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istruzioni per l’uso trento 1955-1965 Spazio Trento – UniCredit Banca Palazzo Firmian via Galilei 1, Trento 14 novembre 2009 – 28 febbraio 2010
Mostra realizzata dalla Fondazione Museo storico del Trentino Cura della mostra e del catalogo Elena Tonezzer Coordinamento organizzativo Patrizia Marchesoni Rodolfo Taiani Elena Tonezzer Donatella Turrina Progetto artistico e realizzazione delle installazioni Micol Cossali Valentina Miorandi Progetto espositivo studiobbs architetti associati, Trento Progetto grafico della mostra, del catalogo e della promozione Designfabrik / Alessio Periotto, Rovereto Allestimento WM Allestimenti, Trento Video Erre, Trento
Si ringraziano per l’aiuto e la disponibilità Archivio storico del Comune di Trento Servizio cultura del Comune di Trento UniCredit Banca Quinto Antonelli Sergio Bazzanella Brunella Brunelli Franco Cagol Ferruccio Cazzanelli Riccardo De Carli Luca Di Milia Marco Fantini Giuseppe Ferrandi Lorenzo Gardumi Fabio Margoni Veronica Nicolini Lorenzo Nicolodi Massimo Nicolussi Alessandro Pedrotti Lorenzo Pevarello Bruno Pieroni Francesca Rocchetti Caterina Tomasi Stefano Tonini Vanda Tonini Pierangelo Vescovi
Percorsi di visita Cristina Pasolli
© Fondazione Museo storico del Trentino - 2009 via Torre d’Augusto 41 38122 Trento info@museostorico.it ISBN: 978-88-7197-120-9 2
Comune di Trento
6 Alle origini dell’oggi Lucia Maestri 8 I trentini alle prese con la modernità Giuseppe Ferrandi 10 Spazio-Trento per la città Romano Artoni 12 Boom! Istruzioni per l’uso Trento 1955-1965 Elena Tonezzer 18 Una città a forma di pesce L’amministrazione di Trento (1955-1965) Elena Tonezzer 24 La nostra vita in qualche istante rubato Trento: immagini quotidiane 1955-1965 Alberto Brodesco 34 Regine della casa o prigioniere del condominio? Immagine e realtà femminile a Trento Elena Tonezzer 44 Tra slanci e diffidenze Cultura e culture nella Trento del boom Giovanni Agostini 54 Casa dolce casa Massimo Martignoni 62 Cosa dovete fare, cosa dovete desiderare Micol Cossali e Valentina Miorandi
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alle origini dell’oggi 6
Quando si mette in mostra la storia di una città, si rappresenta una parte dell’umanità che vive, e ha vissuto, nelle sue vie e piazze. Nel caso della mostra «Boom! Istruzioni per l’uso», dedicata ad un decennio recente di Trento, l’aspetto evocativo della riflessione sul passato di una comunità è particolarmente forte e significa confrontare i ricordi personali o i racconti familiari con la rilettura storica. Vedersi «dal di fuori» è un’operazione conoscitiva importante, che aiuta la crescita delle persone e il confronto consapevole con gli altri. La storia offre in questo senso molti spunti per riflettere su chi si è stati, quali sono le condizioni che hanno portato a certe scelte – individuali e collettive – e sulle loro conseguenze. La Trento che siamo abituati a conoscere oggi è il risultato di decisioni consapevoli e fenomeni accidentali: l’abbattimento delle mura nella prima metà del XIX secolo ha «liberato» l’espansione della città; il taglio dell’Adige ha spostato il confine più a ovest; i bombardamenti della seconda guerra mondiale hanno cambiato
l’aspetto di interi quartieri. La «ricostruzione» e gli anni del «boom economico» hanno allargato il perimetro urbano come mai prima, inventato quartieri, ospitato nuovi cittadini provenienti dalle valli e dalle altre regioni d’Italia. A Marco Polo, che deve spiegare a Kublai Khan cosa sono le città, Italo Calvino fa dire che «le città come i sogni sono costruite di desideri e di paure, anche se il filo del loro discorso è segreto, le loro regole assurde, le prospettive ingannevoli, e ogni cosa ne nasconde un’altra». Anche la città di Trento raccontata da questo catalogo è percorsa da sogni di pace e di benessere, ma anche da timori: nei confronti della modernità, dei cambiamenti domestici, del nuovo ruolo femminile. Guardare tutto questo, vedere attraverso i giornali quali erano le aspettative e le paure di allora, significa confrontarsi in modo cosciente con «desideri e paure» di oggi. Lucia Maestri Assessore alla Cultura, Turismo e Giovani del Comune di Trento 7
I trentini alle prese con la modernitĂ 8
La mostra «Boom! Istruzioni per l’uso. Trento 1955-1965» rinnova l’impegno della Fondazione Museo storico del Trentino per la storia di Trento. Il tema della mostra, un decennio di importanti cambiamenti per la città e per i suoi abitanti, si situa in un ambito temporale molto vicino all’oggi. Siamo, per così dire, alle origini della contemporaneità di Trento. La mostra indaga il momento nascente di un’epoca diversa rispetto al periodo precedente, che reclama questa modernità come uno slogan. Finita la guerra, finita la fase più difficile della ricostruzione, i trentini entrano in un periodo contrassegnato dalla crescita economica, dalla fiducia in un progresso che sembra inarrestabile. Le differenze nella distribuzione della ricchezza permangono, ma è innegabile che per moltissime famiglie il livello generale della vita migliora. Visti dal XXI secolo, lo stupore e l’ingenuità con cui i trentini (ma con loro gli italiani tutti) guardano certi fenomeni, scoprono rivoluzioni tecnologiche che entrano nelle loro case, imparano a vivere in una società che fa dei consumi e del benessere la base del sistema economico, può meravigliarci. Sono passati pochi decenni da allora, eppure molte di quelle novità sono del tutto obsolete o al contrario entrate nella nostra quotidianità in modo
talmente profondo, che sembra impossibile averne potuto fare a meno. La scelta della curatrice, Elena Tonezzer, di elevare la stampa a fonte privilegiata della mostra, ha permesso di calarsi «dal di dentro» nella Trento di quegli anni. Gli articoli, soprattutto quelli di costume e le cronache apparentemente meno importanti, hanno permesso di vedere il processo di apprendimento di una società che si adatta, tra permanenze e innovazione, ai cambiamenti del mondo. Il mutamento di questi anni non è solo economico, una rivoluzione si sta per compiere all’interno delle famiglie, quella femminile. Le donne sono le principali depositarie dei consigli e delle raccomandazioni delle rubriche di costume, che vanno dalle istruzioni delle lavatrici a quelle sul controllo delle nascite, e vivono più direttamente le frizioni tra i valori tradizionali e quelli dell’emancipazione. L’arco cronologico individuato comincia esattamente dieci anni dopo la fine del secondo conflitto mondiale e termina prima dell’alluvione e delle tensioni generate dal movimento studentesco, due momenti che in modo diverso segnano la fine di un periodo contrassegnato dall’ottimismo e che avrebbero portato a riflessioni più critiche sull’uso del territorio e sulle iniquità che perduravano nel sistema sociale.
L’allestimento della mostra «Boom!» prosegue la sperimentazione avviata in occasione dell’esposizione «La città romanzo» (2008), che ha visto la collaborazione sinergica di professionalità diverse fin dalle prime battute. Accanto alla ricerca storica tradizionale sulle fonti giornalistiche e archivistiche svolte da Elena Tonezzer, e al contributo dell’Archivio di cinema e storia e di Lorenzo Pevarello per quanto riguarda i filmati di famiglia, da subito si è avviata la riflessione allestitiva multidisciplinare. Sono stati coinvolti Micol Cossali e Valentina Miorandi, videoartiste, il grafico Alessio Periotto (Designfabrik) e l’architetto Massimo Scartezzini (Studiobbs). Negli scopi della Fondazione Museo storico del Trentino ci sono la ricerca e la divulgazione, ma questi due principi trovano una valorizzazione fondamentale nel radicamento al territorio. Ci auguriamo che questa mostra sia un ulteriore passo per accrescere la conoscenza della storia della città di Trento e per rendere i suoi abitanti, anche quelli di passaggio o arrivati da poco, più consapevoli del luogo dove vivono. Giuseppe Ferrandi Direttore generale della Fondazione Museo storico del Trentino
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Spazio-Trento per la cittĂ 10
Quando pochi mesi fa abbiamo affrontato la profonda ristrutturazione al pianoterra della nostra prestigiosa Sede trentina, all’interno di uno dei palazzi storici più belli del nostro capoluogo – Palazzo Firmian – e restituito al loro originario splendore le Stanze dell’Allegoria e di Virtus et Voluptas, avevamo già chiaro come utilizzare questi spazi . “Spazio UniCredit per Trento” nasce per essere un luogo di dialogo con la Città: nuovo nella forma, ma testimone della indissolubile continuità relazionale con la Comunità nella quale, da sempre, operiamo. Vuole essere inoltre una conferma che l’attenzione ai territori, dai quali UniCredit trae origine, è rafforzata dalle dimensioni oltre che da una proiezione europea al servizio e a vantaggio delle nostre persone e delle nostre aziende. Siamo orgogliosi di ospitare in queste Stanze la proposta della Fondazione Museo storico del Trentino. Una mostra su un periodo di storia chiama in causa il nostro modo di metterci in relazione con il passato. «Boom! Istruzioni per l’uso. Trento 1955-1965» sarà visitata, e interpretata,
da chi quel periodo l’ha vissuto e da chi ne conserva un ricordo vago, quasi in bianco e nero. Ma anche dai più giovani e da chi ancora non c’era. Credo sia opportuno che per i primi prevalga la memoria più che la nostalgia di «tempi in cui era tutto più bello» perchè più semplice, in qualche modo consolatorio: il racconto della memoria è indispensabile alle nuove generazioni e a tutti noi, per la miglior comprensione di ciò che accade. L’identità, la cultura, la stessa economia di un paese, di un territorio e degli individui sono basati sulla storia, su un passato che era stato a sua volta presente. È il confronto con il passato e con i cambiamenti ad aiutarci a conoscere meglio il nostro tempo ed è sulla conoscenza che può divenire concreta la capacità di disegnare e di immaginare il futuro, di pensare ed anche sognare un domani migliore. Romano Artoni Direttore Commerciale Triveneto Ovest UniCredit Banca 11
Boom! Istruzioni per l’uso Trento 1955-1965
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Dieci anni sono un periodo breve nella storia di una città. Quello che accadde tra il 1955 e il 1965 a Trento segnò però un mutamento profondo, che incise sulla forma urbana e sui suoi abitanti. La popolazione aumentò significativamente e fu proiettata in una nuova fase economica, culturale e sociale. La città si espanse, crebbe ben oltre l’immaginabile allungandosi verso sud e verso nord, si arrampicò sulla collina est, stravolgendo il paesaggio. I «nuovi» trentini provenienti dalle vallate circostanti scoprivano la vita in città, e insieme ai residenti di più antica data, dovevano imparare abitudini prima sconosciute e apprendere l’immaginario e le regole dei consumi. Era una società in movimento, che aveva voglia di lasciarsi alle spalle i lutti della guerra e i ricordi della dittatura fascista. «Benché siano passati dieci anni – si legge su l’Adige il 24 aprile 1955, il giorno che precedeva il primo decennale della Festa della Liberazione – tutti si sentono più giovani, perché, solo che lo vogliano, possono ancora credere e sperare»1. L’idea diffusa di vivere un momento di rinascita, di miglioramento infinito, alimentava una fiducia che poche voci contraddicevano. Almeno inizialmente le cronache dipingono con entusiasmo l’incremento del consumo energetico, delle auto e del cemento. Solo a partire dagli anni sessanta sulle pagine cittadine fa capolino qualche perplessità e critica rispetto alle scelte (o al laissez-faire) di cui la città è stata oggetto. Nel 1955 la fase più difficoltosa della ricostruzione si può dire pressoché
conclusa. I segni delle distruzioni inferte dai bombardamenti stavano lentamente sparendo, ma i problemi restavano comunque tanti, primo tra tutti quello dell’alloggio. Il verbale del Consiglio comunale del 21 ottobre 1955 restituisce i tratti di una situazione abitativa ancora difficile. Fino a tre anni prima, 172 famiglie abitavano nelle caserme Diaz, 29 nelle ex caserme di via Bronzetti, 8 presso la Villa Bernardelli, 11 nella scuola media di via Esterle, un numero non definito infine viveva in sistemazioni di fortuna, come il ridotto di Torre Vanga o nelle macerie delle caserme degli Alpini2. Una situazione che la nuova amministrazione comunale intendeva risolvere con significativi interventi di edilizia pubblica. Le 700 domande di alloggio depositate nel 1955 avrebbero trovato una risposta nelle nuove abitazioni del «villaggio rosa» di via Giusti (54 famiglie), ai Muredei (28) di San Bartolomeo (80) e nei sobborghi (60). 78 appartamenti erano finanziati dal Comune per le categorie a reddito fisso. Non solo chi aveva perso la propria abitazione a causa delle distruzioni belliche chiedeva una casa, perché anche gran parte delle abitazioni esistenti presentava delle condizioni igienico-sanitarie molto carenti, in particolare a Piedicastello, via Suffragio, via San Martino e nelle Androne. Dieci anni dopo, nel 1965, la situazione abitativa aveva perso i caratteri emergenziali che aveva avuto. Già nel 1960 i dati quantitativi descrivono una situazione già decisamente migliorata, anche se si cominciavano a vedere
le conseguenze sul mutamento del paesaggio, che colpiva soprattutto la collina. Si costruiva a ritmo vertiginoso: nei soli primi dieci mesi del 1961 si edificò circa la metà di quanto era stato costruito dal 1955 al 1960! Una superficie pari a tutto il centro storico, quantificata in 233 mila metri cubi di cemento3. L’aumento della popolazione era la principale causa della crescita dell’edilizia, che dopo aver risolto il problema di chi aveva perso l’alloggio durante la guerra, rispondeva all’inurbamento dei nuovi cittadini. Nel 1955 la città contava 69.459 residenti, nel 1965 erano 83.955: circa il 21% in più in 10 anni. La causa di questa crescita era l’immigrazione di persone attratte dalle nuove possibilità di lavoro offerte dall’incremento degli uffici pubblici e delle industrie. Il saldo tra emigrati e immigrati rimase positivo per tutto il decennio. Queste centinaia di persone provenivano soprattutto dalle valli, come testimonia il caso del 1960: poco più della metà dei 1.631 nuovi arrivati venivano da altri comuni della provincia, i rimanenti avevano lasciato territori limitrofi, Alto Adige, Veneto e altri paesi centro settentrionali. Solo 111 erano gli immigrati dall’estero4. Contemporaneamente alla crescita della forma urbana, appaiono sulla stampa le critiche ad una realtà che sembrava crescere senza direttive, guidata semplicemente dagli interessi degli immobiliaristi. Nel 1959 l’esigenza di dotare Trento di un piano che ne regolasse lo sviluppo, chiamato – significativamente – «piano di fabbricazione», sembrava non 13
più procrastinabile, e il Comune affidò agli architetti Marconi, Masè e Negri il compito di stilare una relazione che avrebbe fornito la base per poi arrivare ad una decisione definitiva5. Due anni dopo la situazione dipinta dalla stampa era immutata, anche se nel frattempo le nuove costruzioni erano «spuntate come funghi, bloccato ogni area disponibile, ingoiate ogni foglia di verde, incastrate l’una nell’altra come si fa il gioco del domino: peggio ancora, perché se nel gioco del domino esiste la regola che i segni d’ogni rettangolino hanno da corrispondere a quelli del rettangolino che segue, in campo dell’edilizia a Trento, in assenza del piano regolatore, si è agito in un’atmosfera nella quale non si è potuto contrapporre sempre le ragioni dell’interesse pubblico a quelle di certo meno giustificate speculazioni private»6. La forma della città aveva delle ripercussioni sul comportamento delle persone, che vivificavano nuovi quartieri e nuovi appartamenti, davano senso ad ambienti e situazioni fino a pochi anni prima inediti, come la vita in condominio o l’abitudine a prendere l’autobus: «quando il 1 febbraio 1953 la vecchia, gloriosa, Società automobilistica Atesina, ha assunto il servizio di autobus cittadino – scrive l’Adige il 29 gennaio 1959 – sembrava che l’esperimento avesse poca durata. I trentini non erano abituati a prendere i «tram» e preferivano spostarsi a piedi da un punto all’altro della città, come avevano fatto da sempre». Ma a dispetto di questi auspici, la grandezza della città, la nascita di nuovi quartieri, aveva smosso anche le consuetudini dei trentini favorendo l’utilizzo 14
dei nuovi mezzi di trasporto collettivi. L’articolo annunciava l’istituzione di una nuova linea, la numero nove, che univa alla città il nuovo quartiere di S. Donà, in collina, ricordando che «nella loro istituzione è stato tenuto presente lo sviluppo continuo della città e le sue aumentate, continue, richieste». Il clima culturale della città che traspare dalle pagine del maggiore quotidiano dell’epoca, l’Adige, sembra essere dominato da un’ingenua adesione al modello di vita che il crescente benessere diffondeva: si preferivano i nuovi materiali plastici al legno, il supermercato alla vecchia bottega, la cucina modulare alla stufa. Il mutamento imposto dal nuovo modo di consumare prodotti un tempo inaccessbili, se non inesistenti come gli elettrodomestici, è molto profondo rispetto alle esperienze precedenti. L’apertura dei primi supermercati è annunciata dalla stampa come l’arrivo della modernità e della civiltà. Per capire quanto dovevano risultare strani questi negozi è necessario considerare che il 23 giugno del 1956 l’Adige trovò utile pubblicare addirittura la fotografia della simulazione di un supermercato «americano», realizzata all’EUR a Roma. Il supermercato liberava il consumatore dalla mediazione del venditore, tutti potevano toccare, annusare, prendere la merce senza chiedere a nessuno, senza l’imbarazzo di mostrarsi nuovi arrivati (con le inflessioni dialettali del proprio italiano, ad esempio) e senza soggiacere al controllo del negoziante, che fino a quel momento sapeva tutto dei consumi dei singoli clienti.
