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tutti i diritti riservati Š 2014 alessandrofederico.it
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a mia Zia Carmelina
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Alessandro Federico
UniveristĂ degli Studi di Catania- SDS di Architettura di Siracusa Corso di laurea quinquennale 4S Tesi di laurea sperimentale Relatore: Porf.Arch. Bruno Messina Co-relatore: Prof.Ing. Vito Martelliano a.a. 2013/2014
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Il futuro appartiene a coloro che credono alla bellezza dei propri sogni. Eleanor Roosevelt
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INDICE INTRODUZIONE Perchè Urban Tac? Prefazione
ANALISI
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Capitolo V
Conoscere il paziente: Niscemi Capitolo VI
Anamnesi urbana
SINTOMATICITA’
Capitolo VII
Città Storica e Città Periferica Capitolo I
Ossessioni Capitolo II
Se i luoghi hanno un’anima Capitolo III
Anche le città si ammalano Capitolo IV
Giocare al dottore
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Capitolo VIII
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Capitolo IX
Anomalie nel sistema L’origine del problema
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DIAGNOSI Capitolo X
Fermare l’infezione Capitolo XI
Una neoplasia urbana
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TERAPIA Capitolo XII
Step 1: Arrestare la crescita
CONCLUSIONI
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Capitolo XIX
La panacea di ogni male
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Ringraziamenti
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Bibliografia essenziale
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Dal problema alla soluzione: una cintura verde per Niscemi
Capitolo XIII
Step 2: Sezionare il tessuto
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Il vuoto come possibilità di un intervento mirato
Capitolo XIV
Step 3: Ricucire e riabilitare
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I processi interconnessivi e la cura del tempo
Capitolo XV
C’è ancora speranza
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APPLICAZIONI Capitolo XVI
La città assopita Capitolo XVII
Tornare a vivere
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INTRODUZIONE
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Perchè Urban Tac?
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rban Tac- Upgrading strategies for suburbs city of Niscemi parte da uno studio delle dinamiche urbane di espansione della città di Niscemi, che diventano un caso esemplificativo di tematiche più ampie e generiche riguardo il problema dello sviluppo delle periferie urbane nell’entroterra siculo alla fine del XX secolo. Si proporranno pertanto delle strategie (a breve ed a lungo termine) che hanno come obiettivo principale quello di riabilitare tali aree attraverso degli interventi di upgrading mirati ad incrementare il welfare dei cittadini. Il progetto si sviluppa nel costante confronto tra il sistema città e l’organismo umano che, attraverso la trasposizione delle terminologie e delle pratiche mediche in campo urbano, vuole dimostrare come le città, così come le persone, nel corso della propria vita si possono “ammalare”. Il compito del progettista è proceduralmente analogo a quello del medico: vale a dire
ricercare, diagnosticare ed, infine, tentare di curare il problema. Il lavoro si articola nel passaggio tra gli stratagemmi generali e di carattere prettamente urbano fino ad arrivare a scala architettonica nella proposta di riqualificazione del quartiere Sperlinga, dove si è tentato di lavorare sui numerosi interstizi urbani presenti per fornire a questa parte di città adeguati servizi, verde e spazi pubblici.
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La tomografia assiale computerizzata, o più semplicemente TAC, è uno strumento medico che permette di effettuare delle elaborazioni tridimensionali di un soggetto, diagnosticando eventuali malattie. A prescindere dai tecnicismi, si tratta di un grosso e terrificante tunnel in cui il paziente viene inserito e “scansionato” per avere un responso sul suo stato di salute. Il senso di angoscia e inquietudine che si prova nell’entrare nudi in questo terribile marchingegno in attesa di una risposta, è simile alla sensazione che ho provato quando iniziai ad analizzare sotto i più disparati punti di vista la città di Niscemi, cercando di capire quali fossero le cause dei problemi che la attanagliano, e addentrandomi in un tunnel di interrogativi e complessità che non ero certo di poter risolvere.
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Prefazione
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orrei iniziare la prefazione di questo piccolo volume porgendovi le mie più sentite scuse. Mi scuso, infatti, con tutti coloro i quali si aspettano dalle seguenti pagine una puntigliosa, ordinata, concisa (e un po’ noiosa) relazione riguardo al mio lavoro compiuto in questi tanti mesi di lavoro; questo testo si snoda allo stesso modo con cui ho sviluppato e portato a termine questo progetto: creatività, percezioni, fugaci intuizioni ma anche lunghe depressioni. Mi scuso con chi troverà le mie idee, concettuali e di progetto, utopiche, pretenziose, arroganti, scopiazzate, parziali o (peggio) banali; mi sono messo in gioco, senza remore di esito e di giudizi su tematiche- e almeno su questo spero concorderete con me- difficili e controverse. Credo che lavorare sulle città, più che su una singola unità edilizia, sia un’attività che non si impari o acquisisca nemmeno con
l’esperienza; penso che ogni città sia, per certi versi, un organismo a sé, e che al di là di riferimenti e stratagemmi generali, si parta sempre da una sorta di “grado zero”. Mi scuso ancora con tutti gli scrittori, saggisti, critici e tuttologi; con chi, dall’alto dell’esperienza, dei titoli, e della posizione sociale, condannerà senza possibilità di redenzione ogni aspetto formale e teorico di questo volume: dalla terminologia, alla sintassi, fino al contenuto. Se costoro, per sbaglio, si trovassero a leggere un concetto che (in cuor loro) pensano di condividere ed accettare, potranno sempre dire di averlo già sentito da quel professore e saggista, o di averlo già letto in quel rarissimo libro che tengono nello studio. A tutti gli altri, buona lettura.
Alessandro Federico
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SINTOMATICITA’
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Capitolo I
Ossessioni
tratto da “Parlando del quartiere Sperlinga”, appunti personali, anno 2012
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in da piccolo ho odiato quel quartiere, in quanto ha sempre rappresentato per me tutto quello che di peggio esprime questo piccolo e sperduto paesino di collina. L’ho evitato, ignorato, sperando di poterlo definitivamente cancellare dai miei pensieri; ma più lo allontanavo dagli occhi, più nitida nella mia mente tornava la sua immagine, come un’ossessione. Quando andai via da Niscemi ed iniziai i miei studi di Architettura, credetti di potermi lasciare tutto questo alle spalle, come se l’unica soluzione al problema fosse ignorare il problema stesso. Poi ho capito. Ho capito che la pianta secca è quella che ha bisogno di maggiori cure, ed il mio istinto di annaffiarla è un bisogno sociale ancestrale, una vera e propria dichiarazione d’amore. Oggi ci torno spesso in quel quartiere. Cammino lungo le sue strade dissestate,
le discariche a cielo aperto, i suoi edifici fatiscenti, ma i miei occhi lo guardano diversamente: non più rabbia e odio per questi luoghi, ma speranza di cambiamento. Il mio sguardo viaggia tra i tortuosi meandri delle aree abitate e la desolazione della grandi aree inedificate. Chiudo gli occhi e li immagino in un presente mancato: un giardino discreto, una piazza maestosa. Spazi che pullulano di gente, sgorgano di vita. Non svegliatemi, sono in un paesaggio stupendo.
