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G. CARESIO

editoriale

MMM RIPA, PARTICOLARE

Si discute di futuro dell’alpinismo. Si discute di futuro della montagna. Solo apparentemente legati. Nella realtà l’uno è separato dall’altro. Li accomuna l’incognita, ritornello che, invece, raccoglie universi di consuetudinaria attualità. Il futuro è l’interrogativo che si pongono le persone delle città dell’Emilia Romagna squassata dal terremoto che, una volta di più, ha indicato la fragilità del nostro Paese, indicando subliminalmente - ma neanche tanto - quali siano i veri investimenti di cui l’Italia necessita: messa in sicurezza idrogeologica e antisismica, per salvaguardare patrimonio ambientale, paesaggistico e storico culturale. Altro che Ponte sullo Stretto e galleria per il TAV sotto le Alpi Cozie! Sono nato in montagna, in Valle di Susa. Ho avuto l’opportunità, negli anni in cui sono stato lontano da ALP, di occuparmi della montagna come amministratore e continuo a farlo. Chi ha affrontato il tema del futuro dell’alpinismo, ha sancito la necessità di preservare un terreno di gioco che è ambiente di vita naturale ma anche sociale. In questi anni mi sono preoccupato e occupato soprattutto di questi due. La domanda finale è sempre questa: c’è un futuro per le nostre terre alte? Interrogativo sempre più angosciante. Perché riflette l’atteggiamento dell’umanità nei confronti del futuro del mondo, a quarant’anni dal monito che venne lanciato dal Club di Roma. Su suo incarico il rapporto redatto, dal Massachusset Institute of Technology, “I limiti della crescita”, diede indicazioni precise. Tutte,

sinora, inopinatamente inascoltate. Come quelle per uno sviluppo sostenibile, nate vent’anni fa dalla Conferenza mondiale sull’ambiente di Rio de Janeiro. Sulla base delle conoscenze condivise a livello planetario da quegli incontri, oggi sappiamo che anche l’Umanità sta accumulando un debito, sempre meno esigibile, nei confronti delle risorse disponibili. Lo spread ambientale cresce e, a differenza di quello sancito dai mercati e dall’economia - scienza sociale retta da leggi opinabili che dipendono dall’organizzazione politica e sociale - la risposta dovrà seguire le regole delle leggi naturali, pure e ferree. E non ci sarà denaro che lo potrà sanare. Torniamo alla montagna, dove le differenze tra territori sono sempre meno tollerabili. C’è bisogno di ridisegnare una montagna solidale che non dispensi privilegi ormai intollerabili a fronte di emergenze al limite della sopravvivenza. Le caste intoccabili sono giustamente al centro del mirino di chi chiede più solidarietà ed equità. Vale anche per le nostre terre alte, che aspettano di ricevere risposte credibili. Infine un’ultima domanda: chi frequenta le alte quote per passione, per sport, per turismo, sarebbe disposto a pagare una tassa sulla montagna, come si prospetta per le città d’arte? Applicata per i centri oltre una certa quota, potrebbe essere una soluzione per aiutare a ripianare gli scompensi di cui soffre il territorio montano. Fornitore di risorse indispensabili, per salvaguardare le quali chiede investimenti. PAG. 1 /

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> IN COPERTINA

sommario 282 ANNO 2012

1 / editoriale

di Valter Giuliano

news 6 / Melloblocco 2012

BOULDER TRIBÙ di Marco Destefanis 11 / Trento filmfestival

SESSANT'ANNI FESTEGGIATI IN SALUTE di Ugo Vallantri 14 / forum alpinismo

LE NUOVE RAGIONI DELL'ALPINISMO di Barbara Goio e Camilla Visca 20 / iniziative

ALPINE DATA MAP ALP POWDER PHOTOCONTEST 24 / libri

TRE GRANDI CLASSICI INDISPENSABILI di Ugo Vallantri 27 / libri segnalazioni

Maurizio ‘Manolo’ Zanolla su Roby Present (foto P. Calzà)

30 / i classici di Alp-fotografia

ALPINISMO EROICO DI GABRIELE BOCCALATTE E NINÌ PIETRASANTA di Giuseppe Garimoldi 34 / arrampicata Pure Vertical

di Maurizio ‘Manolo’ Zanolla 42 / intervista

DAVIDE CARRARI, VERTICALMENTE DÉMODÉ di Giulio Caresio

70 / escursionismo La Valle Crosia

TERRA DI ASTRONOMI, DI SCRITTORI E ANCHE DI ALPINISTI di Alessandro Lasagno 75 / SCHEDA GIALLA 76 / una splendida giornata

IL DEBUTTO a cura di Paolo Campagnoli 78 / ritratti di Alp

46 / SCHEDA GIALLA

THIS WILL DESTROY YOU: EDMONDO DE AMICIS di Daniela Zangrando

50 / musei della montagna Messner Mountain Museum

80 / roboclimber Roberto Zannini

L'EREDITÀ DELLA MONTAGNA 6a PUNTATA RIPA di Valter Giuliano

L'ARRAMPICATORE E IL SUO REPLICANTE di Luciano Santin

60 / arrampicata Finale

LA VAL CORNEI: NEVER SAY NEVER di Christian Roccati

82 / alpinismo Bhagirathi

SOFFICI BIANCHE EMOZIONI di Daniele Nardi 94 / vetrina

68 / SCHEDA GIALLA

Manolo su Roby Present (foto P. Calzà)

Sisifo felice «La bellezza non è l’obiettivo degli sport di competizione, ma lo sport di alto livello è uno degli ambiti in cui la bellezza umana ha le maggiori probabilità di esprimersi […] la potremmo chiamare bellezza cinetica. La sua forza e il suo fascino sono universali». David Foster Wallace Federer as religious experience, New York Times 20 agosto 2006

sisifofelice@vivaldaeditori.it


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BOULDER

BREAKING NEWS _ BREAKING NEWS _ BREAKING NEWS _ BREAKING NEWS _ BREAKING NEWS

NEWS

TRIBÙ

LO SLOVENO KLEMEN BECAN SUPERA LA PANCIA DI SALL ON ME

A SINISTRA DALL’ALTO CRASHPAD IN SPALLA SI PARTE ALLA RICERCA DI UN MASSO DA SALIRE, SLACKLINE IN NOTTURNA, ROBERTA LONGO SALE LA DAMA DEL SOLE


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NEWS boulder di MARCO DESTEFANIS

MELLOBLOCCO 2012 TRA PIOGGIA E BIRRA VERSO IL DECENNALE DELL’APPUNTAMENTO IN VAL DI MELLO questa nona edizione dell’oramai più celebre appuntamento per boulderisti si sono preiscritti in 2700: arrivano da tutta Europa insieme ad alcuni degli scalatori più forti in circolazione. Ondra, Sharma, Di Giulian, Coxsey, Zangerl, Stöhr, Caminati, Moroni, Gullsten, Calibani, Fischhuber, Puigblanque, Becan e tanti altri. Una lista di nomi impressionante. Poi il meteo si mette di traverso e la pioggia flagella i sassi e i prati per due giorni interi. Non si bagnano soltanto le uscite dei sassi, l’acqua permea la roccia e cola anche sotto agli strapiombi. Si rimane bloccati per due giorni su quattro, quelli del week-end. Chiedo a Simone Pedeferri (tracciatore storico dei blocchi di gara) se non è un po’ deluso di non aver visto scalatori all’opera sulle sue creazioni. «In parte sì, indubbiamente è stata un’edizione eccezionalmente piovosa». Da scalatore capisce bene la frustrazione di persone venute da tanto lontano che rimangono inoperose a ciondolare al Centro Polifunzionale. Ma la sua è una visione più ampia di cui il Melloblocco come evento è solo una piccola parte. Da quasi un decennio, anno dopo anno, “dipinge” un nuovo settore di gara e, anche se le grosse aree sono già state esplorate, a sentir lui rimangono ancora molti singoli massi da sfruttare. PEDEFERRI SEGNA LA PARTENZA SU UN BLOCCO DI GARA Il suo lavoro comincia quando vede una linea di scalata e in questo - confessa - è parecchio bravo. Dopo anni di esperienza intuisce dove una lama si romperà lasciando spazio a una presa, quando ancora il masso non è pronto e dove anche i suoi collaboratori stentano a vedere un passaggio. Poi viene la pulitura. Con l’aiuto di una squadra di dieci persone regola il sottobosco, elimina il muschio dal sasso, le tacchette e le scaglie friabili, spiana la base dei massi e traccia i sentieri. Il regalo di quest’anno è stato la pulitura dell’area Bregolana, lungo la strada che porta ai Bagni (altro settore già sfruttato, eppure sempre da scoprire, vista la spessa coltre di muschio che copre rapidamente ogni sasso). Vicino al campeggio e più su, dove cominciano i tornanti, sono stati realizzati ben 10 blocchi di gara e un’infinità di passaggi di tutti i gradi.

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NEWS boulder IN SENSO ORARIO UN SACCHETTO PORTA-MAGNESITE, YULIA ABRAMCHUK (RUSSIA) SCALA QUARZO LIQUIDO, IMPRONTE DI MAGNESITE, SCENE DALLA GRANDE FESTA

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NEWS boulder A DESTRA LA NOVARESE IRENE BARIANI (TERZA IN CLASSIFICA FINALE) SCALA MELLOSPIGOLO, QUI SOTTO SI APPROFITTA DEI MATERASSINI PER UN MOMENTO DI RIPOSO E LA SCRITTA "MELLOBLOCCO" PROIETTATA COME SEGNALE LUMINOSO SULLE PARETI DI ROCCIA

Ma anche chi non ha potuto scalare e neppure vedere all’opera i tanti big presenti non è scappato alla ricerca di una falesia asciutta. Perché il Melloblocco ormai non è più soltanto un’occasione per scalare, è un appuntamento fisso che si ripete anno dopo anno e come tutti gli eventi ha sviluppato i suoi riti, le sue abitudini. Al Mello funziona così, si resta per celebrare una festa. Per scalare ci sarà tempo, un altro fine settimana, così come per godere della pace e del silenzio dei monti. Adesso non importa trovarsi uno attaccato all’altro con le tende che occupano ogni metro quadro disponibile (possibilmente senza rubarlo al pascolo, onde non litigare con i proprietari dei terreni). Non importa avere i piedi bagnati o pigiarsi nei furgoni navetta che salgono e scendono le valli pieni di persone e crash pad (e qui vorrei che chi non lo ha mai fatto provasse a inserire un paio di quegli affari nel bagagliaio della propria auto, poi ne riparliamo!). 282 / PAG. 9


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NEWS boulder IL GECO TATUATO È ANIMALE D’ISPIRAZIONE PER UN ARRAMPICATORE

A DESTRA IN PARTENZA SU LA DAMA DEL SOLE IN BASSO CONCENTRAZIONE AL MASSIMO PER TENERE LE PICCOLE TACCHETTE DI QUARZO LIQUIDO

La tribù che si è spostata in valle non ha voglia di fare i bagagli. Si ripara sotto i sassi che avrebbe dovuto scalare, accende un fuoco, tenta ugualmente un passaggio. Ci si dà alla griglia, ai pizzoccheri, alla birra. Alla sera ci sono i concerti e le feste. Con un po’ di esitazione chiedo a Simone cosa ne pensa di un’ipotesi che ho sentito circolare sabato e domenica, durante i giorni della frustrazione. «Pensi che avrebbe senso preparare i passaggi di gara in modo da poterli rapidamente coprire con un telo impermeabile all’occorrenza?». «Mmm, forse sì, perlomeno permetterebbe a chi ha fatto tanta strada di fare qualcosa». In fondo la manifestazione è cresciuta moltissimo e anche l’arrampicata è cambiata: il bouldering è un settore in crescita ed è

anche grazie agli sponsor che tanti atleti titolati vengono portati in valle. «Per ogni cento boulderisti ci saranno al massimo 10 rocciatori che vengono a ripetere le vie lunghe. E anche se il mio interesse principale è rivolto alle vie di montagna, mi piace quello che la manifestazione mi permette di fare. Quando si scalano i blocchi, invece di scavarli nelle cave, si ridà valore al territorio, si salva la natura della valle». L’anno prossimo il Melloblocco compirà 10 anni. Simone mi confida di avere già alcune idee in proposito, ma per ora rimangono top secret. Noi speriamo nel sole, la festa in ogni caso ci sarà.


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NEWS Trento filmfestival di UGO VALLANTRI

Compleanno festeggiato in salute DA SESSANT’ANNI TRENTO È LA CANNES DELLA MONTAGNA quello che all’origine poteva sembrare un canzonatorio paragone per stigmatizzare l’effetto passerella che, si osservava criticamente, tendeva a prevalere sui contenuti, oggi suona come complimento per la capacità di raggiungere un equilibrio tra l’uno e gli altri. In sessanta edizioni ha raccontato intere epoche, con le storie dei loro protagonisti, siano essi eroi o semplici appassionati degli spazi vitali dell’alta quota, della natura selvaggia, della solitudine estrema. Ha testimoniato tendenze, filosofie, pensieri, evoluzioni tecniche e sociali, mutazioni ambientali e ideali, tra dissacrazioni e rispetto, innovazioni e memoria. Sfogliandone l’album sorge spontanea la sceneggiatura di un nuovo film capace di raccontare un mondo, il nostro, percorso da romantiche passioni, accese tensioni, dolorose tragedie e straordinari traguardi. In fondo null’altro che la storia di una umanità che per strade diverse insegue, con speranza e tenacia, il senso della vita, e che per farlo sceglie universi diversi, a volte solo apparentemente distanti. Anche questa edizione, al di là del concorso cinematografico che ogni anno non può far altro che registrare la vitalità, più o meno vispa, del settore, ha saputo offrire spunti di un certo interesse. Ma cominciamo con le notizie sul concorso, la vera ragione di esistere del Festival. Alla serata del Teatro Sociale, conclusa con un claudicante recital teatrale dedicato a Dino Buzzati, sono stati premiati, con le Genziane, film mediamente di qualità discreta. Ne diamo conto nel box. Data la notizia, ci permettiamo un commento. Riguarda un titolo sul quale ci soffermiamo in un’altra sezione della rivista (cfr. Pure Vertical). Parliamo di Verticalmente démodé, protagonista Manolo. In questo caso non sono però solo il personaggio e l’impresa a fare notizia; è il linguaggio cinematografico complessivo che fa la differenza, per la scrittura narrativa originale ben trasferita nelle immagini.