La vita in città, il progressivo abbandono del mondo contadino, si collega anche ad una rivoluzione nella gestione del tempo familiare, che si scopre «libero». Le società agricole sono legate ad un tipo di lavoro dipendente dai bisogni dei campi e del bestiame, dalle feste stagionali; il lavoro in fabbrica e negli uffici è invece regolato da campanelli, timbrature, straordinari e uscite. Negli anni cinquanta si diffonde anche a Trento il tempo libero a livello di massa, ma la novità è tale che vennero scritti anche gli articoli che insegnavano cosa fare con questo «nuovo» tempo. La parola straniera «hobby», si legge il 3 novembre 1963, «ha invaso e conquistato il mondo poiché tutti, oramai, si sentono in dovere di possedere un proprio, personalissimo ‹hobby›» (corsivi miei). La gita fuori porta, sciare in Bondone, il bagno al lago di Caldonazzo, diventarono i passatempi dei trentini o almeno per chi poteva permetterseli. L’impiego del tempo libero è fin da subito un importante indicatore del proprio livello sociale, perchè è legato alla disponibilità di mezzi di trasporto individuale, come la moto e l’automobile, che permettevano alle famiglie di raggiungere i prati delle Viote ad esempio, e implica un abbigliamento specifico, addirittura l’attrezzatura sportiva. Accanto all’entusiasmo che la crescita economica diffonde e alle novità che la società dei consumi impone nella realtà quotidiana delle persone (per lo meno nei loro desideri), rimangono tracce delle persistenze della cultura tradizionale. La distribuzione ai bambini poveri di 600 paia scarpe, raccolte nella «giornata
della bontà», mostra quanto, vicino ai sogni di frigoriferi giganteschi e strapieni immortalati dalle pubblicità, rimanesse una realtà fatta di ristrettezze7. La folla che nel 1955 accompagnò le reliquie del piccolo Simone nella tradizionale processione che commemorava il suo presunto martirio, testimoniava il persistere di un culto cattolico conservatore e antisemita, che proprio in quegli anni stava per essere messo in discussione e doverosamente cancellato. La mostra raccoglie e rimanda al visitatore alcune delle novità che si diffusero a Trento dal 1955 al 1965: molte di queste fanno parte della nostra vita quotidiana tanto da stupirsi che in realtà siano così recenti, risalgano solo a cinquant’anni fa, altre sono state addirittura superate da nuove tecnologie che hanno fatto dimenticare oggetti che alla metà del XX secolo sembravano destinati all’eternità, come il gettone ad esempio. La fonte principale delle ricerche che hanno preceduto questa mostra è stato il quotidiano l’Adige. La scelta è dovuta al preciso intento di studiare le rappresentazioni sociali, gli umori, i desideri quotidiani della cittadinanza nell’immediatezza in cui nascevano e venivano registrati dal giornale. Le pagine del giornale l’Adige restituiscono la freschezza dello sguardo di allora, ci permettono di vedere il momento iniziale della Trento contemporanea, lo sguardo dei trentini che vissero negli anni del boom un cambiamento epocale, economico e culturale. Servivano istruzioni per un nuovo stile di vita: la città si dotava dei primi cestini in strada e
il giornale spiegava ai cittadini come usarli; la diffusione delle automobili rendeva necessarie delle regole condivise e gli articoli illustravano i primi cartelli stradali. Come facevano i pedoni ad attraversare le strade ormai invase da automobili veloci e non da carri trainati da animali? l’Adige mostrò le prime strisce pedonali e insegnò alle persone che dovevano passare lì e solo lì. Le novità non erano solo nelle vie, penetrarono fin dentro le case: il tostapane, il telefono, la lavatrice... L’uso di questi nuovi strumenti richiedeva l’apprendimento di regole, istruzioni, capacità specifiche. La maggiore disponibilità economica contribuì anche alla diffusione di oggetti che diventano altrettanti segnali di distinzione: come fare visita alle persone? Cosa portare in dono? quando servire il tè o il caffè? Con quali tazze? E il gelato? C’era sempre un modo sbagliato, che avrebbe mostrato le umili origini, magari di campagna, e uno giusto, che segnalava le persone educate e di mondo, e le rubriche puntualmente lo insegnavano. I documenti conservati presso l’Archivio storico del Comune di Trento hanno fornito i dati istituzionali, quantitativi, per interpretare le immagini e le parole pubblicate giorno per giorno, fornendo il deposito dello spirito dell’epoca. L’allestimento della mostra, che risente fortemente della fonte giornalistica, propone al visitatore non di vedere le fotografie del passato, ma di «scoprirlo» come abbiamo fatto noi, o i nostri genitori e nonni, una mattina di cinquant’anni fa. I titoli degli articoli ri-danno
il sapore che una notizia, un’inaugurazione, ha avuto al momento della sua pubblicazione, permettono di calarsi nel passato per rinvenire fatti e oggetti ormai diventati scontati, o al contrario dimenticati. I filmati di famiglia, conservati presso l’archivio della Fondazione Museo storico del Trentino, contribuiscono a portare nell’intimità delle persone, a mostrare le loro feste e case, la città in cui i «registi» vivevano. Gli oggetti, proposti in una selezione rappresentativa, danno matericità alle trasformazioni tecnologiche e di gusto dell’epoca. Oggi, dopo alcuni decenni in cui si sono sperimentati anche i riflessi negativi dell’eccesso edilizio, dello sperpero ambientale e energetico, l’entusiasmo degli anni cinquanta appare a tratti ingenuo. Proprio in questo carattere di innocenza e inesperienza possiamo misurare il tempo storico dei cambiamenti di mentalità e vivere con la consapevolezza di chi conosce il proprio recente passato. Elena Tonezzer 1 «Dopo la guerra la rinascita e il progresso». l’Adige. Trento 24 aprile 1955. 2 Archivio storico del Comune di Trento, Verbali Giunta municipale 1955, Secondo semestre, Verbale della seduta 21 ottobre 1955. Relazione sull’edilizia cittadina e sul progetto di sistemazione delle famiglie tuttora abitanti in ambienti di proprietà del Comune provvisoriamente sistemati ad alloggio (rel. Ass. De Niccolò). 3 E. G., «Si è fatto a Trento negli ultimi 10 mesi metà di quanto si è costruito in 5 anni». l’Adige. Trento, 9 dicembre 1961. 4 Memorie di Trento, Trento, Comune di Trento, 1961, p. 17. 5 «Si sta concretamente delineando il piano regolatore per la città». l’Adige. Trento, 15 aprile 1959. 6 E. G., «Si è fatto a Trento negli ultimi 10 mesi metà di quanto si è costruito in 5 anni». l’Adige. Trento, 9 dicembre 1961. 7 «Scarpe ai bambini poveri». l’Adige. Trento, 25 dicembre 1955. 15
Distribuzione delle scarpe ai bambini poveri in occasione del Natale del 1955. «Scarpe ai bambini poveri». l’Adige, Trento, 25 dicembre 1955 16
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Elena Tonezzer
Una città a forma di pesce l’amministrazione di Trento (1955-1965)
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Una città per 100.000, opuscolo della Democrazia cristiana, Trento, 1964
Il primo piano regolatore della città di Trento fu la relazione dell’architetto Plinio Marconi, scritta nel 1962. Il 16 novembre di quell’anno l’Adige riporta che Marconi aveva descritto ai consiglieri comunali la città di Trento come «un grosso pesce, con la bocca aperta verso mezzogiorno, a mangiarsi i campi (anche questo è un problema), una gran pinna dorsale e coda verso nord». Trento era passata in poco più di cento anni dall’essere rigidamente stretta nelle sue mura, abbattute alla metà del XIX secolo, a «pesce» vorace. L’intenso lavorio del periodo della ricostruzione e lo sviluppo urbano dovuto alla crescita della popolazione degli anni cinquanta e sessanta trasformarono Trento nella città odierna. A quale tipo di amministrazione
fa riferimento questo processo di trasformazione? Trento diventò capoluogo di regione nel 1948, in base a quanto stabilito dallo Statuto di autonomia della regione Trentino Alto-Adige. Si trattava della conclusione di una discussione molto lunga, che attribuiva alla città un importante ruolo nella gestione di una regione complicata, formata da due province che parlavano lingue diverse, l’italiano in Trentino e il tedesco in Alto Adige. L’importanza politica che il gruppo dirigente della città attribuì a questa condizione sarebbe stata ancora palpabile 12 anni più tardi, nell’opuscolo Memorie di Trento, pubblicato dal Comune nel 1961. Il paragrafo «Capoluogo di Regione» sottolinea che «Trento è al centro di una situazione politica-socialeetnica di grande delicatezza»,
rimarcando con scarsa modestia le conseguenze che questa centralità avrebbe dovuto avere rispetto alla minoranza di lingua tedesca e al resto del paese. Il testo si compiaceva della «fiducia riposta dalla Nazione nella sensibilità e nella capacità equilibratrice di Trento, non meno che nell’assoluta fedeltà e responsabile solidarietà di Trento verso al Madrepatria». Con le elezioni del 1960 si era chiusa l’epoca in cui la regione era stata guidata da Tullio Odorizzi; il nuovo presidente Bruno Kessler inaugurò una stagione diversa, guidata dallo slogan «No al Trentino piccolo e solo!». Per l’amministrazione della città essere capoluogo comportava la presenza di numerosi uffici e un compito di rappresentanza che trovò il punto di sintesi nel concorso per la costruzione della sede della 19
Memorie di Trento, Trento, Comune di Trento, 1961, fogli sparsi
Regione nell’area di Piazza Dante. Là dove prima c’era un edificio ottocentesco danneggiato dalla guerra, prima albergo e poi sede della Banca d’Italia, nel 1963 si inaugurò il palazzo vetrato progettato da Adalberto Libera. Dal punto di vista prettamente politico, la storia dell’amministrazione comunale di Trento di questi anni è contrassegnata dalla Democrazia cristiana, che poteva contare sull’appoggio della gran parte dei cittadini. La maggioranza assoluta del consiglio comunale di Trento del 1956 era democristiana: 22 componenti su 40, eletti con il 53,9% dei voti. Il secondo partito della città era quello socialdemocratico, che vedeva la maggioranza da molto lontano, con 6 esponenti. Seguivano il 20
partito socialista, che era riuscito a far eleggere 5 consiglieri, il partito comunista, 3, il movimento sociale e il partito liberale, 2 ciascuno. La giunta, un monocolore democristiano, riconfermò sindaco Nilo Piccoli, eletto per la prima volta nel 1951. I risultati elettorali del 1960 segnarono il successo del PSI, che divenne il secondo partito della città con sette consiglieri, tre in più del PSDI. La DC conservava ancora la larghissima maggioranza con 21 consiglieri e il 52,7% dei suffragi, ma la composizione della giunta comunale del 1960 risentì del mutato clima politico nazionale e delle aperture che anche a Roma si rivolgevano alle sinistre. Piccoli fu riconfermato sindaco per la terza volta, due assessorati andarono al partito socialdemocratico italiano: Guido
Pincheri, alle finanze, e Enrico Bertagnolli, ai lavori pubblici. Nilo Piccoli, che fu sindaco della città per ben tre legislature, guidò il municipio in questi anni di cambiamento. Fratello di Flaminio, leader della Democrazia cristina e direttore del giornale l’Adige, Nilo vive la trasformazione di Trento da piccola cittadina tradizionale (economicamente e culturalmente) a città che inizia a giocare la carta del turismo, del terziario, dell’università. Nel 1964 il Consiglio comunale elesse un nuovo sindaco, il democristiano Edo Benedetti, che sarebbe rimasto in carica fino alle elezioni del 1975. Per la prima volta dal 1951 la DC andò (di pochissimo) sotto la quota del 50% delle preferenze, mentre il PSI si confermò secondo partito della città, riuscendo ad entrare
in giunta con Gino Manunta, assessore agli affari generali e al personale, e Iginio Lorenzi, vicesindaco e assessore alle attività economiche, industria, commercio, agricoltura e annona. Oltre ai socialisti, anche il PSDI fu presente in giunta con Bertagnolli. I dati elettorali del decennio 19551965 descrivono una città in cui la guida è saldamente nelle mani del partito democristiano, supportato da maggioranze elettorali schiaccianti, che si ripetono anche a livello provinciale e nazionale. Questo gruppo dirigente, che cercò di tenere un difficile equilibrio tra mutamento e continuità, contribuì a determinare la forma di Trento e dunque la vita dei suoi abitanti, e il sindaco Piccoli, citando Aldo Gorfer, modellò la città «secondo lo spaccato culturale dei tempi e seguendo i criteri della classe politica dominante». 21
I bambini percorrono in bicicletta Lung’Adige Leopardi appena asfaltato. L’Adige, Trento, 20 settembre 1956 22
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Alberto Brodesco
La nostra vita in qualche istante rubato Trento: immagini quotidiane 1955-1965
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Inaugurazione di un supermercato nel centro storico della città, alla presenza delle maggiori autorità civili e religiose. «Da oggi in funzione in via Oriola un grande supermercato del Sait». l’Adige, Trento, 6 febbraio 1960
L’Adige, Trento, 10 marzo 1959
La forbice, l’aspersorio e il registratore di cassa Sono anni di tagli di nastri. S’inaugurano nuovi palazzi, nuovi bar, nuove chiese. S’inaugurano commissionarie, grandi magazzini, supermercati. Alle cerimonie d’apertura presenziano preti, onorevoli, sottosegretari, sindaci, giudici, cavalieri, architetti, ingegneri, commendatori, notabili. Le colonne del giornale si riempiono fitte di elenchi. Gli uomini politici tengono in mano la forbice, i sacerdoti l’aspersorio. La gente comune, che abiterà quei luoghi, funge nel frattempo da quinta. C’è quasi sempre un buffet. In una foto pubblicata su l’Adige del 6 febbraio 19601, all’inaugurazione del supermercato Sait di via Oriola alcuni religiosi mostrano sguardi preoccupati. In quel luogo deputato all’acquisto di merci sembrano fuori
contesto. Dimessi, a occhi bassi, guardano il registratore di cassa. La civiltà dei consumi arriva in Trentino con volto innocente e modi garbati. Ma lo sguardo dei prelati è quello di Laocoonte che indaga il cavallo dei Danai alle soglie di Troia. Marx al Poli «Le merci non possono andarsene da sole al mercato e non possono scambiarsi da sole». La formulazione di Karl Marx è ancora più chiara se, al posto di mercato, scriviamo supermercato. A differenza del mercato, dove i prodotti si apparentano immediatamente ai carretti che li trasportano, alle braccia che li spostano, al richiamo del fruttivendolo, il supermercato raccoglie infatti merci che sembrano voler esibire la loro autonomia dagli uomini.