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Capitolo II
Se i luoghi hanno un’anima
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urante gli anni passati all’Università, ogni studente di Architettura avrà sentito almeno una volta il famoso concetto di “relazionare l’architettura al luogo in cui si trova”, vale a dire quella teoria per il quale ogni progetto, architettonico o urbano che sia, non può prescindere dal luogo in cui esso è stato pensato, e che il risultato finale del proprio lavoro si debba qualificare non tanto nella costatazione dell’opera in sé, quanto piuttosto nel suo modo di relazionarsi con l’ambiente circostante. Un concetto chiaro e filologicamente inconfutabile, che mi trovò fin da subito pienamente d’accordo nella sua accezione generale, un po’ meno in quella puramente applicativa, dato che ognuno (dai professori ai colleghi) sembrava interpretare questa “relazione” in modo assolutamente personale e differente: chi attraverso puri allineamenti geometrici con le preesistenze in loco, chi attraverso processi compositivi
analogici e referenziali, chi, invece, attraverso giustificazioni progettuali di tipo didattico-storicista, e così via. Sembrava quasi fosse solamente una questione di contenitori e contenuti, di forme e funzioni, di pieni e di vuoti; tutti argomenti validi ed imprescindibili, per carità, ma che forse non coglievano la vera essenza del luogo e quindi, soltanto di riflesso, di tutto ciò che lo compone. La maggior parte dei progettisti, per deformazione professionale o più semplicemente per scarsa sensibilità, tende ad identificare un determinato luogo con tutto l’insieme degli elementi naturali e antropologici, fisici ed astratti, che lo compongono; non riuscendo (o non volendo) spostare l’attenzione verso l’aspetto più intimo e profondo di ogni dove, il rapporto empatico che si stabilisce tra il fruitore e l’ambiente fruito, tra spazio e tempo, visibile e invisibile, percezione e
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realtà. Quello che sto cercando di dire è che ogni luogo, a prescindere dalla propria conformazione e peculiarità, ha una propria “anima”: una coscienza critica e trascendentale che si manifesta nella relazione incessante e mutevole tra se stessa ed ogni altro essere vivente o non vivente che vi risiede. L’anima di un luogo, dunque, altro non è la manifestazione fisica di una coscienza collettiva, di chi lo abita o lo ha abitato, di chi lo ha visto o lo ha visitato, delle interazioni sociali che si realizzano al suo interno, in una stratificazione di esperienze passate, presenti e future. Posta in questi termini sembrerebbe che la questione si sviluppi lungo canali teorici astrusi e complessi ma, in realtà, il concetto è molto più semplice di quanto si possa immaginare, potendolo ricondurre ad un’unica grande matrice: le emozioni. Ogni individuo a contatto con un determinato ambiente, sviluppa necessariamente (in maniera conscia o inconscia) delle risposte emotive relative a quel luogo (stupore, serenità, paura, angoscia, eccitazione ecc.) che variano a seconda della diversità di ogni persona, delle proprie esperienze, dei ricordi legati a quel luogo, della memoria collettiva, o dello spazio temporale in cui si stanno vivendo.
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Immaginiamo ora che tutti questi impulsi possano magicamente convogliare in un unica grande entità immateriale, una sorta di data-base di tutte le emozioni espresse entro un determinato limite fisico della realtà tangibile: ecco; quella è l’anima di quel dove.
scorcio del quartiere spelinga- penna a sfera e matite acquarellabili, 2012
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Capitolo III
Anche le città si ammalano
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e state leggendo ancora questo volume, e non avete deciso di accantonarlo dopo lo scorso controverso capitolo, a prescindere che condividiate o meno i contenuti, siete dei lettori abbastanza curiosi da provare a spiegarvi le ragioni profonde che mi hanno portato a sviluppare questo progetto. Supponiamo di prendere per buone le considerazioni del capitolo precedente; il passo successivo è stato quello di appurare che il concetto di anima del luogo è, verosimilmente, estendibile ad un sistema più ampio e complesso quale quello della città; anzi, per certi versi, è forse quello in cui tale condizione si manifesta in maniera più evidente. In che senso? Proverò a spiegarmi meglio. Innanzitutto va premesso che, per un processo puramente transitivo, se l’anima dei luoghi viene fuori dall’insieme delle spiritualità che nel tempo si relazionano
con quel determinato spazio, e se a sua volta le città altro non sono che un sistema complesso di aggregazione di luoghi (e quindi di gente che lo vive, lo cambia, o in ogni caso interferisce con esso), allora l’anima di una Città è l’insieme delle anime dei singoli luoghi racchiuse lungo i confini geopolitici costituiti. Un sillogismo questo, teoricamente estendibile ad ogni macro sistema rispetto al precedente (dal quartiere alla città, dalla città alla regione, dalla regione al paese e via dicendo) ma che nella realtà dei fatti, invece, si manifesta a mio parere attraverso un andamento grafico immaginario di tipo gaussiano, in cui il sistema città rappresenta l’apice della curva a campana. Tale condizione è dovuta, con molta probabilità, a delle precise convenzioni sociali che fin dai primordi del genere umano, ed in particolar modo nel passaggio storico dal nomadismo alla sedentarietà, ha portato
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l’uomo ha riconoscere prima nel villaggio, poi nella città, il luogo per eccellenza della propria identità sociale. Iniziai così a vedere la città sotto un’altra sconvolgente prospettiva: non era più l’enorme inanime contenitore di milioni di storie e di vite, ma era essa stessa un unico grande organismo in vita, di cui le singole storie e vite altro non erano che semplici contenuti. Una visione organica, questa, che mi portò a riflettere su come in fondo questo grande e complesso sistema non fosse poi così diverso nel suo sviluppo da ogni sottosistema vivente che lo componeva: anche le città nascono, si espandono, ed infine muoiono. Sebbene il ciclo vitale delle città sia talmente lungo da non poterne mai effettivamente constatare in maniera accurata l’effettivo percorso (dagli albori, ai fasti, alla inesorabile fine) , la storia ci insegna che nemmeno le più grandi e potenti metropoli dell’antichità sono sfuggite a questo ineluttabile destino: da Teotihuacan a Persepolis, da Cnosso fino a Pompei; guerre, epidemie, catastrofi naturali, sono tutti eventi talmente imprevedibili da non poter stimare quando e come si esaurirà il tempo di quella o l’altra città. Ma se non possiamo prevedere la fine di una città (così come non possiamo prevedere
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come e quando moriremo), possiamo però monitorare lo “stato di salute” in cui essa si trova in questo momento. Come capire il livello di salute delle città? In questo caso il corpo umano può fornirci delle importanti indicazioni a riguardo; in un individuo, un buono stato di salute è legato principalmente a due fattori: funzionalità fisiche e proprietà mentali. Azzardando un parallelismo tra il corpo umano e il sistema urbano, per funzionalità “fisiche” potremmo intendere tutto l’insieme di servizi e attrezzature che permettono il normale svolgimento delle attività sociali; le proprietà “mentali”, invece, riguarderebbero il Welfare (benessere) dei suoi abitanti, così come la percezione che i cittadini hanno della loro città, non solo negli aspetti pratici e sociali ma anche in quelli prettamente estetici. Così come nell’uomo la condizione ottimale è raggiunta da un perfetto equilibrio psicosomatico, allo stesso modo nella città non basta che questa sia esteticamente gradevole se carente nei servizi o viceversa. Cosa succede dunque quando un sistema urbano non riesce a soddisfare tali requisiti? O quando il cittadino non riesce a riconoscersi ed appropriarsi del luogo in cui abita? Un problema, questo, che oggi assume una valenza ancora più forte se pensiamo che la
densificazione esponenziale delle città, oltre ad uno stile di vita sempre più complesso e frenetico, hanno prodotto degli spazi sociali dilatati e qualitativamente scadenti, la cui condizione è aggravata da un processo continuo di perdita d’identità locale, dovuto alla permeante cultura globale di massa. Basti pensare alla condizione urbana e sociale della periferia della città contemporanea: qualità delle architetture e delle aree pubbliche scadente, carenza di servizi ed attività, assenza di luoghi di aggregazione; tutti elementi che condizionano considerevolmente lo stile di vita di ogni cittadino e, dunque, della città in sé. Guardare le città secondo quest’ottica, significa interpretare i cambiamenti sociali del tessuto urbano come una sintomaticità del loro stato di salute generale; e che se, dunque, ogni criticità estetico-funzionale sia un indizio verso un malfunzionamento (più o meno grave) del sistema in questione, allora anche la città, alla stregua di qualsiasi altro organismo vivente può, ahimè, ammalarsi.
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Capitolo VI
Giocare al dottore
È
opinione comune di molti sociologi (e non solo) che la pratica di simulare le dinamiche medico-paziente attraverso il “gioco del dottore” possa essere un attività salutare e benefica sia che si parli di bambini, nella sua accezione ludicopedagogica, sia che riguardi gli adulti, nell’ambito prettamente sessuale. Quello che invece non si sa è che tale pratica può essere molto producente anche nell’ambito della pianificazione urbana. Al di là dello spirito, nell’ottica in cui ogni sconvolgimento urbano che devia dai valori di accettabilità estetico-funzionale riconosciuti si identifica come un màlum, e quindi in senso lato come malaptia, allora il compito del progettista-pianificatore è quello di un mèdicus che ha il gravoso compito di provare a migliorare la condizione di salute del proprio paziente e (nel migliore dei casi) di riuscire a guarirlo. Una premessa, questa, necessaria per
comprendere come l’urbanistica, alla stregua della medicina, non può prescindere da tutta una serie di ricerche, valutazioni, relazioni, tentativi, che sono alla base del raggiungimento di un buon risultato. Un progettista che pretende di risolvere i problemi di una città attraverso procedimenti e strategie assolutistiche e personali, senza nemmeno curarsi delle cause che hanno generato il problema, è paragonabile a quei santoni che si illudono (o meglio vogliono illudere) di curare un malessere attraverso pratiche sciamaniche e senza alcun fondamento medico-scientifico a supporto. Sperando che, come il sottoscritto, non crediate in un certo tipo di pratiche taumaturgiche ma nel duro e tortuoso lavoro di professionisti seri ed affidabili, allora concorderete con me sul fatto che le città contemporanee (ed in particolar modo le loro periferie) hanno bisogno di progettistimedici piuttosto che progettisti-maghi.
