutti gli inegnamenti che l’esperienza di cuochi più navigati ci hanno messo a disposizione, in un percorso autonomo e con caratteristiche e modalità assolutamente personali. In architettura la “prova del cuoco”, si chiama tesi di laurea, ed è quel particolare momento della nostra vita in cui bisogna decidere cosa e come applicare i numerosi imput, metodologie, estetiche e quant’altro, in maniera del tutto indipendente ed appropriata. Alcuni studenti ci mettono mesi per decidere il tema su cui impostare il proprio lavoro, nel mio caso specifico invece la scelta è stata chiara fin da subito,

nel senso che avevo bene delineato nella mia testa il cosa, ma non avevo ancora idea del come. Sono cresciuto in un piccolo paesino dell’entroterra siculo, nella quasi totale mancanza di una cultura del bello architettonico e con uno sviluppo urbano selvaggio e incontrollato che nei decenni aveva creato delle mostruosità a tratti irrecuperabili. Avevo avuto per anni negli occhi queste brutture, ma adesso sentivo di avere la giusta chiave di lettura per porne rimedio. Ero pronto per mettermi all’opera in un piatto del tutto mio; miei gli ingredienti, mia la preparazione, mio l’impiattamento. Chissà se poi sarebbe piaciuto! Ogni luogo, a prescindere dalla propria conformazione e peculiarità, ha una propria “anima”: una coscienza 116


Schizzo del quartiere Sperlinga-Niscemi

critica e trascendentale che si manifesta nella relazione incessante e mutevole tra se stessa ed ogni altro essere vivente o non vivente che vi risiede. La condizione di ineguatezza, degrado, incopiuto, di questa sorta di “non-città” si era riversata sempre di più sulla qualità di vita dei suoi abitanti attraverso un estraneamento sociale e identitario; per tali ragioni le strategie (a breve ed a lungo termine) che ho ideato ad hoc per questo progetto, avevano come obiettivo principale quello di riabilitare le periferie attraverso degli interventi di upgrading mirati ad incrementare il welfare dei cittadini. Iniziai così a vedere la città sotto un’altra sconvolgente prospettiva: non era più l’enorme inanime contenitore di milioni di storie e di vite, ma era essa stessa un

unico grande organismo in vita, di cui le singole storie e vite altro non erano che semplici contenuti. Nell’ottica, dunque, in cui ogni sconvolgimento urbano che devia dai valori di accettabilità esteticofunzionale riconosciuti si identifica come un màlum, e quindi in senso lato come malaptia, allora il compito del progettista-pianificatore è quello di un mèdicus che ha il gravoso compito di provare a migliorare la condizione di salute del proprio paziente e (nel migliore dei casi) di riuscire a guarirlo. Capire di avere un problema è il primo passo per risolverlo. Perché il sistema ha subito questa involuzione qualitativa nel tempo? Quali sono i fattori che hanno portato a tale condizione di inadeguatezza? Guardando e riguardando il grafico temporale 117


dell’espansione urbana, cominciai a formulare l’idea che questa tipologia degenerativa dell’organismo-città presentasse delle forti analogie formali e concettuali con altre forme di malattie degenerative che possono svilupparsi nell’organismo umano: le neoplasie. Questa trasposizione terminologica e concettuale, però, non poteva e non voleva restare un gioco intellettualistico e filosofico fino a se stesso, che si limitasse a dare un nome ad un determinato problema; il procedimento metaforico intrapreso ed il parallelismo con l’ambito medico hanno assunto una valenza strategica determinante diventando l’ incipit per l’individuazione di un impostazione metodologica per un processo pianificatorio vincente. Considerando l’espansione incontrollata e caotica

della città, un primo obiettivo è stato quello di bloccare il fenomeno proliferativo attraverso un sistema-filtro tra la città e la campagna che ripensasse il limite urbano attraverso il ridisegno delle aree di margine. Arginare il processo patologico non era però sufficiente per migliorare le condizioni dell’organismo urbano; l’esistenza di un tessuto sfibrato caratterizzato dalla presenza di aree urbane inedificate, abbandonate a se stesse e sparse caoticamente, ci offriva la possibilità di agire sull’interstizio attraverso un processo di up-grading mirato ad incrementare servizi e spazio pubblico. Tale processo di completamento però, a mio parere, non poteva essere pianificato per mezzo di processi standardizzati e generali, ma doveva tener conto delle diversificate conformazioni e 118