La foto con cui il supermercato «F.lli Poli» illustra la sua nuova apertura2 mostra un ambiente vuoto, apparentemente immune da ogni attività umana. Pare davvero che le merci siano andate da sole al supermercato per posizionarsi ordinate sugli scaffali ognuna secondo il suo genere, a dar mostra di sé con orgoglio. Di fronte a questa schiera, la massaia, abituata al negozio, alla presenza di un negoziante, rischia di esser messa in soggezione. Così la réclame del Poli è costretta a ribadire la considerazione apparentemente ovvia di Marx: non bisogna lasciarsi ingannare, le merci non possono scambiarsi senza il nostro tramite. «Servitevi da soli»; «articoli a portata di mano della clientela», dicono gli slogan. Il pezzo giornalistico che affianca la pubblicità aggiunge dettagli: 25
«Le vetture spaziali e i missili hanno demolito il cavallo a dondolo». l’Adige, Trento, 25 dicembre 1958 «Ancora visibili (fino a quando?) le ferite della guerra in città». l’Adige, Trento, 29 gennaio 1963
«Già da alcuni giorni il ‹self-service› è entrato in funzione. Se l’iniziativa ha creato dapprima delle perplessità, la maggior parte dei clienti si è dimostrata veramente entusiasta della novità. La merce, già confezionata, non attende che di essere prescelta dalla cliente che, riempita l’apposita borsa, si presenta poi alla cassa per il saldo. Oltre che semplice e con la possibilità di una scelta personale che non è influenzata da nessuno, la spesa per le massaie diventa anche piacevole»3. La sequenza che conduce dalla merce al piacere prevede dunque il passaggio attraverso la borsa, la cassa e il saldo. Sono parole che rassicurano. La merce ci aspetta, attende di essere prescelta. Quei duemila articoli apparentemente autonomi trovano la loro realizzazione solo nell’incontro con i nostri corpi. 26
Boom Il boom prodotto dalle bombe della seconda guerra mondiale si trasforma presto, con una fretta imprevedibile, in un altro tipo di esplosione, che stavolta ha tutto di allegro. Nel giro di una manciata d’anni si passa dalla fatica della ricostruzione all’orgoglio del miracolo economico. Il 29 gennaio 1963 l’Adige apre pagina 4 con un titolo sulle ferite ancora visibili della guerra4. A diciott’anni di distanza ci sono ancora detriti e macerie in via San Giovanni, via Roma e vicolo San Marco. Quei segni di guerra sono fastidiosi, la loro vistosa presenza è «non edificante». Che ci fa quello squarcio al centro di Trento, mentre tutto, intorno, cresce, mentre si aprono cantieri, sorgono case, si estendono i quartieri abitati?
Il dovere della memoria mal si combina con l’urgenza di guardare avanti. Per non dimenticare (o per compiere il gesto di chi non dimentica) si può pensare di intitolare la nuova piazza richiamando la data del bombardamento: 3 settembre 1943. Il buco, il vuoto simbolico è riempito, si può procedere con fondamenta nuove. Ieri, oggi, domani Una fotografia mostra dei bambini che guardano vogliosi un furgoncino spaziale esposto in una vetrina. «La fantascienza ha avuto partita vinta», dice il titolo dell’articolo5. «Già oggi per il mondo di domani», scandisce un altro slogan con cui si vuol vendere una televisione6. Accanto all’apparecchio, anche qui, viene
disegnata l’immagine di una navicella spaziale. Una cucina di oggi, affiancata dal disegno di un aeroplano e di un grattacielo, si contrappone alla cucina di ieri, vetusta come la locomotiva a vapore che le sta vicino7. Un paio di mutande viene venduto come «la mutanda dei tempi moderni»8. È in cintura elastica di speciale caucciù, ad alta resistenza, inalterabile, di massima estensibilità, senza bottoni. È studiata per togliere qualsiasi attrito. Sono anni in cui l’accento cade sempre sull’oggi. Un oggi che è lanciato verso il domani e si lascia indietro uno ieri mai così lontano.
«Telematch in piazza Duomo». l’Adige, Trento, 10 giugno 1957
Oggetti misteriosi Telematch, in onda a partire dal 6 gennaio 1957, è un programma che vanta alcuni primati. In particolare, è la prima trasmissione della televisione italiana che fa uscire le telecamere dagli studi. Dei quattro giochi proposti da Telematch – «Passo e vedo», «Le anime gemelle», «Il braccio e la mente» e «L’oggetto misterioso» – gli ultimi due sono in collegamento esterno. Per «Il braccio e la mente» ci si collega a una palestra, dove un concorrente-braccio prova a rimediare agli errori commessi dal suo partner, la mente. «L’oggetto misterioso» allestisce invece un palco in una piazza italiana di volta in volta diversa. Vi salgono i cittadini che vogliono provare a risolvere l’enigma che circonda un oggetto, detto anche «il coso» o «il telecoso».
Il montepremi aumenta a ogni risposta sbagliata. Il conduttore, Renato Tagliani, ha il compito di guidare il pubblico e di introdurre, magnificandolo, lo spazio in cui è montato il palco. Gli spetta anche l’onere di gestire il bagno di folla: «c’è chi saluta, chi vuole a tutti i costi farsi riprendere, e chi sfrutta l’occasione per pubblicizzare la propria cittadina. [...] La televisione si avvicina così al pubblico reale e la provincia italiana diventa protagonista del piccolo schermo, prima del trionfo di Campanile sera» (Aldo Grasso). In studio c’è Enzo Tortora. L’8 giugno 1957 la trasmissione sbarca a Trento, in piazza Duomo. Il palco non si accosta, come quasi sempre avviene oggi, alle pareti del Duomo, ma è rispettosamente collocato dalla parte opposta, davanti ai portici.
Estratti a sorte, ciascuno con la sua ipotesi di soluzione, quaranta trentini si avvicinano al microfono. Per Giuseppina Pedrotti, stenodattilografa in Provincia, l’oggetto misterioso è «un’antica calamita»; anche per Enzo Battistelli è una calamita, ma «di Galilei»; Ferruccio Nanni propone «uno spolverino»; Gianni Trettel «un calamaio antico»; Guido Bonatti «un pulsante con contatto per chiusura»; Giuseppe Bernardi azzarda «un vasetto per sali benedetti»; Mauro Unterrichter «un peso per stadera»; Ernesto Bertolasi «un’antica teca»... Dario Giovannini è il secondo a salire sul palco. Ha una soluzione, ma le telecamere o le luci sparate in faccia lo travolgono di emozione: non trova la parola, è costretto a estrarre dalla tasca un fogliettino su cui aveva scritto qualcosa. Legge 27
Nel 1959 il Consiglio comunale comincia a regolare il traffico istituendo dei sensi unici e predisponendo la collocazione dei cartelli stradali. «L’operazione divieti». l’Adige, Trento, 26 marzo 1959
Per insegnare alla popolazione l’uso delle strisce pedonali, viene utilizzata una grande zebra di gomma spostata nei punti cruciali del traffico urbano. l’Adige, Trento, 11 marzo 1959
con fatica: «la chiavetta per dare corda a un orologio». Nemmeno questa timida risposta è quella giusta. L’oggetto misterioso, che al suo arrivo in piazza Duomo corrispondeva un premio di 420 mila lire, ora ne vale 670 mila9. Anche le case dei trentini iniziano a popolarsi di oggetti misteriosi, dal funzionamento strano, che bisogna imparare ad usare: elettrodomestici, macchinari, accessori... Ognuno corrisponde a un bisogno. Le pubblicità, gli articoli dei giornali, forniscono su di essi informazioni di base, qualche istruzione. In quest’ansia di rinnovamento, in questa fame di futuro, ci si spinge persino troppo in avanti, profetizzando la sparizione degli asciugamani di fronte all’arrivo incombente, in ogni casa, di giganteschi asciugatori ad aria. 28
Ma non cambiano solo le case: anche le vie della città vengono disseminate di segni nuovi, di simboli che bisogna saper interpretare: ad esempio un cerchio rosso con al centro una banda orizzontale bianca. Due addetti in giacca e cappello si impegnano a erigerlo. A loro disposizione, solo una scala di legno e un carrello10. Cartelli stradali, segnaletica orizzontale, semafori si spargono per piazze e strade che non ne prevedevano l’esistenza. L’aumento nel numero delle automobili costringe a regolare il traffico. Oggetti misteriosi, incongrui, esotici sembrano esser scesi dal palco di Telematch per invadere la città di Trento. Una zebra di gomma si sposta di strada in strada, promettendo una città più sicura11.
I guardiani del desiderio Se all’interno del mondo dei consumi e della tecnologia tutto ciò che è nuovo è benvenuto, nei campi delle arti e della cultura vale la reazione opposta: ogni innovazione è potenzialmente pericolosa. La versione italiana del film di Ingmar Bergman Monica e il desiderio (1953, distribuito in Italia nel 1961) esce pesantemente censurata: viene tagliato il momento in cui Monica corre nuda verso il mare, come quello in cui scopre il seno. L’azione della censura italiana è avveduta: «tocca il cuore di un film dedicato proprio alla forza dirompente dell’eros, che traccia il profilo di un’anima inquieta, una provocatoria figura femminile, esuberante e incoercibile, sfrontata e anarchica, insolente e selvatica» (Luciano De Giusti).
Nonostante i tagli, per il critico de l’Adige il film rimane inaccettabile: «tutta la azione si sviluppa in un’atmosfera naturista e istintiva, priva di qualsiasi dimensione o preoccupazione morale»12. Ha ragione. È la forza di un film che, anche sfregiato, continua a dire ciò che era nato per dire. l’Adige, in ogni critica, riporta o si rifà sempre al giudizio del Centro Cattolico Cinematografico, che contiene severissime valutazioni sui contenuti del film e ne consiglia la visione «a tutti», «a tutti con riserve per i giovanissimi», «agli adulti», «agli adulti di piena maturità morale», oppure la «sconsiglia per tutti» o la «esclude per tutti». Nel 1960, i film incasellati nella categoria «escluso per tutti» sono il 60%. Il critico de l’Adige recepisce quegli standard e ci mette del suo:
La protagonista del film Monica e il desiderio, Ingmar Bergman, 1953
L’Adige, Trento, 6 febbraio 1955
per Lolita (Stanley Kubrick, 1962), sin dal titolo, «la condanna non può essere che dura»13, Mamma Roma (Pier Paolo Pasolini, 1962) è una «squallida vicenda»14, la trasposizione filmica de La noia (Damiano Damiani, 1962) è «inutile e dannosa»15. Nel film di Bergman, Monica, colta ancora una volta nell’atto del tradimento, guarda per un attimo dentro la macchina da presa. Jean-Luc Godard definisce questo momento «l’inquadratura più triste della storia del cinema». È un «cosa volete da me?». È uno sguardo che ci spoglia, che ci impedisce di farci giudici. È lo sguardo con cui il desiderio si scrolla dalle spalle i suoi guardiani.
Secondo amore Il 5 aprile del 1957 i cinema della città offrono allo spettatore la possibilità di vedere, tra gli altri, due film del grande regista di melodrammi Douglas Sirk: al Vittoria viene proiettato Come le foglie al vento, all’Astra Secondo amore. Quest’ultimo racconta di due figli che non vogliono che la madre vedova, di nuovo innamorata, si risposi (anche perché vorrebbe sposarsi con un giardiniere). Per farla stare tranquilla, per farle passare le giornate, le regalano una televisione. La scena in cui il dono viene consegnato, nel salotto della ricca abitazione, è straordinaria: vediamo lo sguardo della madre specchiarsi con orrore nello schermo dell’apparecchio che vorrebbe sancire la sua condanna definitiva alla solitudine.
Non sappiamo cos’abbiano fatto i trentini all’uscita dalla sala in cui si proiettava Secondo amore. Forse qualcuno di loro, di lì a poco, sarà andato proprio a comprare un televisore, l’oggetto che stava diventando in quel periodo il secondo amore degli italiani. L’interpretazione di Douglas Sirk rimane una lettura di minoranza: per la gran parte della popolazione, la televisione è a tutti gli effetti un oggetto vivo, che fa compagnia, che mette in contatto con il mondo. Le pubblicità sui giornali continuano a insistere su questo tasto. La Westinghouse reclamizza così i suoi apparecchi: «Partecipate al mondo esterno attraverso la scatola magica della televisione»16. L’immagine sullo schermo mostra ballerini, ballerine, un musicista. Da dentro la televisione, lo
spettacolo sembra proseguire senza soluzione di continuità anche al di fuori della sua cornice: altre ballerine a destra, a sinistra altri suonatori, una coppia che si bacia, un re, una regina... Il divertimento della televisione non rimane confinato al suo interno: esce dall’apparecchio, ci coinvolge, ci riguarda. Il negozio «Recan» di via San Pietro promuove le vendite con uno slogan simile: «TV. Il mondo in casa»17. L’immagine che accompagna il testo è un disegno fatto con squadra e goniometro, dai tratti inquietanti: due occhi, dal cielo, penetrano le pareti domestiche per posarsi sull’apparecchio televisivo. Impossibile non conferirvi, oggi, una connotazione orwelliana. La pubblicità della Rai è ancora più schietta, quasi minacciosa: 29
L’Adige, Trento, 2 gennaio 1955 Immagine pubblicitaria di un concorso a premi. l’Adige, Trento, 6 marzo 1955
«Senza radio e senza televisione la vostra casa è un’isola»18. Lo slogan pare voler integrare John Donne: nessun uomo è un’isola, a patto che possegga una tivù. La positivistica innocenza di questi venditori non si può permettere troppe domande riguardo allo spazio vuoto che distanzia la vista e il gesto. Durban’s Sorridi e la vita ti sorride. Per poterlo fare, però, occorre rifornirsi di un bel sorriso. Fortunatamente la civiltà dei consumi, oltre allo slogan che incita all’ottimismo, fornisce anche i prodotti che ci consentono di esibirlo. Ad esempio il dentifricio Durban’s, che promette, per antonomasia, il sorriso più sincero e splendente. 30
«Sorriso Durban’s» diventa un modo di dire grazie a una ramificata campagna pubblicitaria condotta sui media italiani alla metà degli anni cinquanta. In televisione l’immagine aziendale viene affidata all’attore Carlo Dapporto, che ha gioco facile a rendersi simpatico negli sketch di Carosello. Sui giornali, la pubblicità è più invasiva, e si basa su due strategie. La prima: la Durban’s richiama l’occhio del lettore con delle fotografie (ad esempio: quattro persone sedute di cui vengono inquadrate solo le gambe) e dei titoli che incuriosiscono («Dove si trovano?»)19. Il messaggio si rivela pubblicitario quando si finisce di leggere una didascalia lunga cinque-sei righe. La seconda strategia consiste in un concorso a premi. In palio per i vincitori
una pelliccia di gran lusso Dellera, un frigorifero Fiat, un servizio di argenteria Broggi, un orologio d’oro Rolex per donna, un televisore Phonola, una lambretta e molto altro. Per vincere, occorre ritagliare la vignetta che si trova stampata sull’astuccio di cartone del dentifricio, riproduzione del quadro «Il farmacista» di Pietro Longhi. Su l’Adige del 6 marzo 1955 la foto che accompagna il concorso mostra un novello Paperone che nuota sorridente in un mare di banconote20. Dal sorriso al denaro il passo appare breve. Sembra che i soldi, ora, si guadagnino così, oltre che con il tradizionale sudore della fronte. Il lieto fine, come nei film hollywoodiani, è davvero alla nostra portata. Sorriso Durban’s. Allegria.
Celebrità Lascia o raddoppia, l’epocale telequiz condotto da Mike Bongiorno, come tutti i prodotti di successo conosce innumerevoli imitazioni. E parodie. Una di esse trova spazio in un teatrino di provincia, dove Marianino e Pero della val dei Mocheni mettono in scena «Scoppia o raddoppia». Il pubblico trentino ne rimane catturato e occupa in massa il teatro San Pietro. A quanto riferiscono le cronache, la rivista «sta battendo ogni record: in venti giorni repliche col ‹tutto esauritissimo›»21. Ma anche il Mike Bongiorno originale ha occasione di passare per la nostra regione. Grande venditore di prodotti (quiz, vallette, prosciutti) e di se stesso come prodotto, lo ritroviamo a fare una comparsata a pagamento il 14 aprile 1957 a uno spettacolo
La rubrica de l’Adige per i bambini, l’Arcobaleno, ha indetto un concorso di pronostici per il Giro d’Italia. In premio c’è una bicicletta che il vincitore, Cornelio, viene a ritirare nella sede del giornale da Lenzima di Isera. «Cornelio e l’Arcobaleno». l’Adige, Trento, 9 luglio 1958
«È caduto al settimo ostacolo il trentino a Lascia o Raddoppia». l’Adige, Trento, 10 giugno 1957
allestito dall’Enal al Comunale di Rovereto22; e il 5 maggio 1957 al Kursaal di Merano, per assegnare il premio «La sposa d’Italia»23. Alla metà degli anni cinquanta, l’everyman Mike Bongiorno riesce a far diventare popolari, oltre al suo, altri volti comuni: i ritratti dei concorrenti di Lascia o raddoppia trovano ampio spazio nelle pagine de l’Adige. Sul quotidiano – accanto ai soggetti tradizionali: regnanti, sportivi, politici, assassini – troviamo fotografate persone come noi. È un modo nuovo per diventare famosi su tutto il territorio nazionale. La celebrità sul piano locale, si sa, è molto più semplice da ottenere: per veder stampato il proprio ritratto sul giornale basta arrivare alle nozze d’oro, festeggiare il sessantesimo compleanno con i coscritti, pescare una trota di quattro o cinque chili.