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Il compito del progettista dovrebbe essere dunque proceduralmente analogo a quello del medico: vale a dire ricercare, diagnosticare e, solo alla fine, tentare di curare il problema
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ANALISI
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Capitolo V
Conoscere il paziente: Niscemi
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uando si va per la prima volta da un medico per una visita, la prima cosa che un professionista del mestiere dovrebbe fare (non uso il condizionale a caso in quanto trovare un vero professionista di questi tempi non è poi così scontato) è quella di cercare, per quanto possibile, di conoscere il proprio paziente; e con ciò mi riferisco a tutte quelle informazioni che possono essere utili per diagnosticare un’eventuale malattia. É chiaro che, in ambito medico, il campo conoscitivo a cui faccio riferimento riguarda tutte le informazioni di carattere tecnico (sintomi, storia clinica, fattori genetici ecc..), mentre risulterebbero alquanto inutili informazioni riguardanti la personalità, le qualità o i gusti del paziente; anzi, per inverso, il fatto che un medico conosca molto bene il soggetto in questione, potrebbe essere un fattore sfavorevole, in quanto l’eventuale coinvolgimento emotivo rischierebbe di offuscare l’oggettività di giudizio.
Nel campo urbano ed architettonico, invece, la conoscenza diretta e profonda dei luoghi in cui si pensa di operare credo sia un elemento che possa andare a favore del progettista, in quanto ogni più piccolo e all’apparenza insignificante dettaglio può risultare fondamentale nella ricerca della giusta soluzione al problema; ancor di più considerando che un legame affettivo profondo verso determinati luoghi e, nel caso di posti abitati, verso chi li abita, può incentivare un soggetto in questione a dare il massimo nel proprio lavoro. Queste ed altre ragioni sono il motivo principale che mi hanno spinto a scegliere questo tema, essendo Niscemi il mio paese di origine, il luogo in cui sono cresciuto. Se dunque mi chiedete di descrivere Niscemi per come lo conosco io, vi potrei raccontare di immagini, suoni, odori, persone, situazioni, tradizioni, sensazioni; ma non basterebbe un capitolo di questo
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volumetto per raccontarvi tutto (e di certo non sarebbe neppure utile). Se mi chiedete invece di farvi una descrizione “medica”, tale da inquadrare i caratteri generici, così da farvi un idea di cosa stiamo parlando, allora potrei iniziare una lunga e dettagliata descrizione riguardo la geografia, la storia e le statistiche riguardanti questa città, ma anche in questo caso ho seri dubbi sull’utilità della cosa, dato che di questi tempi perfino vostro nipote potrebbe reperire le stesse informazioni semplicemente collegandosi su Wikipedia. Il mio lavoro in questa fase iniziale è stato quello di graficizzare tali informazioni per renderle appetibili e di facile lettura a tutti. Spero di esserci riuscito.
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Capitolo VI
Anamnesi Urbana
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l termine anamnesi, in ambito medico, sta ad indicare la raccolta di dati ed informazioni forniti direttamente dal paziente che possono aiutare il medico nella formulazione di una giusta diagnosi. In ambito urbano tale voce diretta può essere rappresentata da tutta una serie di informazioni palesi e immediatamente reperibili riguardo la “salute” del sistema città allo stato attuale. Nello specifico, in primo luogo, si sono analizzati i dati relativi alle attrezzature sparse nel territorio, che sono state poi confrontante con gli standard urbanistici vigenti e successivamente valutate secondo quattro grandi voci di giudizio. Le categorie sottoposte a valutazione hanno riguardato l’istruzione (obbligatoria), le attrezzature di interesse collettivo, il verde attrezzato ed i parcheggi. Le indicazioni uscite fuori da tale analisi non sono state certo delle più confortanti: dati alla mano, infatti, in tutte le quattro macro-
categorie analizzate il quantitativo effettivo di spazio pubblico presente in relazione alle aree insediative è sempre al di sotto dalla soglia minima prevista dagli standard urbanistici. In particolar modo, le attrezzature maggiormente deficitarie risultano essere quelle relative al verde ed i parcheggi, quasi del tutto (se non del tutto) assenti; seguono poi le attrezzature di interesse collettivo, che oltre ad un problema quantitativo presentano un evidente problema distributivo, nel senso che si concentrano nelle aree del centro storico mentre sono assolutamente insufficienti nel resto del territorio; ed infine l’istruzione obbligatoria, che sebbene risulti anch’essa al di sotto del livello minimo previsto, si distribuisce quantomeno in maniera uniforme. Dalla valutazione delle attrezzature si è poi passati ad un analisi critica della mobilità veicolare (sia pubblica che privata) e di quella pedonale.
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Nel caso della mobilità veicolare dei mezzi privati, credo che il sistema funzioni discretamente bene, in quanto distribuito uniformemente nel territorio sebbene presenti alcuni punti nevralgici dove, in determinate ore del giorno, si possono verificare degli ingorghi e dei blocchi. Il sistema di mobilità veicolare pubblica, invece, presenta notevoli problematiche relative alla quantità e distribuzione dei bus urbani; l’unica linea presente, infatti, non copre l’intero sistema urbano, oltre a non essere adeguatamente distribuita nell’arco della giornata. In generale va detto, che le arterie principali (Viale Mario Gori, Via XX Settembre) distribuiscono il flusso veicolare attraverso un sistema distributivo ortogonale più o meno assiale rispetto al nucleo urbano; quello che probabilmente manca è invece un sistema di raccordo perimetrale che permetta di raggiungere le zone più esterne della città in maniera rapida. Per finire il caso più critico, quello relativo alle aree pedonali e di passeggio. In questo caso il problema non è tanto a livello di quantità di aree non carrabili sparse per la città (che è comunque un numero relativamente esiguo rispetto alla densità edilizia di Niscemi), quanto piuttosto nel problema di popolamento delle suddette aree, luoghi troppo spesso abbandonati a
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se stessi e sprovvisti di quelle attrezzature e servizi che dovrebbero servire come supporto (ed incentivo) per lo “sfruttamento” del suolo pubblico.
