Spedizione in A.P. - 45% - art. 2, comma 20/B - legge 662/96. Contiene I.P. Filiale di Torino - n.ro 1/13 Vivalda Editori, Torino.
Montagne d’autore / Gran Paradiso e Abruzzo / Montagnaterapia / Algeria - Tassili /
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FOTO © GIULIO IELARDI
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I millenari cipressi di Tamrit sono una delle meraviglie dei Tassili
A cavallo del nuovo anno, nel momento del riposo e della riflessione da dedicare prima di tutto a noi stessi, per riprogettare i sogni e le speranze - senza le quali la fatica del vivere sarebbe insopportabilmente pesante - ALP vi offre, ancora di più che nel resto dell’anno, l’opportunità di trovare risposte agli uni e alle altre. D’altra parte, sta negli orizzonti di chi frequenta gli spazi liberi dell’altitudine - la comunità che abbiamo chiamato a raccolta con ALP people - la condivisione di una tensione perenne verso esigenze della vita che non sono ancora di tutti ma che la riempiono di esperienze e di valori utili a darle una connotazione di unicità irripetibile. La stessa che è, nello sguardo prima e nelle parole poi, di chi sa raccontarne squarci tanto insoliti quanto comuni per farne bene condiviso su cui ragionare insieme. Questo numero di fine/inizio anno lo abbiamo voluto confezionare proprio con questi obiettivi. E ci sembra il regalo più consono per i nostri lettori cui partecipiamo, così, tutta l’intensità del nostro progetto editoriale - fatto anche delle collane di libri, a cominciare dagli ormai “storici” Licheni da quest’anno affiancati dai giovani “Licheni 2.0” - che non guarda mai solo agli aspetti ludici e sportivi, ma sceglie sempre le occasioni capaci di trasmettere qualcosa di più profondo. Così il nostro invito alla lettura, costruito con il contributo di autori importanti che ci onorano della loro amichevole collaborazione, piuttosto che il racconto di esperienze di impegno e di solidarietà che hanno come teatro la montagna e le pareti, oppure il ricordo di due momenti eccezionali (i parchi compiono 90 anni) per la conservazione del nostro patrimonio ambientale unico e irripetibile, sono tra loro in cordata per trasmettere, a tutti e a ognuno, il senso forte
di valori su cui progettare la speranza di futuro. La crisi economica ci sta facendo riflettere, senza dubbio, anche sulle cose davvero utili per la nostra vita e per il nostro ben-essere, consentendoci di lasciar andare tutto ciò che ingannevolmente appesantiva la nostra zavorra. È dunque stata, nel disagio che ha comportato, anche un’opportunità che ci consente di salire le nostre vette in stile alpino, con convinzione, determinazione e leggerezza. Nel farlo speriamo continuiate a trovare spazio per la nostra compagnia. Siamo fiduciosi che tra le cose che continuerete a portare con voi, anche nel 2013, non manchino cultura e lettura e dunque ci siano anche le nostre proposte: alleggeriscono la vita, pur non rinunciando al piacere di attivare i pensieri. È il miglior augurio che ci sentiamo di rivolgere a tutti coloro che avranno tra le mani questo numero che apre il nostro 28° anno in edicola. Un anno che affrontiamo con fiducia, certi di quella che i lettori ci vorranno confermare non solo andando in edicola, ma anche cogliendo le offerte dell’abbonamento. Chi frequenta le altitudini sa che dopo i temporali, le bufere, i giorni di maltempo, inevitabilmente il sole torna a scaldarci e a trasmettere l’energia che ci dà la vita. Come l’albero che resiste nel deserto, le nostre foglie torneranno a salire verso il cielo. Se dalle condizioni avverse sapremo trarre insegnamento, ne usciremo più forti e sicuri di prima, consapevoli delle nostre reali e spesso inesplorate possibilità. Anche questa prolungata stagione di crisi vedrà la sua fine e se, come sta accadendo, avremo saputo riprogrammare i nostri comportamenti separando i bisogni e i valori veri da quelli indotti o fittizi, allora ci renderemo conto della sua faccia positiva e sapremo andare, davvero, verso un nuovo inizio. PAG. 1 /
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> IN COPERTINA
sommario 287 ANNO 2013
Tofane di Rozes, changing conditions; foto © Peter Mathis tratta da Dolomites - Visual Dualism office@mathis-photographs.com
22 / La prima perla dell’Appennino
1 / editoriale
L’Abruzzo
6 / libri
70 / ritratti di Alp
This will destroy you: Emilio Salgari di Claudio Magris
Con le ciaspole nel Parco d’Abruzzo ANNIVERSARI
a cura di Domenico Vasapollo
10 / I Parchi fanno 90 12 / Il Gran Paradiso terrestre
Il parco nel pensiero
di Daniela Zangrando
26 / scheda gialla
Mike e le montagne
30 / classici Giuseppe Ghedina e la cartolina illustrata
72 / escursionismo La montagna nella mente Dalle Alpi Marittime all’Etna
di Giuseppe Garimoldi di Mario Rigoni Stern
Diario del Gran Paradiso di Anacleto Verrecchia
16 / scheda gialla
Con le ciaspole nel Parco /1 Gran Paradiso piemontese a cura di Furio Chiaretta
20 / scheda gialla
Con le ciaspole nel Parco /2 Gran Paradiso valdostano a cura di Cesare Re
MONTAGNATERAPIA
di Sebastiano Audisio, Marco Battain, Ornella Giordana e Mario Piasco
MONTAGNE D’AUTORE
76 / arrampicata
34 / Un Natale ai confini del “mundo” di Laura Pariani 40 / La malaerba di Davide Longo 50 / Slittamenti di Anna Berra 58 / Il giorno giusto di Andrea Nicolussi Golo
Climblab Non è mai lo stesso uomo che parte e ritorna di Fulvio Bosio e Carlotta Montaldo
80 / viaggi
Tassìli gioiello di pietra A piedi nel Sahara algerino di Giulio Ielardi
64 / Cento fantasmi di neve di Enrico Camanni
91 / vetrina
FOTO KLAUS KRANEBITTER-ARCH DYNAFIT/K. KRANEBITTER
Sisifo felice «Grazie per la neve che sta scendendo. Mi è sempre piaciuta, ma adesso mi sembra proprio puntuale. Tempestiva. Porta pulizia. Porta bianco. Costringe all’attenzione. Ai tempi lunghi. Lima rumori e colori. Lima le bave dei sensi. Ce n’è bisogno. Ancora per un po’». Luciano Ligabue La neve se ne frega, 2004
sisifofelice@vivaldaeditori.it
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I PARCHI FANNO 90
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TRA DICEMBRE E GENNAIO L’ANNIVERSARIO DELLE PRIME DUE AREE PROTETTE NAZIONALI, ISTITUITE A TUTELA DI FETTE DEL TERRITORIO ALPINO E APPENNINICO TRA LE PIÙ RICCHE DI BIODIVERSITÀ.