Funghi A Lascia o raddoppia, il micologo Giorgio Lucchi, insegnante a Cles, cade già alla settima domanda. A tradirlo, l’amanita junguilla, un fungo che, secondo la definizione riportata da Mike Bongiorno, «cresce in primavera e in estate». La prima apparizione di un rappresentante trentino al più importante quiz della storia della televisione italiana viene raccolta dal giornale locale con molta sobrietà: non è (ancora) epoca di isterismi. Giorgio Lucchi ha una faccia che non appare molto televisiva – è montanara, ruvida, onesta. Per questo motivo, o forse per il tema che porta in gara, dev’essere risultato simpatico a Mike, che, a quanto dicono le cronache, lo saluta dispiaciuto24. In quelle stesse settimane numerosi altri funghi danno
mostra di sé dalle prime pagine de l’Adige. Esplodono, atomici, nel deserto del Nevada. Cornelio vince la bici Un’ultima immagine. Un bambino vince una bicicletta al concorso bandito dalla pagina per ragazzi del giornale25. Ha indovinato meglio degli altri i risultati delle tappe del Giro d’Italia. Il punctum è la sua mano destra: Cornelio non sostiene la bici, la stringe forte attorno alla canna, incredulo, possessivo, felice.
1 «Da oggi in funzione in via Oriola il grande ‹Supermercato› del SAIT». l’Adige. Trento, 6 febbraio 1960. 2 l’Adige. Trento, 10 marzo 1959. 3 «Inaugurato in via Brennero il nuovissimo selfservice». l’Adige. Trento, 10 marzo 1959. 4 «Ancora visibili (fino a quando?) le ferite della guerra in città». l’Adige. Trento, 29 gennaio 1963. 5 «Le vetture spaziali e i missili hanno demolito il cavallo a dondolo». l’Adige. Trento, 25 dicembre 1958. 6 l’Adige. Trento, 2 gennaio 1955. 7 l’Adige. Trento, 16 gennaio 1955. 8 l’Adige. Trento, 19 maggio 1955. 9 «‹Mi spiace› ha risposto sempre Tortora. Il segreto è partito con i telecronisti». l’Adige. Trento, 10 giugno 1957. 10 «L’operazione ‹divieti›». l’Adige. Trento, 26 marzo 1959. 11 «Continua l’operazione strisce». l’Adige. Trento, 11 marzo 1959. 12 B.C., «Monica e il desiderio». l’Adige. Trento, 15 settembre 1962. 13 «Per Lolita la condanna non può essere che dura». l’Adige. Trento, 31 agosto 1962. 14 G.P., «Una squallida vicenda il film di Paolo Pasolini». l’Adige. Trento, 1 settembre 1962. 15 Erregi, «La noia». l’Adige. Trento, 19 gennaio 1964. 16 l’Adige. Trento, 6 febbraio 1955. 17 l’Adige. Trento, 2 gennaio 1955. 18 l’Adige. Trento, 20 gennaio 1955. 19 l’Adige. Trento, 8 luglio 1957. 20 l’Adige. Trento, 6 marzo 1955. 21 «Record per ‹Scoppia o raddoppia›». l’Adige. Trento, 19 gennaio 1964. 22 «Folla al Comunale per Mike Bongiorno». l’Adige. Trento, 16 aprile 1957. 23 l’Adige. Trento, 7 maggio 1957. 24 «Velenosa l’amanita per il maestro di Cles. Sempre più arguto il filosofo Marianini». l’Adige. Trento, 13 ottobre 1956. 25 «Cornelio e L’Arcobaleno». l’Adige. Trento, 9 luglio 1958. 31
Pubblicità elettorale della Democrazia cristiana. l’Adige, Trento, 23 giugno 1956 32
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Elena Tonezzer
Regine della casa o prigioniere del condominio? Immagine e realtĂ femminile a Trento
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Fotografia vincitrice del concorso «La donna e la Lambretta» indetto dal «Lambretta club Trento». «Concorso fotografico». l’Adige, Trento, 1 gennaio 1955
Nel 1963 Giovanni XXIII elencò nell’enciclica Pacem in terris i tre fenomeni che caratterizzavano l’epoca moderna: l’ascesa economico-sociale delle classi lavoratrici, la fine del colonialismo e l’ingresso della donna nella vita pubblica. La rivoluzione femminile era cominciata molto tempo prima, con le battaglie per il voto, ma il cambiamento più repentino e radicale della posizione delle donne si ebbe proprio all’indomani della ricostruzione post bellica. Le leggi cominciarono a riconoscere i diritti delle donne, assecondando e talvolta promuovendo un forte cambiamento della mentalità comune. Non è facile ricostruire cosa poteva significare vivere un momento di passaggio così importante e repentino – si consumò in un
ventennio – per cercare di capire cosa poteva significare essere una donna negli anni cinquanta a Trento. A fianco delle statistiche nazionali Istat o del Comune e delle analisi sociologiche, la stampa riesce ad essere la fonte storica che più di altre è in grado di restituire gli umori e la mentalità di un’epoca. Il principale quotidiano trentino di quel periodo, l’Adige, diretto in quegli anni da Flaminio Piccoli, era la diretta emanazione della proposta politica e sociale della Democrazia cristiana, il partito di gran lunga maggioritario. Analizzare i suoi articoli di costume, la cronaca, la pagina femminile, significa immergersi dentro il decennio 1955-1965, leggere le stesse notizie che leggevano i nostri padri e nonni: apprendere con loro dell’invasione
di Praga nel 1956, come si usa il tostapane, l’importanza del servizio da the, il dibattito sul controllo delle nascite e le conseguenze del lavoro femminile. Furono dieci anni che registrarono un cambiamento che si desiderava almeno controllare, convogliare dentro binari che, se non riuscivano a fermare il processo di parificazione femminile ormai innescato, tentavano almeno di guidarlo. Le donne e il dopoguerra: una presenza scomoda Proprio le donne – trentine, italiane e probabilmente di tutto il mondo occidentale – furono le principali portatrici del peso delle modificazioni economiche e culturali del secondo dopo guerra. Sono state loro che dopo 35
aver preso il posto degli uomini mandati a combattere, dovettero trovare una nuova collocazione sociale e culturale al rientro a casa di mariti e genitori. Al secondo congresso della DC trentina, che si tenne il 7 marzo del 1946, la sezione di Arco chiese «a nome dei maestri l’eliminazione con liquidazione delle maestre che non rappresentano un apporto indispensabile a sostegno della famiglia in cui si inseriscono, garantendo loro d’altra parte il diritto al rientro in ruolo in caso che le condizioni mutassero, sostanzialmente in caso di vedovanza». Proposte di questo genere testimoniano un clima culturale che vedeva nella donna lavoratrice fuori casa un problema da rimuovere, da tollerare solo in caso di emergenza qualora non ci fosse un altro reddito (maschile) in famiglia. Tre anni più tardi, nel 1949, al sesto congresso provinciale della DC, si discusse del lavoro femminile negli uffici. Venne presentato un ordine del giorno, poi trasformato in raccomandazione, che auspicava «il graduale licenziamento di tutte le donne sposate dagli uffici statali, regionali e provinciali ed enti in genere, cominciando dall’alto, tenute presenti naturalmente quelle eccezioni in cui la donna sia l’unico sostentamento della famiglia e di promuovere la necessaria valutazione del lavoro domestico che la donna è tenuta a fare, attraverso un congruo salario familiare». La convinzione che il lavoro femminile fosse una sorta di male necessario in caso si mancanza del marito o del padre, e non una possibile via di sviluppo sociale e individuale, rimane costante nel dibattito politico dell’epoca. Le donne vengono viste a lungo come supplenti dell’uomo per il mantenimento della famiglia e non come soggetti che scelgono liberamente la strada del lavoro extradomestico per raggiungere i propri desideri o per partecipare alla pari al bilancio familiare. Al congresso della DC trentina del 36
1952 venne approvato un nuovo ordine del giorno che sollecitava un aumento degli assegni familiari «in modo tale da permettere alla donna che è costretta a lavorare nelle fabbriche e negli uffici e comunque lontano dalla famiglia, di lasciare il posto non appena passata a matrimonio». Le statistiche dell’epoca registrano che la mansione di casalinga era di gran lunga la più diffusa tra le donne trentine. È un dato che però va soppesato e calato in una realtà che negli anni cinquanta era ancora fortemente rurale e in cui la sovrapposizione delle mansioni e delle attività lavorative era molto presente. Se in Trentino è conclamata la figura dell’operaiocontadino, che lavora in fabbrica ma non per questo abbandona la sua campagna, probabilmente era altrettanto diffusa la casalingacontadina, che affiancava alla gestione della famiglia quella dei campi. Si tratta di un’osservazione valida soprattutto a livello provinciale ma anche per il contesto urbano di Trento, dove la diffusione di piccoli orti vicino a casa e la presenza di terreni agricoli rimase molto estesa fino all’espansione dei sobborghi negli anni sessanta e settanta. Nonostante i richiami al ruolo fondamentale della donna nella famiglia, nonostante i tentativi di osannare la figura della casalinga, regina della casa, i dati denunciano comunque la crisi di questo modello e il progressivo aumento dell’occupazione femminile anche fuori dalle pareti domestiche. La crisi della casalinga Il crescente cedimento della casalinga appare inarrestabile se si considera la condizione professionale delle giovani spose di Trento. Il 65% delle 532 ragazze che si sposarono nel 1955 si autodefinivano casalinghe, il 12% operaie e il 19% impiegate. Il rimanente 4% era diviso tra artigiane e ‹altre professioni›. Le neo spose che si dichiaravano addette all’agricoltura erano solo due! Un numero eccessivamente
ridotto, che probabilmente è giustificato dal fatto che occuparsi delle mansioni agricole era considerato naturale, del tutto ovvio e non separabile dalle attività legate alla gestione della casa, intese come stirare, lavare e preparare i pasti. Le artigiane, presumibilmente sarte, erano destinate a scontrarsi di lì a poco con il cambiamento che avrebbe colpito la distribuzione e la produzione industriale di massa dei generi di consumo, primi tra tutti proprio l’abbigliamento. Cinque anni dopo, nel 1960, nelle statistiche comunali erano registrate come casalinghe il 52% delle giovani spose del comune di Trento, tredici punti percentuali in meno rispetto a cinque anni prima, il 27% erano impiegate e il 12% operaie e subalterne. Le nuove famiglie trentine conoscevano dunque sempre più frequentemente la donna che lavorava fuori casa, di solito come dipendente. Il salario medio registrato ufficialmente era molto inferiore a quello dell’uomo adulto e addirittura anche del ragazzo. Soltanto nel 1964 il lavoro ordinario della donna venne pagato nello stesso modo dell’uomo: 1.771 lire mensili. Nel 1957 vennero nominate in regione le prime donne giudice dei ‹minori traviati›. Si tratta di Bruna Faccini, Luciana Maria Ara, Giovanna Molina, Pasqua Carolina Clementi, Cesaria Pancheri, Gabriella Goio, Anna Maria Bortolotti, Federica Exemberger, Maria Immacolata Abram. Il procuratore generale Papa constatò in quell’occasione che la Costituzione italiana aveva sanzionato la parità della donna all’uomo, ma che la completa realizzazione di questa enunciazione programmatica era ancora lontana. Papa attribuì i nuovi passi in quella direzione al ministro Moro, «il più coraggioso dei guardasigilli». La distribuzione professionale delle donne in posizioni subordinate riflette anche la condizione dell’istruzione. Dal censimento nazionale del
l’Adige, Trento, 21 febbraio 1960
l’Adige, Trento, 17 gennaio 1956
1961, che registra il titolo di studio delle donne residenti a Trento, risulta che le laureate erano circa metà dei colleghi maschi (2.973 femmine e 4.794 maschi). A Bolzano la situazione era ancora più asimmetrica con 5.160 laureati contro 2.914 laureate. Il lavoro femminile, pur tra mille difficoltà, era socialmente ammesso soprattutto quando riguardava professioni considerate adatte alle presunte specificità caratteriali delle donne, cioè la cura degli altri, l’educazione, l’organizzazione: infermiera, insegnante, segretaria. A ben vedere, anche un livello professionale molto alto come quello delle giudici nominate nel 1957, riguarda il Tribunale dei minori. Del resto, solo tra il 1962 e il 1963 vennero abrogate le leggi che permettevano il licenziamento
per il matrimonio e le limitazioni all’accesso delle donne a tutti i livelli della magistratura e alla carriera diplomatica. Anche la formazione scolastica auspicata per le donne era distinta da quella maschile e orientata in base al genere. Nell’autunno del 1963 venne aperta a Trento la nuova sede della scuola professionale femminile, presentata da l’Adige come il luogo dove «si tratta in particolare della preparazione della donna a professioni consone alla sua natura e di grande utilità sociali e di autentica preparazione alla famiglia». Durante l’estate si erano aperte le iscrizioni per le scuole dell’Istituto professionale femminile, che prevedeva «la scuola per le attività educativoassistenziali (per la qualifica di istitutrice presso famiglie o
istituti educativi); la scuola per le attività domestico-sociali (per la qualifica di maestra della casa presso istituti, famiglie benestanti, pensioni e aziende alberghiere); la scuola per l’abbigliamento, l’arredamento e l’arte applicata (per la qualifica di sarta o di tessitrice artigiana)1. L’immagine pubblica promossa dalle pagine de l’Adige continuò ad essere, nonostante i cambiamenti reali del mondo del lavoro, molto tradizionale. Venivano costantemente rilanciate figure femminili dedite alla famiglia, che non esitavano a rinunciare al proprio lavoro per i figli e a dimenticare i propri studi per non compromettere l’amor proprio del marito. La pagina femminile ad esempio ospitò per alcuni numeri dei piccoli racconti, simili a parabole,
capaci di sintetizzare in un ritratto domestico uno stile di vita, di proporre come modello donne modeste e ubbidienti verso i doveri familiari. In questi quadretti la giovane moglie è sottoposta al marito e ai suoi familiari. Quando si deve decidere se il piccolo Mauro debba andare alla scuola materna (come vorrebbe il padre) o rimanere a casa (come vorrebbero suocera e cognata), la giovane moglie-madre non prende parte alla discussione e accetta silenziosamente la decisione del marito perché, come recita il sottotitolo del racconto, «l’asilo permette ai bimbi di imparare l’alfabeto della vita sociale»2. Sandra Frizzera propone alle lettrici de l’Adige numerosi ‹profili di donne› – questo il titolo della rubrica – che offrono altrettanti esempi e modelli 37
Stand pubblicitario viaggiante, parcheggiato in piazza Cesare Battisti a Trento, 1957. Collezione Famiglia Tonini
comportamentali. Il 7 ottobre del 1962 nel Il dono della modestia, si fa la conoscenza di Simona, portata dal neo sposo nella casa dove abiterà. Lei non ci è mai entrata prima e conosce in quel momento anche la suocera, che vivrà con loro: «Simona si trovò emozionata dentro quella casa che ora era la sua, piano piano ne prese possesso, con discrezione, con gentilezza, perché tutto potesse andare per il meglio. La suocera era l’ostetrica del paese e perché potesse svolgere bene il suo lavoro, Simona si adattò a sbrigare da sola tutte le faccende... anche le più umili... talvolta la suocera la vedeva incerta, talvolta il lavoro non era svolto bene e allora la redarguiva, ma Simona non si ribellava, cercava solo di migliorare: lei amava veramente Guido e per lui era pronta a tutte le 38
rinunce, a tutti i sacrifici». Guido sta studiando per laurearsi, lei lo supporta ma senza eccedere sebbene – sorpresa! – lei sia già laureata in medicina: «egli lo ignorava, e per non mortificarlo, perché il loro amore non ne dovesse soffrire, teneva nascosto il suo grande segreto che avrebbe rivelato unicamente il giorno che anche lui avesse raggiunto il sospirato traguardo»3. A dispetto della subalternità a cui queste parabole sembrano confinarla, negli anni cinquanta e, in maniera più vacillante, anche nel decennio successivo, la donna è sempre più la protagonista della frizione tra tradizione e modernità e dunque è a lei che si affida il compito fondamentale di garantire la tenuta della società.