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Capitolo VII
Città Storica e Città Periferica
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e vi doveste trovare a camminare per le strade di Niscemi, notereste che coesistono al suo interno due città molto diverse tra loro che, per comodità, chiameremo la Città Storica e la Città Periferica. Riguardo la prima, essa coincide a grandi linee con il centro storico, mentre la seconda, sebbene assuma l’appellativo “Periferica”, non si riferisce soltanto alle aree marginali del sistema urbano quanto piuttosto a tutte quelle aree che presentano caratteristiche urbane, architettoniche e soprattutto sociali, riconducibili a quella specifica parte di città. Dunque non una periferia geografica, quanto piuttosto una periferia tematica. Il confronto tra queste due facce della stessa medaglia è necessaria affinché si possa verificare l’evidente involuzione urbana di Niscemi dal vecchio, ordinato e gradevole sistema e questo nuovo sistema urbano qualitativamente scadente che,
nostro malgrado, ha interamente assorbito il vecchio, relegando paradossalmente il centro storico ad una condizione di marginalità (in termini quantitativi) se messo a confronto con l’enorme porzione di territorio occupato dalla Città Periferica. Entrando nello specifico, si è voluto mettere a confronto i più svariati aspetti riguardanti le due anime della città, cercando di carpirne gli aspetti similari e quelli dissimili e riportandoli in una sorta di tabella riassuntiva. Un primo importante aspetto è quello morfologico: l’impianto della città storica è quello tipico delle città di fondazione del XVII-XVIII secolo, che segue la logica del quadrillage: un fitto reticolo rettangolare formato da isolati dalla forma allungata, dove i percorsi stradali sono quasi sempre regolari e di gradevole aspetto; la città periferica sembra svilupparsi secondo una logica simile a quella della città storica, ma il reticolo risulta deformato e sfibrato; anche il
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rapporto tra gli edifici e le strade è variato, e quest’ultime risultano spesso non asfaltate, hanno un andamento scostante e sono per lo più sprovviste di banchine pedonali. Riguardo invece l’aspetto architettonico e morfologico, la tipologia edilizia prevalente nella città storica è quella a schiera, che si sviluppa attraverso isolati di forma rettangolare allungata. Le cellule abitative si ripetono lungo il muro di spina e sono separate da muri trasversali. Tecnologicamente, la casa storica è in muratura portante “a sacco” lasciato a vista, con angoli ed elementi architettonici in blocchi di pietra locale di una splendida colorazione mista tra il grigio ed il giallo ocra (la particolarissima Pietra di Pilacane). Nella Città Periferica, invece, la tipologia è sempre a schiera ma ogni cellula abitativa risulta strutturalmente indipendente a causa del cambiamento delle tecnologie e dei materiali costruttivi nel tempo. La forma degli isolati risulta dunque distorta per lo slittamento delle singole unità edilizie tra loro lungo gli assi, provocati spesso dalla mancata regolarizzazione del terreno. La casa periferica ha una struttura in cemento armato con tamponamenti in tufo, in mattone forato o misti. I piani superiori risultano spesso incompleti. Ulteriore aspetto, cruciale nel proseguo della nostra indagine, è l’analisi dei vuoti
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urbani dei due sistemi: i pochi vuoti della città storica sono ricavati per sottrazione di uno o più isolati ed utilizzati quali spazi e luoghi pubblici (piazze, parcheggi, belvedere ecc..); i tanti vuoti della città periferica sono spesso parti di territorio (pubblici o privati) dall’orografia complessa lasciati in evidente stato di abbandono. Infine la socialità. La città storica è una città che parla, dove lo spazio pubblico diventa occasione di socializzazione, luogo di incontro. La città periferica è una cittàdormitorio; la gente vive all’interno delle proprie case per assenza di spazi pubblici che facilitino (ed invoglino) le relazioni tra gli abitanti.
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Capitolo VIII
Anomalie nel sistema
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apire di avere un problema è il primo passo per risolverlo. L’analisi critica delle attrezzature rispetto agli standard urbanistici vigenti ci ha rivelato l’inadeguatezza del sistema urbano di Niscemi rispetto ai requisiti minimi indicati dalle normative urbanistiche vigenti. Tale importante dato, di per se, non giustifica da solo la tesi precedentemente proposta, in quanto è si un campanello d’allarme rispetto al malfunzionamento del sistema urbano, ma ci indica un malessere generalizzato piuttosto che una problematica specifica. Per intenderci, è un po’ come aver fatto le analisi del sangue ed aver scoperto che alcuni importanti valori sono alterati: capiamo bene che c’è qualcosa che non va ma non possiamo ancora dire con certezza che tipo di problema abbiamo davanti. Alla stessa maniera delle attrezzature, anche lo studio della mobilità (veicolare e pedonale) ci può aiutare nell’individuazione
delle sintomaticità, ma entrambe, da sole, risulterebbero insufficienti nel diagnosticare il problema. La costatazione della coesistenza tra le due parti di citta, la Città Storica e la Città Periferica, è stato il punto di svolta di quest’indagine che ho intrapreso: nel senso che è stato il primo passo concreto verso la diagnosi della malattia che, a mio parere, ha colpito la città. Perché il sistema ha subito questa involuzione qualitativa nel tempo? Quali sono i fattori che hanno portato a tale condizione di inadeguatezza ? Partendo da questa considerazione, si è pertanto deciso di ripercorrere lo sviluppo di Niscemi dai primordi fino ai nostri giorni per capire se nel processo di evoluzione della città si possano trovare dei dati tangibili a valore della nostra ipotesi di partenza. Il grafico che mette in relazione l’evoluzione urbana rispetto alla crescita demografica
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ci dà importanti indizi a riguardo: si può immediatamente notare come fino agli sessanta l’espansione dell’area urbana all’interno del territorio si sviluppi in maniera direttamente proporzionale alla crescita demografica. Dal 1970 in poi, invece, comincia ad
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evidenziarsi un’incongruenza tra l’inflessione demografica ed un incremento spropositato della città; il culmine si evidenzia a cavallo degli anni ottanta e novanta con un aumento dell’area urbana che addirittura si raddoppia nel giro di una decade, e che non può essere giustificato dalla leggera ripresa
demografica di quegli anni. In risposta a tali numeri, la lettura delle cartografie conservate negli anni ci mostrano come l’evoluzione urbana passi da un sistema ordinato e compatto con la prevalenza dei pieni sui vuoti ad un sistema invece sempre meno omogeneo
e disordinato. Con molta probabilità la risposta alle nostre domande è da ricercarsi in questo cambiamento morfologico.
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Capitolo IX
L’origine del problema
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na volta individuato l’ arco temporale in cui si è verificata questa anomalia nello sviluppo della città, il passo successivo è stato quello di effettuare una ricerca storica di quegli anni di profondi cambiamenti urbani e sociali all’interno del territorio, nella speranza che tale indagine avrebbe potuto farmi fare un ulteriore passo avanti nel capire di che male si è ammalato il nostro paziente. La lettura e l’interpretazione dei due piani regolatori varati dall’amministrazione comunale, il confronto e la sovrapposizione degli stessi, la successione delle cartografie negli anni e la testimonianza diretta di persone che hanno vissuto le trasformazioni di quel periodo, hanno portato a tracciare una mappa degli eventi che, a grandi linee, spiega e giustifica la condizione attuale. Si prenda atto che la descrizione che segue rappresenta una sorta racconto semplificato e generalizzato, che non può (e non vuole) tenere conto delle mille sfumature
e differenziazioni che caratterizzano eventi di così largo respiro; dinamiche di una complessità tale che risulterebbe di difficile interpretazione perfino ai più esperti e navigati professionisti del settore. Torniamo indietro negli anni 60’: Niscemi ha appena raggiunto il picco della sua crescita demografica esponenziale, la condizione di benessere diffuso tra le fasce medie della popolazione ha prodotto come risposta una richiesta sempre maggiore di nuove abitazioni, rendendo necessarie delle strategie per l’espansione della città. Nel 1969 si redige, così, il primo grande Piano Regolatore Generale della città: un piano sulla carta innovativo oltre che assolutamente precoce se pensiamo che molte altre città siciliane (anche più grandi ed importanti) ne erano ancora sprovviste; il piano prevedeva lo sviluppo della città in direzione Est (ricordando che verso Ovest la città di “affaccia” lungo i margini del
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dirupo collinare su cui è sorta) attraverso un sistema di espansione residenziale biforcato lungo gli assi viari extraurbani e rafforzato da un nucleo inter partes che prevedeva un sistema integrato di aree industriali e commerciali col verde pubblico. Purtroppo come troppo spesso accade in questi casi, i tempi per la sua attuazione si allungano a tal punto da non essere mai realizzato nella pratica, diventando una sorta di piano “fantasma”. Sebbene negli anni a seguire l’aumento demografico inizia una lenta ma costante decrescita, il boom economico di quel periodo, combinato al permessivismo della pubblica amministrazione nella gestione delle opere di edilizia residenziale per tutta una serie di interessi tutt’altro che trasparenti, spinge i cittadini a operare al di fuori delle leggi vigenti. La citta inizia così a svilupparsi in maniera spontanea e repentina attraverso il fenomeno diffuso dell’abusivismo edilizio: le abitazioni compaiono dal nulla come funghi e la planimetria vigente diventa solo un foglio su cui tracciare quotidianamente quella o questa nuova costruzione non autorizzata e non conforme con quello che il PRG aveva espressamente delineato. Un problema che ha colpito con forza tutto il mezzogiorno, ma che ha trovando nelle piccole realtà come Niscemi un
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terreno talmente fertile da diventare paradossalmente una prassi non scritta, in una sorta di proliferazione crescente culminata con lo storico Condono del 1985 durante il governo Craxi I. Da lì in avanti, continua così un processo evolutivo della città per così dire “autogestito” tale che sono gli edifici dei privati a condizionare il successivo sviluppo delle infrastrutture e attrezzature pubbliche e non viceversa, come viene mostrato chiaramente nella sequenza esemplificativa prodotta. Il piano redatto nel 2006 risulta chiaramente tardivo: non solo lo sviluppo brutale degli anni precedenti è oramai oggettivamente in fase di arresto, ma il nuovo PRG non sembra comunque fornire gli strumenti necessari per provare a proporre una soluzione forte e definitiva al problema delle periferie. L’assenza di una pianificazione strategica a lungo termine, oltre al poco coraggio nella gestione delle aree a forte rischio idrologico, sembrano delineare un tipo di pianificazione “palliativa” piuttosto che curativa.