La città assopita, quartiere Sperlinga-Niscemi (CL)

caratteristiche degli spazi, applicando una terapia mirata (e quindi personalizzata) che tenesse conto delle differenti necessità di ogni singolo vuoto urbano. Un ultima (ma non meno importante) questione è stata quella relativa alla connessione tra la parte storica e quella periferica di Niscemi; capire cioè come connettere il tessuto sano e quello in cura attraverso dei procedimenti di ricucitura che stimolino e intensifichino le dinamiche sociali ed i flussi umani all’interno della città. Scendendo poi nel dettaglio della scala architettonica si è deciso di selezionare e lavorare su uno specifico quartiere per mostrare un’applicazione concreta di come queste strategie potessereo essere gestite. Il progetto sul quartiere periferico Sperlinga si è

sviluppato attraverso una serie di interventi il cui fine ultimo è quello di trasformare la suddetta area da quartiere dormitorio a vero e proprio centro attivo della città. Il processo compositivo dello spazio pubblico ha seguito, nella sua storia, un’azione progettuale analogica di tipo autoreferenziale. Questo comportamento introspettivo é stato uno dei motivi principali della mia scelta di progettare lo spazio urbano attraverso un atteggiamento camaleontico nei confronti della realtà circostante; riconoscersi nella materialità, nei colori e nelle forme che ricorrono nell’intorno può e deve aiutare il processo di “accettazione” di questi luoghi all’interno della comunità nel processo di riqualificazione in cui l’autoctono spesso non riesce a riconoscersi. 119


PORTATA: CUCINA:

Urban Tac Progetto di tesi (5° anno)

MASTERCHIEF: Prof. Arch. B.Messina, Prof.Ing.V. Martelliano TEMPO DI COTTURA: DIFFICOLTÀ:

1 anno + 6 mesi

Masterchef

Urban Tac-upgrading strategies for suburbs city of Niscemi parte da uno studio delle dinamiche urbane di espansione della città di Niscemi, che diventano un caso esemplificativo di tematiche più ampie e generiche riguardo il problema dello sviluppo delle periferie alla fine del XX secolo. Il progetto si sviluppa nel costante confronto tra il sistema città e l’organismo umano che, attraverso la trasposizione delle terminologie

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e delle pratiche mediche in campo urbano, vuole dimostrare come le città, così come le persone, nel corso della propria vita si possono “ammalare”. Il compito del progettista è proceduralmente analogo a quello del medico: ricercare, diagnosticare ed, infine, tentare di curare il problema.


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Anamnesi Urbana

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Infografica Espansione urbana/Aumento Demografico

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Metaprogetto e Masterplan generale

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Sezione generica di progetto

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Un caso applicativo: Il quartiere Sperlinga

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Strategia e schema distributivo del progetto

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Assonometria di progetto

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ArrivitĂ di progetto

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Planimetria

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Grazie

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lo Chef Alessandro Federico-Veca è nato in Sicilia nel 1988. É un architetto, artista, art director, designer, illustratore, poeta, fotografo, visual strategist, vignettista satirico e rigeneratore urbano. Nel 2012 ha fondato la rivista online di satira illustrata La Vignetta Blog; come vignettista, ha vinto diversi concorsi nazionali. Si è laureato nel 2014 con il massimo dei voti alla facoltà di Architettura di Siracusa. Ha collaborato con il Gruppo G124 di Renzo Piano per il recupero della periferia di Librino a Catania. Nel 2018 ha conseguito con il massimo dei voti il Master di II livello in Rigenerazione Urbana ed innovazione sociale presso l’Università IUAV di Venezia. Attualmente ricopre il ruolo di Art Director presso un’agenzia di comunicazione ed eventi a Milano.

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