Imparare a vivere in città L’immigrazione dalle vallate alla città di Trento, con il conseguente aumento della popolazione urbana, provocò un radicale cambiamento economico con il ridimensionamento dell’importanza dell’agricoltura rispetto all’industria e al terziario. Questo comportò significative conseguenze sulle abitudini quotidiane della vita delle persone, che dovettero imparare a vivere in città. Abitare in un condominio, fare la spesa nei nuovi supermercati, prendere dimestichezza con i locali pubblici come bar e cinema, comportò modificazioni importanti nel modo di vivere. In Italia, e in Trentino in particolare, non è possibile parlare come per gli Stati Uniti di una società che faceva del benessere e del consumo una caratteristica identitaria,
sebbene miglioramenti significativi di benessere ci fossero anche livello locale, con maggiore incidenza a Trento rispetto alle valli. Nel 1955 una rubrica de l’Adige scriveva che la maggior parte delle famiglie erano dotate di un solo spazzolino da denti comune e che era consigliabile invece che tutti avessero il proprio4; oppure che «quella del gelato, delle bevande ghiacciate, è diventata una vera mania, una delle tante che sembrano ormai indispensabili ai progrediti, i quali non si accorgono delle migliaia e migliaia di persone cui bevande simili e sorbetti non capita a portata di mano che nel giorno di sagra»5. Anche i consigli domestici risentono a lungo di quell’etica del riutilizzo tipica della mentalità contadina e sono il sintomo dell’abitudine al risparmio ancora lontana da quella cultura
«Le prime donne della regione tra i giudici dei minori traviati». l’Adige, Trento, 20 giugno 1957
consumistica dell’usa e getta, che si stava per diffondere. La rubrica «Angolo donna» consiglia ad esempio: «quando la spugna è in cattive condizioni non buttarla ma lavala in acqua ossigenata e poi in acqua fresca», oppure «i gusci delle uova messi in un sacchetto di tela e immersi nell’acqua del bucato rendono la biancheria candida»6. Tutte le informazioni riguardo il decoro che doveva caratterizzare la nuova vita in città erano rivolte alle donne. Le rubriche parlavano a loro, informandole delle caratteristiche delle abitazioni moderne che anche loro dovevano possedere (o per lo meno desiderare). Nel 1960 solo il 26% delle abitazioni italiane era dotato di bagno in casa; probabilmente la situazione a Trento non era molto dissimile, anche se secondo l’Adige una soluzione si sarebbe
potuta trovare ‹facilmente›: «oggi si può realizzare una specie di bagno in qualsiasi appartamento, con poca spesa, ricorrendo alle vasche di plastica. È vero che occorre comunque un vano adatto al bagno, ma lo si può ottenere ‹provvisoriamente› volendo. Basta stendere sul pavimento normale una tela impermeabile; collocare la vasca di plastica in angolo e ripararla con un paravento foderato di tessuto impermeabile. In poche ore anche dieci figli arrivano a fare a turno il loro bravo bagno di fine settimana. Costerà un po’ di fatica preparare tanta acqua e cambiarla. Ma per una brava massaia, una brava donna, questa fatica trova ampio compenso nel benessere che sprizzerà sul volto dei suoi familiari»7. Nella famiglia sembra che tutto dipenda dalla moglie/madre,
che in modo invisibile, gratuito e senza mostrare fatica diffonde buoni sentimenti e pace. Come risolvere il problema della piega dei pantaloni del marito? «Nella speranza che nessun marito legga questo pezzo, suggeriamo alle nostre lettrici il sistema del ‹materasso›»8. Come fa una famiglia a trovare la tranquillità? «Molte volte una personcina in ordine ed un visetto curato servono a rendere più distesa e tranquilla l’atmosfera di un ufficio o di una casa dove mille preoccupazioni rendono tutti nervosi»9. Cosa deve accadere perché duri l’amore in un matrimonio? «Siate sempre graziose: soprattutto in casa quando vi dedicate ai lavori domestici. Nulla infatti è più scoraggiante per un marito che il ritrovare la propria moglie, lasciata 39
magari al bar tutta elegante e ben truccata, spettinata, con due ciabattone ai piedi, ed un vestito tutto rattoppo, intenta a rassettare il cosiddetto ‘nido’. Badate di avere sempre uno o due vestitini puliti e modesti, di taglio sportivo e di non eccessivo prezzo, da poter indossare a casa. E soprattutto, ogni padrona di casa, provveda perché nel suo guardaroba figurino sempre tanti piccoli grembiulini. Pensate che qualche volta il grembiule può essere il particolare che aiuta a salvare o perdere l’amore di un marito»10. Dipinta dalla comunicazione pubblicitaria come la regina della casa, spesso la donna sembra soprattutto confinata in appartamenti dove coltiva il nuovo gusto dell’intimità domestica e del decoro. Gli elettrodomestici liberano le donne? La diffusione degli elettrodomestici diventa presto uno degli indicatori dello status di una famiglia e incide soprattutto sulla vita delle donne. La lavatrice in particolare interrompe la secolare fatica del lavaggio alla fontana o affidato alle ‹lavandare› a pagamento. A Trento le rogge di piazza Venezia avevano ospitato centinaia di donne che si erano avvicendate in un lavoro lungo, faticoso e pubblico. La lavatrice cambiò per sempre questa realtà e le abitudine che vi erano correlate, come la ciclicità del lavaggio primaverile, la condivisione delle chiacchiere e dei pettegolezzi, l’assenza di privacy rispetto al proprio sporco e alla propria biancheria di casa. Diversamente da quanto si potrebbe credere, almeno inizialmente la diffusione degli elettrodomestici non portò ad un aumento del tempo libero delle donne casalinghe. La lavatrice non liberò le mogli-madri dalla casa forse a causa dell’abitudine a gestire il tempo dedicato alla cura della casa in un certo modo, forse per la sanzione sociale che poteva colpire le donne che trovavano passatempi fuori dall’abitazione 40
o si dedicavano al lavoro extradomestico. Paradossalmente la disponibilità di moderni strumenti di pulizia, di detersivi più potenti, spingeva alla ricerca di risultati sempre migliori che occupavano le energie femminili in modo diverso ma non minore di prima. Una ricerca dell’Università del Michigan del 1973, che ha analizzato come veniva impiegato il tempo da una casalinga a tempo pieno, concludeva che la meccanizzazione del lavoro domestico aveva indotto, attraverso forme di nevrosi di perfezionamento e ossessioni igienistiche, ad aumentare il tempo dedicato a occupazioni sempre più ricercate, verso «quel bianco che più bianco non si può». La lavatrice avrebbe potuto favorire una progressiva parità tra il genere maschile e quello femminile, ma l’enfasi posta dalla comunicazione commerciale sul legame donnaelettrodomestico, unita alla spinta delle istituzioni che continuavano a sostenere il primato femminile nella cura della prole e dell’abitazione, contribuirono a perpetuare la separazione delle attività del marito da quelle domestiche della moglie. È ormai una rivoluzione Come una diga che si costruisce sempre più alta di fronte al crescere della marea, le cronache e le rubriche femminili de l’Adige registrano i mutamenti della mentalità femminile con articoli sempre più censori. A partire dal 1960 cominciarono ad affacciarsi i problemi dell’educazione da impartire ai figli. Una società che stentava a riconoscere un ruolo attivo e autonomo alle donne, affida proprio a loro la responsabilità di essere informate su quali siano i comportamenti da tenere fin nella sfera più intima, quella sessuale. È alle mamme che viene insegnato cosa rispondere se i figli chiedono da dove vengono i bambini, è sulle madri che non allattano che si abbattono gli strali della condanna: «purtroppo oggi
questa legge sacra stabilita dalla natura e per la quale ogni madre ha il dovere di allattare il proprio bambino è con troppa facilità trascurata e l’infrazione è fonte di conseguenze importantissime e di danni gravi dal lato sanitario, dal lato sociale e dal lato morale»11. Dalla lettura de l’Adige risulta una situazione schizofrenica dove, se si escludono pochi nomi ricorrenti sul piano pubblico e istituzionale, le donne sono invisibili, quasi inesistenti, mentre invece sono le destinatarie di uno stillicidio di insegnamenti, precetti morali, che vorrebbero condizionarne la sfera sociale, familiare e il controllo del corpo. Il 6 ottobre 1963 può capitare di leggere nella stessa pagina due rubriche affiancate in cui si insegna come offrire il tè («Il tè si serve di solito sopra un carrello. Sul primo piano si appoggia la teiera, al centro; accanto, sul lato destro il passino e il bricco per l’acqua calda per allungare il tè se fosse troppo scuro, dietro la lattiera il piattino per le fette di limone con la forchettina e la zuccheriera...») e a lato si illustra il pensiero della Chiesa sul controllo delle nascite. Il tema dei metodi anticoncezionali, parola alla quale la stampa preferisce ‹regolazione› o ‹matrimonio pianificato›, ha una crescente visibilità nelle rubriche femminili, segno che nella società si stava diffondendo il desiderio di contenere il numero dei figli, come documentano anche i dati statistici sulla contrazione delle nascite: «Essendo intrinsecamente cattivi, i metodi anticoncezionali non possono essere permessi mai, per nessuna ragione: il fine non giustifica i mezzi. La legge naturale vieta di fare qualsiasi cosa contro la procreazione; e di questo negativo non ci può esser causa scusante», «esclusi pertanto i metodi anticoncezionali, a ciò si può giungere (con le debite riserve e eccezioni) mediante la continenza periodica»12. Tutta la morale tradizionale verso la metà degli anni sessanta comincia ad essere messa duramente alla prova. Se fino
Foto ricordo delle partecipanti al corso di economia domestica e cucina organizzato dall’ONAIRC nella sede del Torrione. «Chiusi i corsi dell’ONAIRC». l’Adige, Trento, 13 aprile 1962
«Il lavoro extrafamiliare e la libertà della donna». l’Adige, Trento, 25 aprile 1963
a pochi anni prima bastavano consigli come «non alzarti la gonna o il paltò quando ti siedi», nel 1964 era necessario sanzionare l’inimmaginabile: il topless. Il 6 febbraio 1964 l’Adige pubblicò un’indagine statistica dedicata al rapporto tra le donne trentine e il lavoro extradomestico, dove si scopre che «La maggioranza delle giovani vorrebbe lavorare fuori casa; oltre il 90% di quante desiderano un impiego extradomestico sarebbero inoltre disposte anche a spostarsi per circa due ore al giorno di tragitto in corriera». Quello che è sottolineato maggiormente nella cronaca è che non solo le ragazze desideravano trovare un’occupazione fuori dalle mura domestiche, ma che «una minima parte delle giovani trentine ritiene possibile un giudizio negativo della gente del
proprio paese sulle ragazze che vanno al lavoro. L’ambiente in conclusione, sia dal punto di vista della propensione individuale, da quello di una mentalità generale, è più che maturo per una crescente presenza della donna nel mondo del lavoro». Il giudizio del giornale sembra essere di cautela se non di preoccupazione: «I problemi di costume, di mentalità, i riflessi sulla vita familiare posti dal lavoro femminile, per ora presenti da noi solo in misura limitata e circoscritti ai centri maggiori, non tarderanno insomma a presentarsi ovunque». Il ritratto artificiale della donna regina di una casa dove avrebbe dovuto rimanere a badare a figli, marito e familiari, non basta più a soddisfare le trentine: l’inchiesta dimostra che a metà degli anni
sessanta l’uscita dal condominio è ormai inarrestabile. Al festival di Sanremo del 1964, Gigliola Cinquetti incantò il pubblico con una canzone, Non ho l’età per amarti, che suonava come l’inno dei valori femminili tradizionali – pudicizia, castità, modestia – che animavano anche le rubriche femminili de l’Adige. Quella parte del Paese ancora lontana dalla modernità e dal benessere riversò sulla giovane cantante migliaia di lettere dalle quali emergono i desideri di un universo semplice e ingenuo, rurale e spesso ancora poverissimo, che temeva i cambiamenti culturali legati all’urbanizzazione. Anche le ragazze trentine scrissero a Gigliola, paladina di un mondo ancora radicato ma vacillante.
1 «La scuola professionale femminile». l’Adige. Trento, 22 agosto 1963. 2 «Mauro frequenta la scuola materna». l’Adige. Trento, 26 gennaio 1964. 3 Sandra Frizzera, «Il dono della modestia». l’Adige. Trento, 7 ottobre 1962. 4 «Pulizia dei piccoli accessori». l’Adige. Trento, 2 febbraio 1955. 5 «Mondo femminile». l’Adige. Trento, 26 giugno 1957. 6 «Angolo donna». l’Adige. Trento, 12 agosto 1962. 7 «Mondo femminile». l’Adige. Trento, 5 dicembre 1956. 8 «La buona massaia fa così davanti al bucato da stirare». l’Adige. Trento, 26 gennaio 1955. 9 «Bellezza». l’Adige. Trento, 15 ottobre 1961. 10 «Angolo della donna». l’Adige. Trento, 14 gennaio 1962. 11 «L’allattamento naturale nella vita del bambino». l’Adige. Trento, 13 ottobre 1963. 12 «La regolazione delle nascite secondo il parere del medico». l’Adige. Trento, 29 settembre 1963.
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Giovanni Agostini
Tra slanci e diffidenze
Cultura e culture nella Trento del boom
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Trento, piazza Duomo, primi anni sessanta. Fondazione Museo storico del Trentino, Archivio cinema e storia
Una cosa sono le corde, un’altra è la cassa armonica. E quale che sia lo strumento, il numero delle corde non è così importante perché anche sole due o tre, se una qualche cassa ne aumenta l’intensità, possono entrare in risonanza e suonar bene. Lo stato della cultura a Trento nel decennio 1955-1965 ci pare si rispecchi in questa metafora. La conta degli enti culturali nel capoluogo trentino non rimanda infatti a numeri importanti, eppure questi – le nostre corde – ci sono e saranno preziosi quando la città saprà farsi acustica, amplificandone le vibrazioni e vibrando a sua volta. Ma andiamo con ordine.
Trento: il sud del nord Nel 1953 lo scrittore Guido Piovene, che si trovava a passeggiare per Trento, venne colpito dalla modestia della città e da «le vecchiette in abito nero». Questa sua impressione non era un abbaglio, il suo appunto non è il giudizio affrettato di un nobile supponente abituato alla vivacità di Milano e delle capitali europee. Trento, nel secondo dopoguerra, è una città grigia: nelle tinte delle facciate dei palazzi, nell’acciottolato di piazza Duomo e forse anche un poco negli animi di chi vi abitava e affrontava la vita avendo nella (in)sicurezza del pasto la prima fonte di preoccupazione. Che la cultura non fosse un’istanza di rilevo per una comunità angustiata da più gravi faccende certo non stupisce. Ma non erano solo le
diverse urgenze di vita materiale a rendere blanda la proposta e la partecipazione culturale cittadina. Nei primi dieci anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, infatti, la Chiesa e i partiti politici assorbivano gran parte delle energie intellettuali disponibili. La città presentava dunque uno scenario caratterizzato da una partecipazione di tipo sub-culturale, dove l’adesione alla vita e al mondo della cultura era un secondo o un terzo passo da compiere, qualora in grado, dopo quelli di credo e appartenenza politica. L’individuo s’affacciava dunque alla vita sociale e culturale forte (o debole) del suo essere già un laico liberale, un laico socialista, un laico comunista o, nella stragrande maggioranza dei casi, un buon cristiano e un buon democristiano. «Il vizio» non si 45
esauriva poi solo in una cultura politicizzata e nelle modalità con le quali questa veniva ammannita alla cittadinanza, esisteva effettivamente anche una scarsa attitudine da parte dei diversi uditori nel pretendere qualcosa di diverso. Un articolo del quotidiano l’Adige dell’aprile 1956, ragionando sulla cultura di Trento, proponeva questa analisi: «Riesaminiamola in sintesi: la troveremo divisa in due correnti: quella confessionale e quella liberaleggiante, ma la distinzione evidentemente non ha molta importanza per il pubblico per la maggior parte privo di una salda coscienza critica, che indifferentemente partecipa alle manifestazioni senza valutarne la effettiva validità»1. Laici, cattolici e non allineati In questa situazione esistevano, però, come annunciato, alcune realtà capaci un poco di vibrare, anche se in modo slegato le une dalle altre. La più importante, naturalmente, quella di stampo cattolico. La secolarizzazione difficoltosa, l’indubbia occupazione democristiana del potere (politico, amministrativo e sociale) e una prima metà del secolo spesa a rincorrere istanze retrive e tradizionaliste, erano tutte componenti che marcavano ancora la partecipazione alla vita dei fedeli (e degli iscritti) nella Trento degli anni cinquanta. Il mondo cattolico trentino conosceva infatti ampie aree animate da uno spirito genericamente difensivo, quando non prettamente «clericale» o antimoderno. D’intenti culturalmente conservatori erano, ad esempio, i quadri dell’Azione cattolica cittadina che nel 1958 inviavano a monsignor Carlo de Ferrari, allora Arcivescovo di Trento, una lettera che lamentava l’eccessiva autonomia culturale di mons. Giulio Delugan, direttore del settimanale diocesano Vita Trentina, colpevole secondo loro d’essersi «sempre rifiutat[o] di mettere in luce adeguata 46
le benemerenze del Partito e dei suoi uomini». O, sulla stessa lunghezza d’onda, la personalità colta di don Franco Demarchi, primo firmatario di quella lettera, nonché direttore e fondatore, nel 1957, della Scuola di preparazione sociale: centro culturale e d’istruzione non certo apertissimo che nel primo anno d’attività contava centodieci alunni provenienti da tutto il Trentino. Più aperte, e culturalmente rilevanti, erano invece la Federazione universitaria cattolica italiana (FUCI) – prima ancora AUCT, Associazione universitaria cattolica trentina – e le Associazioni cristiane lavoratori italiani (ACLI) che riprendevano una più chiara distinzione tra il piano teologico e quello politico. Se le associazioni d’ispirazione cattolica, indipendentemente dalla loro apertura o reazionarietà, dovevano comunque confrontarsi con la «montagna bianca» che le circondava, i centri culturali laici soffrivano la stessa mancanza d’autonomia e vivevano il costante rischio d’essere ricondotti nell’alveo dei partiti politici tradizionali. La Pro cultura di Trento era un’associazione culturale di stampo laico e socialisteggiante fondata a Trento nel 1909. La sua area d’azione era marcatamente urbana e le sue iniziative ondeggiavano tra l’approfondimento politico, l’educazione civica e la testimonianza culturale. Gli incontri che organizzavano vedevano coinvolte personalità di primo piano del mondo culturale nazionale ma, alternavano riunioni o dibattiti d’interesse locale, quando non di vita «spiccia». Così, le pubbliche letture di Thomas Eliot e le rappresentazioni di Bernard Shaw erano intervallate da dibattiti sui «compiti scolastici a casa» o sulla «pericolosità delle corse automobilistiche su strada»; e la provenienza dei relatori alternava il palcoscenico nazionale di Ferruccio Parri o Folco Quilici alla realtà locale di personaggi come Bruno Betta, preside dell’Istituto magistrale di Trento, o
come l’avvocato Bruno Ballardini. Resistevano comunque anche circoli e iniziative non propriamente organiche al mondo genericamente politico o prettamente partitico. Il Circolo culturale fratelli Bronzetti, ad esempio, che organizzava i propri eventi nella centralissima via Belenzani, era diventato per alcuni il punto di riferimento «del martedì». Le loro iniziative spaziavano dalle discussioni editoriali con Valentino Bompiani, alle futuribili indagini innescate dalle conquiste dell’«automazione in America», dalle mostre d’arte locale alle roboanti feste per carnevale con tanto di «cenone francese», «trattenimento danzante» e champagne, il tutto per «sole 1.600 lirette». Un altro evento culturale, che nasceva e cresceva in quegli anni, annoverabile «tra i non allineati», era il Trento Film Festival. La prima edizione del Concorso Internazionale della Cinematografia Alpina risale infatti al 1952. Nato grazie all’intuizione del roveretano Amedeo Costa, il Festival s’era da subito proposto come un evento culturale d’ampio respiro. La prima edizione poteva contare partecipanti provenienti da sette nazioni con la proiezione di 39 film. Grazie anche a questo avvio incoraggiante, nel 1955 il Festival era diventato ancor più «cittadino» con la dismissione dell’allora periferico Cinema Astra di corso Buonarroti e l’accasamento nel più nobile e centrale Teatro Sociale. L’amministrazione comunale e il sindaco Nilo Piccoli avevano sposato ufficialmente l’iniziativa, che tuttavia faticò un poco a permeare in modo profondo il tessuto sociale di una comunità che vedeva ancora per lo più nella montagna il richiamo ad una storia e una vita di fatiche dalle quali affrancarsi, e non una chance di svago per il tempo libero. Qualche difficoltà fu incontrata anche da Montagnalibri, un evento correlato al Festival che oggi rappresenta la più grande rassegna mondiale di libri di montagna ma
Franco Bertoldi. «La città vive». L’Adige. Trento, 8 luglio 1955.