una testimonianza del processo di abusivismo urbano, tutt’ora in corso
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DIAGNOSI
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Capitolo X
Fermare l’infezione
C
ome già accennato nello scorso capitolo, l’espansione incontrollata della città è stata figlia del urbanizzazione selvaggia verificatasi tra la fine degli anni sessanta e l’inizio degli anni 90’, del permissivismo delle amministrazioni, nonché di una “miopia” politica (locale e nazionale) che ha caratterizzato gran parte della seconda metà del XX secolo ed ha prodotto una situazione deficitaria in tutto il tessuto urbano di recente formazione: una compromissione talmente evidente e radicata che oggi risulta per certi versi irreversibile. Non è ben chiaro, in termini di proporzioni, quanto questa vicenda sia legata ad una mancanza di lungimiranza, competenza e professionalità da parte degli amministratori del periodo; o quanto da interessi terzi tutt’altro che trasparenti, visto e considerato i conclamati rapporti di interconnessione tra l’amministrazione comunale e la malavita
organizzata locale; ovviamente questo vale se non siete tra coloro i quali considerano un doppio commissariamento della giunta comunale per infiltrazione mafiosa una “minchiata”: in quel caso allora la colpa è solo ed esclusivamente della politica. Scherzi a parte, quello che il pianificatore si trova di fronte, è un grosso Far West urbano in cui ognuno ha pensato bene di ritagliarsi il suo angolo di vita privata, nei modi e nella forma a lui più congeniale, senza considerare il fatto che l’esigenza comunitaria e sociale di ognuno di noi non può e non deve fare a meno di un contesto dignitoso in cui concretizzarla. La Città Periferica, così come si presenta oggi, è un tessuto sfibrato, amorfo, privo di alcuna qualità urbana, architettonica e sociale; un tessuto che, seppur più lentamente rispetto al passato, continua ad espandersi (e disperdersi).
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Ci troviamo di fronte, dunque, ad sistema infetto (dal latino infèctus: guastato, corrotto), in cui tale condizione di “compromissione” si è rapidamente propagata nel territorio contagiando l’intero organismo città, inglobandolo e sottomettendolo ad una condizione di secondarietà rispetto alla sconfinata periferia urbana che oggi pervade la quasi totalità dello spazio antropizzato. Un infezione che oggi è più lenta e meno aggressiva rispetto al passato ma che,
dati alla mano, è solo apparentemente assopita, mentre continua subdolamente il suo processo infettivo e per tali ragioni va assolutamente fermata. Tali ragioni bastano e avanzano per comprendere l’impossibilità di continuare con una politica di adattamento e compromissioni; bisogna studiare una strategia mirata e decisa ad arginare questo male che sta inesorabilmente uccidendo la città di Niscemi.
uno schizzo concettuale sul processo di sfibramento del tessuto urbano nel tempo
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una testimoninza delle aree di margine urbano, a metĂ tra cittĂ e campagna
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Capitolo XI
Una neoplasia urbana
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n medicina, formulare una giusta diagnosi è essenziale per procedere correttamente nell’applicazione di terapie che permettono di dare le adeguate cure al paziente; si tratta di un giudizio clinico che raccoglie, analizza e sintetizza, in maniera critica, i sintomi e gli aspetti con cui la patologia si manifesta, in modo da riconoscerla e combatterla nella maniera più opportuna. Nel nostro caso, i numerosi studi effettuati sulla città di Niscemi, ci hanno permesso di rintracciare nella cattiva gestione pianificatoria e nell’abusivismo selvaggio i principali fattori del rapporto causa-effetto del nostro evento morboso. Così, guardando e riguardando il grafico temporale dell’espansione urbana, cominciai a formulare l’idea che questa tipologia degenerativa dell’organismo-città presentasse delle forti analogie formali e concettuali con altre forme di malattie degenerative che possono svilupparsi
nell’organismo umano: le neoplasie. La neoplasia (o tumore) è definita in campo medico internazionale come “una massa abnormale di tessuto che cresce in eccesso ed in modo scoordinato rispetto ai tessuti normali, e che persiste in questo stato dopo la cessazione degli stimoli che hanno indotto il processo.” Una definizione che, di per sé, potremmo trasporre in ambito urbanistico e applicarla al nostro caso-studio: immaginiamo che l’insieme delle cellule sane rappresentino il sistema urbano iniziale, ordinato e compatto; pensiamo ora ai nuovi nuclei di edilizia abusiva come le cellule alterate che col passare del tempo hanno continuato a prolificarsi e densificarsi in maniera caotica. Restando in tema medico, quindi, potremmo definire l’evento patologico come una sorta di Neoplasia Urbana. Questa trasposizione terminologica e concettuale, però, non può e non vuole
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restare un gioco intellettualistico e filosofico fino a se stesso, che si limita a dare un nome ad un determinato problema; il procedimento metaforico intrapreso ed il parallelismo con l’ambito medico hanno assunto una valenza strategica determinante diventando l’ incipit per l’individuazione di un impostazione metodologica per un processo pianificatorio vincente. Ad oggi, esistono diversi metodi per contrastare una neoplasia: il primo metodo è quello dell’asportazione del tumore; si tratta di un vero e proprio intervento chirurgico di rimozione delle cellule neoplastiche, utilizzato nel caso in cui la massa tumorale è sufficientemente piccola e circoscritta da poter essere rimossa totalmente. Un’operazione, questa, impraticabile nel caso di Niscemi, in quanto il tessuto compromesso è talmente esteso e radicato nel territorio che pensare ad un abbattimento in toto delle particelle abusive sarebbe pressoché impossibile; la terapia dell’asportazione si pratica, infatti, soltanto nei pazienti in cui la neoplasia è ancora in fase primordiale, ed invece nel nostro caso risulta in fase assolutamente avanzata. Un ulteriore metodo per combattere i tumori è quello della chemioterapia; in maniera esemplificativa, consiste nell’applicazione di alcune sostanze chimiche che interferiscono con i meccanismi di riproduzione delle cellule
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malate, bloccandone la prolificazione. Considerando l’espansione incontrollata e caotica della città, un primo obiettivo potrebbe essere dunque quello di bloccare il fenomeno proliferativo attraverso un sistema-filtro tra la città e la campagna che ripensi il limite urbano attraverso il ridisegno delle aree di margine. Bisognerà più avanti capire che tipo di “farmaco” applicare al sistema per questa tipologia di azione chemioterapica. Arginare il processo patologico non è però sufficiente per migliorare le condizioni dell’organismo urbano; resta da risolvere il problema di come gestire l’enorme porzione urbana denominata Città Periferica, con tutte le carenze ed i problemi di cui abbiamo già accennato nei capitoli precedenti. In mio soccorso è intervenuta un’altra tipologia di azione terapeutica: quella delle terapie mirate o a bersaglio molecolare: si tratta di azioni curative ancora oggi in fase di studio e sperimentazione in cui i cosiddetti farmaci intelligenti agiscono in maniera selettiva su alcuni dei processi cellulari, attraverso un azione personalizzata che tiene conto delle caratteristiche molecolari, che possono essere diverse da paziente a paziente. Nel nostro ambito, l’esistenza di un tessuto sfibrato caratterizzato dalla presenza di aree urbane inedificate, abbandonate a se
stesse e sparse caoticamente, ci offre la possibilità di agire sull’interstizio attraverso un processo di up-grading mirato ad incrementare servizi e spazio pubblico. Tale processo di completamento però, a mio parere, non può essere pianificato per mezzo di processi standardizzati e generali, ma deve tener conto delle diversificate conformazioni e caratteristiche degli spazi, applicando appunto una terapia mirata (e quindi personalizzata) che tenga conto delle differenti necessità di ogni singolo vuoto urbano. Un ultima (ma non meno importante) questione è quella relativa alla connessione tra la Città Storica e la Città Periferica; capire cioè come connettere il tessuto sano e quello in cura attraverso dei procedimenti di ricucitura che stimolino e intensifichino le dinamiche sociali ed i flussi umani all’interno della città. Il riferimento medico in questo caso è la terapia ormonale: una terapia spesso utilizzata per ridurre il rischio che la neoplasia si ripresenti dopo la fine di altre cure (chemioterapia, terapie mirate, interventi chirurgici) agendo sugli ormoni, delle molecole che regolano l’attività di specifici organi anche distanti tra loro muovendosi lungo tutto il sistema attraverso il circolo sanguigno, e che possono stimolare la crescita dei tumori. Intervenire dunque, non
solo attraverso delle azioni dirette sui tessuti malati, ma anche attraverso delle azioni indirette sui sistemi di interconnessione della città.