UN ANNIVERSARIO IN SORDINA, A CAUSA DI UNA CRISI CHE RISCHIA DI COLPIRE ANCHE L’ITALIA PIÙ FRAGILE E PREZIOSA.
Novant’anni di politiche per la tutela dei territori più preziosi della nostra penisola. Cominciate sulle Alpi e sull’Appennino, lo scheletro montano d’Italia. Proseguite, con alterne fortune e non senza vicissitudini con lo Stelvio e la Calabria di Sila e Aspromonte e poi, in tempi più recenti, con altre terre alte, le più ricche di biodiversità, ma spesso anche le più povere di umanità a causa di migrazioni e abbandoni dovuti alla difficoltà nell’abitarle. I parchi e le aree protette hanno difeso l’integrità di questi territori preservandoli dall’assalto che altrove ha portato forti sconvolgimenti, non solo ambientali. Ma che li pone, oggi, in condizioni di vantaggio per interpretare il ruolo di laboratori di futuro, capaci di visioni innovative per uno sviluppo sostenibile e durevole. Spesso hanno arrestato il declino e oggi sono pronti a riavviare un rinascimento fatto di ritorni mossi non solo da visioni bucoliche o da suggestioni new age, ma sempre di più sulla base di solidi piani di investimento economico e occupazionale. La crisi può insegnare a imboccare nuove strade; i parchi sono lì a dimostrare che questo è possibile, a condizione che anche su di essi si investa adeguatamente. Così ancora non è. E vicende recenti stanno purtroppo a testimoniare che occorre fare ancora tanta strada per aggiornare radicalmente le politiche per un nuovo modello di sviluppo capace di garantirci un futuro. Per questo i novant’anni di natura protetta si festeggiano con qualche rammarico e molta insicurezza per il futuro. Resta l’amaro in bocca per ciò che potrebbe essere e ancora non è stato. Perché i parchi possano ritrovare lo slancio che ne ha animato l’avvio, aiutandoli a superare le molte difficoltà di allora, c’è bisogno di una rinnovata consapevolezza e di una radicata conoscenza e coscienza del loro ruolo e dei loro benefici. Con questo spirito vi proponiamo la lettura di alcune delle pagine più belle scritte da alcune delle persone che hanno voluto e amato i parchi e le nostre montagne. L’augurio è che quello spirito possa permeare nuovamente la nostra classe dirigente e politica, affinché possa raccogliere le sollecitazioni che vengono dalla collettività, ormai pressoché unanimemente schierata dalla parte della natura protetta. [V.G.]
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I primi loghi del Parco d’Abruzzo e del Parco del Gran Paradiso Nella pagina a fianco, in alto il Gruppo del Gran Paradiso visto dal sentiero che conduce all’Alpe Meyes di Sopra Sotto, il camoscio e la volpe non temono la neve (foto C. Re)
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libri
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Mario Brunello Per zaino un violoncello prefazione in forma di ballata di Paolo Rumiz 80 pp. + 16 pp. con foto a colori Vivalda Editori, Torino 2012 - 12,00 € «Ci sono dei luoghi dove le montagne danno un suono, senza ritmo e senza melodia, un ronzio costante, come le preghiere dei lama. Chissà se hanno preso i loro canti dalle montagne?». (R. MESSNER)
e sue dita si arrampicano sulle corde del seicentesco violoncello “Maggini” lentamente o a ritmi incalzanti; a volte poi precipitano di colpo come nelle cadute di un’arrampicata in libera. Ma restano appese, si salvano, ricominciano a salire per inventare nuovi movimenti, arabeschi che producono melodie che calamitano tutti i nostri sensi in un ascolto che non è solo udito. Così ha portato e porta il suo amatissimo Bach in tutte le sale da concerto più blasonate del mondo. Da solo o con l’accompagnamento delle orchestre e dei direttori più prestigiosi. La sua biografia artistica lo pone ai vertici mondiali, ma la fama non ne ha snaturato lo spirito e il carattere modesto e disponibile. Una star affermata nel
firmamento musicale internazionale che ha saputo mantener fede alle sue origini di ragazzo di provincia, un talento portentoso che non si è lasciato abbagliare dalle luci della ribalta. Se l’ho dovuto inseguire per oltre un anno, è stato solo perché i suoi impegni gli lasciano poco tempo al di fuori della professione. E quel tempo lo dedica, giustamente, agli affetti famigliari, immergendosi nel suo paesaggio di sentimento racchiuso tra Castelfranco Veneto e le Dolomiti del Bellunese: le sue montagne. È il personaggio giusto per la collana Sempre più in alto, che «si propone di dare rappresentazione della passione per la montagna di molti personaggi noti in Italia per le più svariate attività; non professionisti
dell’arrampicata, né alpinisti famosi, ma persone professionalmente affermate che hanno fatto della montagna e dei valori che rappresenta un punto di riferimento per la propria vita». E Mario Brunello, numero uno internazionale del violoncello, ci racconta, appunto, il suo rapporto con le terre alte, da quelle dell’infanzia al Monte Fuji, dalla foresta di Paneveggio alle elevazioni nel deserto, passando attraverso le esperienze di Arte Sella e dei Suoni delle Dolomiti. Impreziosisce questo incontro della musica con la montagna la bella introduzione che, in forma di ballata, Paolo Rumiz, giornalista e scrittore di fama, ha voluto offrire al maestro Brunello. GI.VA
Tel. +43 (0) 5576-75083, 108 pp., 70 fotografie con testi in tedesco e inglese, 69,90 €
chiaroscuri, tutte realizzate in condizioni di luce straordinarie che definiscono paesaggi senza orizzonte, primi piani o dettagli. Il tema del libro è il dualismo creato dalla contrapposizione di luce e ombra, che crea contrasti e sfumature dipingendo paesaggi sempre nuovi: la scelta del bianco e nero non è quindi casuale, e nessuna delle fotografie – tutte inedite – è stata convertita dal colore. Per esaltarne al massimo tutte le sfumature, sono state stampate su una carta di pregio e in quadricromia, proprio per rendere l’intera gamma dei toni del grigio.