che, organizzata la prima volta nel 1956 con intenti ambiziosi (presenti novantanove case editrici da undici nazioni), fu abbandonata e chiusa dopo pochi anni per riaprire in battenti solo verso la fine degli anni ottanta. L’atteggiamento e le attitudini della città riguardo al Festival, il cipiglio della proposta culturale locale di quegli anni, o più in generale questa situazione di guado, di bilico tra slancio e diffidenza, ci sembrano involontariamente sintetizzate in modo efficace dalla didascalia ad una fotografia che correda un articolo de l’Adige datato 8 luglio 1955. L’immagine mostra un parco alberato con due panchine: una è vuota, l’altra ospita un uomo che legge. Il commento recita: «Un angolo della nostra città più vicino di ogni altro al nostro quieto mondo alpino»2. Ecco Trento: vista come
l’avamposto urbanizzato di una realtà il cui segno preponderante era comunque il carattere montano e alpino, tratti questi che s’insinuavano fino agli angoli della città e che della loro quiete informavano il piccolo ambiente metropolitano che circondavano. Una città quieta, una città austera, una città silente. Un luogo dove alcune realtà culturali sopravvivevano, operando però in modo disgiunto, ognuna per suo conto, senza intese, con diffidenza e, alle volte, con qualche disprezzo reciproco. Gli anni cinquanta però, a dispetto del livello di politicizzazione alle volte ipostatizzante, furono anni d’incubazione; perché le poche corde che suonavano e di cui s’è detto, stavano per incontrare la «grande trasformazione» degli anni sessanta.
Boom! È sempre difficile, valutando lo sviluppo di una città e ripercorrendone la storia, fissare una data e tracciare una linea che divida un «prima» e un «dopo». Possiamo però identificare alcuni eventi importanti e utilizzare questi come spartiacque, come momenti chiave. Il Concilio Vaticano II da una parte, e la nascita dell’Istituto Trentino di Cultura e dell’università di Trento dall’altra, sono motori del boom. Due cambiamenti che, direttamente o indirettamente, segneranno profondamente la città e i suoi abitanti, due avvenimenti che curiosamente hanno origine entrambi nel 1962, due fenomeni che, entrando in risonanza con i movimenti culturali che già esistevano, trasformeranno la città rendendola in breve tempo più 47
Locandina del «Festival Internazionale film della montagna e dell’esplorazione», 1960. Renato Fronza
simile a quella che vediamo oggi, piuttosto che a quella di dieci anni prima. L’idea d’aprire un’università a Trento era presente nel dibattito culturale già da molti anni. Sulla questione si erano scontrati agli inizi del secolo anche Cesare Battisti e Alcide De Gasperi. L’illustre socialista, contrario ad istituirla a Trento, sosteneva che la condizione essenziale per far nascere una nuova università fosse la preesistenza di un humus culturale. Perché una città o una zona culturalmente depressa, povera di iniziative, di musei, di biblioteche, di istituzioni culturali, non era in grado di offrire quell’atmosfera spirituale e morale di cui si doveva nutrire un’università. Questa tesi, in buona sostanza, era incentrata sul fatto che fosse l’ambiente 48
a far germinare l’università. Va da sé che, seguendo questa linea e tenendo presente quanto detto riguardo ai pochi centri culturali attivi in città, la Trento di fine anni cinquanta e inizio sessanta risultava un luogo non proprio adatto a fondare una tale istituzione. In effetti quando Bruno Kessler, fresco presidente della Provincia di Trento, aveva annunciato di voler fondare una facoltà di Sociologia a Trento, il dibattito s’era subito incentrato sul livello culturale della città. Kessler, ad esempio, aveva sostenuto da subito che un’università potesse sorgere anche dove non vi fossero tradizioni culturali conclamate, e che anzi potesse – o dovesse – essere essa stessa l’humus culturale del contesto cittadino. A lui aveva risposto polemicamente Livia Battisti, laica
e socialista, riproponendo le tesi del padre e schierandosi contro la: «proposta della creazione di una facoltà unica, in un piccolo centro dominato da un partito confessionale»3. Le due analisi, pur conducendo ad opposte conclusioni, trovavano però nell’idea che Trento fosse una città culturalmente povera un chiaro punto di sintonia. Sintonia sulla quale convergeva un altro laico illustre, l’avvocato comunista Sandro Canestrini: «nel Trentino povero di aule scolastiche, povero di biblioteche,[…] povero di attrezzature didattiche, si preferisce spendere centinaia e centinaia di milioni per calare dal cielo dall’oggi al domani, una Università cosiddetta di scienze sociali, senza rendersi conto che i centri universitari non nascono per decreto o per legge, ma vivono
Invito alla festa di carnevale del 1961. Fondazione Museo storico del Trentino, Archivio pro cultura, busta 4, fascicolo 4 bis
e si sviluppano in un ‹humus› ricco di tradizioni culturali, di ricerca scientifica, di attrezzatura bibliotecaria, di dovizia di musei, pinacoteche ecc.»4. A dispetto delle titubanze, peraltro poche, l’amministrazione provinciale era andata avanti secondo il progetto del suo presidente. Aveva fondato l’Istituto trentino di cultura e, come sua prima emanazione, l’Università di Trento. Questo era avvenuto col plauso della città e del suo sindaco, Nilo Piccoli, che aveva definito l’operazione «una sagace apertura alle esigenze dei nuovi tempi»5. Il mondo politico ed economico cittadino non si era comunque limitato a generici incoraggiamenti; osservando la lista dei soci fondatori dell’Istituto s’incontravano infatti, oltre alla Provincia autonoma di Trento,
altri enti urbani importanti come il Comune di Trento, la Camera di commercio di Trento e la Cassa di risparmio di Trento e Rovereto. I benefici culturali dell’operazione non s’erano fatti attendere. L’università aveva portato studenti (al primo anno accademico gli iscritti erano duecentoventisei, di cui centotrentasei provenienti dalla provincia di Trento, venticinque residenti nel bolzanino e sessantacinque arrivati dalle altre regioni d’Italia) e gli studenti avevano portato vivacità o, come all’epoca qualcuno ebbe modo di dire, colore: «del colore in una città che conosceva solo quello della tonaca di cardinale». Del cambiamento generale s’era accorta rapidamente anche la stampa. Franco Bertoldi, negli anni cinquanta autore di una lunga inchiesta sulla città per il
quotidiano l’Adige, nell’aprile 1964 osservava: «Nel 1952 (dodici anni fa, un lungo tempo nella vita di un uomo, un giro di sole nella vita di un gruppo sociale) salivo per un’inchiesta sociale nelle valli del Trentino, su una vecchia corriera. Gente poca, discorsi magri; ed ancora un sentore di paese che sapeva di poche patate e qualche goccia d’olio. Allora il miracolo economico non mi aveva concesso una automobile. L’altro giorno, rimettendo il piede su una altra corriera, trovo la gente fitta, molti intenti ai giornali […]. Non si dice più L’è crodà giò dai ponti; si dice: Ha avuto un infortunio sul lavoro. Non si dice più: Gh’è vegnù en colp; si dice: Ha avuto un infarto. […] il vocabolario della nostra civiltà ha risalito le valli»6.
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Pubblico di una conferenza della Pro cultura, 20 maggio 1956. Fondazione Museo storico del Trentino, Archivio Pro cultura, busta 3, fascicolo 1 bis
Invito della Pro cultura alla conferenza di Folco Quililci. Fondazione Museo storico del Trentino, Archivio pro cultura, busta 3, fascicolo 1 bis
Le carte sparigliate Proprio in questa chiosa finale crediamo sia visibile la trasformazione culturale e l’inversione che stava avvenendo e che in parte era già avvenuta. La didascalia alla fotografia della quale in precedenza s’è detto, e che corredava proprio un articolo di Bertoldi, proponeva una Trento «accerchiata» dalla quiete delle montagne, vicina ad esse e pervasa dal loro calmo spirito alpino. Ora il flusso s’era invertito ed era invece la città, «la nostra civiltà», che risaliva le valli. Era il vibrare armonico dei centri culturali cittadini, vecchi e nuovi, che contaminavano anche le vite e le valli periferiche. Tutto questo aveva portato ad «una trasformazione sociale, dunque prima che economica; e [a] un cambiamento di costume, la mente 50
stessa della nostra gente impara a pensare in modo diverso»7. Con la nascita dell’università e successivamente degli istituti di ricerca originati dall’ITC, la città aveva ampliato l’esposizione del suo tessuto culturale. Gli spazi di discussione non erano più così nettamente definiti come in passato e non comprendevano più le sole stanze delle associazioni culturali e le pagine delle loro poche riviste. Ora quei luoghi erano anche le piazze, i bar, le sedi degli istituti e della facoltà. La cultura era così uscita dagli ambienti a lei strettamente preposti e s’era intrecciata con la città e con l’umanità che l’abitava. Lo «statuto» esplicitamente aconfessionale di questi nuovi enti culturali potrebbe far pensare ad una loro efficacia particolare nell’arricchire le culture «laiche»
già esistenti: sia alimentando il loro dibattito intellettuale interno che ampliandone i bacini elettorali e di consenso grazie all’arrivo di giovani studenti da fuori regione. Questo possibile sbilanciamento fu tuttavia mitigato dal Concilio Vaticano II, che seppe far crescere di pari passo anche quelle culture che facevano riferimento ad istituti cattolici e confessionali e permise l’intreccio di questi con la nuova cultura cittadina. Il Vaticano II grazie al suo portato meno dogmatico e più aperto ai segni dei tempi, aveva permesso di sparigliare le carte, rompendo la rigida divisione tra cultura cristiana e cultura laica. Certo, l’ondata riformatrice non era partita da zero, visto che Trento alla vigilia del Concilio poteva contare alcune – poche – corde progressiste che
vibravano già. Fino ad allora la città era però rimasta incastrata in una situazione religiosamente complessa, nella quale convivevano retaggi del passato e spirito di progresso, fede cieca nel catechismo del «ricordati di temere Dio» e rinnovamento teologico, messa in latino e voglia di chitarre in chiesa. Il Concilio Vaticano II e i movimenti culturali da esso coinvolti come il settimanale Vita Trentina, il Centro Bernardo Clesio o la nascente rivista Dopoconcilio, avevano permesso il superamento di questo arroccamento, rendendo meno prepotente la condizione di clericalizzazione della cultura cattolica sopravvissuta lungo tutti gli anni cinquanta. La cultura cittadina era cambiata, il boom economico era cominciato,
Invito ad una mostra d’arte del Circolo f.lli Bronzetti. Fondazione Museo storico del Trentino, Archivio pro cultura, busta 4, fascicolo 4
Invito ad una conferenza con Renato famea al Circolo f.lli Bronzetti. Fondazione Museo storico del Trentino, Archivio pro cultura, busta 4, fascicolo 4
e gli abitanti di Trento stavano conoscendo una stagione nuova. Certo, agli inizi e da conquistare, perché Lolita era sempre «una pellicola dannosa e inutile […] comunque inaccettabile e ingiustificata per la sua scoperta e compiacente immoralità»8, l’ironica commedia sulla vita di una prostituta Irma la dolce meritava «l’esclusione per i minori degli anni 18 […] a causa della sua ambientazione che è quella che è»9, e La noia era pur sempre «una serie quasi ininterrotta di incontri sessuali […] peccaminosi […] e nauseosi»10. Però questi film erano in programma e per entrare in sala bastava il biglietto. Lo slancio dell’Università e del Concilio Vaticano II avevano in sostanza permesso alle diverse realtà culturali cittadine di aprirsi e arricchirsi l’una con le altre,
smussando l’imperscrutabilità dei credo politici (o di fede) diversi dal proprio, e lasciando alle persone la libertà di sentirsi e proclamarsi tanto «catto-comunisti» quanto «cristiani per il socialismo». Una cosa sono le corde, un’altra è la cassa armonica. Ed anche se lo strumento è una piccola città di provincia, il numero delle corde non è così importante perché anche solo due o tre, se una qualche cassa ne aumenta l’intensità, possono entrare in risonanza e suonar bene. Lo stato della cultura a Trento negli anni sessanta e settanta sarà tale da aprire le quinte della città a spettatori nazionali ed internazionali. E il capoluogo trentino, nonostante non prevedesse ancora i numeri di
riviste, musei, facoltà, teatri e cinema delle città culturali di primo piano, nel superamento della divisione netta tra le sue culture aveva trovato quella cassa armonica in grado di far entrare in risonanza le sue corde e di farsi sentire lontano. 1 «La cultura al periscopio». Alto Adige, Corriere delle Alpi, Bolzano, 15 aprile 1956. 2 Franco Bertoldi, «la città vive nelle strade». l’Adige. Trento, 8 luglio 1955. Fotografia di Giorgio Rossi. 3 Livia Battisti, «Scadrà il livello culturale». Alto Adige, Corriere delle Alpi. Bolzano, 28 ottobre 1962. 4 Sandro Canestrini, «È un ‹affare› politico». Alto Adige, Corriere delle Alpi. Bolzano 7 novembre 1962. 5 «Come vede lei l’Università a Trento». l’Adige. Trento, 20 febbraio 1962. 6 Franco Bertoldi, «Siamo già quelli di domani». l’Adige. Trento, 19 aprile 1964. 7 Ibidem. 8 «Per Lolita la condanna non può essere che dura». l’Adige. Trento, 31 agosto 1962. 9 Erregi, «Irma la dolce». l’Adige. Trento, 31 dicembre 1963. 10 Erregi, «La noia». l’Adige. Trento, 19 gennaio 1964.