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E veniamo ai gustosi contorni, tra cui scegliamo due momenti particolari: la serata di venerdì 4 maggio, condotta da Reinhold Messner sul tema “Sessant’anni di alpinismo, sessant’anni di Filmfestival”, ha visto chiamati sul palco quelli che secondo il re degli Ottomila sono stati i nomi simbolo, rappresentativi dell’alpinismo degli ultimi decenni. Come tutte le scelte, criticabile; ma sicuramente autorevole. Ecco le prime scelte di Messner: IL REGISTA RUSSO VICTOR KOSSAKOWSKI

SOTTO UN’IMMAGINE DI ¡VIVAN LAS ANTIPODAS!, VINCITORE DELLA GENZIANA D’ORO (FOTO ARCH. TRENTO FILMFESTIVAL)

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NEWS Trento filmfestival

Genziane agli antipodi TUTTI I PREMIATI DEL 60° FILMFESTIVAL Immagini straordinarie e un’idea ingegnosa: rappresentare la vita agli “antipodi” del pianeta. È stata questa originale abbinata, tradotta su un piano artistico in modo impeccabile, a convincere la giuria internazionale, incaricata di assegnare ad assegnare tra le 26 opere selezionate per il concorso internazionale, con giudizio unanime a ¡Vivan Las Antipodas!, diretto dal regista russo Victor Kossakowski, la Genziana d’Oro Gran Premio Città di Trento del

60° TrentoFilmfestival. Una festa nel segno del grande cinema (e soprattutto di qualità) quella per i sessant’anni della “madre” di tutti i festival di montagna al mondo, ma anche del grande alpinismo riunito a Trento (e anche a Bolzano) per dare voce e visibilità ai protagonisti delle generazioni e delle scuole che si sono succedute in questi sessant’anni, da Aste ad Adam Ondra, per capirci. Ritornando ai premiati, si conferma tra i documentaristi più sensibili e talentuosi la giovane Marianne Chaud: con La nuit nomade girato tra le tribù nomadi del Ladak, si è aggiudicata la sua terza Genziana d’oro, cioè il Premio della Città di Bolzano per il

miglior film di esplorazione avventura. La Genziana d’oro del Club Alpino Italiano al miglior film di alpinismo ritorna invece in Italia grazie al regista Davide Carrari (l’abbiamo intervistato, vedi pag 42) e al suo Verticalmente démodé, un raffinato bianconero per fissare il gesto dell’arrampicata nella sua espressione più alta, quella “creativa” di Manolo. Le tre Genziane d’argento sono andate a La vie au loin di Marc Weymuller per il miglior contributo tecnico artistico; a La voie Bonatti di Bruno Peyronnet, quale miglior mediometraggio «capace di collegare attraverso una corda sottile l’eroica epoca dell’alpinismo e le sfide affrontate

dagli scalatori contemporanei (concatenare le più belle vie di Bonatti nel gruppo del Bianco, NdR), offrendo una prova evidente che lo spirito di Bonatti è fondamentale per raggiungere la vetta»; a Cold di Anson Fogel come miglior cortometraggio capace di mostrare la vera sofferenza e la sopravvivenza durante una ascensione invernale di un Ottomila. Serate alpinistiche con il tutto esaurito (5000 presenze), incontri sempre affollati, proiezioni pomeridiane e serali da sold out (spettatori alle proiezioni incrementati del 20 per cento). Un traguardo così importante non poteva essere festeggiato in modo migliore. M.B.

MESSNER CON GLI OTTO RAPPRESENTANTI DELL’ALPINISMO DEGLI ULTIMI DECENNI: DA SINISTRA, CHRISTOPHE PROFIT, ALBERT PRECHT, ARMANDO ASTE, ALEX HUBER, CATHERINE DESTIVELLE, ROLLY MARCHI, LO STESSO MESSNER, HERVÉ BARMASSE, DENIS URUBKO (FOTO ARCH. TRENTO FILMFESTIVAL / D. PANATO)

NELLA PAGINA A FIANCO, IN ALTO LA LOCANDINA DEL FILM VERTICALMENTE DÉMODÉ SOTTO DA SINISTRA, HERVÉ BARMASSE CON ADAM ONDRA E REINHOLD MESSNER (FOTO ARCH. TRENTO FILMFESTIVAL / D. LIRA)

Anni Cinquanta: Rolly Marchi, arzillo novantunenne, che sale sul palco e abbraccia volentieri Catherine Destivelle, per rappresentare un decennio che nelle parole di Messner è stato segnato dai personaggi di Cesare Maestri e Joe Brown, presenti in video. Parole commosse per Walter Bonatti, ed ecco Armando Aste in rappresentanza degli anni Sessanta: nel ‘62 è lui a guidare la prima italiana alla Nord dell’Eiger. Per gli anni Settanta la scelta ricade sull’austriaco Albert Precht, capace di passare dall’alpinismo delle staffe e degli scarponi alla libera, inanellando oltre mille prime salite. Grandes Jorasses, Eiger e Cervino: il primo concatenamento in 24 ore, nel luglio del 1985 e in 40 ore e 54 minuti in invernale nel marzo di due anni dopo sono valsi a Christophe Profit la 282 / PAG. 12

nomina a simbolo degli anni Ottanta. Sul gradino più alto per gli anni Novanta sale la prima donna, Catherine Destivelle, capace di salire in invernale la Nord dell’Eiger e di aprire nel giugno del 1991 una nuova via in solitaria sul Petit Dru. Per l’anno del Millennio, Messner chiama sul palco il tedesco Alexander Huber, che si presenta con filmati da brivido mentre danza, sulla verticale, in libera e in solitaria. Per il decennio appena trascorso che si apre al futuro, non è più solo una presentazione: si tratta della “benedizione” del valdostano Hervé Barmasse e di Simone Moro, rappresentato sul palco dal fedele compagno di cordata Denis Urubko. Ancora Reinhold Messner a dirigere l’orchestra nella puntata extraterritoriale, che ha concluso la manifestazione nel “suo”


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NEWS Trento filmfestival

La presenza di ALP

castello di Firmian, sede del nucleo principale del Messner Mountain Museum. Per il forum internazionale “Quo climbis?”, organizzato in collaborazione con l’IMS di Bressanone all’insegna della parola d’ordine «Discutendo proveremo a salvare l’alpinismo», ha chiamato a raccolta, per un confronto, “alpinisti di prima classe”. Ma ne parliamo a parte, in uno spazio che dà conto dei pensieri e delle tendenze dei nuovi protagonisti dell’alpinismo e dell’arrampicata. Ci basti qui osservare che, certo non per colpa sua, il riconosciuto carisma di cui gode non solo l’atleta, ma il pensatore, ha finito con il pesare sul tavolo dei relatori imponendosi e di fatto riducendo a comprimari consenzienti gli alpinisti chiamati a esprimere il loro pensiero.

OSTANA È VIVA, VIVA OSTANA Sono stati molti i visitatori della mostra “Viva Ostana, Ostana Viva”, che si è tenuta nel foyer dell’auditorium Santa Chiara, durante l’ultima edizione del Film Festival di Trento, organizzata dal Comune di Ostana con ALP, a cura di Sergio Beccio. Soprattutto giornalisti e addetti ai lavori, dal momento che le foto facevano da cornice ai tavoli dell’ufficio stampa e dei monitor per la visione delle opere in concorso. Le immagini, raggruppate in 34 pannelli, riproducono le tappe fondamentali di un paese già familiare agli appassionati di cinema di montagna: Ostana, il Comune soggetto del film di Giorgio Diritti Il vento fa il suo giro, che ha riscosso un lungo quanto insperato successo nelle sale di tutt’Italia. Grazie all’intraprendenza degli amministratori locali e alla corale collaborazione della popolazione, il paese di Ostana in pochi anni è cambiato e ancora sta cambiando. Sono state avviate e completate molte ristrutturazioni assolutamente rispettose della tipologia architettonica locale e, inoltre, un programma finanziato da Enti pubblici ha permesso l’inserimento operativo di nuove attività che torneranno a rendere viva una realtà colpita duramente dallo spopolamento a partire dagli anni ‘60. In tempi in cui si propone di chiudere i Comuni di montagna, ci troviamo servita su un piatto d’argento una decisa smentita alla teoria che non conviene investire in aree marginali, pregiudizialmente ritenute senza speranze. Qui c’è stato qualcosa in più della speranza. Ci sono stati investitori che hanno messo in piedi nuove attività, prezzi

delle case in aumento, idee per l’insediamento di nuove forme produttive, come quella di Giorgio Diritti stesso, che vi insedierà una scuola di cinema di montagna. Ma la soddisfazione maggiore, quella che fa emozionare il sindaco Giacomo Lombardo quando ne parla in pubblico, sta nell’aumento graduale della popolazione: è tornato lo scuolabus, ci sono di nuovo bambini in paese! Intanto la mostra ha avuto un primo risultato concreto: Luca Gadenz, il sindaco di Sagron Mis, Comune trentino ai confini col Veneto, ha visto in Ostana un caso simile al suo, una situazione di contrattacco alla teoria della chiusura. È già salito a Ostana in occasione del recente Premio Ostana. Scritture in lingua madre, premio letterario destinato agli autori nelle lingue minoritarie: magari si scoprirà che darsi da fare rende, anche in montagna. Unire le forze, far sentire la propria voce insieme, dimostrare che gli sprechi sono altrove. Affollata la conferenza stampa di presentazione della mostra che si è trasformata, anche per queste motivazioni, in una sorta di momento seminariale con una riflessione che ha visto protagonisti al tavolo, moderati dal direttore di ALP Valter Giuliano, il sindaco di Ostana Giacomo Lombardo, quello di Vallarsa, nonché professore di economia montana Geremia Gios, i registi Giorgio Diritti e Fredo Valla, l’editore Giorgio Vivalda e il past president del CAI Annibale Salsa. Dopo il saluto del Presidente del Filmfestival, Roberto De Martin, il “caso Ostana” è stato letto in tutte le sue sfaccettature: dal recupero dell’orgoglio culturale, al rilancio economico; dalle nuove opportunità insediative al ridisegno urbanistico, al ricorso a fonti energetiche rinnovabili. Una pianificazione programmata nel tempo con attenzione e sempre in chiave di sostenibilità.


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NEWS forum alpinismo di BARBARA GOIO e CAMILLA VISCA

Le nuove ragioni dell’alpinismo TRA VALORI DUREVOLI E NECESSITÀ DI SALVAGUARDARNE I TERRITORI DI ESERCIZIO Alpinisti e arrampicatori sentono sempre più fortemente la necessità di interrogarsi sul futuro della loro attività e su quali spazi fisici e mentali rimangano a chi continua a fare di pareti e alte quote il terreno privilegiato per esplorazione, avventura, gioco, conoscenza... La “chiamata” di Messner e una precedente riunione più “intimista”, forniscono elementi preziosi per cercare di fare il punto.

Alla ricerca dei Valori Durevoli dell’alpinismo Note su un convegno/conversazione di fine ottobre con famosi alpinisti, tra frammenti di intimità e architetture filosofiche (a casa di Heinz Grill, con Maurizio Giordani, Marco Furlan, Ivo Rabanser, Giovanni Groaz, Roberto dall’O, Paolo Gorini e Michele Ghelli del Gruppo Monodito di Ferrara) SOPRA REINHOLD MESSNER A COLLOQUIO CON IVO RABANSER (FOTO I. RABANSER) A FIANCO MAURIZIO GIORDANI (FOTO ARCH. GIORDANI) NELLA PAGINA A FIANCO UN MOMENTO DELL'INCONTRO FRA ROCCIATORI, A TENNO (FOTO B. GOIO)

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osa resta, dopo? È forse la domanda che si pongono tutti all’inizio di una nuova e inafferrabile storia d’amore, o anche mentre si deve decidere se accettare un lavoro di cui si sa ancora poco. È invece un problema che raramente interessa gli alpinisti, tutti tesi verso la vetta e verso sempre nuove e stimolanti imprese, più difficili, più lontane. È quindi raro che si senta, forte, il desiderio di fermarsi, aspettare un attimo e domandarsi quali sono “I valori durevoli dell’alpinismo”, il nucleo che è alla base di tutto e di cui si

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NEWS forum alpinismo

sente la responsabilità di passare il testimone: per questo ha assunto particolare significato un incontro tra rocciatori ospitato a Tenno nella casa di uno tra gli scalatori più determinati e insieme più spirituali che ci siano in giro, Heinz Grill. È accaduto così che in una splendida sera di fine ottobre, nella fortezza a toni pastello incastrata nel cuore storico dell’antico borgo di pietra di Tenno, a picco sul Lago di Garda e a pochi chilometri dalla “valle della luce”, la Valle del Sarca dove il climber tedesco ha aperto un ampio ventaglio di vie, si sono confrontati alcuni fortissimi alpinisti dei nostri giorni: c’erano Maurizio Giordani con la sua passione per la Marmolada, la storica cordata di Marco Furlan e Ivo Rabanser, l’ineccepibile Giovanni Groaz che si è inoltrato in una sorta di lectio magistralis sulle virtù aristoteliche; e ancora l’entusiasmo individualistico di Roberto dall’O e la passione travolgente di Paolo Gorini e Michele Ghelli del Gruppo Monodito di Ferrara; e infine il padrone di casa che, come si conviene, ha voluto restare un po’ nell’ombra, quasi che la sua presenza servisse soprattutto a creare le condizioni ideali per un simposio pacato ed esplorativo. «Dovete immaginare - ha detto la coordinatrice dell’incontro Johanna Blumel - di avere una parete davanti a voi, e ognuno può scegliere il percorso che più gli aggrada, scelto in base alla propria conoscenza e indole». E così è stato: e un poco ci si è stupiti tutti nel vedere uomini fatti e finiti, con milioni di metri di dislivello nelle gambe e una marea di esperienze estreme sulle spalle, commuoversi per la poesia di un figlio, condividere profondità teoretiche o esprimere in maniera così calda e limpida il senso di amicizia profonda che lega un compagno di cordata. Alla fine la risposta alla domanda su cosa resta dopo, è una e molteplice: permangono dei valori intimi e condivisi che collegano come in una rete invisibile tutti quelli che vanno per monti; e quali essi siano dipende soprattutto da ciò che si ha vissuto perché, come è stato più volte ribadito, l’alpinista è fondamentalmente un individualista, spesso egoista, più volte prigioniero

di un rapporto quasi esclusivo di profondo amore e devozione per la Montagna. E resta, sempre, un legame arcano tra la propria anima e il mondo delle vette, non importa quanto siano alte e difficili da raggiungere. Erano circa 150 le persone, alpinisti, appassionati e anche semplici curiosi, che affollavano la grande stanza a volte nella casa senza spigoli di Heinz Grill, luogo d’armonia e riposo voluta con tenacia da uno che ha aperto moltissime vie, apprezzate soprattutto per la linea pulita e armoniosa. Ed ecco, che dai diversi interventi è risultato come il fattore estetico sia senza dubbio uno dei valori durevoli di cui tenere conto, la bellezza intrinseca delle montagne e lo stile con cui si traccia una via. «Se la grande emozione, la gioia pura, con cui si conquista una vetta - ha spiegato Giordani - è destinata a svanire nel tempo, a restare confinata nel mondo dei ricordi, è la via stessa che resta e che può essere considerata come una sorta di opera d’arte». E se il tempo del successo dell’impresa alpinistica resta “un momento eccezionale”, quando si pensa al fluire del tempo, va ricordato come «ciò che resta non è l’emozione con cui un’opera d’arte è stata concepita, ma l’opera stessa», tanto che «bisogna saper leggere le tracce scolpite nella roccia e nella storia dell’alpinismo». Anche per Groaz uno dei Valori Durevoli è senza dubbio la felicità nell’ammirare le montagne, quella “contemplazione” di cui si fa interprete anche Dante («Perché non sali il dilettoso monte ch’è principio e cagion di tutta gioia?», Inferno, Canto I) e di cui l’essere umano ha un desiderio irrefrenabile. Ma l’alpinista trentino non si ferma qui e, dopo aver illustrato il significato delle sette virtù etiche (liberalità, magnanimità, mansuetudine, franchezza, coraggio, temperanza e soprattutto giustizia) e le cinque virtù dianoetiche (arte, saggezza, sapienza, scienza e intelletto) secondo la puntuale logica aristotelica, traccia un parallelismo tra queste e la storia dell’alpinismo. E così se ai primordi, ai tempi delle prime conquiste del Monte Bianco, a muovere gli esploratori era l’amore per la scienza e per la contemplazione-arte romantica, nella seconda metà dell’Ottocento, con la nascita del Cai e l’istituzione delle prime guide alpine, hanno prevalso la predilezione per la giustizia e la liberalità. Nel Novecento, invece, hanno trovato spazio prima il coraggio di chi ha voluto osare in condizioni sempre più difficili e l’intelletto degli scalatori orgogliosi della propria patria, e più tardi la scienza di esploratori curiosi di sondare i propri limiti e la temperanza di chi non vuole rischiare inutilmente la propria vita. E adesso? «Prevalgono mansuetudine, intesa come serenità d’animo - conclude Groaz - e ancora temperanza. Senza dimenticare la contemplazione, che tuttavia andrebbe accompagnata alla liberalità, intesa come l’atto con cui una parte arricchisce l’alPAG. 15 /