Tra i rari scritti che si intervallano alle immagini di nebbie e vette, da segnalare la prefazione della storica dell’arte Christiane Schmieger, seguita da testi di Jürgen Winkler, Stefan Fiedler, Neil Warner, dell’alpinista Alex Huber e della dott.ssa Ulrike Tappeiner dell’Università di In–nsbruck. Ha ottenuto il prestigioso riconoscimento del German Photography Book Award 2013. Il libro è disponibile anche in edizione lusso a tiratura limitata a 25 copie numerate, ed è acquistabile su www.mathis-photographs.at e su www.amazon.it R.G.
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rutto di una lunga ricerca iniziata nel 2009, tra i tanti libri fotografici dedicati alle Dolomiti, quello di Peter Mathis – classe 1961, austriaco appassionato di montagna e alpinismo oltre Dolomites che fotografo autodidatta – Visual Dualism si distingue non solo per la photographs by potenza evocativa delle fotoPeter Mathis office@mathis-photographs.com grafie che ricorda la straorEdizioni FenkART Publishing dinaria arte di Ansel Adams, ma anche per l’alternarsi di & Peter Mathis 2012, immagini in cui prevale il Erlachstrasse 45, bianco ad altre più ricche di 6845 Hohenems
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IL GRAN PARADISO TERRESTRE 3 DICEMBRE 1922: SUL TERRITORIO INTORNO AL GRAN PARADISO, LA VETTA PIÙ ALTA D’ITALIA, IN GRAN PARTE DONATO DA RE
VITTORIO EMANUELE II AL DEMANIO DELLO STATO,
VIENE ISTITUITO IL PRIMO PARCO NAZIONALE DEL NOSTRO
PAESE.
A destra, dalla cappella a quota 2280 si domina la conca di Nel con il grandioso sfondo delle Levanne (foto F. Chiaretta) In alto, alba sulla Becca di Monciair (foto C. Re) Nella pagina a fianco, Val Soana: il Piano d’Azaria è uno splendido pianoro lungo circa 2 km (foto F. Chiaretta)
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Gran Paradiso 2 CON LE CIASPOLE SUL VERSANTE VALDOSTANO Proponiamo due itinerari di grande bellezza che si snodano sugli opposti versanti della Valsavarenche: il primo, meno noto, offre però una vista grandiosa sulla catena del Gran Paradiso, mentre il secondo, più classico, riporta ai tempi in cui il Parco era riserva di caccia dei Savoia, con un bellissimo panorama ravvicinato sul Ciarforon e sulla Becca di Monciair.
ACCESSO In auto dall’autostrada A5 Torino-Aosta si prende il raccordo autostradale T1 Aosta-Monte Bianco uscendo ad Aosta Ovest-Saint Pierre, da cui si prosegue sulla SS26 in direzione Courmayeur, sino a Villeneuve dove si svolta per Introd. Si seguono le indicazione per Valsavarenche e per la valle omonima che si attraversa sino alle ultime case di Pont. In treno si raggiunge la stazione di Aosta (www.trenitalia.com), ove si prosegue con gli autobus locali. (www.savda.it) PARCO NAZIONALE DEL GRAN PARADISO • Presidenza, Direzione e Segreteria Generale via Della Rocca 47, Torino tel. +39 011 8606211, www.pngp.it, segreteria@pngp.it • Segreteria turistica versante Valle d’Aosta, località Cheriettes, Aymavilles (Ao), tel. +39 0165 902693, info.vda@pngp.it • Fondazione Grand Paradis gestisce i Centri visitatori del Parco dislocati a Cogne, Rhêmes Notre Dame e Valsavaranche: www.grand-paradis.it/it/ orari-e-informazioni
• Servizio Botanico Giardino Botanico Alpino Paradisia frazione Valnontey 44, Cogne (Ao), tel. e fax +39 0165 74147, laura.poggio@pngp.it SITI UTILI • www.lovevda.it è il sito ufficiale del turismo in Val d’Aosta • www.regione.vda.it è il sito della Regione Valle d’Aosta METEO E NEVE • www.regione.vda.it • www.anivea.it MANGIARE E DORMIRE Pont Valsavarenche Hotel Gran Paradiso, tel. +39 0165 95454, +39 0165 95318, www.hotelgparadiso.com Il Rifugio Vittorio Emanuele II (foto C. Re)
Degioz Hotel Parco Nazionale, tel. +39 0165 905706, www.hotelparconazionale.it Bed & Breakfast Le Mélèze, a Bien, 23, frazione di Degioz, tel. +39 349 7801409, info@lemeleze.net RiFuGi • Rifugio Federico Chabod, aperto dalla primavera, con locale invernale, tel. +39 0165 95574, www.rifugiochabod.com • Rifugio Vittorio Emanuele II, aperto dalla primavera, con locale invernale, tel. +39 0165 95920, +39 335 6001921, www.rifugiovittorioemanuele.com CARTA • Kompass 1:50.000 f. 86 Parco Nazionale Gran Paradiso Valle d’Aosta, Valle Orco • IGC 1:50.000 f. 3 Parco Nazionale del Gran Paradiso • L’Escursionista 1:25.000 f. 9 Valsavarenche • IGC 1:25.000 f. 101 Gran Paradiso La Grivola Cogne, f. 102 Valsavarenche, Val di Rhêmes, Valgrisenche
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1 Alpe Meyes di Sopra 2512 m Tempo di salita: 2 ore, con neve portante Dislivello: + 552 m Difficoltà: E il tratto lungo la strada del Nivolet, EE quello che, ripido e scosceso, si stacca dalla strada per salire verso il Vallone delle Meyes Periodo consigliato: da dicembre a marzo Segnavia: cartelli Note: da percorrere solo con innevamento stabilizzato. Utile una torcia o una frontale per il tratto in galleria. Il panorama dagli alpeggi di Meyes, però, è grandioso, un vero e proprio balcone panoramico su tutto il versante orografico destro della Valsavarenche, su cui svetta la catena del Gran Paradiso col suo spaventoso scivolo glaciale, liscio e scosceso. La Valsavarenche è la valle che consente la miglior vista sulla vetta regina del parco, anche senza salire molto di quota. Dall’ampio parcheggio di Pont Valsavarenche (1960 m), ultimo luogo abitato della zona, si scende verso valle lungo la strada asfaltata sino a una deviazione, sulla sinistra, nei pressi di alcune case e dell’Albergo Genzianella. Si cammina sulla strada sino a una sbarra nei pressi di alcuni capanni in lamiera. Calzate le ciaspole, si cammina lungo