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L’Adige, Trento, 23 luglio 1961 52
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Massimo Martignoni
Casa dolce casa
Avvertenza In questo breve saggio si è scelto di non parlare dell’architettura e della casa negli anni del boom economico a Trento analizzando una serie di dati oggettivi, ma di utilizzare tali dati come base documentaria per una narrazione di fantasia. La scommessa era che fosse possibile creare da sé, in vitro, le creaturine da sezionare e poi catalogare. Tale escamotage consente al lettore di entrare più a fondo nel gioco, in quanto non è costretto a subire passivamente le informazioni fornite dall’autore, ma può rivalersi su di lui mettendo in luce suoi eventuali errori o imprecisioni (rischio cercato e accettato). Attraverso la sceneggiatura di tre ritratti-tipo l’intento è stato dunque quello di presentare alcuni tic o ricorrenze comportamentali del periodo 54
1955-1965. Per fare ciò si è attinto (a memoria) tra gli appunti accumulati in questi anni da chi scrive in ripetute indagini tra le pagine di riviste e libri d’epoca o tra i faldoni di archivi pubblici e privati (con una particolare predilezione per tutto quello che concerne la visione della casa «al femminile», Gio Ponti docet). In parte tali ricerche sono servite per redigere articoli specialistici, in parte sono confluite a supporto dei corsi di storia del design e di «history of domestic landscape» tenuti sempre da chi scrive presso la Naba di Milano. I tre profili sociologici descritti in seguito sono dunque inventati – a chi avesse dubbi sulla liceità di tale metodo «falsificatorio» si può ricordare quanto scriveva Federico Zeri in merito all’implicita fallacia del filologismo anche più accorto:
«non ci sarà mai nessuna forza, nessuna credenza, capace di farci comprendere il passato in tutte le sue implicazioni… persino musiche, canzoni, giornali di una ventina di anni fa contengono allusioni e connotati che già oggi ci tornano completamente oscuri» – e, per quanto si sia fatto ricorso a ricordi personali (I’m a baby boomer, too), non vi sono associazioni dirette a persone o situazioni reali. In nota il lettore troverà rinvio bibliografico a tutti i riferimenti presenti nel testo (l’ordine è lo stesso in cui appaiono nella narrazione).
Massimo Martignoni, «Terrazza Martini. Piazza Diaz, Milano, Italy». Casa Vogue. Milano, aprile 2008; «Gio Ponti’s wedding contest». Casa Vogue. Milano, ottobre 2006; «Paesaggi domestici negli anni del miracolo economico». Abitare. Milano, giugno 2003. Federico Zeri, Dietro l’immagine. Conversazioni sull’arte di leggere l’arte, Milano: Longanesi, 1987.
«L’angolo della colazione in cucina», in Cucine americane a colori, Görlich, Milano, 1958
Renato Marchi, Grattacielo Incis in via Buonarroti a Trento, 1951-1953, foto fratelli Pedrotti, 1952; Archivio storico del Comune di Trento, 4.18-29.1951
Il grattacielo Incis Papà Sergio orgoglioso annuncia che Antonella, la prima figlia, poi ne sarebbero arrivati altri due, Walter ed Enrica, è nata oggi 16 maggio 1957 all’ospedale di Trento Santa Chiara, al reparto maternità. Il parto è avvenuto alle 5.12 del mattino e tutto è andato bene. La piccola pesa quasi tre chili e la mamma Lina, esausta ma felice, ora riposa. Sergio e Lina si erano sposati nel 1955 in valle di Non. Entrambi originari del luogo avevano dovuto spostarsi l’anno successivo nel capoluogo quando lui era riuscito a farsi assumere ai Monopoli di Stato. Il trasferimento non era stato indolore, questo no, ma il nuovo impiego era remunerato piuttosto bene e a Sergio sembrava molto più adatto alla sua visione burocratica del lavoro e alle sue capacità (o a
quello che lui credeva fossero le sue capacità; la campagna non lo attraeva proprio, nemmeno la nuova prospettiva di agricoltura intensiva e meccanizzata che stava prendendo piede allora in valle). Lei, casalinga, studi fino alla terza media (lui si era diplomato all’Arcivescovile), aveva pensato che l’assunzione del marito avrebbe certo garantito migliori opportunità per il loro futuro che non stando lì, e poi c’erano gli scatti di carriera, la possibilità di avere un alloggio statale e altro ancora. Quindi, via a Trento, tra le lacrime di nonna Celestina («guarda che non andiamo mica a Roma») e un po’ l’invidia (o il disappunto? difficile dire) dei molti fratelli, sorelle, cugini: «impiegato, a Trento? mah…», pensavano. I genitori di entrambi, invece (a Sergio era rimasta solo la mamma,
il padre non era più tornato dalla spedizione di Russia), avevano in qualche modo appoggiato la scelta dei due sposi confidando anch’essi nell’accresciuto prestigio sociale che ne sarebbe venuto dall’avere messo piede a Trento (la migrazione dalla campagna alla città, che in Trentino vuol dire dalla montagna alla città, è uno dei più significativi fenomeni sociali italiani del secondo dopoguerra). Sergio e Lina non erano interessati alla politica. Da piccoli avevano partecipato, separatamente, perché erano di paesi diversi, alle esperienze di aggregazione giovanile fascista e non ne serbavano un brutto ricordo (non si faceva che stare assieme ad altri bambini, in fin dei conti; un po’ di sport, qualche parata, poi si cantava; non era male). Invece avevano timore dei comunisti, 55
dato che si attenevano alle direttive impartite dai sacerdoti in valle e poi in parrocchia a Trento (c’entrava anche la fine del papà disperso in Russia). Paura di perdere le proprietà terriere, paura di vedersi arrivare sotto casa quei brutti ceffi con baffi e colbacco pronti a rubare tutto: forse anche i bambini. Da quando era stato a loro concesso il diritto di voto avevano sempre messo la croce sul simbolo della Democrazia Cristiana. Con parte dei soldi del primo stipendio ricevuto a Trento Sergio sarebbe corso dal concessionario Rangoni a prendere una fiammante Fiat 600 color grigioverde. A causa del grande numero di prenotazioni Sergio e Lina avrebbero dovuto penare non poco per salire a bordo della loro 600 (in seguito sarebbero arrivate in ordine una Opel Kadett azzurra, una Citroen DS bianca, nel loro ricordo la macchina più bella, nuove Fiat e altro ancora). Ma poi, anzi, prima di tutto c’era stata la casa. Un colpo di pazzia aveva pensato Sergio subito dopo avere firmato il contratto di locazione (non per i soldi, come impiegato statale con prole l’affitto era più che agevolato, quanto per il posto e per, ovvio, l’impatto dell’edificio). Ma a Lina l’appartamento era piaciuto subito tanto. D’accordo la vista da un lato non era un granché - la ferrovia – ma dall’altro c’era l’Adige. E poi: era in un grattacielo di nove piani! Volete mettere, pensava di notte Sergio (alla fine convinto dall’entusiasmo di Lina) prima di entrarci, volete 56
mettere voi che state ancora lassù (e si riferiva ai coscritti in valle) e noi andiamo, come a Milano (a Milano c’era stato lui una volta un paio d’anni addietro con alcuni amici in treno per vedere un derby Milan-Inter ed era rimasto molto impressionato; davanti alla stazione aveva visto il Pirelli in costruzione), ad abitare in un grattacielo in via Buonarroti? Da non credere. Avevano preso l’appartamento all’ultimo dei nove piani, lei al principio aveva avuto persino paura ad affacciarsi alle finestre. «Che alti che siamo», aveva detto. Orientamento sudest, due stanze, bagno, soggiorno e cucina, due balconi, tutto nuovo e ben fatto. Il grattacielo era stato eretto tra il 1951 e il 1953 su progetto di Renato Marchi, un valido professionista al tempo assai attivo nel campo dell’edilizia privata e pubblica trentina. Sono questi gli anni in cui la fisionomia del centro urbano della città e la prima cinta periferica, sotto la spinta di interessi economici e per una diffusa visione modernizzatrice, vengono notevolmente modificati. Gli intenti speculativi che sottostanno alla distruzione di numerose aree verdi della città o di preesistenti edifici sono lampanti, e tale è la lettura che ne fa in una serie di articoli esemplari (modello di impegno civile e grinta giornalistica) Piero Agostini sul giornale Alto Adige nel 1961, e tuttavia non si può non leggere in diversi interventi di allora una certa (minima, senz’altro)
consapevolezza urbanistica (ai fini della creazione di nuovi fulcri visivi urbani, per esempio) e, talvolta, una non disprezzabile qualità architettonica. Una settimana dopo la nascita di Antonella viene in visita dalla valle il cugino Michele. Mentre Lina è nel soggiorno ad allattare, Sergio lo conduce sul balcone a sud. «Bello, vero? E guarda che alti che siamo, pu en su del dom». Michele annuisce, «già», dice solo. Ma intanto pensa tra sé, che orrore, tutto questo cemento, mi sembra di soffocare, sono matti a stare qui, povera Antonellina. In un posto del genere non ci vivrei mai, io questi mostri li farei buttare giù da una bomba. Non poteva immaginare, Michele, che qualche tempo dopo, a Milano, Luciano Bianciardi avrebbe scritto di un simile desiderio (fare saltare il «Torracchione», metafora del Pirelli) nel suo capolavoro del 1962, tradotto poi nel film del 1964 con un grandioso Ugo Tognazzi e con Giovanna Ralli.
«Un avvenimento dell’automobilismo italiano - Fiat 600». l’Adige. Trento, 12 marzo 1955. «Si inaugura oggi da Rangoni in via Brennero la modernissima sede della ‹commissionaria› Fiat». l’Adige. Trento, 6 luglio 1955. «Il Centro Pirelli». Edilizia Moderna. Milano, 71, 1960. Renato Marchi, Edificio Incis [Istituto nazionale case impiegati dello stato] in via Buonarroti a Trento, licenza edilizia n. 29/1951, Archivio Comunale, Trento. Franco De Battaglia, Franco Filippini, Aldo Gorfer, Luigino Mattei, Trento 1950-1980. Trento: Temi, 1979. Piero Agostini, «Reportage in sette puntate sulla speculazione edilizia a Trento». Alto Adige. Bolzano, 3, 7, 10, 14, 17, 21, 24 dicembre 1961. «Le belle case di fine Ottocento sostituite lentamente da condomini». l’Adige. Trento, 26 giugno 1963. Massimo Martignoni, La ricostruzione: 1945-1955. In Le ali maligne, le meridiane di morte. Trento 1943-1945. I bombardamenti. A cura di Diego Leoni e Patrizia Marchesoni. Trento: Museo Storico in Trento-Temi, 1995. Luciano Bianciardi, La vita agra, Milano: Rizzoli, 1962. Carlo Lizzani, La vita agra, film b/n, 1964.
Ville e Giardini. Milano, dicembre 1961
L’ingegnere Quel giorno l’ingegnere era particolarmente soddisfatto. Una sua casa in collina a Trento era stata pubblicata sull’ultimo numero di Ville e Giardini. Non era la prima volta, c’erano già state in precedenza segnalazioni sul suo lavoro, ma in questo caso si trattava di un servizio completo e, soprattutto, c’era la foto dell’edificio in copertina! Era stato davvero un bel colpo. I redattori, da Milano, gli avevano chiesto come al solito qualche immagine (era lui che segnalava le sue nuove realizzazioni, dopo che aveva conosciuto un paio di anni prima a una mostra sull’edilizia il direttore della rivista Mario Ravegnani), ma non gli avevano anticipato nulla. Era stata una sorpresa, insomma, e lui aveva subito chiamato per ringraziare e per dire che gli spedissero perlomeno una decina di copie. Chissà che invidia i colleghi, pensava andando da Trento verso Caldonazzo, dove si era costruito il suo buen retiro, con la sua meravigliosa Mercedes 300 SL «ali di gabbiano» color grigio topo (che macchina, mai l’avrebbe cambiata con un’Alfa, una Lancia o nemmeno una Jaguar, tanto era bella e tanto era solida la sua fiducia nei prodotti tedeschi). La casa in collina, poi, gli era venuta decisamente bene, come piaceva a lui. Linee semplici, volumi squadrati, tetto piano (era contrario ai tetti a falde inclinate), grandi vetrate, le pietre del luogo (ziresol, verdello, rosso Trento, gli sarebbe piaciuto anche il giallo Mori ma ormai non lo coltivava quasi più nessuno) unite al cemento e al cristallo. Niente da dire, una bella cosettina (con i committenti si era trovato bene, una giovane coppia assai garbata, lui medico, lei insegnante). Va detto, in verità, che a lavori quasi ultimati c’era stato qualcosa che lo aveva come un po’ turbato, per non dire infastidito. «Dovrei forse osare di più?», si era infatti chiesto quando aveva visto che, a poca distanza, in via Falzolgher, stava sorgendo una villetta molto più originale della sua (una specie di
casa-fiore o casa-farfalla differente da tutte le altre lì in giro). Fin troppo eccentrica, gli era parsa. Era un’opera di quel giovane architetto che era noto in città per la sua aria da intellettuale… per carità, bravo e preparato lo doveva essere, sapeva anche che aveva studiato a Firenze con Adalberto Libera (non che lui fosse da meno, dato che aveva fatto ingegneria civile al Politecnico di Torino, seguendo in ciò le orme di altri conterranei, come il povero Damiano Chiesa, che c’era stato solo un paio di anni, o Riccardo Maroni, l’editore della Collana artisti trentini). Insomma, il confronto con la fantasia del più giovane collega lo aveva fatto pensare. Forse che quella cultura razionale di cui lui era intriso iniziasse a mostrare un po’ la corda? Non poteva crederlo. La sua fede nel Movimento Moderno aveva qualcosa di religioso, magari gli piacevano le cose un po’ rigide, più van der Rohe che l’ultimo Le Corbusier, più Egon Eiermann (aveva ammirato moltissimo il suo padiglione tedesco alla fiera mondiale di Bruxelles del 1958) che certe stramberie «organiche» o quei modesti ghirigori del Neoliberty, questo sì, ma mai avrebbe pensato che l’impronta funzionale dell’International Style potesse essere intaccata (figurarsi tradita). Certo, da lì a qualche anno, quando si sarebbe messo a leggere quegli strani articoli su Domus dell’Ettore Sottsass junior (lui aveva incontrato di persona a Torino il padre, Ettore senior, morto nel 1953 e sepolto a Trento nel piccolo cimitero di San Bartolomeo, a poca distanza dalla sua casetta in collina, e ogni tanto, se passava per Milano, poteva anche capitargli di incontrare «l’Ettorino» e di salutarlo, un po’ si conoscevano), qualche dubbio gli sarebbe venuto, con tutte quelle storie di viaggi in India, di beatnicks americani, di LSD e di altre cose bizzarre che con architettura e design non gli sembrava avessero molto a che fare. Come quando scriveva: «questa idea forse non è altro che
un modo di allargare il concetto di funzionale alle sfere psichiche subconscie e inconscie, dato che quelli della Bauhaus e tutta quella generazione non c’erano mai arrivati. L’idea che avevano quelli della Bauhaus era che l’uomo potesse risolvere tutto razionalmente… non avevano previsto che tutti si sarebbero ubriacati e che tutti sarebbero finiti cornuti e le ragazze incinte senza amore, finite nella clinica, dove tutti sono così gentili. Amen». Mah, gli veniva da dire all’ingegnere leggendo questi ragionamenti. Al momento però, a cavallo tra 1950 e 1960, egli era ben saldo nelle sue convinzioni: Eiermann (l’ingegnere, non sposato, aveva una sorella a Colonia e lui, che sapeva molto bene la lingua, andava spesso a trovarla approfittando poi dell’appoggio logistico per farsi dei giri e vedere le novità tedesche in fatto di architettura, da poco aveva visto infatti la Kaiser-Wilhelm-Gedächtniskirche di Eiermann a Berlino in via di ultimazione e il nuovo grattacielo Thyssenhaus di Helmut Hentrich e Hubert Petschnigg a Düsseldorf, «opere esemplari», era stato il suo giudizio), Neutra, Mies, Albini, Nervi. Questi erano i suoi riferimenti, questa l’idea di architettura e di civiltà della forma che voleva tradurre – senza troppa aggressività, sfumando un pochino per non spaventare la pavida (in fatto di gusto moderno) clientela locale – nei sui lavori sul territorio trentino.
Mercedes-Benz 300 SL. Vom Rennsport zur Legende. (A cura di) Michael Riedner, Günter Engelen. Stuttgart: Motorbuch-Verlag, 1989. Giovanni Leo Salvotti, Casa in via Falzolgher a Trento, licenza edilizia n. 146/1958, Archivio storico del Comune di Trento. «Giovanni Leo Salvotti architetto, villa a Gocciadoro» [via Falzolgher]. Ville e Giardini. Milano, gennaio, 1964. Luciano Nustrini, L’attività didattica di Libera. In Adalberto Libera. Opera completa. (A cura di) Giacomo Polin, Giovanni Marzari. Milano: Electa, 1989. Riccardo Maroni, Note autobiografiche. Trento: edizione fuori commercio,1983. Ettore Sottsass junior, «Esperienze con la ceramica», Domus. Milano, agosto 1970; Scritti 1946-2001. Vicenza: Neri Pozza, 2002. Ettore Sottsass senior architetto. Milano: Electa, 1991. Egon Eiermann 1904-1970, architect and designer. (A cura di) Annemarie Jaeggi. Ostfildern-Ruit: Hatje Cantz Publishers, 2004. Martin Mittag, Thyssenhaus. PhönixRheinrohr-AG, Düsseldorf. Essen: Bauzentrum-RingVerlag, 1962.