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NEWS forum alpinismo HEINZ GRILL (FOTO ARCH. GRILL) NELLA PAGINA A FIANCO IL TAVOLO DEI RELATORI (FOTO ARCH. GIVA)

tra senza aspettare nulla in cambio, solo per piacere personale, senza fini di lucro. Questo spezzerebbe una volta per tutte la maligna spirale degli sponsor, delle polemiche e dei veleni». Il silenzio che aveva accompagnato la lunga dissertazione, è stato così interrotto da un commosso ed eloquente applauso. L’amicizia, prima di tutto. Questo in estrema sintesi il messaggio di Marco Furlan e Ivo Rabanser, in cordata a parlare, come sulle vie di montagna. Per Furlan i valori che lasciano il segno possono essere tecnici, ambientali, culturali, ma quelli che a lui importano sono soprattutto quelli umani. E sulla stessa linea si articola anche il ragionamento di Rabanser, con un pizzico di cinismo in più: «L’alpinismo - ha sostenuto il grande scalatore gardenese - è egoista e inutile, un’attività che si fa a pancia piena». E negli ultimi tempi è stato “estremizzato”. Ma ciononostante offre l’opportunità di «provare l’orgoglio di lasciare una traccia». Infine, è luogo di rapporti umani, di storie condivise, e qui forse più che altrove vale un vecchio detto di Epicuro secondo il quale «non abbiamo bisogno dell’aiuto degli amici, ma della certezza del loro aiuto». Squisitamente individualistica l’esperienza invece di Dall’O, che ha più volte ribadito come il suo rapporto con la montagna sia simile a quello con una «amata che mi respinge sempre». E questo, ha precisato il climber, gli piace perché è qualcosa di infinito. «Solo andando in montagna - ha spiegato - ho capito me stesso: una volta fuori dalle difficoltà, scopro cose di me che non conoscevo. Per esempio, io sono sicuro di essere ateo, eppure in montagna mi è capitato di parlare con Dio». Quanto ai rischi, alla morte, ai pericoli, non c’è problema: «Quello che la montagna mi dà è di gran lunga superiore al valore della mia vita». Anche Ghelli ha parlato di un “debito” nei confronti dell’alpinismo, ma lui preferisce saldarlo trasmettendo il proprio amore e passione alle giovani generazioni, al figlio di dieci anni che proprio nella zona del Sassolungo ha scritto una bellissima poesia: le parole del ragazzino proiettate sul muro di casa Grill hanno profondamente emozionato i molti presenti. Sempre da Ferrara, la città più lontana da ogni montagna, viene Paolo Gorini, chirurgo e appassionato di alpinismo. Quello che resta è semplicità assoluta: «Vi propongo - ha esordito - il dialogo tra due ragazzi, Eliana e Marco (lei figlia del gestore Coldai, lui alpinista dei Ragni di Lecco, entrambi scomparsi in Patagonia NdA): “Perché vai in montagna? E tu, perché respiri?” Ecco il valore dell’alpinismo». Ci tiene, Gorini, alpinista di pa282 / PAG. 16

lude cresciuto all’ombra del Cadore, a sottolineare che «la montagna non è assassina, mai» e che se ci sono insegnamenti da trasmettere, valori da evidenziare, tra questi non possono mancare «gratitudine, prudenza, gioia, entusiasmo, tradizione, rispetto per l’ambiente». L’intervento di Heinz Grill era atteso con curiosità. «In un momento storico in cui quasi tutte le montagne sono state scalate - ha spiegato - fare il punto su cosa sia durevole è una domanda importante per l’alpinismo». Il rocciatore ha quindi fatto ricorso alla mentalità analitica tedesca: «Va fatta una distinzione - ha spiegato - tra sensazione ed emozione. Mentre quest’ultima (Emotion) è potente ma è destinata a svanire, la sensazione (Empfindung) ci mette in contatto con la nostra anima e fa da guida: l’emozione sono le onde del mare, mentre la sensazione è l’acqua profonda». Secondo Grill, i rocciatori sono degli individualisti che sulle pareti riescono a maturare. «E, dopo, hanno più amore per la vita». Per una volta dunque sono stati messi da parte orgogli e rivendicazioni di casta per cercare un terreno comune di dialogo, con la consapevolezza che, davanti alla montagna, quello che resta è l’essere umano, in tutta la sua semplice complessità. Unico appunto agli organizzatori, forse, la mancanza di interlocutori donne: ma, si sa, sull’interrogare se stessi l’altra metà del cielo è diversi tiri sempre più avanti. Barbara Goio


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Quo CLIMBis? Discutendo proveremo a salvare l’alpinismo

’appello per la chiamata a raccolta di alcuni tra i più bei nomi dell’alpinismo, era piuttosto stimolante: «Ogni anno noi scalatori dovremmo avere un’occasione per incontrarci e parlare del futuro dell’alpinismo, che è divenuto da tempo un’attività globale. Abbiamo pensato di riunirci in una sorta di campo base a Castel Firmiano il giorno dopo il Filmfestival di Trento, il più internazionale dei festival legati al mondo della montagna e dell’avventura. Domenica 6 maggio discuteremo di dove sta andando l’alpinismo durante il forum intitolato “Quo CLIMBis?” Un avvenimento che per la prima volta lega in cordata, una bella cordata, il mio museo della montagna, Messner Mountain Museum, il Filmfestival di Trento e l’Ims di Bressanone, una manifestazione che negli ultimi anni ha promosso discussioni sui temi più attuali della montagna. All’incontro parteciperanno alpinisti di prima classe. Con loro discuteremo, parleremo di come provare a salvare l’alpinismo. Se lasciamo che l’alpinismo diventi puro sport, la montagna non potrà più essere un luogo che offre valori agli uomini. Coltivando la pura attività dell’arrampicare miglioriamo le nostre prestazioni sportive e agonistiche, ma non comprendiamo quanto, nel confrontarci con gli spazi selvaggi, la natura umana possa dare. La discussione è aperta e libera, non ci sono divieti e tutti gli al-

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pinisti interessati, registrandosi presso la segreteria del festival, possono partecipare e dire la propria opinione». Firmato Reinhold Messner. E quando c’è di mezzo lui, state pur sicuri che non si rischiano banalità. Aggiungete la presenza, al tavolo dei relatori, di Hervè Barmasse, Hans Peter Eisendle, Alexander Huber, Robert Jasper, Heinz Mariacher, Roger Schäll, Denis Urubko: e si può pregustare un menù davvero appetitoso. La premessa di Reinhold arriva subito al cuore del problema. La montagna, da sempre luogo di avventura, rischio e sperimentazione dell’impossibile, terreno di prova che consente il confronto con se stessi, con i propri limiti, per provare emozioni uniche, rischia di essere banalizzata. E con ciò cancellare, tutte insieme, queste possibilità. Qual è l’alpinismo corretto? Chi deciderà chi ha diritto di fare parte dell’élite degli alpinisti? Come si può salvare la montagna? Chi ha questa responsabilità? «Oggi dobbiamo distinguere tra consumo ed esperienza. L’alpinismo inizia dove il turismo finisce, ma oggi il turismo va sino alla vetta dell’Everest. Dunque bisogna far capire - e i giornalisti devono aiutarci nel far assumere consapevolezza di ciò che non si può certo vietare di acquistare un pacchetto turistico che ha come meta la vetta del tetto del mondo; ma questo non

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REINHOLD MESSNER (FOTO ARCH. GIVA)

A SINISTRA, DALL'ALTO ROBERT JASPER, DENIS URUBKO, HANS PETER EISENDLE, HEINZ MARIACHER, ALBERT PRECHT, HERVÉ BARMASSE (FOTO ARCH. GIVA)

avrà mai significato di esperienza perchè il meccanismo prevede, a fronte della tariffa corrisposta, una totale cessione di responsabilità che non sta più a chi sale, ma all’organizzazione cui ci si affida totalmente». L’ultimo secolo è stato una corsa alla trasformazione delle aree montane in territorio per il turismo con l’obiettivo di incrementare i pernottamenti in quota. Ciò ha significato rendere accessibile la montagna a tutti creando infrastrutture, accoglienza e sicurezza. La contaminazione e l’inquinamento dei luoghi selvaggi ne è stata la principale e deleteria conseguenza che ne ha minato l’integrità. «Non esiste alpinismo corretto o sbagliato - ha sottolineato Reinhold Messner - e questa non è una discussione sulle tecniche alpinistiche o su una volontà egoistica di questa élite di preservare il proprio spazio d’avventura. Questa è una questione di valori che riguarda tutti. Gli input devono venire dai protagonisti della montagna, come club alpini e alpinisti stessi, ma soprattutto dai media». Quale spazio per l’alpinismo se il turismo sta impossessandosi di tutti gli spazi? Innanzitutto mantenendo spazi di libertà, in modo che anche le generazioni future possano ancora fare esperienza. Andare dove non c’è nessun altro come ha fatto Hervé Barmasse per il quale: «Ci sono ancora spazi di avventura sulle Alpi, come ho dimostrato nella mia salita in solitaria al Cervino. Una via lungo la quale non ci sarebbe stata alcuna possibilità di soccorso, nonostante a meno di un chilometro da me ci fossero le piste da sci. Bisogna fare ogni sforzo per trovare nuove idee che ci facciano fare passi in avanti verso l’invenzione di un nuovo futuro. L’uomo ha bisogno dell’impossibile per sentirsi vivo!». Oppure «andare alla ricerca di forme alpinistiche in cui si vada oltre la prestazione sportiva per trovare quello spirito artistico che consenta di fare qualcosa di unico e irripetibile com’è, appunto, il gesto artistico, che ci permette di esprimere al massimo la nostra creatività individuale», ha sostenuto il kazako Denis Urubko.


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La risposta del Forum sulla necessità di fermare la corsa alla “montagna accessibile per tutti” non trova voci discordanti e la discussione, avviata con l’intervento del qualificato pubblico presente in sala non mette in dubbio l’unanime volontà, ma permette di precisarne i contorni e di approfondire aspetti specifici. Emerge, con forza, l’impegno per la tutela dell’ambiente naturale delle alte quote e il senso di responsabilità nei confronti delle sorti del Pianeta. Jacopo Merizzi, storico protagonista del “Nuovo Mattino” della Val di Mello, ad esempio, ha sostenuto con convinzione che: «L’alpinismo come qualsiasi altra attività umana ha bisogno di rigenerarsi. Non conta solo l’alpinismo in sé, quanto gli spazi selvaggi, come luoghi d’immaginazione e di libertà per tutti.

Va salvaguardato l’humus che ha fatto nascere l’alpinismo, la sua essenza: l’esplorazione di aree selvagge e inaccessibili. Va salvaguardata, come una specie rara in via di estinzione, la natura primordiale. È il motivo per cui abbiamo lottato con tutte le forze affinché la Val di Mello fosse riconosciuta Riserva Naturale... ». Assecondato in questa filosofia di base da alcuni interventi di rappresentanti dei Club alpini di Sudamerica e Asia. A chiusura volgono le parole di Hans Peter Eisendle e Reinhold Messner: «La montagna va lasciata selvaggia. Sarà la natura a decidere chi farà parte dell’elite e la paura mostrerà a tutti i propri limiti. Solo così il futuro dell’alpinismo e delle montagne potrà essere garantito». Camilla Visca

Le palestre di arrampicata accessibili e fruibili da persone in difficoltà

CANTOIRA BALME

FOTO GIANNI CASTAGNERI

Il Gruppo di Azione Locale (G.A.L.) Valli di Lanzo Ceronda e Casternone ha realizzato una serie di azioni e interventi sul territorio che consentono alle persone in difficoltà e con esigenze specifiche di poter praticare alcuni sport e attività all'aperto, sia in estate che in inverno. Tra questi, si segnalano i due siti di arrampicata outdoor su roccia naturale di BALME e CANTOIRA, dove sono stati attrezzati in totale ventisette itinerari di arrampicata facilitati, idonei per tutti (persone in difficoltà, bambini, ma anche persone anziane che vogliono provare ad arrampicare). Gli itinerari sono stati realizzati dalla Scuola Guida Alpine Valli di Lanzo, che organizza corsi e prove di arrampicata per tutti.

Per informazioni contattare il G.A.L. Valli di Lanzo Ceronda e Casternone tel. 0123-52.16.36 o consultare il sito

www.gal-vallilanzocerondacasternone.it.


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NEWS iniziative

ALPine DATA MAP ACTION #01 DELL’ALP DESIGN LAB

È

partita la raccolta dei tracciati GPS per costruire una mappa visuale a fine 2012 degli spostamenti dei lettori di ALP.

ALP POWDER PHOTOCONTEST THE BEST FREERIDE REPORTAGE OF 2011

ALP in collaborazione con la community di Skiforum (www.skiforum.it) ha organizzato il 1° contest on-line per gli amanti della neve fresca (“gli skifosi”). Dedicato ai freerider - fotografi non professionisti, ha premiato, a insindacabile giudizio della Redazione di ALP e della community di Skiforum, il miglior reportage in neve fresca del 2011. Il vincitore dell’abbonamento annuale ad ALP è: Nik85+, Nicolò Miana con il reportage Non so (Nuvolau 15 maggio 2011). Sii protagonista anche tu, condividi i file .gpx o .kml delle tue escursioni, gite, ascensioni, discese in sci, ecc… su: www.alpmagazine.it/alp-design-lab

«Quando siamo partiti da Venezia diluviava! Al Passo Falzarego non era meglio, le nuvole erano basse e non davano speranza di miglioramento. Abbiamo iniziato a “pellare” verso le 17.00. Il clima era freddo, con forti raffiche di vento. Arrivati in cima, improvvisamente, ha iniziato ad aprirsi un po' il cielo. Il resto è stato colore e magia dolomitica».

Come fare? Semplicissimo: 1. Scarica l’APP gps (le trovi qui > www.alpmagazine.it/app-mania) che preferisci sul tuo smartphone oppure utilizza direttamente il tuo GPS portatile. 2. Segui le istruzioni del software e traccia i tuoi spostamenti tramite cellulare o GPS. 3. Inviaci il tuo file in formato .gpx o .kml compliando la breve form su nostro sito che trovi all’indirizzo qui sopra segnalato. Perché? La massiccia diffusione di smartphones, dispositivi portatili e di applet dedicate al self-tracking sta rendendo sempre più facile acquisire, monitorare, visualizzare e rendere pubblici i nostri dati. Non fanno eccezione le applicazioni di posizionamento GPS che ci permettono di tracciare i nostri spostamenti e di visualizzarne e compararne i dati dando significato agli stessi. Si aggiunge inoltre al valore dei dati dei singoli, già di per se importanti per ciascuno di noi, la possibilità di raccogliere dati collettivi che diventano mappe sensibili di comportamenti collettivi, in grado di descrivere e svelare come una comunità, in questo caso la nostra, agisce, utilizza e vive un territorio.