l’ampia strada innevata. Originariamente la strada, mai ultimata, doveva collegare Pont con il Colle del Nivolet, congiungendosi con la carrozzabile asfaltata che avrebbe consentito di scendere nella piemontese Valle dell’Orco. Si sale agevolmente di quota, guadagnando vista sempre migliore e sempre più ampia sulla piana di Pont, sovrastata dalla Punta Fourà e sul Grand Étret, verso monte, e sulla catena del Gran Paradiso, sul versante opposto, l’orografico destro. Tutto il tragitto dell’escursione è luogo d’elezione per l’avvistamento degli abitanti del Parco: stambecchi, camosci, vari passeriformi, scoiattoli e volpi sono incontri frequenti. Si prosegue sulla strada innevata, prestando attenzione ad alcune piccole vallette dove possono esserci piccole slavine, sino all’imbocco di una galleria a circa 2130 m di quota. Accese le torce e tolte le ciaspole si cammina lungo la galleria (circa 290 m), prestando attenzione all’insidioso verglas che si forma sul suolo e alle numerose stalattiti di ghiaccio che pendono dal soffitto, sino a sbucare all’esterno. Si continua ancora lungo la strada sino a un netto tornante sulla sinistra e, giunti nei pressi di un’altra galleria, si abbandona la strada principale. Si sale ora ripidamente cercando di ricalcare il tragitto
del sentiero estivo n. 4 che con alcune diagonali consente di guadagnare quota. Questo tratto, con la neve, diviene piuttosto faticoso e ripido e richiede molta cautela e una progressione attenta. Superato il pendio si giunge all’alpeggio di Meyes di Sopra (2512 m), con vista superlativa e dilatata sulla catena del Gran Paradiso (4061 m). Volendo si può proseguire lungo il Vallone delle Meyes, delimitato dalla Costa dell’Aouille e dalla Costa della Manteau, salendo senza via obbligata, tenendo presente che al suo culmine si trovano la morena e il Ghiacciaio di Percia, discendenti dall’omonima cima e dalla vetta dell’Entrelor (3430 m), zone d’alta quota che richiedono prudenza ed esperienza.
2 Rifugio Vittorio Emanuele II 2730 m Tempo di salita: 3 ore con neve portante Difficoltà: E Dislivello: + 775 m Periodo consigliato: da dicembre ad aprile Segnavia: cartelli Note: locale invernale sempre aperto, con stufa a legna. In genere, da Pasqua in poi il rifugio è aperto per la stagione scialpinistica. Itinerario classico per l’escursionismo invernale allo storico Rifugio Vittorio Emanuele II, oggi base per l’ascensione al Gran Paradiso, nel passato Casa Reale di Caccia. La mulattiera su cui si svolge il percorso fu voluta dai Savoia per agevolare le proprie battute di caccia. Da Pont (1960 m), ultimo borgo della Valsavarenche, si attraversa il torrente su un comodo ponte. Si cammina lungo la pista di fondo, verso la testata della valle, a ridosso della dorsale montuosa orografica destra. La pista prosegue pianeggiante nel bosco, lambendo alcuni alpeggi e delle baite. È possibile, già da questo punto, scorgere gruppi di stambecchi e camosci, generalmente ben visibili anche lungo il resto del percorso.
Nei pressi di una lunga casa in pietra, si abbandona il tracciato del fondo (cartello in legno) per proseguire sino a imboccare la mulattiera reale. Si comincia a salire gradualmente con alcuni tornanti, sino a uscire dal bosco. La mulattiera diviene ora meno ripida. L’itinerario, pur non essendo particolarmente soggetto a distacco di valanghe, richiede comunque l’attenzione necessaria per tutti i percorsi di escursionismo invernale, soprattutto fuori dal bosco. Si sale ancora lungo la mulattiera, con la vetta del Ciarforon che diviene sempre più visibile, sino a un ultimo risalto che porta al pianoro morenico su cui si trova la caratteristica costruzione a semibotte del Rifugio Vittorio Emanuele II, con la cappella e la struttura storica già utilizzata dai Savoia come casa di caccia, oggi adibita a locale invernale (sempre aperto, stufa a legna, coperte e letti a castello). Di fronte al rifugio, il laghetto di Montcorvé, gelato in inverno, sovrastato dalla particolarissima forma del Ciarforon (3642 m) e dalla snella ed elegante Becca di Monciair (3544 m). Dal pianoro antistante il rifugio, si notano anche le vette del versante orografico sinistro del Vallone di Seiva, culmine terminale della Valsavarenche. Superando il dosso morenico del laghetto è possibile, con 5 minuti di cammino, avvicinarsi al ghiacciaio di Montcorvé e allargare la visuale, comprendendo anche l’elegante e piramidale vetta della Tresenta (3609 m). La discesa avviene lungo l’itinerario di salita. Volendo, dal rifugio è possibile proseguire sino alla base del ripido ghiacciaio del Gran Paradiso che discende dall’omonima vetta. Lasciando sulla destra il locale invernale e la chiesetta, si prosegue in piano, parallelamente alla catena del Gran Paradiso, che si fiancheggia sulla destra nel senso di marcia, sino alla base del ghiacciaio. Muovendosi in zona morenica, si presti attenzione a non incastrare ciaspole e caviglie tra le pietre nascoste dalla neve!