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Mobili antichi, case moderne Carlo, Annamaria. Radici proletarie urbane da parte di lui, una certa, non ostentata ma avvertibile, elevazione sociale in lei. La famiglia di Annamaria era in parte di origine austriaca, il nonno materno era stato consigliere comunale a Trento durante gli ultimi anni del governo asburgico, e traccia evidente di tale lignaggio era verificabile nei suoi eleganti lineamenti. Al liceo dicevano che assomigliasse a Romy Schneider e aveva discreti ammiratori, malgrado la maggior parte degli studenti (e dei professori) non avesse occhi che per Maria Grazia Buccella. Con Carlo era stato amore a prima vista. Lui veniva da un’altra situazione. Padre assente, pronto anche a slanci d’affetto (rari) ma 58
fondamentalmente anarchico nella visione della famiglia e del lavoro, con ampi giri di amicizie in quelli che erano considerati allora un po’ i bassifondi della città, le Androne, San Martino, dove lui per le sue battute salaci era ricercato compagno di chiacchiere nelle osterie (anche se non beveva). Il padre di Carlo aveva sposato nei primi anni trenta una veronese e dopo un periodo passato lì a Verona si erano progressivamente spostati verso nord, prima ad Ala, poi a Rovereto, infine a Trento dove Carlo era nato. Il lavoro che il padre faceva era quello del raccoglitore di mobili e oggetti (a partire dalla seconda metà degli anni cinquanta si sarebbe dichiarato un po’ pomposamente «antiquario»). I soldi per la famiglia, con Carlo c’erano altri due fratelli
e una sorella, non bastavano mai. Tutti loro sapevano che sarebbe stato meglio arrangiarsi il prima possibile. Però l’amore del padre per le antichità (amore vero supportato da un autentico occhio da connaisseur) era passato ai figli, i quali avrebbero tutti seguito nella professione le orme paterne. E così Carlo, che nel 1960 ottiene la licenza di commercio per «vendita al minuto di oggetti d’antiquariato», qualche soldo lo fa. Nel 1961 Carlo e Annamaria si sposano e vanno ad abitare in una palazzina di recente costruzione ai margini meridionali della città, nel quartiere di San Giuseppe. Nel 1962 nasce il primo dei due figli. La loro casa si può dire in certo modo curata. Hanno pochi soldi (lei contribuisce al reddito dando lezioni di latino e tedesco ai ripetenti) ma il gusto
non manca. La cucina è nuova e di tipo americano, ci solo alcune (vere) stampe antiche alle pareti, un paio di aggraziate poltroncine in midollino fanno bella figura di sé, un amico di ritorno dalla Germania ha portato in dono un giradischi della Braun – anni dopo, ormai scassato, sarebbe stato scioccamente gettato via (era il modello Phonosuper SK4 di Dieter Rams e Hans Gugelot, soprannominato «Schneewittchensarg», «bara di Biancaneve») – che sta molto bene in soggiorno su un tavolino basso con doghe di legno imitante gli originali della Knoll. Annamaria la casa la vorrebbe più moderna, con qualche bella seduta scandinava (danese o svedese) in teak oppure (notate su una rivista) con un paio di poltroncine bluette di Marco Zanuso, le Lady prodotte dalla
Elisabeth Wetzlar, Mobili antichi nell’arredamento moderno. Roma: Canesi, 1966
Arflex. Lui spinge per inserirvi l’antico: il suo sogno è quello di un grande trumeau barocco, ma intanto c’è una bella cassettiera forse lombarda del Settecento e una tavolino (pare) romano in stile impero. Qualche tempo dopo a lui sarebbe venuta la mania degli armadi tirolesi colorati del XVIII e XIX (allora facilissimi da trovare per quanto a lei non piacessero molto). La giovane coppia si muove dunque sull’onda di quella generale riscoperte dell’antichità che ha il suo punto di arrivo e di ripartenza in Italia nella prima mostra nazionale dell’antiquariato di Firenze nel 1953 e viene in breve accompagnata da un grande numero di articoli e pubblicazioni. È una sensibilità estetica, quella che vuole mettere d’accordo il vecchio e il nuovo, che cresce e si diffonde tra i sessanta e i settanta
– con sfumature sempre diverse, nei settanta, per dire, colorandosi di quelle nostalgie antimoderne e protoecologiste generate dalla crisi petrolifera del 1973 – per poi lentamente decadere nei decenni seguenti. Però, purtroppo, dopo un po’ le cose tra loro iniziano a non andare più tanto bene. La nascita del secondo figlio non migliora la situazione. Anzi. Lui, Carlo, incomincia a tornare sempre più tardi la sera al seguito di un compagno venuto da Viterbo per fare attività politica in Trentino (Carlo per tradizione familiare era sempre stato vicino agli ideali socialisti), lei anche sta ripensando a tante cose. Tra il resto nel quartiere dove stanno loro sono arrivati a partire dal 1962 alcuni strani, ma davvero simpatici ragazzi venuti a Trento per studiare alla nuova facoltà di Sociologia.
Hanno costumi diversi e una naturale spontaneità, così lontana dai modi burberi dei locali, che ad Annamaria (ma anche a Carlo se è per questo) piacciono molto. Un paio di case più in su rispetto alla loro, intorno al 1964, si è creata una specie di comune studentesca dove lei va spesso e volentieri: lì c’è Mauro, che sembra (lo è) il leader, il taciturno e studioso Renato e altri ancora… Da uno di loro si è fatta prestare un disco appena uscito e a casa, da sola, l’ha messo sul Braun mentre i bimbi dormono e Carlo (ormai non è una novità) è fuori con il suo amico di Viterbo chissà dove. E sulle note di Eleanor Rigby, mai sentita una canzone così bella, si mette a piangere (per la melodia cameristica, non per le parole che non capisce): «All the lonely people, where do they all come from? All the lonely people,
where do they all belong?». Ma la storia si ferma qui perché il disco è del 1966 e quindi fuori tempo massimo (rispetto al 1965 limite imposto).
Braun + Design Collection. 40 Jahre Braun Design, 1955-1995. (A cura di) Jo Klatt, Günter Staeffler. Hamburg: Jo Klatt Design-Design Verlag, 1995. Marco Zanuso architetto. (A cura di) Manolo De Giorgi. Milano: Skira, 1999. Roberto Aloi, L’arredamento moderno. Milano: Hoepli, 1952. Elisabeth Wetzlar, Mobili antichi nell’arredamento moderno. Roma: Canesi, 1966. Prima mostra nazionale dell’antiquariato, Firenze, Palazzo Strozzi, luglio-agosto 1953. Sorry, out of gas. Architecture’s response to the 1973 oil crisis. (A cura di) Mirko Zardini, Giovanna Borasi. Montreal-Mantova: Canadian Centre For Architecture-Corraini Edizioni, 2007. «Ha iniziato ieri il suo cammino l’università di scienze sociali». l’Adige. Trento, 15 novembre 1962. The Beatles, Revolver, EmiParlophone, 1966.
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L’Adige, Trento, 22 maggio 1960 60
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Micol Cossali e Valentina Miorandi
COSA DOVETE FARE, COSA DOVETE DESIDERARE
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«In società ci si presenta con la ferma intenzione di contribuire alla buona riuscita dell’incontro: evitando esagerazione di ogni genere. Quindi si mangia senza ingozzarsi; si beve quanto basta per «tener su il morale» e si parla di cose piacevoli soltanto»1. Negli anni cinquanta i mezzi di comunicazione, in particolar modo la carta stampata, si fanno promotori del progetto di modernizzazione della società trentina sostenuto dalle istituzioni locali. Questo progetto si inserisce nell’orizzonte più ampio di trasformazione della società italiana nel secondo dopoguerra. Quella che emerge, scorrendo i quotidiani trentini dal 1955 al 1965, è una vera e propria campagna di educazione alla modernità borghese e al progresso. Se il benessere economico, individuale e collettivo, è il primo e più concreto obiettivo, l’aspetto decisivo è però quello della trasformazione simbolica dell’immaginario, di ciò che deve essere desiderabile per sé e per la comunità. Si costruiscono così nuovi modelli di identità e di comportamento ispirati a un ordine funzionale alle esigenze della società. Il tono paternalistico e pedagogico, che emerge negli articoli e nelle pubblicità di allora, ha il sapore di un’ingenuità d’altri tempi. Da allora le tecniche seduttive di massa hanno affinato le loro armi
e, alla franchezza degli intenti, si è sostituita un’opacità stratificata di sensi e doppi sensi che richiede un’acutezza critica allenata e perseverante. Il ruolo dei mezzi di comunicazione nel decennio 1955-1965 è il cuore di questo progetto espositivo, che indaga le strategie comunicative utilizzate per produrre questo nuovo immaginario. Da una parte i mezzi di comunicazione di massa e dall’altra il giacimento prezioso dei filmati di famiglia custodiscono la testimonianza di questa trasformazione di pratiche e desideri individuali e collettivi. Il nostro apporto al progetto espositivo è stato quello di cercare di reinterpretare i documenti del passato riportando alla luce lo sguardo carico di attese e fiducia di un’epoca così vicina e così lontana, nelle sue aspirazioni e nelle sue contraddizioni. Il materiale predominante nell’esposizione è la carta, materiale di cui appunto sono fatti i giornali e le riviste che abbiamo utilizzato. L’impaginazione, la grafica e i colori si rifanno allo stile dell’epoca. Gli articoli e le fotografie sono state assemblate, senza alcuna aggiunta, seguendo una coerenza tematica. Si inizia, nella prima sala, con uno sguardo d’insieme sulla città, per poi analizzare nel dettaglio gli investimenti in
opere pubbliche, i nuovi mezzi di trasporto, l’avanzare del cemento e dell’asfalto, la costruzione di nuove scuole, la nascita dell’università di sociologia, accanto a tutte quelle innovazioni che hanno trasformato radicalmente i comportamenti e gli stili di vita. Nella seconda sala vengono focalizzati alcuni nodi tematici in particolare: il tempo libero e le vacanze, il ruolo della donna, i consumi. Al centro della prima sala viene raffigurata, in grande scala, una cucina con all’interno oggetti «sconosciuti», come il tostapane, e agognati, come il frigorifero. Un filmato di famiglia mostra l’immagine composta di una moderna famiglia borghese nelle ore serali (la moglie ai fornelli, il rientro del marito dal lavoro, la famiglia riunita nel salotto). In un piccolo monitor, un signore distinto declama le «istruzioni per l’uso», per imparare a destreggiarsi in questo nuovo mondo. Le parole di questa sorta di «grillo parlante» della modernità, che accompagnano il visitatore anche nella seconda sala, sono citazioni, prese alla lettera e senza modifiche, di rubriche dell’epoca dai titoli imperativi: Comportatevi così, L’angolo della donna, Prendete nota. Dalle pagine dei quotidiani, penne maschili e femminili insegnavano ai lettori, e soprattutto alle lettrici, come affrontare i piccoli e grandi problemi della vita moderna.
La composizione di cornici, che si incontra entrando nella seconda sala, è una sorta di album di famiglia collettivo, che attinge dall’archivio dei filmati di famiglia della Fondazione Museo storico del Trentino. Filmati e fotografie ritraggono matrimoni, comunioni, gite in montagna, e lo spettatore ha modo di entrare nella dimensione soggettiva dello sguardo di chi ha filmato o è stato filmato. Una audio guida, cicerone meccanico, suggerisce il nuovo volto della città ridisegnato per i primi turisti. Il famoso vestito verde mela di Gigliola Cinquetti, qui esposto in un involucro di plastica che ne conserva le pieghe, i colori e i valori tradizionali celati nel ritornello di Non ho l’età, ci riporta ai personaggi mito del neonato mondo dello spettacolo di quegli anni. Una sagoma femminile, in posa a fianco della sua moderna lavatrice, invita i visitatori ad immergersi nel mondo sfavillante e pieno di promesse dei consumi. Come scrive Goffredo Fofi ne La vocazione minoritaria: «Eravamo agli inizi degli anni sessanta e allora pochi se ne rendevano conto, nell’ansia della modernità che sentivamo, ma oggi è impossibile non riflettervi. Per spingere al consumo la pubblicità manipola il consenso, colonizza l’immaginario, i sogni». 1 «Mondo femminile». l’Adige. Trento, 14 febbraio 1956.
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Riferimenti bibliografici 64
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note biografiche 66
Giovanni Agostini Laureato in Relazioni internazionali presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Bologna. È autore della trasmissione televisiva FORMARTStoria, una produzione Filmwork s.r.l. in collaborazione con il Centro audiovisivi e l’Ufficio stampa della Provincia autonoma di Trento. Ha pubblicato il volume Sociologia a Trento. 1961-1967: una «scienza nuova» per modernizzare l’arretratezza italiana (il Mulino: 2008). Alberto Brodesco Laureato in Sociologia a Trento, è iscritto al dottorato internazionale di studi audiovisivi presso l’Università di Udine. È autore di Una voce nel disastro. L’immagine dello scienziato nel cinema dell’emergenza (Meltemi: 2007) e di diversi saggi negli ambiti della comunicazione audiovisiva e della sociologia dell’immaginario. Micol Cossali Laureata in Filosofia, si dedica al racconto per immagini. Ha studiato cinema con i registi Marco Bellocchio, Silvio Soldini, Daniele Gaglianone, Marco Pozzi
e con l’artista Anna De Manincor. Il suo primo lungometraggio documentario come regista Un grande sonno nero. Vita e morte di Guido Rossa alpinista e operaio è stato presentato in concorso al Trento Film Festival (2007). Collabora come filmaker con la Fondazione Museo storico del Trentino e l’Osservatorio Balcani e Caucaso. Designfabrik È uno studio di grafica, fondato da Alessio Periotto nel 2001, che sviluppa progetti nel campo editoriale, espositivo e pubblicitario. Autonomamente o in collaborazione con studi di architettura, ha progettato allestimenti di mostre e identità visiva per alcuni musei della provincia. Massimo Martignoni Storico dell’arte, ha conseguito a Roma il titolo di dottore di ricerca con una tesi su Gio Ponti e la rivista «Stile» (edita nel 2002). Ha lavorato per diversi musei e centri di ricerca, tra i quali il Mart (Rovereto), il Museo storico in Trento, la Fondazione Piero Portaluppi (Milano). Ha
collaborato ad «Abitare» (20012004) e dal 2003 scrive per «Casa Vogue». Dal 2005 insegna storia del design a Naba, Nuova accademia di belle arti (Milano). Tra i suoi più recenti lavori, i saggi sugli underground comics italiani degli anni ’70-’80, sull’architettura idroelettrica in Trentino e una guida della Triennale di Milano. Valentina Miorandi Diplomata in regia cinematografica alla New York Film Academy nel 2006 e in direzione della fotografia all’Escac di Barcellona nel 2007. Visiting professor al corso di regia Universidad de Castilla-La Mancha, 2007. Ha partecipato a numerose esposizioni collettive: Manifesta 7 (Rovereto), Festival del Video Racconto (Fondazione Pistoletto, Biella), Real Presence 08 (Castello di Rivoli, Torino), Classroom #1 (Museo MADRE, Napoli), Real Presence 08 (Military Museum, Belgrado), Rotary Container Art (Trento). studiobbs Lo studiobbs è fondato nel 2001 a Trento da tre giovani architetti, Claudio Battisti, Marco Brunelli e Massimo Scartezzini. Le attività
dello studio spaziano dalla pianificazione urbanistica alla progettazione architettonica e al design, nella convinzione che la professione dell’architetto debba necessariamente sapersi espandere dalla progettazione territoriale al disegno del dettaglio. Nel corso degli anni lo studio ha maturato una significativa esperienza nella progettazione degli allestimenti espositivi, collaborando con i principali musei del Trentino in particolare per mostre di carattere storico. Dal 2009 lo studio è socio del Green Building Council Italia. Elena Tonezzer Ha conseguito il titolo di dottore di ricerca in Studi storici presso l’Università di Trento. È ricercatrice presso la Fondazione Museo storico del Trentino, dove si occupa della storia della città di Trento. Ha pubblicato le sue ricerche su riviste trentine e nazionali, tra le quali «Archivio Trentino», «Scienza & Politica. Per una storia delle dottrine», «Contemporanea. Rivista di storia dell’800 e del ’900». È curatrice del primo volume degli Scritti e discorsi di Alcide De Gasperi (il Mulino: 2006). 67
Finito di stampare nel mese di novembre 2009 da Publistampa Arti Grafiche, Pergine Valsugana (TN) 68
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Spazio Trento UniCredit Banca Palazzo Firmian via Galilei 1, Trento dal 14 novembre 2009 al 28 febbraio 2010
Orari mostra 10 – 18 chiuso il lunedì il 24, 25, 31 dicembre 2009 e l’1 gennaio 2010 ingresso libero Visite guidate gratuite sabato e domenica alle ore 11 Visite guidate per gruppi su prenotazione (€ 1,50 persona) Tel. 0461 230482 info@museostorico.it www.museostorico.it
€ 7,50 70