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TERAPIA
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Capitolo XII
Step 1: Arrestare la crescita Dal problema alla soluzione: una cintura verde per Niscemi
A
volte un problema può diventare la soluzione ad un altro problema. È quello che è successo nel caso della prima fase del processo di cura, vale a dire nel tentare di arrestare definitivamente la crescita amorfa attraverso un ripensamento del margine urbano con un filtro che faccia da tampone ai fenomeni proliferativi ed allo stesso tempo ridisegni i limiti dell’organismo-città. Il 12 Ottobre 1997, un violento nubifragio provocò un evento franoso che colpì il quartiere di Sante Croci, danneggiando gravemente moltissime abitazioni nonché l’omonima chiesa, e lasciando senza dimora circa 500 persone; il quartiere sorgeva infatti ai limiti più estremi della collinetta scoscesa su cui si è sviluppata la città, in un terreno prevalentemente argilloso. Durante il processo urbano degli anni 60’ si era incurantemente costruito (nella maggior parte dei casi abusivamente) senza preoccuparsi di verificare che la condizione
morfologica dell’aria presupponesse la costruzione di specifiche fondazioni, che avrebbero probabilmente evitato il collasso di numerosi edifici. Fortunatamente lo smottamento non provocò vittime, e la tragedia venne soltanto sfiorata; ma restava comunque da risolvere in primis la gestione dei numerosi casi di persone rimaste senza casa, e poi il problema di recuperare il quartiere, con l’abbattimento degli edifici più pericolanti (tra cui la chiesa delle Sante Croci) e la messa in sicurezza di tutta l’area. In realtà, come spesso succede in questi casi, al di là delle demolizioni necessarie, tutto è rimasto in una sorta di limbo che perdura ormai da quasi vent’anni, e che ha relegato questa porzione di città ad una sorta di città fantasma. A prescindere dalla brutta vicenda, l’unica cosa positiva fu quella di innescare un processo di analisi geologica del territorio,
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il quale portò alla stesura di una mappa di rischio idrogeologico che definiva la cosiddetta “zona di ciglio”, vale a dire quell’area perimetrale sottoposta a vincoli costruttivi ed oggetto di una possibile pianificazione ambientale attraverso la valorizzazione del patrimonio faunisticofloreale locale. Un provvedimento rimasto a prendere polvere negli archivi comunali fino al 2007, quando viene revisionato il PRG del 2006 ed inserito quale variante al piano. Guardando la mappa di rischio noterete che l’area interessata si sviluppa nella zona scoscesa in direzione nord-ovest, mentre il processo di espansione della città si sviluppa chiaramente verso la parte pianeggiante in direzione Sud-Est; cosa c’entra dunque tutto questo con il nostro obiettivo di partenza? L’idea è stata quella di prendere come pretesto la risistemazione della zona di ciglio per pianificare una grande fascia verde che parta da essa seguendone la traccia ma che poi si sviluppi in maniera autonoma in direzione est andando a “chiudere” la città in una sorta di cintura verde urbana. La piantumazione sarà caratterizzata da una varietà floreale tipica della macchia mediterranea, con particolare riferimento e attenzione verso la Riserva Naturale Orientata Sughereta di Niscemi, in cui
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I soccorsi durante la frana del Quartiere Sante Croci del 1997
La zona di Ciglio tracciata nel prg del 2006
l’albero da sughero rappresenta, non a caso, una valida scelta per il processo di consolidamento del suolo dell’area a rischio smottamento. La seconda fase di questo primo grande step pianificatorio è stata quella di affiancare a quest’anello naturalistico delle aree verdi attrezzate che si dipartono da esso e si sviluppano internamente verso l’estrema periferia urbana in maniera permeante. Il rapporto tra il sistema tampone e la città è dunque attuato attraverso queste aree di verde urbano che, seppur non
omogeneamente distribuite nel territorio, possono essere pensate come un unico grande parco urbano, sia per le caratteristiche comuni di intervento, sia per la possibilità che la cintura verde faccia da “collante” tra le varie aree. Si è voluto definire il parco “capillare” proprio per la sua capacità di insinuarsi dall’esterno all’interno del sistema città e di fare da filtro tra il sistema naturale e quello antropizzato. Il verde, dunque, come sistema di distribuzione di servizi ed attività collettive.
uno scorcio della Riserva Naturale Orientata Sughereta di Niscemi
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Capitolo XIII
Step 2: Sezionare il tessuto Il vuoto come possibilità di un intervento mirato
C
ome abbiamo già accennato nei precedenti capitoli, arrestare il processo patologico non è di per se sufficiente per riabilitare la città; rimane da definire come migliorare lo stile di vita di tutte quelle persone che oggi si trovano a vivere le conseguenze di questa neoplasia urbana che ha continuato a produrre precarietà e bruttezza per più di mezzo secolo. Le numerose aree “irrisolte” sparse per il territorio suggeriscono la possibilità di lavorare sul tessuto infetto attraverso un procedimento il meno possibile invasivo nei confronti degli abitanti delle suddette aree. L’idea alla base è di intervenire attraverso procedimenti terapeutici mirati che, agendo sugli interstizi con processi riabilitativi differenziati, tengano conto delle specifiche caratteristiche morfologiche, logistiche e sociali, ed inneschino un coinvolgimento sinergico tra il progettista, i soggetti pubblici e quelli privati, convogliando tutti gli interessi
dei singoli verso un unico grande obbiettivo comune. Agire in maniera differenziata non vuol dire però non avere una strategia comune nella pianificazione degli interstizi urbani; abbiamo appurato che i vuoti urbani, questi “ritagli” di non-città nella città, rappresentano forse l’unica possibilità concreta di operare un upgrading della Città Periferica. Ma come operare su questi vuoti? Le culture occidentali hanno sempre visto il vuoto come una “mancanza”, e per tali ragioni hanno costantemente cercato di colmarlo in tutti i modi possibili. Assegnare un valore intrinseco allo spazio vuoto significa ribaltare diametralmente questo concetto: lavorare sul vuoto non vuol dire necessariamente riempirlo; o per meglio dire riempirlo di cose, quanto piuttosto riempirlo di significati. Le dottrine orientali ci offrono una chiara
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visione di questo concetto; nella filosofia taoista e in quella zen, ad esempio, la nozione di vuoto non è vacuità nel senso difettivo occidentale, ma al contrario un elemento costituente dell’universo tanto quanto il pieno, se non forse di più, in quanto virtù di saggezza e pace spirituale. Senza addentrarci in discussioni esistenzialiste, l’idea orientale di vuoto come valore aggiunto del paesaggio è un concetto meno aleatorio e più concreto di quanto si possa immaginare: basti pensare alla città di Tokyo, capitale del Giappone e cuore pulsante di una delle civiltà tecnologicamente più avanzate, il cui centro città è un grande vuoto circolare (l’antica residenza dell’imperatore attorniata e nascosta da una fitta vegetazione); un vuoto “sacro” e silenzioso che fa da fulcro al trambusto veicolare ed ai grattacieli circostanti. Provando a trasporre questo concetto in un contesto culturalmente diverso, oltre che ad una scala nettamente più piccola, abbiamo cercato di porre il vuoto al centro di una nuova idea di città. Ma quale significante dare a questi vuoti? Alla fine del XIX secolo l’architetto e urbanista Camillo Sitte rivoluzionò completamente l’idea di città; per Sitte lo spazio urbano altro non era che un “negativo” dell’architettura, non un contenitore di edifici ma uno spazio contenuto tra gli edifici, e va dunque trattato alla stregua di qualsiasi altro monumento.