T = Turistico / E = Escursionisti / EE = Escursionisti Esperti / EEA = Escursionisti Esperti con Attrezzatura
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Lungo l’altopiano di Le Prata (foto M. Moratti / Arch. Natura Avventura)
LA PRIMA PERLA DELL’APPENNINO IL PARCO NAZIONALE D’ABRUZZO SORTO PER LA PROTEZIONE DELLE SILVANE BELLEZZE E DEI TESORI DELLA NATURA QUI INAUGURATO IL IX SETT. MCMXXII Si legge ancora oggi così, nell’iscrizione incisa nel vivo della roccia a lato della fontana detta di San Rocco che sta a uno degli ingresso del parco - oggi diventato Parco nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise - nei pressi delle prime case di Pescasseroli, in direzione di Gioia. Da quel nucleo originario realizzato come parco nazionale privato si passò poi, l’11 gennaio del 1923 alla istituzione formale di quello che sarà, in ordine di tempo la seconda area protetta del paese, fondamentale per la salvaguardia degli ultimi esemplari della specie endemica del camoscio d’Abruzzo e dell’orso bruno marsicano tuttora a rischio estinzione.
Nelle pagine che seguono riprendiamo alcune riflessioni svolte da uno dei propugnatori del parco, Erminio Sipari, deputato abruzzese cugino di Benedetto Croce. Sono tratte da quella che è conosciuta come “Relazione Sipari”, agli Atti parlamentari come “Relazione del Presidente del Direttorio provvisorio dell’Ente Autonomo del Parco Nazionale d’Abruzzo alla commissione Amministratrice dell’Ente stesso, nominata con Regio Decreto 25 marzo 1923” e dalla relazione al Disegno di legge il 17 giugno del 1922.
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Un Natale ai conf i ni del "mundo" testo e foto di
laura pariani
Eravamo senz’altro curiosi di vedere le misteriose tre “stelle diaguitas” a dieci punte, disegnate secoli fa dagli aborigeni nella sabbia del deserto con pietre bianche (per i contorni) e rosse o nere (per l’interno del disegno)...
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l’antivigilia di Natale quando arriviamo a San José de Vinchina, nell’Argentina settentrionale, a 1500 metri di altitudine. Fa caldo, come sempre a dicembre nell’emisfero australe; tanto più che questa zona preandina è desertica. Difficile spiegare cosa ci abbia spinti fino a questo strano paese, che per noi che veniamo dall’Europa ha un aspetto quasi alieno: le case sono disposte in un’unica fila indiana lungo una strada di sei chilometri che punta dritta verso le Ande; tra capre che allungano il muso da dietro le tende di plastica, che fanno le veci delle porte, e vecchi seduti sul marciapiedi sotto il ritratto dell’ex presidente Menem. Eravamo senz’altro curiosi di vedere le misteriose tre “stelle diaguitas” a dieci punte, disegnate secoli fa dagli aborigeni nella sabbia del deserto con pietre bianche (per i contorni) e rosse o nere (per l’interno del disegno): hanno circa trenta metri di diametro e solo da un’altura sono visibili appieno nella complessità e bellezza del disegno. Spettacolo emozionante che pone domande: Chi le disegnò nel deserto? e a quale scopo? Più tardi, seduti alla tavola del nostro affittacamere, che tutti chiamano el Turco – barbetta brizzolata, occhi vivaci, lontane origini libanesi come molti abitanti della provincia di La Rioja – ci viene suggerita un’escursione in alta montagna: «Mañana» dice el Turco «è la vigilia di Natale: se salite in auto fino alla frontiera col Chile, a 5500 metri, i cantieri che stanno costruendo la strada internazionale saranno fermi per la festività e i camion non vi causeranno rallentamenti. Eppoi le previsioni meteorologiche danno tempo bellissimo in alta quota. Non potreste desiderare di meglio. La sera, al ritorno, se siete stanchi, potete fermarvi a Alto Jagué, a 2500 metri: ho un amico che vi potrà ospitare». All’alba del 24 dicembre ci mettiamo dunque in strada con una vecchia auto che ha sul groppone già diciassette anni. Augurandoci che il nostro catorcio regga almeno fino alla fine del viaggio, el Turco ci fa le ultime raccomandazioni: soprattutto di non perdere tempo per strada a fotografare le impronte dei dinosauri che sono visibili su molte rocce, ma di tirare avanti fino al primo rifugio, a 3600 metri, per non arrivare troppo tardi sulla puna. «Verso le undici del mattino» spiega «lassù comincia a soffiare un vento così gelido che non riuscireste a sopportare...». Entriamo nel canyon del fiume Troya. E nonostante gli avvertimenti del Turco,
Una casa di Alto Jagué Nella pagina a fianco la gola del fiume Troya
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San Pellegrino below zero Passo San Pellegrino
Slittamenti foto tratte da Dolomites - Visual Dualism di peter Mathis
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Mi sono fermato davanti al blocco di ghiaccio, sedotto. Mai vista una poesia simile abbracciata a un tubo di grondaia nel centro di Torino. Un’esplosione di merletto bianco e argento fissa nell’aria, senza più caduta. Che sia un regalo natalizio fatto dall’inverno alla città? «Il Natale ci arriverà presto alla gola» dice saggiamente Wodehouse, e mancano solo due giorni. Punto gli occhi dentro il ghiaccio, vicino vicino: concrezioni magiche, aghi soffici, bolle, anfratti, e laghi dove nuotano esseri lattescenti dalla capigliatura fluida, e all’interno la materia sacrificata, la sofferenza del rame strangolato dall’acqua. L’enorme grumo di cristallo mi sembra uno dei pochi simboli sinceri del Natale, una brillante scultura che le mani del freddo plasmano in omaggio a questi giorni. Mentre è più di un anno che, nonostante i successi del passato, le mie non riescono a creare nulla che possa definirsi scultura. PAG. 51 /
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foto tratte da Dolomites Visual Dualism di Peter Mathis
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La malaerba
davide longo
Finito che ebbe di mungere la vacca, Pricot guardò il latte nel fondo del secchio. Era così misero e senza sostanza che poteva vederci attraverso. - Bagascia - disse. La vacca mosse uno degli zoccoli, poi bevve dalla sua tazza di metallo. Nel silenzio lo schioccare della lingua parve un frastuono. La stalla era calda di odori. Il chiaro dalla piccola finestra strappava al buio una stagiera, due rastrelli da fieno, le scope e un basto coperto di muffe. L’unico sfarzo era una vecchia macchina da trebbiare a ridosso del muro. Pricot prese a massaggiare le mammelle della bestia seguendo lo stesso giro che fa il sole, come gli aveva insegnato suo nonno. Quello che aveva perso la gamba in Libia nell’11. - Ohi, bagascia - fece dopo un po’ sentendo che non ricavava niente.