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SEGUONO IN CLASSIFICA: 2 Irebec, Iacopo Rebecchi, Fassani & C, Powder Tour 2011, CANADA; 3 Rbodini, Riccardo Bodini,

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LP V I V IR OAT A G O N I S T A DA

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a cura di RENATA GERMANET

Tre grandi classici indispensabili Dalla storia del Monte Bianco la verità, finalmente svelata, della prima salita e il diario della donna che per prima fece l’impresa. Tutto sulla corsa al Cervino, e non solo, dalle pagine del grande inglese.

T

re titoli classici che non possono mancare nella biblioteca di ogni appassionato di montagna. La Vivalda Editori li ripropone in edizioni aggiornate arricchite dal commento di riconosciuti storici dell’alpinismo come Roberto Mantovani e Pietro Crivellaro. Ma andiamo con ordine. LA VERA STORIA DEL MONTE BIANCO

La prima novità proposta dalla Vivalda è un’opera classica che più classica non si può. Un best seller di fine Settecento, quando uscì sia nella forma completa che consta di ben quattro volumi (Neuchâtel 17791786, da cui sono tratte alcune tavole originali che arricchiscono il volume), sia in più edizioni ridotte, una sorta di “condensati” come quelli proposti tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso da Selezione del Reader’s Digest. A Paolo Brogi, saggista e scrittore, si deve questa oculata versione di brani scelti, tratti dai Voyages dans les Alpes, per la prima volta stampati da Savelli nel 1981. In questo caso però il valore aggiunto del volume è rappresentato dalla rivelatrice postfazione di Pietro Crivellaro che, ripercorrendo l’intera vicenda, ne traccia una nuova ricostruzione che porta alla luce la verità storica. Vengono così ridefiniti i ruoli e i meriti della prima salita al TetHorace Benedict de Saussure La scoperta del Monte Bianco

Edward Whymper La salita del Cervino

Traduzione e presentazione di Paolo Brogi postfazione di Pietro Crivellaro Vivalda Editori, collana I Licheni n. 104 256 pp. (+16 tavole fuori testo in bianco e nero) 20,00 €

presentazione di Roberto Mantovani Vivalda Editori, collana I Licheni n. 66 400 pp. (con illustrazioni in bianco e nero) 22,00 €

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Henriette d’Angeville La mia scalata al Monte Bianco 1838 prefazione di Pietro Crivellaro, traduzione di Sergio Atzeni Vivalda Editori, collana I Licheni n. 44 176 pp. (+16 tavole fuori testo in bianco e nero) 16,00 €


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LA VERSIONE UFFICIALE: DE SAUSSURE AL PASSAGGIO DI UN CREPACCIO A LATO PARTICOLARE DELLA VERSIONE “CENSURATA” PERCHÉ SEDUTO IN POSIZIONE POCO DIGNITOSA (VOYAGE DE M. DE SAUSSURE AU MONT BLANC 1787 – INCISIONE DI CHRETIEN DE MECHEL)

to delle Alpi e si riconsegna tutto l’onore e il giusto valore, per ciò che conquistò sul campo, a Michel Gabriel Paccard. Ma svariate vicende, che nel libro sono puntualmente rivelate e che non possiamo qui anticipare, hanno impedito che il medico di Chamonix potesse rivendicare a buon diritto il riconoscimento del suo ruolo prima di morire in un misterioso incidente. Sta di fatto che Pietro Crivellaro, vestiti i panni di un Montalbano trasferito dal mare della Sicilia ai ghiacciai delle montagne valdostane, tra la leggenda di Balmat e la relazione perduta di Paccard ci porta a capire come i documenti, indagati sia pure a distanza di così tanti anni, siano in grado di restituirci la verità. Ma torniamo ai Voyages dans les Alpes, proposti qui in versione godibile da un vasto pubblico: sono il frutto di un meticoloso e acuto lavoro di considerazioni legato alle esplorazioni del noto sponsor, ante litteram, della prima ascensione al Monte Bianco. A partire dal 1760, il ventenne ginevrino Horace Benedict de Saussure (1740-1799), naturalista, professore di filosofia naturale, esplora instancabilmente, con l’aiuto di guide locali (la potente lobby della Compagnia delle guide), entrambi i versanti del Monte Bianco, animato da una grande passione sia per la scienza che per l’avventura in sé. Dal Montenvert al Crammont, le sue osservazioni e i suoi tentativi porranno le basi per la prima salita sul “gigante” delle Alpi, nel 1786, ad opera di Paccard e Balmat; cima sulla quale – terzo in ordine cronologico – riuscirà lui stesso a salire, lasciandoci il resoconto toccante della sua irripetibile esperienza. LA FIDANZATA DEL MONTE BIANCO

Sullo stesso terreno di gioco, ecco il primo diario di ascensione di una nobildonna francese di 44 anni, colta e indipendente, anch’essa frequentatrice dei salotti ginevrini: Henriette d’Angeville. Siamo nell’estate del 1838. La donna più emancipata del tempo, la scrittrice George Sand, considera già avventuroso spingersi sino al pittoresco villaggio di Chamonix. Henriette, invece, non si accontenta di freHENRIETTE D’ANGEVILLE (MINIATURA DI HENRY RATH, 1830)

HENRIETTE D’ANGEVILLE MENTRE SUPERA UN DIFFICILE PASSAGGIO AIUTATA DALLE GUIDE TRONCHET E DESPLAN (DISEGNO DI JULES HÉBERT)

quentare gli splendidi paesaggi alpini, vuole raggiungere le vette imponenti che li sovrastano e decide di scalare il Monte Bianco, impresa allora rara e rischiosa. Ordina alla sarta di fiducia uno speciale vestito imbottito, ingaggia una squadra di guide e portatori e parte decisa alla volta della vetta, conquistandosi così un posto esclusivo tra i pionieri dell’alpinismo. Prima di lei l’unica donna a toccare la vetta era stata, nel 1808, la montanara Marie Paradis, condotta in vetta dalle amiche guide di Chamonix. Vent’anni dopo l’impresa, la contessa d’Angeville riordinò i suoi appunti e ne ricavò un dettagliato resoconto, venato di humor, in cui brillano le idee e le emozioni di un’avventura tutta femminile e anticonformista. Inoltre affidò i suoi schizzi ai più abili pittori ginevrini che realizzarono una cinquantina di disegni e acquerelli per illustrare l’opera. Il libro però non vide mai la luce. Riemerso qualche tempo fa, fu pubblicato solo nel 1987 da Arthaud e tradotto dalla nostra casa editrice nel 1989 con la preziosa traduzione affidata alla penna di un grande scrittore, Serzio Atzeni, prematuramente scomparso. SUCCESSO E TRAGEDIA

Poco più in là, ecco imporsi l’inconfondibile sagoma del Cervino, la Gran Becca. Anche in questo caso risaliamo la Storia sino alle origini. L’opera di Whymper è sicuramente un classico fondamentale. Dopo un secolo e mezzo, probabilmente il libro di montagna più bello e importante. Vi si narra, in modo avvincente, la storia emblematica e drammatica della scalata che gettò le basi dell’alpinismo moderno. L’inglese Edward Whymper (1840-1911) approda sulle Alpi, appena ventenne, come disegnatore e incisore per conto dell’editore

IL MODO CORRETTO DI USARE LA CORDA.

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JEAN-ANTOINE CARREL (1889).

IL CERVINO DALLA SOMMITÀ DEL PASSO DEL THÉODULE

di fiducia dell’Alpine Club (fondato nel 1857), William Longman. Subito si appassiona alla pratica del nascente alpinismo nascente, e comincia la sua esplorazione salendo cime prestigiosissime come la Barre des Ecrins in Delfinato, il Mont Dolent, l’Aiguille Verte, le Grandes Jorasses nel gruppo del Monte Bianco. Ma il problema alpinistico dell’epoca è rappresentato dal Cervino. Con la Gran Becca, Whymper intraprende una lotta destinata a durare quattro lunghi anni. L’assedio a quella vetta, apparentemente inespugnabile, inizia dalla difficile cresta affacciata sul Breuil; e qui comincia anche la sfida e il controverso rapporto con la guida valdostana Jean-Antoine Carrel. Poi giungerà la vittoria inattesa dalla facile cresta svizzera con la guida Michel Croz di Chamonix e l’immediata, orgogliosa replica di Carrel, sostenuto dal nostro Club Alpino appena fondato da Quintino Sella. Ma la vittoria sportiva è destinata a tramutarsi in dramma lungo la discesa: l’incidente costa quattro vite umane e la capovolge in tragedia. Si scatena la polemica con i dubbi sulla corda spezzata, il processo; ci si interroga sulla liceità del nuovo sport. Whymper ne esce segnato per il resto della vita, anche se si dedicherà ancora a esplorazioni, allora all’avanguardia, in Groenlandia, sulle Montagne Rocciose canadesi e sulle Ande dove nel 1880, con il valdostano Carrel, salì per primo il Chimborazo. Oltre a importanti libri con il resoconto delle sue avventure, pubblicò le prime fortunate guide di Zermatt e di Chamonix. Il volume - non tragga in inganno il titolo - racconta di tutti i tentativi di salita al Cervino, ma anche quello che potremmo oggi definire l’allenamento e l’acclimatamento di Whymper sulle montagne che abbiamo prima citato. Esso inoltre è arricchito da disegni dell’edizione originale e xilografie di autori anglosassoni di rara preziosità. La presentazione e l’inquadramento storico sono dovuti alla penna autorevole e scorrevole di Roberto Mantovani, storico dell’alUGO VALLANTRI pinismo tra i più apprezzati. 282 / PAG. 26

Massimo Marcheggiani Tu non conosci Tiziano La vita e l’alpinismo di Tiziano Cantalamessa Società Editrice Ricerche, Folignano 2011 184 pp. con foto in b.n., 16,00 €

Snon conosci Tiziano, bang!

ubito colpisce il titolo: tu

Come un fucilata, certo una provocazione. No, non lo conosco: quasi ti scusi. E, immediatamente dopo, ti viene da chiederti: forse dovrei? Un po’ perplesso, noti il suo sguardo azzurro in copertina, e non puoi fare a meno di cominciare a leggere. E non smetti più, fino alla fine. È la storia di un uomo semplice, prima studente, poi anche operaio, infine contadino e guida alpina. Un appassionato di montagna, uno dei più grandi alpinisti che il Centro Italia abbia mai avuto, ma ben radicato nel quotidiano, e che forse traeva forza e talento proprio dalla sua normalità. Se in così tanti si sono presi la briga di ricordarlo in questo libro, Tiziano Cantalamessa doveva davvero essere una di quelle persone speciali che hanno il compito di illuminare un tratto del nostro cammino e di toccare nel profondo tutti quelli che gli si avvicinano, prima con la presenza, poi con l’assenza. R.G.

Piergiorgio Vidi Alpinismo Tutti i consigli per affrontare in sicurezza l’arrampicata su roccia e ghiaccio Hoepli edizioni, Milano 2012 240 pp. con foto e schizzi a col., 24,90 €

Uvole presentazione di Cesaltimo nato – con l’autore-

re Maestri – della collana di manuali Hoepli dedicata alla montagna, è uno strumento utile a tutti i frequentatori delle vette. Per chi già pratica l’alpinismo può costituire uno stimolo a perfezionare le proprie conoscenze facendo tesoro dell’esperienza consolidata di un professionista come Piergiorgio Vidi, guida alpina dal 1988, dal 1997 istruttore dei corsi di formazione per guide alpine e poi istruttore nazionale del Soccorso Alpino, che dal 2007 dirige la Scuola nazionale Tecnici del Soccorso Alpino Italiano. Contemporaneamente, aiuta il principiante ad acquisire solide basi teoriche e pratiche, offrendo tutte le indicazioni per conoscere meglio l’attrezzatura, le manovre di corda e le tecniche di base della progressione su roccia, neve e ghiaccio. Completano l’opera 17 proposte di ascensioni classiche, dal Monviso al R.G. Jôf Fuart.


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Gianfranco Bracci Gea - Grande escursione appenninica Tamari Montagna Edizioni, Padova 2011 160 pp. con foto a col. con atlante cartografico a col., 29,50 €

Enrico Pelos Passeggiate a Levante 45 itinerari nelle province di Genova e La Spezia Blu edizioni, Torino 2011 192 pp. con foto e carte col., 16,00 €

Scrinale tra Toscana, Emilia Sa Ponente, dedicata alle i snoda per 425 km, lungo il

eguito ideale di Passeggiate

e Romagna, il lunghissimo sentiero della Gea, ideato da Bracci e dal compianto Alfonso Bietolini, percorribile in 22-27 tappe; inaugurato nel giugno 1984, è già stato percorso da migliaia di trekker provenienti da ogni parte del mondo. La nuova edizione della guida riporta tutti gli aggiornamenti: il percorso – che ha subito alcune modifiche – è infatti stato ritracciato, risistemato e ridisegnato uniformando l’intero tragitto con segnavia orizzontali bianco-rossi internazionali e con pali e cartelli indicatori in legno. Quasi tutta la Gea è percorribile in mountain bike, a volte con varianti rispetto al percorso a piedi, accuratamente descritte. Completano il libro alcune schede dedicate ad aspetti della cultura contadina appenninica, poesie e citazioni. Notevole l’atlante cartografico dell’intero percorso, suddiviso in fogli in scala 1:20.000. R.G.

province di Imperia e Savona, questa nuova guida curata dal fotografo e pubblicista Enrico Pelos propone 45 itinerari da lui stesso percorsi nel Genovese e nello Spezzino, scelti secondo criteri di bellezza dell’ambiente, particolarità del paesaggio, testimonianze di storia antica e recente, valore artistico e tradizioni del territorio. Da Varazze a Bocca di Magra, le splendide fotografie dell’autore, con le chiarissime carte di Sara Chiantore, accompagnano l’efficace descrizione di itinerari famosi e meno noti, semplici passeggiate per tutti ed escursioni un po’ più impegnative, ma adatte a tutte le stagioni. Disseminati lungo l’intera guida, brevi excursus storico-culturali attirano l’attenzione del lettore/camminatore facendogli assaporare le tracce della storia nei luoghi che sta attraversando. AccattiR.G. vante e funzionale.

ALPINISMO E ARRAMPICATA Gianni Predan, Rinaldo Sartore, Piantonetto e Valsoera. Edito in proprio, Montalto Dora (To) 2012. 76 pp. con foto a col., 12,00 € Arrampicate classiche e moderne sul granito del Gran Paradiso. Alberto Paleari, Arrampicare, camminare, conoscere il Mottarone. Monte Rosa edizioni, Gignese (Vb) 2012. 160 pp. con foto e schizzi a col., 22,00 € Aggiornata guida di arrampicata. Andrea Pavan, Mello Boulder. Versante Sud, Milano 2012. 575 pp. con foto a col., 35,00 € Blocchi in Valtellina, Valchiavenna, Val Masino, Val di Mello e Val Malenco. Tomas Segura Pretel, Jorge Ferrando Monterde, David Moreno Gimeno, Boulder Albarracin. Desnivel, Madrid 2012. 302 pp. con foto e schizzi a col., 24,00 € Olte 1600 blocchi nel più grande sito boulder d’Europa. Testo in spagnolo, inglese, tedesco e francese. AA.VV., Donde escalar en Espana. Desnivel, Madrid 2012. 266 pp. con foto a col., 20,00 € 900 siti di arrampicata sportiva, classica, boulder e artificiale in Spagna. Testo in spagnolo. AA.VV., Escalades al Salvatge oest de

Catalunya. Edicions Supercrack, Lleida 2011, 147 pp. con foto e schizzi a col., 25,00 € Oltre 630 vie di arrampicata sportiva nella Catalogna occidentale. Testo in spagnolo, catalano, inglese e francese. Adrian Berry, France Languedoc - Roussillon. Rockfax, Nottingham 2011, 376 pp. con foto e schizzi a col., 34,00 € Arrampicata sportiva nelle regioni francesi del Languedoc e Roussillon, falesie delle Gorges du Tarn, Gorge de la Jonte,Claret, Seynes, Russan, Orgon. Testo in inglese. Bertrand Maurin, Thierry Souchard, Grandes voies de Corse. Edito in proprio, Aiaccio 2011, 263 pp. con foto a col., 25,00 € Una selezione di 80 vie lunghe in tutta la Corsica. Testo in francese e inglese.