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Piazze, giardini e percorsi, dunque, come cardine distributivo di attrezzature e servizi di uno spazio pubblico centralizzato che si vada ad opporre ad un tipo di pianificazione tradizionale, come ad esempio la zonizzazione, in cui la città è suddivisa in una successione di diversità che, molto spesso non paiono dialogare tra loro. La creazione preventiva di una mappa dei servizi da distribuire all’interno delle aree di interstizio soggette a terapie mirate, servirà a stabilire le caratteristiche tecniche delle attrezzature che i vari progettisti dovranno rispettare e far convogliare in un progetto dello spazio pubblico che li valorizzi e allo stesso tempo venga valorizzato dalla loro presenza.
la planimetria di Tokyo con in evidenza il grande vuoto centrale
uno dei tanti esempi di interstizio urbano irrisolto all’interno della cittĂ
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Capitolo XIV
Step 3: Ricucire e riabilitare
I processi interconnessivi e la cura del tempo
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’ultima fase del nostro processo terapeutico è divisa a sua volta in due tipi di processi: ricucitura e riabilitazione. Il processo di ricucitura è l’aspetto più pratico ed immediato di questo step, e consiste in tutta quella serie di interventi atti a migliorare e favorire la mobilità e dunque la fruizione delle aree soggette a pianificazione, nonché la loro interconnessione con le aree di tessuto urbano consolidato. Il potenziamento del sistema veicolare pubblico con l’inserimento di una seconda linea urbana che vada a coprire tutte quelle zone di margine sprovviste del servizio, è un passo a mio avviso importante da avviare nell’immediato futuro e che permetterebbe a tutte le persone non automunite di raggiungere determinati punti di interesse (già presenti nel territorio o da realizzare adeguatamente in prospettiva futura). Altro aspetto determinante la gestione delle infrastrutture, in particolar modo la creazione
di nuove arterie stradali che avvolgano e sostengano la fascia verde perimetrale e, al contempo, permettano di raggiungere alcune zone della città senza l’esigenza di doversi addentrare lungo le arterie principali interne. Infine la pista ciclabile: un lungo percorso che si inserisca tra la cintura verde, il parco capillare ed i margini urbani fino ad addentrarsi nel cuore cittadino tagliando Niscemi lungo il viale Mario Gori, l’unica via che, grazie all’ estesa sezione stradale, permette l’inserimento di un percorso ciclabile interno alla città. La seconda fase, invece, riguarda aspetti meno tangibili che si traducono principalmente nella risposta della popolazione al piano, ed i quali risultati possono essere valutati soltanto nel lungo periodo. In questo senso il processo di densificazione delle aree di espansione, limitate
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comunque nel processo proliferativo dal sistema-filtro del verde urbano, avrà una risposta più o meno positiva a seconda se l’amministrazione e i privati sapranno trarre insegnamento dagli interventi mirati cogliendo l’opportunità fornita dal piano di un modello di città accettabile.
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Capitolo XV
C’è ancora Speranza
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una sezione urbana generale del nuovo piano strategico
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APPLICAZIONI
Un esempio di terapia mirata: il caso-studio del Quartiere Sperlinga
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Capitolo XVI
La città assopita
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i sono dei luoghi che sfuggono ad ogni logico stereotipo sull’idea di luogo, in quanto talmente singolari da non poterli immaginare in quel modo se non soltanto dopo averli visti coi propri occhi. Capita, così, che chi si trova a osservare per la prima volta il quartiere Sperlinga di Niscemi viene travolto da una sensazione di straniamento ed incredulità che credo poche realtà del territorio nazionale riescono a trasmetterci. Mi piacerebbe poter dire che si tratti di un incredulità positiva, ma a meno che (come il sottoscritto) non vediate questo quartiere con l’occhio “scientifico” di chi sa di trovarsi di fronte ad un quadro urbano e sociale più unico che raro, penserete di esservi persi all’interno di una favelas del Sudamerica o lungo le periferie più anguste di El Cairo. Tralasciando un attimo l’ironia, la lettura critica di questa vasta area residenziale (tutt’oggi non è ben chiaro dove inizi e finisca
il quartiere, mentre continua ad espandersi lungo la campagna) può essere effettuata attraverso una duplice lente: un analisi estetico-funzionale, ed una socio-culturale. La lettura estetico-funzionale ci rimanda al precedente studio effettuato nel confronto tra la Città Storica e la Città Periferica; Situato all’estremità Nord-Est della città la Sperlinga è, senza ombra di dubbio, il quartiere che meglio rappresenta tutte quelle caratteristiche morfologiche e sociali che abbiamo riscontrato nella Città Periferica. La precarietà delle condizioni abitative e della qualità edilizia, l’enorme complessità orografica con la conseguente collocazione caotica degli organismi abitativi (e degli accessi agli stessi), la presenza costante e diffusa dell’incompleto edilizio nel paesaggio urbano, la quasi totale (se non totale) assenza di servizi nonché di opere di urbanizzazione primaria, fanno di questa porzione del territorio di Niscemi una sorta di
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“città medievale contemporanea” cresciuta attraverso un assetto urbano autogestito. Dal punto di vista sociale, invece, rappresenta un contenitore di persone, ognuno dei quali vive la propria vita all’interno della propria abitazione, sconoscendo l’importanza dello spazio pubblico quale luogo di aggregazione . L’assenza di aree destinate alle interazioni sociali si legano alla condizione continua e alienante di irrisolto, producendo nell’individuo una condizione di chiusura verso il senso comunitario: una condizione che si traduce, in maniera diretta, nell’assenza di una vita sociale attiva e diversificata con le persone e nei luoghi dislocati nelle vicinanze, ed in maniera indiretta attraverso atteggiamenti tipici di chi sconosce il reale significato del bene collettivo (dall’incuranza verso la pulizia e il mantenimento dei luoghi pubblici all’appropriazione indebita di suolo pubblico per farsi un proprio piccolo giardino ecc.). Un esempio che spiega perfettamente questa condizione di egoismo urbano può essere rappresentato dall’ideologia diffusa di trattare la residenza in due modi diametralmente opposti: incuranza e degrado all’esterno, lusso e ordine all’interno.
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il degrado e l’incompletezza degli edifici e del suolo pubblico
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una delle tante aree di interstizio irrisolte
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un area riservata ai parcheggi in forte stato di degrado
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uno dei tanti scorci del quartiere “medievale contemporaneo�
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un campo da calcio “arrangiato” all’interno del grande triangolo vuoto nel cuore del quartiere
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Capitolo XVII
Tornare a vivere
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l progetto si sviluppa attraverso una serie di interventi il cui fine ultimo è quello di trasformare la suddetta area da quartiere dormitorio a vero e proprio centro attivo della città di Niscemi. Tale azione si manifesta attraverso due linee direttrici: l’asse della cultura (direzione nordest) e il giardino lineare attrezzato (direzione est-ovest). Nel primo caso si è deciso di intervenire attraverso una serie di volumi che, partendo dall’ortogonalità del sistema, si insinuano nei vuoti piegandosi , incastrandosi, duplicandosi fino ad ottenere nuove conformazioni spaziali e tipologiche. Riguardo al giardino attrezzato, l’incipit di progetto è stato quello di immaginare questo spazio allungato in continuità col reticolo urbano ma frammentato, così come il sistema di riferimento. La presenza dell’incompleto edilizio ha ispirato l’idea che il giardino potesse
nascere dalle “nuove rovine” di un ipotetico isolato mai nato. Le previsioni sulla fruizione dei luoghi e delle attrezzature durante l’arco della giornata, cosi come pure quello relativo alla fascia d’età di utilizzo, garantiscono che la nuova area riabilitata abbia un bacino di utenza più vasto possibile e ben distribuito durante le ore diurne e notturne. Il processo compositivo dello spazio pubblico, invece, si è sviluppato attraverso un azione progettuale analogica di tipo autoreferenziale. La città di Niscemi si é evoluta per mezzo di un processo di mimesi costante con se stessa ed il suo passato: dalla morfologia urbana, alla tipologia edilizia, fino alle abitudini sociali. Questo comportamento introspettivo é stato uno dei motivi principali della mia scelta di progettare lo spazio urbano attraverso un atteggiamento camaleontico nei confronti
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della realtà circostante; riconoscersi nella materialità, nei colori e nelle forme che ricorrono nell’intorno può e deve aiutare il processo di “accettazione” di questi luoghi all’interno della comunità; per di più considerando le oggettive difficoltà di una realtà di quartiere disagiata ed ai limiti della legalità, che troppo spesso ha prodotto un atteggiamento ostile e diffidente (arrivando fino alla vandalizzazione) verso determinate azioni di riqualificazione in cui l’abitante non riesce a riconoscersi. Tutte queste argomentazioni introducono e forse giustificano la volontà di utilizzare materiali poveri e soluzioni tecnologiche tipiche della realtà costruttiva locale, dai paramenti murari in tufo lasciati a vista,
alla copertura in pannelli coibentati ecc. Un impronta progettuale neo-brutalista che volge verso un unico semplice obbiettivo: dimostrare come una buona pianificazione urbana e spaziale può diametralmente stravolgere la percezione dell’architettonico che lo crea e lo circonda. Quello che prima ci appariva sgradevole ed esteticamente ingiustificabile, se inserito all’interno di un contesto spaziale appropiato che ne valorizzi le peculiarità architettoniche e sociali, se cioè la sua “bruttezza” si mette al servizio di un sistema organizzato ed efficente, ecco allora che anche l’intorno ci appare meno insensato e a sprazzi piacevole, quasi poetico.