La vacca si batté i fianchi con la coda a cacciare le mosche e riprese a ruminare. Pricot la squadrò: era stata una frisona gagliarda e aveva figliato sette volte. Adesso sembrava aver dentro soltanto del filo attorcigliato. E dire che vecchia non era. La colpì con un pugno nel costato. Quella scartò di lato, ma non emise alcun suono, come fosse abituata a quelle maniere, poi riprese a masticare tranquilla. Nel portico fuori della stalla Pricot trovò un vento freddo che prima non c’era. Gli alberi attorno piegavano la testa alla nuova stagione e le foglie avevano già preso il colore dell’inverno. Solo le montagne alte bruciavano di luce, ma così lontane davano più rimpianto che consolazione. Si toccò la gamba che sempre gli doleva, poi scese i due gradini che mettevano all’orto e si chinò a raccogliere l’ultima insalata. Dalla
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andrea niCoLussi goLo foto tratte da Dolomites - Visual Dualism di peter Mathis
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il GIORNO GIUSTO F
Ma quando facevo il pastore Allora ero certo del tuo Natale. I campi bianchi di brina, I campi rotti al gracidio dei corvi […] I tronchi degli alberi parevano Creature piene di ferite; mia madre era parente della vergine, tutta in faccende finalmente serena. Io portavo le pecore fino al sagrato E sapevo d’essere uomo vero Del tuo regale presepio. DAVID MARIA TUROLDO
Changing conditions Tofane di Rozes
ossi poeta Mio Dio, chissà con quali meravigliose parole riuscirei a cantare il tuo Natale, o magari solo l’inverno, la tua stagione più amata, ma non hai voluto che avessi questa grazia. Allora come una gazza rubo un po’qua un po’ là le parole dei poeti veri, e invento storie senza capo né coda, ma tu lo sai, sono come le preghiere in latino, mandate a memoria dai miei vecchi senza comprenderne il significato eppure non per questo di fede minore. Spero vorrai continuare a perdonarmi e a perdonarli. Le notti di dicembre sulla montagna si vestono di bianco e nero. Il nero del bosco e il bianco della neve. Bianche sono la luna e la Galassia che si stira indolente verso nord, neri sono i profili delle case e i pali del telefono. Bianco è il mio respiro che si condensa nel gelo della notte. Bianco è il fumo buono di legna che sale dai camini, dritto verso il cielo, a ricordarmi che là sotto c’è calore e umanità. Nero, il letame gelato, scavato di fresco per creare il mio nascondiglio. Bianco è il colore del silenzio, quello della solitudine è nero. Per una intera notte ho atteso la volpe, colmo di rancore e voglia di vendetta, non una sola gallina mi ha risparmiato la grande predatrice, ma io non so uccidere, non esiste al mondo causa giusta per farlo, e lei lo sa bene; cosi bene, da girarmi attorno per più di un’ora schernendomi. Alla fine sono così ridicolo nei panni del crudele vendicatore che scoppio a ridere, è una risata che ha il potere della redenzione; mentre lei, la Rossa, se ne va per la propria strada, caracollando e scrollando beffarda la testa, commiserando certo la mia debolezza, io sono felice che sia finita così. E questa notte nella buca dello stabbio dove ho atteso per ore, lunghe e inutili, come a volte è la vita, ricordo altre notti bianche e nere, prima che il fasto della modernità le inquinasse di luce, e ricordo giorni di bianco e celeste. Sono storie semplici, ma che andrebbero raccontate
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enriCo CaManni
foto tratte da Dolomites - Visual Dualism di peter Mathis
CENTO FANTASMI DI NEVE La montagna selvaggia – mountain wilderness per chi parla inglese – non sopporta i grandi numeri, ma ci sono delle eccezioni. In tempo di guerra le truppe alpine sono state costrette a colonizzare i severi territori delle cime, imparando a convivere in cento, mille soldati con un ambiente ostile dove il freddo e le valanghe facevano più vittime delle armi del nemico. Durante la guerra all’eresia mille valdesi guidati da Enrico Arnaud scavalcarono le Alpi occidentali per riprendersi le loro valli. In tempo di pace preti, boy-scout ed educatori vari hanno spesso popolato colli e montagne, protetti dal loro dio misericordioso. Fluid curtain Cascata di Fanes
E così si faceva anche quando insegnavo alla Scuola nazionale di scialpinismo della Sucai di Torino, tra i settanta e gli ottanta, ed era normale partire in pieno inverno dalla città con quattro pullman carichi di allievi e istruttori, salendo e scendendo montagne con strategie semimilitari, e tornando a casa quasi sempre tutti interi, con alti, anzi altissimi margini di sicurezza. Chi non l’ha provato inorridisce di fronte allo scialpinismo di massa, perché la dimensione collettiva uccide l’avventura – si pensa, si dice – e diseduca le persone rendendole passive. Il concetto è giusto, ma esistono molti tipi di avventura. Uno dei meno spettacolari consiste nell’adattarsi alle esigenze del più debole e nel calibrare le capacità personali su quelle del gruppo: quando il più debole
arriva in cima è comunque un successo, se ci riescono solo i bravi è un fallimento. Forse non è scialpinismo nel senso tradizionale (ma cosa sarà mai il “vero” scialpinismo?), ma è certamente un’esperienza umana intensa, a volte generosa, a volte esibizionista, comunque provocatoria perché rovescia i canoni individualistici della montagna e impone di confrontare le proprie (in) sicurezze con quelle degli altri. Per dieci anni ho preso molto sul serio l’avventura della Sucai, barando sull’età per poter essere ammesso come allievo a quindici anni, diventando al più presto “distintivato”, poi istruttore e infine direttore a ventun anni appena compiuti, nell’autunno del 1978. Iniziavo il terzo anno di università. Oggi che guardo al ragazzo
che ero come a un combattente di epoche lontane, ma per fortuna gli assomiglio ancora, mi pare che dirigere un esercito come la Sucai a ventun anni sia un’impresa sospesa tra la follia e l’onnipotenza. Eppure non ero affatto incosciente, da ragazzo; sapevo gestire la responsabilità e occultare la passione anche meglio di quanto sappia fare oggi con l’esperienza e la moderazione dell’età. Alla fine la pagai con un esaurimento nervoso, ma questa è un’altra storia. Il corso di scialpinismo dell’inverno 1978-79 non fu né particolarmente facile né particolarmente fortunato. Cominciammo bene con una classica Pitre de l’Aigle in alta Val Chisone, poi ci arenammo in un impasto di neve-cemento sotto la Croix de Chaligne, nella valle del Gran San Bernardo, e PAG. 65 /
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testo di SEBASTIANO AUDISIO, MARCO BATTAIN, ORNELLA GIORDANA e MARIO PIASCO foto di SEBASTIANO AUDISIO
la MONTAGNA nella mente
dalle Alpi Marittime all’Etna
a ello sulla pist trekking ad an Momenti del dell’Etna Altomontana