Stéphane Maire, Alpinisme en Suisse. Glénat, Grenoble 2011, 95 pp. con foto e schizzi a col., 15,00 € 30 salite classiche in Svizzera. Testo in francese. François Burnier, Dominique Potard, Sites d’escalade de la Vallée de Chamonix. Vamos, Servoz 2011, 279 pp. con foto e carte b.n. e a col., 24,00 € Tutte le falesie dei dintorni di Chamonix. ESCURSIONISMO Andrea Parodi, Roberto Pockaj, Andrea Costa, Nel cuore delle Alpi Liguri. Andrea Parodi editore, Cogoleto (Ge) 2012. 271 pp. con foto e carte a col., 20,00 € 118 itinerari escursionistici dalla Val Tanaro alla Val Vermenagna nei gruppi montuosi del Marguareis e del Mongioie.

Ozturk Kayikci, A Rock Climbing Guide to Antalya. Edito in proprio, Antalya 2011, 208 pp. con foto a col., 37,00 € Quarta edizione aggiornata della guida di arrampicata sportiva per la zona di Antalya in Turchia. Testo in turco e inglese.

Carlo A. Mattio, Passeggiate nelle valli cuneesi. Blu edizioni, Torino 2012. 247 pp. con foto e carte a col., 16,00 € 54 itinerari per tutti, dai camminatori alle prime armi alle famiglie con bambini.

Stefano Santomaso, Moiazza roccia tra luce e mistero. Idea montagna, Teolo (Pd) 2011, 381 pp. con foto e schizzi b.n. e a col., 25,50 € 163 itinerari alpinistici di stampo classico con difficoltà dal 4° al 9°.

Paolo Bonetti, Paolo Lazzarin, Dolomiti sentieri dedicati. Edizioni Versante Sud, Milano 2012. 207 pp. con foto e carte b.n. e a col., 27,50 € 45 escursioni dalle Dolomiti di Brenta alla Cresta Carnica.

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NEWS libri DIVERSI MOMENTI DELLA SPEDIZIONE INVERNALE DI SIMONE MORO AL NARGA PARBAT, DURANTE LA QUALE È STATO SCRITTO IN GRAN PARTE IL LIBRO LA VOCE DEL GHIACCIO. (FOTO ARCH. THE NORTH FACE® / M.ZANGA)

Simone Moro La voce del ghiaccio Gli Ottomila in inverno: il mio sogno quasi impossibile Rizzoli, Milano 2012 281 pp., 18,00 € «

Sstato la mia vera vetta» ci ul Nanga, questo libro è

ha confessato Simone qualche mese fa. E ancora siamo increduli che sia riuscito a scriverlo, se non tutto, almeno in gran parte durante la spedizione di quest’anno al Nanga Parbat. Se il meteo ha ostacolato Simone e il suo compagno Denis Urubko nella conquista di un nuovo Ottomila in invernale, non ha invece impedito che nascesse questo libro, lassù tra il freddo e l’aria rarefatta che si respira tra le righe di molte sue pagine.

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Forse proprio perché scritto in spedizione, riesce a trasmettere così vivide tante sfumature e sensazioni delle sfide che Simone ha saputo raccogliere nel corso della sua carriera. A 44 anni e con 44 spedizioni alle spalle, Moro ci guida con autenticità all’interno del suo mondo, fatto di sogni al limite delle possibilità umane: affrontare le vette più alte del globo nella stagione più dura e ostile. Una lettura avventurosa e piacevole che scorre, piena di umanità, e si rivolge non solo agli appassionati di montagna, ma a un pubblico molto più vasto che voglia comprendere ed emozionarsi davanti alle imprese e alle motivazioni di un alpinista, sicuramente tra i più straordinari del nostro tempo.

Lo stile di scrittura è semplice, spigliato e diretto, quello a cui chiunque conosca Simone è abituato e legato: quello di un alpinista eccezionale con gradi doti di comunicatore. Inframmezzato da brevi pagine di cronaca su ciò che sta accadendo nella spedizione Nanga Parbat 2012 mentre l’autore scrive, il racconto attacca con la salita dell’Aconcagua, la più alta cima delle due Americhe: era il 1993. Si prosegue nel nome del compagno di cordata e amico fraterno Anatolij Bukreev con la sua drammatica scomparsa nel corso della spedizione sull’Annapurna del 1997. Si assiste alla nascita dell’amicizia con Denis tra Snow Leopard e Marble Wall, che approderà nell’intesa perfetta che oggi ben conosciamo. Poi ancora la storia del doppio tentativo sul Shisha Panama e l’esperienza provante sul Broad Peak, per comprendere il segreto e il valore della rinuncia. Ultime tappe il successo sul Makalu e l’eccezionale conquista nel 2011 del Gasherbrum II: «l’impresa... quasi impossibile».

Un percorso lungo, ricco di esperienze, riflessioni e sfumature per capire un alpinismo autentico, lontano dai record e dalle medaglie, il cui concetto chiave è l’esplorazione di limiti interni ed esterni dell’uomo. L.O.


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Marco Tomassini Finale Climbing Edizioni Versante Sud, Milano 2011 560 pp. con foto e schizzi a col., 35,00 €

Iparticolare, di grande fasci-

l Finalese è un territorio

Corrado Conca, I sentieri dei vulcani. Edizioni Segnavia, Sassari 2012. 135 pp. con foto e carte a col., 15,00 € 17 itinerari escursionistici in Sardegna tra i vulcanismi del Logudoro. Di Taylor, Tony Howard, Walks, Treks, Climbs and Caves in Al Ayoun Jordan. Vertebrate Graphics, Londra 2011, 104 pp. con foto e carte a col., 18,00 € 20 itinerari escursionistici, 10 settori di arrampicata e 3 grotte nella Giordania settentrionale. Testo in inglese.

LETTERATURA Franco Giovannini, Montagne e diavoletti: che fine ha fatto l’alpinismo? Edizioni Mare Verticale, Grancona (Vi) 2012. 205 pp., 15,00 € Un atto di accusa sull’alpinismo moderno, sull’ansia di avventura degli sportivi d’oggi, un alpinismo tante volte degenerato dalla ricerca dell’estremo, del successo, del record a tutti i costi.

Segnalazioni librarie a cura della LIBRERIA LA MONTAGNA VIA SACCHI 28 BIS / 10128 TORINO TEL. E FAX 011 5620024 info@librerialamontagna.it / www.librerialamontagna.it

Fosco Maraini, DrenGiong. Corbaccio, Milano 2012. 448 pp. con foto b.n., 22,00 € Il primo libro di Fosco Maraini e i ricordi dei suoi amici nel centenario della nascita del più grande viaggiatore italiano. Andrea Gennari Daneri, Mangart. Pareti e Montagne edizioni, Parma 2012. 354 pp., 16,50 € Romanzo ambientato sulla parete del Mangart. FOTOGRAFICI Alessandro Gogna, Alessandra Raggio, Maestri delle altezze. Società Guide ChampolucAyas, Ayas (Ao) 2012. 127 pp. con foto b.n. e a col., 35,00 € La storia delle guide alpine di Ayas.

no e bellezza. Sulle sue bianche rocche calcaree che spuntano dal verde corrono un’infinità di vie: per il momento se ne contano circa 2700 (secondo alcuni sono di più) suddivise in oltre 160 falesie, ma sono in continuo aumento. Fin dal 1968, anno in cui a Finale comparvero i primi climber, che allora non si chiamavano certo così e calzavano ancora pesanti scarponi, generazioni di scalatori si sono succedute su queste rocce, uniche in tutto il territorio della Liguria di ponente, scoprendo nuovi siti, aprendo e chiodando nuove vie, pulendo sentieri. Tanto che molti di loro, presi dalla malattia, si sono trasferiti sul posto, formando una piccola e attiva comunità di appassionati. Questa bella e ricca guida, che ha richiesto due anni di lavoro, illustra con precisione 130 falesie dell’ampio comprensorio, a cui se ne aggiungono 4 nel sito di Capo Noli: tutte le indicazioni indispensa-

bili per un primo approccio (quota, esposizione, bellezza, chiodatura, affollamento, comodità, parcheggio, segnale telefonico, ecc.), sono immediatamente individuabili grazie a divertenti icone esplicative, a cui si aggiungono coordinate Gps, numero, difficoltà e lunghezza delle vie, descritte una per una. Accanto a belle fotografie e schizzi esplicativi, non mancano i riferimenti storici su chiodatura, apertura delle vie e primi salitori, ma si può dire che l’intera guida sia un omaggio a tutte quelle persone che negli ultimi quarant’anni hanno contribuito a creare e a mantenere vivo il R.G. mito di Finale.

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I

OLD

i GARIM ra d a cu SEPPE GIU

i classici di fotografia

“ALPINISMO DI

G

GABRIELE

EROICO”

NEGLI ALBUM FOTOGRAFICI BOCCALATTE E NINÌ PIETRASANTA

li album fotografici hanno il peso e la forza del ricordo, sono diari fatti di immagini e come nei diari la loro lettura ci riporta indietro nel tempo. Un ritorno che, con la precisione della fotografia, solleva il velo tessuto dagli anni e obbliga ad accettare, senza discutere, circostanze dimenticate. Situazioni che talvolta, nella prospettiva di ciò che seguì, offrono interpretazioni nuove su questioni al tempo ignote e oggi, senza la testimonianza delle immagini, ci rimarrebbero oscure. In altre parole gli album proiettano la cronaca nella prospettiva della Storia. Sfogliando la ricchissima raccolta fotografica ordinata da Gabriele Boccalatte e da Ninì Pietrasanta, due personaggi di spicco legati fra loro dalla corda da montagna prima di unirsi per la vita, si è catturati dalla sensazione di aver superato, con un balzo acrobatico, gli ottant’anni di distacco che ci separano dalle vicende di quel tempo e di essere materialmente davanti agli avvenimenti nel loro svolgimento. È l’assieme e la continuità di queste immagini che ci permettono un tuffo emozionante negli anni del cosiddetto Alpinismo eroico. L’aggettivo, oggi considerato con sufficienza, è in sintonia con la retorica dei tempi ed ebbe la sua consacrazione con il volume postumo di Emilio Comici. Di fatto il decennio millenovecentotrenta segnò, con particolare riferimento alle Alpi Occidentali, il rinnovo della tecnica d’arrampicata. In quegl’anni le scarpette dalla suola di panno sostituirono e

ingentilirono nei momenti cruciali l’opera dei pesanti scarponi chiodati, permettendo un cambiamento radicale nella tecnica alpinistica e una razionalizzazione dei movimenti di progressione sino a quel momento sconosciuta. Con la nuova attrezzatura, arrampicare perse la brutalità del contatto diretto e divenne un elegante esercizio ginnico; è quello che osserviamo nella fotografia scattata il 12 luglio del 1935 da Ninì Pietrasanta, dove un Gabriele Boccalatte in scarpette d’arrampicata va all’attacco della fessura che caratterizza l’inizio della celebre direttissima, aperta quel giorno, sulla parete est dell’Aiguille de la Brenva. Tutte le testimonianze concordano nell’affermare che Boccalatte arrampicava con uno stile particolarmente aggraziato e secondo Gian Piero Motti, Boccalatte si avvicina all’alpinismo: «con un vivissimo senso estetico dell’arrampicata (…) che sempre ebbe la prevalenza sui fattori di lotta, di vittoria e di competizione con se stessi». Gli album sono una conferma di questo giudizio. Le fotografie della raccolta investono i luoghi: scorci vertiginosi della parete nord delle Grandes Jorasses ripresi nel corso del tentativo del 1935, o momenti simbolici: Ninì all’attacco della guglia dei Periades, scalata per la prima volta quel 19 agosto del 1932 e battezzata in suo onore: Pointe Ninì 3455 m. La maggioranza degli scatti presenti sono opera di Boccalatte o di Ninì, ma non sono poche quelle scattate da compagni di cordata come Gervasutti, Rivero, Cicogna, Bonacossa, Corti, Ceresa, Bozzoli, Steger, Brunner e altri, più raramente acquisite da fotografi professionisti per il soggetto o la qualità della ripresa. Nel caleidoscopio delle immagini sono molte quelle che varrebbero una citazione, soprattutto per la Storia, ma anche per la loro bellezza: una cresta di neve sottile come la lama d’un rasoio; un camino che invita all’arrampicata; la ripresa d’un passaggio famoso; lo scrimolo roccioso

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i classici fotografia QUI SOPRA IMMAGINI DELL’ASCENSIONE AL PIC ADOLPHE IN ALTO A SINISTRA CHABOD E NINÌ FOTOGRAFATI DA GERVASUTTI A DESTRA CHABOD SULLA TRAVERSATA IN BASSO E A DESTRA BOCCALATTE SULLA PARETE NORD FOTOGRAFATO DA NINÌ PIETRASANTA NELLA PAGINA A FIANCO IL PIC ADOLPHE (FOTO G. GERVASUTTI E N. PIETRASANTA, 1935)

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i classici fotografia IN ALTO DUE IMMAGINI DI GERVASUTTI SULLA TRAVERSATA IN BASSO A DESTRA BOCCALATTE IN VETTA AL PIC ADOLPHE, A SINISTRA NINÌ IN DISCESA DALLA VETTA NELLA PAGINA A FIANCO BOCCALATTE IN CORDA DOPPIA FOTOGRAFATO DA GERVASUTTI (FOTO G. GERVASUTTI E N. PIETRASANTA, 1935)