un concept del giardino che nasce dai “nuovi ruderi”
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In una sorta di gioco degli specchi dove la comunità trae giovamento dal nuovo “vestito” cucitole su misura dall’Architettura, e nel contempo l’Architettura si manifesta e si realizza nelle attività della comunità che si riappropia finalmente dello spazio pubblico, e dunque della città. L’uno che migliora l’altro, in un rapporto di simbiosi destinato a durare e, chissà, evolversi nel tempo. Perchè se il quartiere attraverso i nuovi servizi proposti diventasse un nuovo importante fulcro nelle dinamiche urbane della città di Niscemi, è lecito attendersi che il suo intorno vada man mano a definirsi, completarsi, migliorarsi, e con lui anche lo spazio pubblico verso nuove soluzioni estetiche e formali adesso impensabili.
schizzi compositivi dell’asse sei servizi
uno schizzo della sistemazione del quartiere Sperlinga attraverso l’asse della cultura ed il giardino attrezzato
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blocchi in tufo
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CONCLUSIONI
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Capitolo XXI
La panacea di ogni male
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’Architettura, quella vera, sentita, profonda, va al di là del progetto finito, dell’opera realizzata; è una ricerca continua, una linea d’orizzonte che non puoi raggiungere, ma dalla quale non puoi prescindere per orientarti e non perdere la rotta. L’Architettura, quella vera, è un emozione. E’ pensarla sempre in evoluzione, immaginarla viva di persone; non importa quanto sia affascinante nelle sue forme e perfetta nella sua funzione (sempre che esista la perfezione): se non è smossa da sentimenti veri è come una stanza vuota, è una donna senz’anima. L’architettura di cui parlo non la troverai probabilmente nelle pagine patinate di quella o l’altra rivista del settore, non ne sentirai parlare nei grandi studi di architetti modaioli o nei salotti di eruditi ed intellettuali. L’architettura di cui parlo è quella che incontri per caso quando sei in viaggio, quella che
magari , se chiedi in giro, probabilmente nessuno ti saprà dire chi l’ha fatta; quella che sa stupirti senza voler stupire, quella che sembra fatta apposta per quel luogo ed il luogo sembra fatto apposta per lei. L’architettura, quella vera, è negli sguardi di chi la vive, nei passi di chi la attraversa, nelle voci di chi la abita; è non poter immaginare più un determinato luogo senza di essa. Credo che l’architettura, quella vera, non sia una questione di stile, forme, ragione. É una questione di cuore. La panacea per tutti i mali dell’architettura è l’Amore.
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Ringraziamenti
Ai miei genitori Enzo e Giusi, per avermi dato un futuro grazie al sudore della loro fronte Ai miei fratelli, Salvatore e Damiano, ai miei zii, ai nonni e la mia famiglia tutta, per esserci stati sempre anche nei momenti meno felici, per avermi amato senza se e senza ma. Per avermi insegnato come si sta al mondo. A Emanuele, per essere stato il mio Sancio Panza in questa battaglia ai mulini a vento. Per aver assecondato le mie visioni. Per la sua bontà, la generosità d’animo e di spirito. Ad Andrea, Dario, Alessandro, Salvatore e a tutti quelli che in questi anni mi sono stati vicini nel bene e nel male, a tutti coloro che credono in me. Al mio medico Salvatore, per avermi insegnato che l’impegno e la passione per il proprio lavoro valgono molto di più dei titoli e del prestigio. Ai miei professori, Bruno e Vito, per avermi sopportato e supportato. Per avermi saputo indirizzare. Per aver creduto nel mio lavoro.
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Bibliografia Essenziale
“Città Latenti”, Zanfi Federico, (2008) Mondadori. “Spazi, storie e soggetti del Welfare”, Martelliano Vito;Munarin Stefano, (2012) Gangemi. “Arkai urban lab. Il ruolo del progetto nella costruzione della città e del territorio”, Messina Bruno; Foti Fabrizio, (2012) LetteraVentidue. “Aspetti della marginalità urbana nei paesi in via di sviluppo. Il caso di Alessandria d’Egitto”, Dato Giuseppe, (2003) Biblioteca Del Cenide. “Teoria generale dell’urbanizzazione”, Cerda Ildefonso, (1995) Jaka Book. “L’arte di Costruire le città”, Sitte Camillo, (1981) Jaka Book. “Maniera di pensare l’urbanistica”, Le Corbusier, (2009) Latenza. “The origins of Modern Town Planning”, Benevolo Leonardo, (1967) M.I.T. Press. “Architettura è. Louis I. Kahn, gli scritti” Bonaiti Maria, (2002) Mondadori Electa “L’impero dei segni, Barthes Roland, (2002) Enaudi “Competenze possibili. Sfera pubblica e potenziali sociali nella città”, Cottino Paolo (2009) Jaka Book. “Gli standard urbanistici”, Lombardi Franco, (1996) Alinea. “Architettura e felicità”, Botton Alain de, (2008) Beretta. “Niscemi- Geografia Fisica”, Marsiano Angelo, (1982) Epos. “Niscemi-Geografia Antropica”, Marsiano Angelo, (1995) Lussografica “Da cosa nasce cosa. Appunti per una metodologia progettuale”, Munari Bruno, (2010) Laterza
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Un racconto fotografico di Fabio D’Alessandro
Che vuol dire “raccontare un quartiere”? Probabilmente significa entrare a farne parte, condividere la stessa aria degli abitanti, distillarne l’idea in pochi, ma significativi, scatti. Entrare, da corpo estraneo, in un quartiere del genere è difficile. La diffidenza è immediatamente percepibile dagli atteggiamenti di chi ci vive. Gli “autoctoni”, per usare un termine a cavallo tra antropologia e biologia, non accettano di buon grado che si mostri la polvere sotto il tappeto accumulata da anni di abusivismo e faide, anche mafiose. Capita pure questo: di essere seguiti, di dover mostrare le proprie foto per dimostrare la propria “neutralità”, e non passare per un nemico degli equilibri interni al quartiere.
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Un grazie sentito a Fabio, che con i suoi 23 scatti del quartiere Sperlinga ha accompagnato questo libro introducendo i capitoli e raccontando una storia parallela, fatta di immagini e suggestioni.
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Alessandro Federico è un architetto, designer e illustratore italiano; è nato a Vittoria (RG) il 26 Dicembre 1988. All’età di 18 anni partecipa al suo primo concorso nazionale Oscar della Vignetta 2007 di Spotornocomics (Spotorno SV) con l’opera Area Verde, aggiudicandosi il secondo posto. Nel 2012, il passaggio al disegno digitale nonchè l’interesse verso le tematiche socio-politiche, lo spingono a realizzare il blog di vignette satiriche dal titolo La Vignetta di Allessandro Federico. Nel 2013 arrivano ulteriori riconoscimenti nazionali: si classifica primo sia al concorso Le api per un agricoltura durevole di Unaapi (Firenze), come pure a quello indetto da Aic Lazio Vignette..per un sorriso senza grane (Roma). Nel Gennaio 2014 si laurea in Architettura con il massimo dei voti presso la SDS di Siracusa, conla tesi sperimentale sullo sviluppo delle periferie urbane dal titolo Urban Tac. Nel 2015 collabora con il gruppo G124 di Renzo Piano nel programma di rammendo della periferia di Librino a Catania (CT). Attualmente lavora come libero professionista, realizzando i più svariati progetti creativi (architettonici ed urbani, object design, logodesign e corporate identity, illustrazioni e grafiche pubblicitarie) collaborando con diverse aziende, associazioni e privati.
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