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Un gruppo di ragazzi in viaggio lungo le pendici del grande vulcano, “a muntagna” siciliana per una esperienza di “
montagna terapia”
L
a montagna può aiutare ad affrontare meglio la realtà del disagio psichico, perché frequentare la montagna non è solo misurarsi con le proprie capacità fisiche ma anche un percorso verso la salute e il miglioramento del proprio funzionamento: un cammino al di fuori delle mura istituzionali, sperimentando nuovi modi di relazionarsi in gruppo e con se stessi. La montagna diventa così un luogo terapeutico che coniuga le dimensioni corpo-mente-ambiente, individuo-gruppo, lavoro clinico e psicosociale. Questo è il racconto di un’esperienza di un gruppo di ragazzi che va inquadrata all’interno dei percorsi riabilitativi che vengono seguiti dai Servizi di Psichiatria Territoriale ASL CN (Cuneo)1. Un Gruppo è un ambito in cui si sperimentano esperienze e dinamiche relazionali, si condivide una attività (fare insieme) con un obiettivo/percorso/“senso” nella continuità. Quindi non è un momento per occupare il tempo, o solo ricreativo, o solo sportivo, ma ha una finalità di cura che si associa agli altri interventi terapeutici (farmacologici, medico-sanitari, psicologici, sostegno alla domiciliarità, al lavoro ecc). L’obiettivo di questo insieme di pratiche è il miglioramento della qualità della vita della persona e della sua salute in senso globale: clinico, aumento del livello di autonomia, rinforzo dell’autostima (enpowerment: ce l’ho fatta, posso farcela anch’io e di nuovo anche in altre circostanze). Le uscite settimanali di preparazione al progetto “Etna 2012” sono state escursioni su sentieri e attività di sci di fondo e racchette da neve nella stagione invernale, in collaborazione con varie realtà territoriali come i Centri sci di fondo di Aisone e Festiona in Valle Stura (Cn) che ci ospitano sulle loro straordinarie piste, i Parchi regionali delle Alpi Marittime e Valle Pesio e il Corpo Forestale, distaccamento di Demonte. Molto importante è stato “l’appoggio logistico”, e non solo, da parte del Comune di Aisone. Nei mesi prima della partenza, la preparazione, oltre
all’allenamento fisico, ha visto coinvolti i ragazzi nel reperimento delle attrezzature e dei materiali necessari allo scopo. L’allestimento dello zaino, valutando le cose effettivamente da portare, è stato un momento importante sul cammino dell’autonomia e del recupero di competenze personali. Le collaborazioni | Fondamentale nella realizzazione
dell’avventura è stata la partecipazione attiva in ogni fase di studio, di organizzazione logistica e di supporto sul “campo” del Cai Torino. «Collaborare alla realizzazione del trek all’Etna è stato per il Cai Torino» commenta il Presidente Osvaldo Marengo «una grande occasione di crescita. All’inizio confesso che eravamo un po’ esitanti: il progetto sembrava fuori dalla nostra portata e dal nostro modo abituale di andare in montagna accompagnando i nostri soci». Quando si parla di disabilità psichica la nostra cultura, che si basa esclusivamente su stereotipi e su modelli di riferimento che premiano il bello, il migliore, piuttosto che chi ha successo, si viene presi in contropiede. «Poi, c’è stato l’incontro. Per me era la prima volta. Mi salutavano come ci fossimo lasciati la sera prima, allegri e sorridenti. Abbiamo passeggiato nel bosco tutti insieme, chiacchierando amabilmente o in assoluto silenzio. In quei momenti, guardando il viso di questi nostri nuovi amici, ho avuto la sensazione di essere davvero io l’unico “diverso”». Dopo è stato un susseguirsi di incontri tra Ornella Giordana e Marco Battain, accompagnatori escursionistici del Cai Torino, e il gruppo di infermieri, Mario Piasco e Sebastiano Audisio, con i responsabili del Servizio e del Dipartimento di salute mentale di Cuneo i dottori Ugo Palomba e Francesco Risso, persone senza le quali questo sogno non si sarebbe realizzato. In questo quadro abbiamo altresì ottenuto la fattiva collaborazione, per gli aspetti sportivi, dell’Unione Sportiva Acli Cuneo e Piemonte. Il loro appoggio è PAG. 73 /
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testo e foto di FULVIO BOSIO e CARLOTTA MONTALDO
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La montagnaterapia è un originale approccio metodologico a carattere terapeutico-riabilitativo
«Non è mai lo stesso uomo che parte e ritorna» dal film La Trace, 1984
e/o socio-educativo, finalizzato alla prevenzione secondaria, alla cura e alla riabilitazione degli individui portatori di differenti problematiche, patologie o disabilità; è progettato per essere svolto, attraverso il lavoro sulle dinamiche
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o conosciuto l’arrampicata quando sono stato ospite di una comunità terapeutica, esperienza durata quasi tre anni. È dal 2000, infatti, che cerco di continuare questa esperienza ma non sempre ci sono riuscito. Ero arrivato anche a comprarmi l’attrezzatura ma mi è stata rubata in occasione di un’altra esperienza in comunità. Sono riuscito a praticare questo nuovo sport solo quando sono stato lontano dalle droghe, ma lo scorso anno, mentre ero in piena ricaduta mi è stato proposto di riprendere la pratica dell’arrampicata. All’inizio l’idea di riprendere ad arrampicare mi spaventava perché mi sentivo fisicamente e moralmente piuttosto giù, poi parlandone con chi mi segue mi sono convinto, mi sono fatto prendere e sono nuovamente riuscito ad arrampicare. Grazie all’istruttore che mi ha dato l’opportunità di arrampicare anche altre volte, oltre gli incontri di Climblab, ho unito la ripresa fisica a quella mentale e adesso sto molto meglio. L’arrampicata inoltre mi ha allontanato dalla depressione in cui stavo nuovamente cadendo. A volte faccio fatica a farmi fare sicura: so che se si fanno le cose con attenzione è quasi impossibile farsi male; ma è proprio lì la mia paura, perché so l’attenzione che ci metto io ma non quella degli altri. Trovo quindi importante la regola di non arrampicare “fusi”, cioè sotto effetto di droghe. Quando arrampico sono concentrato su dove mettere piedi e mani; così la fiducia in me stesso viene messa alla prova e noto miglioramenti continui. Non ho tempo di pensare ad altro e mi sento caricato dalla fiducia che il mio compagno di cordata pone su di me. Anche la paura di cadere viene vinta accrescendo la forza d’animo e la determinazione con cui faccio le cose. Se dovessi descrivere con un’immagine l’arrampicata, direi che per me è sporcarsi le mani con un altro tipo di polvere: la magnesite. Riesce anche a sorridere Marco, mentre racconta la sua esperienza di montagnaterapia attraverso l’arrampicata. Un’esperienza che vi vogliamo raccontare.