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d’una cima, tanto smilza da doverla stringere fra le ginocchia a cavalcioni, o tanto ampia da potersi distendere con la faccia al sole. Ogni immagine una storia, un tentativo, una salita riuscita, una giornata con il sangue che formicola e i muscoli che fremono per il contatto con la montagna. Siamo di fronte a una folla di fatti e di suggestioni che chiedono spazio, la fortuna di una miniera, meglio, di una cava a cielo aperto che chiede solo di essere sfruttata, di raccontare la storia di quel decennio basilare per l’alpinismo, i mitici anni Trenta. I limiti che incombono vogliono una esemplificazione; seguiremo allora una sequenza incrociata di fotografie scattate alternativamente da Giusto Gervasutti e da Ninì Pietrasanta. Una sequenza in cui prevale la cura puntigliosa di registrare le vicende della prima ascensione del Pic Adolphe. Il picco è un satellite del Tacul e a detta di Renato Chabod, «è piccolo e molto in gamba», proprio come s’addice a Adolphe Rey1 a cui è dedicato. Chabod e Boccalatte lo hanno adocchiato nel 1929 e da allora non lo hanno mai perso di vista, i tentativi si sono susseguiti con la partecipazione di Gervasutti, da sud e da sud-ovest, ma sempre invano sino al 1935. «Quest’anno - scrive Gervasutti - in considerazione delle speciali condizioni dei versanti nord, riprendiamo in esame la originale via già studiata da Renato, che consiste nel discendere a corda doppia fra il Pic Adolphe e il Petit Capucin e poi tentare di raggiungere una successione di fessure con una problematica traversata». È il 16 luglio, Ninì Pietrasanta, Gabriele Boccalatte, Giusto Gervasutti e Renato Chabod, lasciano il Rifugio Torino alle sette e alle otto e trenta sono al colletto fra il Petit Capucin e il Picco agognato. Dalla relazione tecnica di Boccalatte: «si prosegue per il facile tratto iniziale della cresta ovest fino a quando un salto liscio ne impedisce l’avanzata (fotografia 1). Si piega leggermente a sinistra e con una breve corda doppia di 15 metri si raggiunge un grosso masso staccato dalla parete». Da questo punto ha inizio la traversata sulla parete nord del Picco e nello scorcio, dall’alto al basso, della fotografia II vediamo: in secondo piano Ninì seduta sul masso staccato e sulla media distanza, Chabod impegnato nella prima parte della traversata. Nell’immagine che segue (III), Chabod prosegue lungo l’altalenante percorso del sistema di fessure e notiamo in primo piano la doppia corda che lo lega a Gervasutti, autore della fotografia. Nelle due immagini successive (IV e V), Ninì riprende Boccalatte, che chiude la cordata, alle prese con il capriccioso percorso delle fessure, mentre la VI e la VII, mostrano Gervasutti sul tratto finale della traversata. Oltre, la roccia più articolata permetterà di salire direttamente alla cresta est del Picco. A coronamento dell’ascensione la

fotografia VIII mostra Boccalatte sulla cima aguzza con alle spalle lo slancio del Grand Capucin. Terminata la salita e divisa in due la lunga cordata, ecco Ninì assicurata da Boccalatte (IX) che inizia la discesa. Le calate in corda doppia si susseguono lungo la parete sud e fra queste Boccalatte ne ricorda: «una bellissima di 43 metri per rocce verticali e strapiombanti, lungo la parete adiacente il camino», fotografia X, dove è lo stesso Boccalatte a godere la calata. Negli album il ventaglio delle immagini si allarga sino al fatale luglio del 1938, quando Boccalatte e Piolti vengono ritrovati esanimi ai piedi della parete sud dell’Aiguille de Triolet, ma noi, fedeli alla premessa chiudiamo con le parole di Gervasutti al ritorno dal Pic Adolphe: «Al rifugio Torino festeggiamo allegramente la piacevole vittoria bevendo alla salute del piccolo grande Adolphe. Al quale con deferenza dedichiamo la salita». NOTE E RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI 1. Adolphe Rey è la grande guida di Courmayeur che fra le sue imprese conta la prima ascensione del Grand Capucin. LE CITAZIONI SONO TRATTE DA: Gian Piero Motti, La storia dell’alpinismo, Vivalda, Torino, 1994. Renato Chabod, La cima di Entrelor, Zanichelli, Bologna, 1969. Giusto Gervasutti, Scalate nelle Alpi, Il Verdone, Torino, 1945; Vivalda Editori, I Licheni n. 72, 2005. Gabriele Boccalatte, Piccole e grandi ore alpine, s.e. Milano 1939; Vivalda Editori, I Licheni n. 2, 1992.

Si ringrazia Lorenzo Boccalatte per aver messo a disposizione le immagini. PAG. 33 /

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PURE VERTICAL

di MAURIZIO MANOLO ZANOLLA

Isolati e quasi nascosti, ecco i nuovi gioielli da arrampicare del MAGO Ormai il presente cambia sempre piĂš rapidamente, alcune volte anche violentemente e si allontana, con quello che ha o non ha raccontato e sparisce, cancellato da una superficialitĂ disarmante, senza lasciare traccia di

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memoria. Anche molti luoghi subiscono la stessa fine e, quelli che resistono, sono catalogati ostili o troppo inutili per essere consumati e omologati.

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QUI A DESTRA MANOLO SU OSTERIA TACI CAVALLO 8A (FOTO C. ZORZI) NELLA PAGINA A FRONTE SUGLI APPIGLI INVISIBILI DI ETERNIT 9A (FOTO C. ZORZI) E IN BASSO DURANTE LE RIPRESE DI VERTICALMENTE DÉMODÉ (FOTO M. PUATO)

BAULE Prima di incontrare l’alpinismo, le montagne erano solo linee senza nome che separavano la terra dal cielo, dove un bambino cercava l’immaginario dormire del sole.

La prima volta che ho sfiorato il Baule credo di non averlo nemmeno visto, ero troppo distratto da quel mondo attorno, e una lastra alta poco più di trenta metri, liscia come l’asfalto, non poteva certo contenere tutti quei sogni che portavo nello zaino. Quando sono inciampato nell’arrampicata sportiva questo luogo è diventato un rifugio per quella libera, una barca sospesa, come un disegno di Moebius, per veleggiare “in direzione ostinata e contraria”, di bolina, fra rughe e appoggi appena disegnati dal tempo. Mi ricorda molto la “Polstjerna” una bella e solida barca norvegese, sulla quale, per un periodo, ho navigato nei fiordi Vichinghi. Questa leggenda di legno, dopo anni di sfide fra le onde gelide dell’Artico, ha salvato molte vite e ospitato a bordo anche il re. Adesso, ormai vecchia, è ancorata e protetta con tutte le sue storie, sotto una campana di vetro nella baia di Tromsø.

Il Baule non entrerà mai in una campana di vetro, non ha salvato nessuno e non ha mai ospitato nessun re. È protetto solo da un miliardo di stelle e qualche volta da una nuvola, ma soprattutto da un’ora e mezzo di cammino, e questo, ormai, sembra anche più efficace. Le sue vie, sono ancora libere e belle, come lo sono stati per me quei momenti, quando inseguivo ancora gli appigli più piccoli e taglienti del mondo, e gli appoggi erano ancora qualcosa da prendere in considerazione. È una piccola fetta di calcare chiaro che non ha nulla a che vedere con le grandi pareti e nemmeno con le moderne falesie. È incastonata, in un angolo dimenticato e selvatico, al riparo dai forti venti del nord, aperta solo alla brezza rassicurante che arriva da quel mare lontano che a volte si riesce anche a vedere. Un giardino, nascosto fra i prati dove sono nato e le montagne dove sono vissuto, che come pochi altri, senza muoversi, mi ha portato lontano. Eppure, le sue linee verticali e démodé come un modo di vestire sono state testimoni dei sogni, delle paure, delle speranze, degli errori e delle illusioni di un’intera generazione. Forse è anche per questo che un giorno, mentre scalavo sui ridicoli appigli di Eternit (che solo qualche anno prima non riuscivo nemmeno a vedere), per la prima volta ho lasciato accesa una vecchia telecamera a fermare e documentare un momento che sembra già preistoria. Dal quale è nata l’idea di un film (Verticalmente Démodé, NdR) un piccolo racconto in bianco e nero, semplicemente per non dimenticarlo.

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MANOLO SU ROBY PRESENT (FOTO P. CALZÀ)

STRAMONIO Roby Present è l’ultima di una decina di vie che ho aperto e liberato in una nuova falesia della Val Noana che ho chiamato Stramonio, come una delle sue vie. La sua grigia geometria, rotta solo da qualche fiammata di giallo, sembra sospesa fra il cielo e il torrente, ed è anche un po’ nascosta da ripidi boschi di faggio. Ha un aspetto severo e si addolcisce solo d’autunno, quando finalmente quegli alberi s’impastano di colori che non ti fanno partire. Un muro alto più o meno 70 m che, in uno spazio poco più largo di 15, ospita il concentrato di difficoltà più elevato della valle. La sua inclinazione è piuttosto invitante, ma quel dolore che appare quasi immediatamente agli avambracci, suggerisce una certa prudenza. Ho dedicato questa via a una persona che si chiamava Roberto Bassi. Siamo stati amici e a vent’anni, abbiamo incendiato insieme quel mondo che oggi è diventato Arco e quello che c’è attorno. E, amici... lo si può essere solo in un modo. Poi siamo diventati grandi e lontani e quando forse, era ritornato il momento di ritrovarci, Lui se n’è andato, incendiando da solo un’alba a tutto volume. Ci sarebbero molte cose da raccontare del nostro viaggio insieme, ma non ne ho ancora voglia. Questa via è stata un percorso lungo e sofferto: per me, non rimarrà mai, solo un nome scritto su un pezzo di ceramica. È bella! Credo ti piacerebbe, ed è per te, Roby.

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MANOLO SU ROBY PRESENT (FOTO P. CALZÀ)

ROBERTO BASSI

Stile, passione, genio e improvvisazione, è stato un personaggio chiave con Manolo, Mariacher, Luisa Iovane, ecc... nel rivoluzionare e segnare l’evoluzione dell’arrampicata in falesia e in parete negli anni ‘80 (scoprendo e rivelando tra molti siti, le potenzialità di Arco). Scomparve prematuramente nel 1994 in un incidente d’auto. PAG. 39 /

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SOPRA MANOLO IN BILICO 8B/C SU BILICO (FOTO C. ZORZI) A SINISTRA LA CIMA D’OLTRO E LE REGADE IN VAL CANALI (FOTO M. ZANOLLA) QUI A DESTRA IL TAGLIO NETTO DEL BILICO E SULLO SFONDO LA CIMA D’OLTRO (FOTO M. ZANOLLA)

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BILICO È un grande blocco di pietra, un pezzo perso o quello che rimane di una montagna più grande. Sembra un meteorite, in bilico, in cima a un ghiaione quasi verticale. Da lassù, con la sua faccia squadrata e completamente liscia abbraccia l’intera vallata e riflette tutto quello che gli arriva addosso. La sera, quando il sole si abbassa, il suo colore giallo s’infiamma di arancione e due righe nere sembrano piangergli sul viso. Questa miscela suggestiva di colori in precario equilibrio sul mondo, è stata sicuramente la principale motivazione per salire a conoscerlo. È davvero strano e destabilizzante scalare su questa faccia leggermente inclinata sul vuoto. I suoi appigli tutti eguali e tutti diversi, sembrano continuamente muoversi. Si aggrovigliano, ti confondono e intanto, la gravità ti riporta all’inizio. La prima volta che ho raggiunto la cima e cautamente mi sono affacciato su quel bordo inquietante, sono stato colpito da qualcosa di strano che affiorava dalla scorza di un mugo. Subito ho pensato a una cicatrice causata da una pietra errante, o da qualche animale ma, guardando meglio, ho scoperto una vecchia indecifrabile incisione, storpiata dalla crescita. Incuriosito l’ho portata a casa dove, lentamente, da quella specie di geroglifico è affiorato un nome. Adesso nelle sere d’inverno quel pezzo di legno leggero e profumato lo usiamo per spaccare le noci e ogni volta mi chiedo chi mai sarà stato a inciderlo, su quel ciglio. ■

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INTERVISTA A DAVIDE CARRARI

MAURIZIO

di Giulio CARESIO disegni di MANOLO

Dopo 30 anni di assenza dal video Manolo torna in un cortometraggio intimo e intenso che rivela il suo mondo dell’arrampicata oggi. Poco più di quindici minuti, fotografia esemplare in bianco e nero, montaggio e sonoro curatissimi per mettere in luce i tratti di un percorso umano e sportivo di inestimabile valore. Un corto davvero da non perdere. Noi per leggerne il dietro le quinte e carpirne ogni sfaccettatura abbiamo intervistato il regista Davide Carrari.

SOPRA A SINISTRA MANOLO CON IL REGISTA DAVIDE CARRARI (FOTO M. PUATO) IN QUESTE PAGINE IMMAGINI DAL FILM, IN BIANCO E NERO, E FOTO DI SCENA, A COLORI (FOTO M. PUATO)

Come è venuto alla luce questo film?

NICOLÒ

È nato da chiacchiere, bevute e sogni fatti con Manolo, con cui ci conosciamo da tanti anni. Gli dicevo da tempo: «potremmo fare una di quelle robe lì, dove ci si muove e c’è anche la musica, dai!». Ma alla fine non si riusciva a concretizzare nulla. Penso Manolo abbia fatto un lungo percorso interiore per arrivare alla decisione. Dopo il silenzio assoluto e dal completo isolamento, ha iniziato a scrivere e farlo anche bene. Allora ho pensato e gli ho

detto «bravo Mago, sono contento che ti stai aprendo un po’». E lui ovviamente sul momento ha negato. Poi però pian piano si è convinto che fare un film non è un gesto di vanità (un suo grande timore era di apparire semplicemente vanitoso), ma di comunicazione. L’esigenza alla fine è venuta da lui. Un giorno mi ha confessato: «voglio fare un corto su Eternit». Al che ho replicato: «a me sembra una cosa sbagliata. Non è mai

uscito un film su di te se non l’emozionante sequenza pubblicitaria di Marco Preti degli anni ’80, e la prima cosa che facciamo è un cortometraggio su una via di 30 m. Mi sembra una cazzata». Manolo però mi ha lavorato ai fianchi: «Guarda che è una via importante per me, la più difficile che ho fatto». «Sai il luogo è splendido, da un parte si vede il mare, dall’altra le montagne e il paese dove son nato»... Forse il mio primo pensiero

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Un monotiro di 30 metri da un lato e un cortometraggio dall’altro. Due condensati per raccontare uno come Manolo è una bella sfida di sintesi...

L’intenzione era proprio raccontare l’uomo Manolo, che è complesso, non superficiale,

realizza la sua via più difficile, com’è possibile? È sicuramente un segnale forte di come pratica e intende la scalata, ma anche dell’uomo che è e del percorso che ha fatto. In attesa di una ripetizione di Eternit, l’unica cosa che manca, forse, nella dimensione sportiva, è un riscontro con altri atleti. È un po’ il prezzo da pagare per l’isolamento, sua indole naturale, che è stata forse esasperata dall’invidia di chi gli ha voluto e ne ha parlato male. La sfida del corto? Non sta a me giudicare se sia riuscita, ma è stato bello raccoglierla e mi pare che il film sia piaciuto.

Abbiamo girato tutto in digitale, in gran parte con una fotocamera reflex, un bel vantaggio perché finalmente è possibile realizzare video con qualità fotografica e con l’occhio a cui sono abituato. Con una telecamera per esempio hai tutto sempre a fuoco: staccare i piani è impossibile. Ho avuto anche la conferma che il bianco e nero lascia molto più liberi di percepire contenuti e forme, in una parola, la sostanza delle cose. A quanto pare ha funzionato: nessuno ha detto, che mi risulti, “sarebbe stato bello colorato”.

Un po’ tutte le scelte sono pure e decise, la prima che salta all’occhio a tutti è il bianco e nero...

Una serie di elementi che dialogano ciascuno con la sua identità, forse è questa la chiave di Verticalmente démodé?

CHICCO

che pretende tantissimo da sé e così dagli altri, che mette in tutto sempre il massimo impegno. Del resto è ciò che l’ha portato a fare quello che fa all’età che ha. Un fatto, questo, che mi ha incuriosito molto. Il massimo della prestazione in molti sport per quasi tutti gli atleti arriva tra i 20 e 30 anni, difficilmente più in là. Lui ne ha 52 e

DAVIDE

Per me più che una scelta è

un’abitudine: sono trent’anni che faccio immagini per il mio godimento e “vengono” sempre in bianco e nero. Questo film è stato sviluppato in totale libertà, senza alcun condizionamento: abbiamo fatto tutti quello che volevamo fare. Ognuno ha messo a disposizione e inserito gli aspetti cui teneva: io naturalmente la mia fotografia, o meglio quella che sono riuscito a fare. Neanche sono così soddisfatto: lavorare con le immagini in movimento è comunque differente.

Sai meglio di me che un film è sempre frutto di un lavoro corale. È un’alchimia che poteva funzionare o meno. C’è stata anche un po’ di “lotta collaborativa” tra me e Maurizio: la sua pressione ha giovato da un lato, e il mio non spiegarmi troppo ha reso molto più fluido il suo lavoro. È accaduto molto naturalmente, con collaborazione e complicità. Non ho mai detto, «mettiti così, o cosà», «fai questo o quello», ecc... È stato volutamente fatto tutto insieme, ma ognuno si è occupato della sua parte con spontaneità. Credo che questo abbia generato gli equilibri di cui parli: sul piano narrativo, tra roccia, natura e Maurizio, su quello tecnico tra immagini, narrazione e sonoro. Grande collaborazione e buona elasticità da parte di tutti: ognuno ha avuto il suo spazio

senza prevaricare quello degli altri. Sarebbe stato facile, per esempio, sentir dire: “il film è bello perché c’è Manolo”. Ma sono felice che non sia accaduto. Eternit è stata salita da Maurizio per la prima volta nel 2009. Quando sono state fatte le riprese?

Il filmato di quella prima salita rimane un documento, una testimonianza chiave e lo vedete scorrere nella parte finale e durante i titoli di coda. Volevo e mi sembrava giusto che ci fosse, perché probabilmente è stato la scintilla da cui è nato questo cortometraggio. Noi abbiamo realizzato una ricostruzione della salita. Siamo stati molto rapidi nelle riprese: appena quattro giorni, ma poi abbiamo lavorato a lungo in post-produzione. E si vede. Sonoro e montaggio hanno un ruolo importante, vuoi dirci il tuo punto di vista?

Desideravo assolutamente l’atmosfera reale e il suono in presa diretta, per cui ho trovato Enrico Montrosset in grado di “prelevarlo” in parete. Fonici volanti ce ne sono pochi in giro! In partenza non doveva fare null’altro, poi ho scoperto la sua capacità di lavorare con suoni e musica. Enrico mi ha fatto alcune proposte e ci abbiamo lavorato su fino ad

CRISTINA

del tipo «la solita scimmia che fa il solito muro» era stato un po’ troppo superficiale, così ho maturato la decisione anch’io: «ok, si fa!»

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Maurizio Manolo Zanolla

E la farfalla che si posa sul braccio di Maurizio?

C’era, è andata lì e ha fatto il suo lavoro. Mi attribuisco il merito di averla cercata, di aver avuto la prontezza di fare le riprese e, con un po’ di mestiere, aver trovato il modo di inserirle nel film. Così come quelle dell’aquila. Mi sarebbe piaciuto comparissero anche i camosci, così belli e numerosi in quelle valli. Ma non è accaduto e come dicevo: nessuna forzatura.

MAURIZIETTO

Ho saputo da poco che una cosa simile (il film ha vinto Genziana d’Oro, Premo “Città di Imola” e Premio “Mario Bello”, Ndr) era successa una sola volta nella storia del Festival, negli anni ’80 con Cumbre di Fulvio Mariani. Siamo andati molto oltre le aspettative. Un’ultima curiosità, che forse dovrebbe stare all’inizio, il titolo da dove arriva?

Maurizio ha preparato alcuni testi per la coda del corto. Nel suo scritto compariva questa affermazione-invenzione del “verticalmente démodé”. A me è piaciuta molto e gli ho spedito il file del primo premontato con quel nome. Da lì è stato dato per scontato da tutti che fosse il titolo del film, senza più pensarci o discuterlo. Fin quando io alla fine non ho chiesto: «ma siamo sicuri?», e Maurizio mi ha risposto stupito «perché, non va?». «No, no, è che abbiamo messo in dubbio ogni cosa e mi pareva strano non porre almeno la questione».

MATTIA

«Questa via l’ho chiamata come quella miscela di cemento e amianto che arrivava dalla Svizzera, ma diversamente dalla cioccolata, anche se non la mangiavi, faceva davvero molto male. Ci sono molte cose che non vediamo, ma anche molte che non vogliamo vedere e mi sembrava giusto ricordarlo. [...] È semplicemente la via sportiva più difficile che io ho scalato. Ma anche se è verticalmente démodé, questa inclinazione invitante nasconde qualcosa che può far male. Forse anche per questo l’ho chiamata Eternit».

arrivare alla versione definitiva, che credo sia efficace. Mi interessava molto ci fosse una buona tensione perché ritengo che i film di arrampicata tendano a essere noiosi. In tal senso il montaggio ha avuto un ruolo chiave: tanti cambi di inquadratura, tanti punti di vista e un buon equilibrio sulla continuità dei movimenti, che ci sono praticamente tutti. Desideravo far vivere la dimensione grazie a cui quell’uomo sta attaccato alla parete, passando dalla macro alla visione normale. Mattia (Marceca, NdR) è stato bravissimo a realizzare un montaggio che ha tiro, ritmo e passa da un registro all’altro senza essere invadente o fastidioso.

Tre premi a Trento, un segno davvero forte...

Non me l’aspettavo. Quando ci hanno accennato al premio, abbiamo pensato tutti alla Genziana d’Argento per il miglior corto. In realtà invece ci è stato riconosciuto molto di più. PAG. 45 /

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schedaGIALLA

A OLL ZAN ” LO NO i ra d IO “MA IO u c S a Z URI ARE MA LIO C U I eG

Bilico, Stramonio e Baule IN FALESIA TRA FELTRE E SAN MARTINO Alla scoperta di 3 siti fuori dal comune per cimentarsi su monotiri molto impegnativi, immersi negli splendidi scenari tra le Dolomiti Bellunesi e le Pale di San Martino.

Queste splendide e selvagge Dolomiti, che da Feltre si diramano verso nord, non sono solo le montagne magiche di Buzzati, ma anche quelle che hanno dati i natali e visto crescere il Mago. È qui che Manolo ha fatto i suoi primi passi in verticale ed è in queste valli che oggi è tornato a esplorare e tracciare linee e progetti, riscoprendone pareti e strapiombi in una nuova luce. Grandi foreste di abete rosso, imponenti pareti di bianca dolomia, curiose formazioni geologiche, falesie verticali di porfido scuro, forre e torrenti impetuosi: un insieme ricchissimo e suggestivo di natura, in gran parte protetta dal Parco Nazionale delle Dolomiti Bellunesi e dal Parco Naturale Paneveggio - Pale di San Martino. Un universo che offre infinite interessanti escursioni e ascensioni alpinistiche, ma anche occasioni di arrampicata fuori dal comune. Lasciamoci guidare allora dall’esperienza e la bravura di Manolo alla scoperta di questi suoi tesori verticali: tre falesie di monotiri davvero molto impegnativi. Dal grande masso monolitico del Baule che si affaccia sulla Val Canali, alla falesia di Stramonio in Val Noana, al Baule che già guarda verso Feltre e il mare. In questi ultimi due siti ogni via è segnata alla base da una targhetta in ceramica con il nome, che permette facilmente di reperirne l’attacco. Un piccolo particolare che però la dice lunga sull’attenzione e la dedizione con cui queste linee sono state concepite e lavorate. Gli schemi con le tracciature sono un’anticipazione da una guida cui Manolo sta lavorando e che dovrebbe essere disponibile per l’estate.

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INDIRIZZI UTILI Val Canali / Tonadico • Malga Canali (1307 m) loc. Val Canali tel. +39 0439 64491, cell. +39 368 7413582 • Albergo Cant del Gal, loc. Val Canali 1 tel. +39 0439 62997, fax. +39 0439 765539 cantdelgal@valcanalidolomiti.it • Baita La Ritonda, loc. Val Canali 2 tel. +39 0439 762223, fax. +39 0439 762223, laritonda@valcanalidolomiti.it • Camping Castelpietra, loc. Catelpietra tel./fax. +39 0439 62426, info@castelpietra.it, www.castelpietra.it Val Noana • Rifugio Boz (1718 m) tel. +39 0439 64448 gestore Daniele Castellaz

(tel. +39 0439 302306, cell. +39 348 7248949) • Rifugio Fonteghi (1100 m) tel. +39 0439 67043, fax. +39 0439 725266 gestore Franca Gobber (cell. +39 348 8744685), info@rifugiofonteghi.com, www.rifugiofonteghi.com • Camping Calavise, loc. Pezze, Imèr di Primiero, tel. +39 0439 67468, info@campingcalavise.it, www.campingcalavise.it

INFO • Parco Naturale Paneveggio - Pale di San Martino www.parcopan.org • Parco Nazionale Dolomiti Bellunesi www.dolomitipark.it

MANOLO DURANTE LE RIPRESE DEL FILM VERTICALMENTE DEMODÉ (FOTO M. PUATO)


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A BILICO Area: Val Canali, Trentino Quota: 1800 m circa Versante: sud Avvicinamento: 1h circa Difficoltà: da 7c/8a a 9a? Chiodatura: a spit Attrezzatura: corda 50 m Periodo: primavera, estate e autunno Punti d’appoggio: Malga Canali, Albergo e Ristorante Cant del Gal, Albergo Ristorante Ritonda, Campeggio Castelpietra (a 3 Km dal parcheggio) Si lascia la macchina nel parcheggio in Val Canali, lo stesso che si utilizza per raggiungere il Rifugio Treviso. Dopo circa 100 metri si prende una traccia di sentiero a sinistra e si costeggia il muro di pietra a secco, che delimita il grande prato della malga. Alla fine si imbocca la valletta e si risale nel bosco, fino a sbucare davanti al disordinato ghiaione che scende proprio dalla falesia (seguite gli ometti). Da qui, si continua per una traccia ogni tanto marcata da segni e ometti, fino alla base del grande blocco di pietra: 50 minuti circa dal parcheggio. La falesia, per quanto

piccola, è inserita in un ambiente aspro e alpino e se ne consiglia l’approccio solo a scalatori esperti. Rientra nel Parco Naturale Paneveggio - Pale di S. Martino. Le vie da sinistra a destra 1. Progetto Manolo 9a? 2. El Junca 7c/8a 3. Oidualca 8a/b 4. In Bilico 8b/c 5. Progetto Manolo 8b+?

zano, si imbocca la Val Noana, dopo aver superato una lunga galleria e, subito dopo un ponte, si trova un ottimo parcheggio. È possibile parcheggiare anche più avanti, ma è più complicato girarsi. Proseguite per la strada circa 200 m e poi dove il torrente si strozza fra due sassi vicini, (proprio sotto al piccolo parcheggio), si scende e lo si oltrepassa. Tracce e segni d’indicazione. Poi si segue una ripida ma comoda traccia e in 10 minuti si

arriva alla base della falesia. L’ultimo breve tratto per raggiungere il terrazzo, da cui partono le vie, è attrezzato con una corda. Ci sono anche alcuni gradini di ferro, su cui bisogna fare molta attenzione. La falesia è consigliata esclusivamente a persone esperte, non solo per le difficoltà che offre, ma soprattutto per la sua ubicazione. Le vie più belle Roby Present 9a (n.7), Cacciatori di piste 8a+ (n.4), Nicoboldo 8b (n.3), Eroi fragili 8c (n.6), Stramonio 8c/+ (n.8) e poi, come vedete dalla schema qui sotto, ci sono un paio di 7b non facilissimi per riscaldarsi.

B STRAMONIO Area: Val Noana, Trentino Quota: 800 m Versante: sud Avvicinamento: 10 min Difficoltà: da 7b a 9a Chiodatura: a spit resinati Attrezzatura: corda 70 m Periodo: dalla primavera all’autunno Punti d’appoggio: Rifugio Boz, Rifugio Fonteghi, Campeggio Calavise (all’inizio della Val Noana) Dai paesi di Imèr o Mez-

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schedaGialla

MANOLO ALLA RICERCA DEGLI “APPIGLI RIDICOLI” DI ETERNIT 9A SUL BAULE (FOTO C. ZORZI) IN BASSO LA VELA DI ROCCIA LISCIA E VERTICALE DEL BAULE (FOTO MANOLO)

C BAULE Area: Val Noana, Trentino / Val Canzoi, Veneto Quota: 1800 m Versante: est sud-est Avvicinamento: 1h 30’ Difficoltà: da 6b a 9a Chiodatura: a spit resinati Attrezzatura: corda 60 m Periodo: tarda primavera, estate e autunno Punti d’appoggio: gli stessi di Stramonio Il percorso più breve per raggiungere la falesia è partire dai paesi di Imer, o Mezzano e imboccare la Val Noana, fino alla fine, dove si trova il parcheggio per il Rifugio Boz. Il rifugio è raggiungibile a piedi in circa 1 h 30’ e può essere anche un ottimo appoggio alla falesia, distando solo 40 minuti da quest’ultima. È anche possibile raggiungere la falesia direttamente, senza passare per il rifugio. In questo caso, quando la strada forestale finisce, si prosegue sempre per il sentiero segnato, che porta al rifugio, ma poco dopo aver attraversato il greto del torrente si

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abbandonano le indicazioni e si segue una marcata traccia sulla destra che, uscendo dal bosco,

sbocca su pascoli prativi. Si taglia verso est, fino a incrociare il sentiero che arriva dal rifugio. Lo si segue e, poco prima del Passo Finestra, lo si abbandona verso sinistra per seguire una traccia fino a valicare la cresta (circa 20 minuti dalla fine della strada forestale). Da qui, ancora a sinistra per un sentiero esposto e con prudenza in 10 minuti si arriva alla base della falesia. È possibile anche l’approccio dalla Val Canzoi, ma con tempi di percorrenza più lunghi (2h 30’). Il Baule si trova nel Parco Nazionale delle Dolomiti Bellunesi.

Le vie più belle Il ballo del gallo forcello 7b (n.15), Baule volante 7c (n.4), Osteria tacicavallo 8a (n.3), Aquila grassa 8a (n.10), O ce l’hai o ne hai bisogno 8b (n.12), Appigli ridicoli 8c+ (n.14), Eternit 9a (n.13). Per riscaldarsi: L’orso Boz 6b (n.7) e Volpe rotonda 7a (n.5).


“ GRIVEL È ORGOGLIOSA E FELICE DI AIUTARE IL PIANETA UTILIZZANDO L’ENERGIA DEL SOLE ” La copertura della fabbrica è di circa 7000metri quadrati ed i pannelli coprono una superficie equivalente a quella di un campo da calcio regolamentare L’impianto è in grado di generare 516 kWp La produzione di energia giornaliera può coprire il consumo di 194 famiglie Ogni giorno viene evitata l’emissione di 806Kg di CO2 nell’atmosfera che è pari all’inquinamento prodotto da una automobile che ha percorso 5.800 Kilometri Durante il suo ciclo vitale, stimato in 25 anni, l’impianto produrrà 12.000.000kWh, questo dato copre il fabbisogno energetico di una famiglia per 4.200 anni Ogni anno l’impianto eviterà l’utilizzo di 1.173 barili di petrolio.