di gruppo, nell’ambiente culturale, naturale e artificiale della montagna.
Nella montagnaterapia, per raggiungere gli obiettivi prefissati, gli interventi socio-sanitari si articolano e si integrano con le conoscenze culturali e le attività tecniche proprie delle discipline della montagna, per tempi brevi o per periodi della durata di alcuni giorni, nel corso dell’intero anno. Il lavoro si integra con gli eventuali trattamenti medici, psicologici e/o socio-educativi già in atto. L’Arrampicata Terapeutica, è parte di questo più generale approccio metodologico, ed è l’unica attività sportiva che si svolge in verticale, sospesi nel vuoto. L’eccezionalità della situazione permette di sperimentare il “fallire” senza vergogna e di scherzare sulle proprie incapacità, di ridefinire i ruoli all’interno del gruppo e la stima di sé. L’arrampicata incrementa l’autoefficacia, l’autostima, il locus of control interno, la fiducia e la responsabilità nell’altro, la consapevolezza corporea, rappresenta un grande stimolo a condurre stili di vita sana. La “via” nell’arrampicata sportiva rappresenta un esperimento, un confronto con il rischio e la paura: una paura irrazionale legata al timore del vuoto, alla difficoltà nel lasciarsi andare, alla fiducia nel compagno e nell’attrezzatura, elementi fondamentali nella relazione con obiettivi terapeutici. L’atleta si pone in uno spazio inusuale da cui emergono degli aspetti emotivi molto intensi e inibenti quali l’ansia e la paura, che rappresenta una delle principali componenti su cui occorre lavorare quando si propone l’attività dell’arrampicata a soggetti in terapia. La scalata diventa un PAG. 77 /
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Sahara algerino TASSĂŒLI
gioiello di pietra
I millenari cipressi di Tamrit sono una delle meraviglie del Tassili Nella foto piccola, la terrazza dell’eremo di Padre Foucauld
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«In effetti quello che abbiamo visto nel dedalo di rocce del Tassili supera ogni immaginazione».
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criveva così nel 1958 Henry Lothe, l’esploratore francese che, negli anni Cinquanta del secolo scorso, scoprì nel cuore del deserto più grande del mondo una concentrazione di pitture rupestri mai conosciuta fino ad allora. Fu la mostra organizzata in seguito da Lothe al Musée de l’Homme di Parigi con le riproduzioni di quei dipinti a consacrare l’altopiano del Tassili n’Ajjer come il sito di arte rupestre più importante del pianeta. Nasceva un mito.
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ltre mezzo secolo più tardi, apparentemente al riparo dalla rivoluzione dei giovani che ha scosso società, assetti politici e naturalmente anche appeal turistico di altri Paesi del Maghreb come Tunisia e Libia, l’Algeria, seppur con alterne vicende, prosegue il suo processo verso la piena integrazione nel grande catalogo planetario del turismo. A tenervela lontano per circa un decennio, infatti, era stata una sanguinosa guerra civile innescata negli anni Novanta del secolo scorso che ha tutt’altro che risolto i numerosi problemi in campo. Questo è un Paese enorme, in Africa secondo solo al Sudan, con una superficie di 2,38 milioni di kmq pari a quella di Germania, Francia, Spagna, Italia, Polonia, Regno Unito e Portogallo messe assieme (la popolazione è di 33 milioni di abitanti) e occupato per il 90 % dalle immense e inospitali distese del Sahara.
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occia e sabbia, sabbia e roccia. Note da tempo ai viaggiatori occidentali per la loro bellezza, le regioni del sud-est sono quelle dove la morfologia del territorio e i segni di una remota frequentazione umana producono le combinazioni più esaltanti. È qui che si estende l’altopiano del Tassili (si pronuncia Tassìli, NdR), distinto tra Tassili dell’Hoggar a occidente e Tassili n’Ajjer a oriente, presso il confine libico. Qui sconfinati orizzonti sono stati disegnati da antiche attività vulcaniche e dall’erosione generata dal vento e dai fiumi che in passato vi scorrevano (la più recente fase di inaridimento, che interessa tuttora il Sahara, è iniziata circa 10.000 anni fa). Qui, durante il progressivo riscaldamento climatico, il
Un’acacia lungo l’oued Egharghar In basso, la sabbia e la roccia disegnano gli orizzonti dell’Hoggar Nella pagina a fianco, in alto dalla terrazza dell’eremo di Padre Foucauld si gode di una splendida vista sulle vette dell’Assekrem sotto a sinistra, salendo al Colle dell’Assekrem e, a destra la guelta di Affilal In basso, le curiose formazioni rocciose della valle di sabbia di Tagrera
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Glen Plake, Eva Walkner, alpineXtrem Team Pic: Hansi Heckmair
climb to SKI
Camp 2013 22.-24. 04
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