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testo di VALTER GIULIANO foto ARCH. ALP

Messner Mountain Museum

L’EREDITÀ DELLE MONTAGNE 6° PUNTATA

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RIPA

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I

IL CORTILE INTERNO DEL CASTELLO DI BRUNICO CON LA TORRE CIRCOLARE E LA SUA SPLENDIDA MERIDIANA SOTTO UNA DELLE PORTE CHE SI APRONO SIMBOLICAMENTE SULLE VENTUN POPOLAZIONI DELLE MONTAGNE DEL MONDO

NELLE DUE PAGINE PRECEDENTI L’INGRESSO ALBERATO CHE CONDUCE ALLA SOMMITÀ DELLA COLLINA DEL CASTELLO CON L’INSEGNA DEL MMM CHE PRESENTA IMMAGINI DEI CINQUE MUSEI A FIANCO, IN ALTO IL CORTILE INTERNO CON UNA SCULTURA SULLO SFONDO DELLA FACCIATA CON I MEDAGLIONI STORICI AL CENTRO L’INGRESSO DEL MUSEO CON IL TENDONE A FESTA DEL TIBET, SOTTO ALCUNE STATUETTE FETICCIO AFRICANE

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l Castello di Brunico, fatto erigere da Bruno von Kirchberg sulla collina meridionale del noto centro della Val Pusteria, sembra voler accentuare il suo aspetto magico, velato e accerchiato dalla leggera nebbia mattutina che si insinua nella valle. Ai suoi piedi la città brulica già, divisa tra le normali attività, l’arrivo dei turisti e la presenza del mercato. Passiamo sotto il ponte sospeso per arrivare al posteggio più vicino all’ingresso che a quest’ora non è ancora del tutto occupato. Il luogo si affaccia a balcone sulla città vescovile, incorniciato da alberi imponenti che cominciano a colorarsi delle tinte autunnali; è perfettamente in sintonia con le altre localizzazioni del sistema dei Messner Mountain Museum. Qui dal luglio del 2011 è visitabile l’ultima tessera del complesso mosaico attraverso cui il forte scalatore sudtirolese ha voluto raccontare il suo rapporto con le montagne. In ognuna delle situazioni il valore paesaggistico, fortemente ricercato e sommato al valore culturale del progetto, lo rende unico nel suo genere. Com’è unica l’accoglienza condensata nel giovane sorriso di Caroline, che fornisce subito preziosi consigli per avere dal percorso museale la massima soddisfazione. «Questo museo rappresenta l’ultimo capitolo del progetto di Reinhold. Ha voluto far conoscere e raccontare ventidue popoli delle montagne attraverso le loro visioni del mondo, le abitazioni, le religioni, gli oggetti artistici o per meglio dire di artigianato artistico». Il nuovo Messner Mountain Museum porta il nome “Ripa”. In lingua tibetana “ri” sta per montagna e “pa” per uomo, dunque uomo di montagna in ossequio al tema prescelto che è proprio quello dei popoli delle montagne del pianeta. Un museo interattivo che in prospettiva sarà luogo di scambio e di incontro tra culture diverse, tra la popolazione autoctona e i diversi popoli provenienti da altre montagne. «Vorrei portare qui ogni anno rappresentanti delle popolazioni alpine del Pianeta non per esibirle, ma per farle incontrare con i popoli montanari delle nostre Alpi». Appena entrati dal portale tardo gotico a schiena d’asino, datato 1584, sulla sinistra compare l’esile silhouette di una statua femminile cui segue poco oltre, in una delle rientranze del cortile, l’accoglienza che arriva dalla statua del Buddha a guardia della quale vigilano due leoni delle nevi tibetani. Superata la biglietteria si lascia sulla destra l’originario posto di guardia, in cui è rappresentata la struttura abitativa del Tirolo alpino, per scendere verso l’ingresso a tutto vetro del museo, da cui parte il percorso espositivo. «Ho dovuto insistere molto con la Soprintendenza per avere questa possibilità di accesso che permette di utilizzare anche gli ambienti affascinanti delle cantine storiche – sottolinea Reinhold – ma alla fine mi è stato permesso».

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Il tema è quello delle popolazioni nomadi, una suggestione immediatamente trasmessa dalle orme di uomini e animali impresse nel pavimento in cemento, mentre a parete un’installazione mostra l’orma della suola di uno scarpone su un ghiacciaio che nelle profondità, ahimè, rivela un misto di rifiuti non biodegradabili simbolo della moderna società dei consumi. Nella tipologia che Messner ha scelto per la sua rete museale, i solleciti a riflettere su ciò che sta davanti agli occhi del visitatore giunge sia da installazioni e opere artistiche di questo tipo sia dalla selezione attenta di frasi immaginifiche che scorrono durante la visita accompagnando il visitatore a ogni passo. Anche in questo caso le lasciamo in una sequenza senza commenti. Ogni inizio contiene una magia / Dobbiamo attraversare spazi e spazi / senza fermare in alcun dossi il piede / lo spirito universale non vuol legarc i/ ma su di grado in grado sollevarci. / Appena ci avveziamo ad una sede / rischiamo d’infiacchire nell’ignavia; / sol chi è disposto a muoversi e partire / vince la consuetudine inceppante Hermann Hesse

Nulla fu più costante del cambiamento Robert Macfarlane

Verrà il giorno, in cui l’unico lascito che sorreggerà le stirpi, sarà quello tessuto con le proprie mani – un abbozzo della loro terra e leggenda – , laddove ogni filo simbolizzerà il colore della propria stirpe Ziba Arshi

Poi è Reinhold a darci la sua personale visione, sotto il titolo “Da dove”: La mia infanzia tra i contadini di montagna in Sudtirolo e tante spedizioni hanno acuito il mio sguardo sulla forza di sopravvivenza delle cultura di montagna e destato la mia curiosità. Ci ha raccontato così questa esposizione: «Tutto si basa sul fatto che ho vissuto da montanaro nelle Dolomiti, poi durante le spedizioni sono andato sempre dalle genti di montagna del luogo che mi hanno accompagnato sino ai campi base. Il

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discorso che ho voluto affrontare si sviluppa con percorsi che illustrano via via tutte le popolazioni dal Caucaso (forse la più bella casa che abbiamo acquisito), all’Asia, al Sud America (una sezione è stata riservata agli Inca, popolo che non esiste più) con stanze dove sono ricostruiti i modi di vivere a cominciare dalle architetture, comprese le stanze del vescovo rimaste intatte e che mi hanno offerto lo spunto per affrontare anche in questa sede il tema delle religioni, dunque la cattolica che qui fu ed è di casa, ma anche le esperienze dei musulmani, dei buddhisti, dei lamaisti. All’inizio mostro le abitazioni dei vari popoli rappresentati poi, mano a mano che si va avanti, questo diventa superfluo, pleonastico; dunque la stanza non vuole più dare conto dell’intera abitazione, rimane solo la porta che serve simbolicamente ad avvertire il visitatore che sta per entrare in un’altra esperienza culturale. Resta tutto quello che serve per vivere e così mostro il cuore della casa di un popolo con tutti gli utensili che gli sono necessari». Lungo il percorso “La porta che apre alla cultura”, ecco la spiegazione di questa scelta: Le porte raccontano storie di miti, segreti e paure degli individui dietro alle porte. Esse sono testimoni del loro orgoglio, della loro arte artigianale e della loro ospitalità. Le porte aprono alla cultura di qualunque popolo di montagna. Nel MMM Ripa si aprono le porte di oltre 20 culture di montagna insediate in tutti e cinque i continenti. Dietro a queste porte si ritrova fra il profano quel mondo animato, cui le genti di montagna (Ripa) hanno dato forma alla pietra, al legno e all’argilla. Accade, in realtà, esattamente per ventuno popoli delle montagne del mondo e i materiali esposti, utensili e oggetti di artigianato che talvolta si confondono con la vera arte, servono a comprendere le diverse religioni e le varie visioni del mondo; ovviamente alcuni testi scritti aiutano a capire meglio differenze e analogie. Vale la pena soffermarsi ancora sulle istruzioni per l’uso, prima di intraprendere la salita dei vari piani sino a giungere all’apice della torre che offre un panorama

DALLA COLLEZIONE MESSNER, SCULTURAFONTANA, UNA DIVINITÀ E LA GRANDE STATUA DEL BUDDHA PROTETTA DAI LEONI TIBETANI SOTTO UNA FIGURA ZOOMORFA IN LEGNO COLORATO PROVENIENTE DALLE MONTAGNE AFRICANE

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ABITAZIONI DEI NUOVI NOMADI: LA TENDA DEL CAMPO BASE DELLA SPEDIZIONE DI HERMANN KÖLLENSBERGER AL BROAD PEAK DEL 1954

UNA DELLE SCULTURE FETICCIO DEI POPOLI AFRICANI DELLE MONTAGNE

mozzafiato sulla città e sul territorio circostante. Si parla spesso oggi del carattere genuino delle cultura di montagna - si legge sul cartello “Proiezione di un mondo ideale” -, della sua autenticità e delle sue tradizioni. Dalle lontane aree urbane gli ambientalisti e i protezionisti mettono in guardia contro la svendita delle montagne. Ma loro stessi usano questo paesaggio culturale come fondale su cui proiettare la loro concezione di mondo ideale. Il “ritorno alla natura” nella “terra natia” viene paragonato alla vita prima della Rivoluzione Industriale. Ai loro occhi le regioni montuose devono rimanere “vere”, “genuine”, “come ai vecchi tempi”. Le regioni montuose come musei, però, non possono sopravvivere. La cultura di montagna può essere sviluppata in maniera slegata dal presente, ma tenendosi solo aggrappata al passato diventa sterile. Ora siamo pronti a partire lungo i “Sentieri”: Cacciatori e raccoglitori seguirono il passo della selvaggina fin sulle montagne. La transumanza utilizzò quei percorsi così tracciati e ancor oggi gli alpinisti seguono i sentieri dei pastori. Questa la prima scritta che introduce il percorso. Poi in questo piano interrato incontriamo subito il tendone a festa del Tibet e la sensibilizzazione ai destini di quella terra e quel popolo: Non solo i pastori nomadi con i loro yak, ma tutti i Tibetani erano una volta migranti alla ricerca dell’orizzonte. Sull’altopiano, dove le montagne paiono sfiorare il cielo, il richiamo dell’estate li spingeva fuori da città e villaggi, laddove il silenzio e le distese erano infinite. In tendoni decorati a festa cantavano, festeggiavano, mangiavano. La vita era festa, ospitalità, compassione e la loro cultura era semplicemente ovvia.

Oggi le sorti del Tibet si decidono a Pechino, e la regione innevata un tempo schermata dalle montagne dell’Himalaya rischia di perdere la sua anima. Poi via via, a seguire, le tende dei nomadi dell’Anatolia e della Mongolia con disegni e decorazioni simboliche. Per uno come Reinhold che si è sempre dichiarato “moderno seminomade”, il tema non poteva che prendere avvio proprio dalle popolazioni nomadi della montagne che ancora permangono nei territori del Tibet, del Medio Oriente e della Mongolia dove l’antica pratica degli spostamenti con gli animali per seguire le aree di pascolo è tuttora praticata. In simbolica continuità con le tradizionali abitazioni di queste popolazioni, ecco le tende delle spedizioni alpinistiche con tutto l’occorrente per abitarle episodicamente: capi di abbigliamento, vettovaglie attrezzature alpinistiche. Alle pareti opere provenienti dalla collezione Messner tra cui un’alpenstock dell’Ottocento impiegato nella spedizione all’Everest del 1924 della Sporthaus Schuster München e una vetrina con oggetti della Collezione Hermann Köllensberg del 1954 donati da Silvia Beate Junker; in sottofondo l’eco della sua voce che preannuncia l’incontro con il video di introduzione all’ultimo capitolo del suo museo. Sulla sinistra si aprono le sale dedicate all’Africa, ai deserti, al Wadi Rum. I racconti più antichi dell’uomo sono immortalati su roccia. Si tratta d’immagini che evocano scene di caccia e morte, ricordi di paura e terrore, vita sociale e visioni. Sono anche nozioni acquisite:basta un attimo, per scalfire o estinguere la vita di un essere umano! E nemmeno in montagna consola la prospettiva di una vita sotto altre sembianze. (R.M) Un ingresso nel semibuio, atmosfera imbibita di magia, stimola la curiosità e invita alla scoperta che si rivela con un’inquietante processione di feticci e statuette rituali appoggiate al pavimento e nelle nicchie a parete. É l’accesso al misterioso mondo degli abitanti delle montagne del continente africano e dell’Oceania: l’incontro con maschere dell’etnia Fang tra Camerun, Gabon e Guinea Equatoriale; i Damara del massiccio montuoso del Brandberg in Namibia; i Masai dell’Africa orientale; i Tuareg delle montagne dell’Air; i Bamun con la loro Memorial Stone in una grande cantina sorretta da un trave che porta la data del 1699. Sino alla suggestiva rappresentazione della grotta del Wadi Rum della Giordania e dei focolari dei beduini, che chiudono questo ramo della visita. Ripercorse a ritroso le sale, si guadagnano le scale - lungo le quali fanno bella mostra di sè due opere di Peter Fellin della serie The inner mountains datate intorno al 1980 - che portano nello splendido cortile interno che si può anche raggiungere direttamente dall’esterno attraverso un’enorme porta tonda con lo stemma del vescovo Andreas von Spaur retto da due leoni. Sul lato destro una scalinata esterna in muro conduce al Palas, con a lato lo stemma del vescovo Christoph

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UNA MODERNA THANGKA REALIZZATA CON METODI TRADIZIONALI CHE RICHIEDONO ALMENO QUATTRO GIORNI DI LAVORO MANUALE

A CONFRONTO LA TENDA DI UNA SPEDIZIONE HIMALAYANA (IN PRIMO PIANO UNA COLLEZIONE DI PICCOZZE STORICHE) CON LA TRADIZIONALE YURTA, ABITAZIONE MONGOLA DI CUI, SOPRA, SI PUÒ AMMIRARE L’INTERNO ARREDATO (FOTO ARCH. MMM)

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IL POSTO DI GUARDIA ALLESTITO COME TRADIZIONALE ABITAZIONE SUDTIROLESE AL CUI INTERNO REINHOLD MESSNER POSA PER LA FOTOGRAFIA (FOTO ARCH. MMM)

von Schroffenstein e la data 1519; sul cortile si affacciano gli ingressi per il resto del percorso nonché il locale di ristoro. L’ingresso alle sale dedicate all’Europa è ubicato sotto la balconata. Il primo ambiente che si incontra in questa sezione è una bellissima stalla tradizionale con arredi in legno e presenza di caldaie. Uomo e animale vivevano un tempo a contatto molto più stretto rispetto a quanto accada oggi. Si conoscevano, vivevano l’uno per o contro l’altro, formavano delle unità, delle simbiosi. Ora come allora gli animali hanno un impatto profondo sulla vita degli uomini, e l’uomo svolge un ruolo decisivo nell’esistenza degli animali. Non solo nel Caucaso, ma ovunque tra le montagne l’umanità era un tempo strettamente legata al mondo animale. Divinità, uomini e animali interagivano, nei rituali e nelle cerimonie, e determinavano il proprio reciproco destino. Si racconta, per cominciare, la realtà caucasica per poi passare alla casa walser, comunità germanofona insediatasi nelle Alpi del Monte Rosa: il lit-clos (armadio letto), le scarpe chiodate per il ghiaccio, la stufa in pietra ollare, il tagliapane. A fianco, l’interno della casa sudtirolese per conoscere anche

la realtà più vicina, in compagnia di alcune frasi che stimolano approfondimenti. “Conoscenza”. Nel suo insieme la cultura di montagna è terra natia: la conoscenza della natura delle montagne, dei luoghi, degli antenati, delle loro strategie di sopravvivenza. La responsabilità per tutto ciò assicura la sostenibilità. E ancora, “La madrepatria degli alpigiani”. Le Alpi non devono diventare la periferia dei dinamici agglomerati urbani europei, la seconda patria degli abitanti delle pianure, il luogo in cui i cittadini trascorrono il loro tempo libero, da dove prelevano la loro acqua potabile, dove abitano nei fine settimana e tranquillizzano la loro coscienza, sostenendo l’istituzione di sempre nuove zone protette. Le Alpi, in primo luogo, non appartengono all’Alpenverein, che già in passato si era prefissato il compito di rendere le montagne ovunque sicure e accessibili. Il ruolo delle Alpi non è quello di garantire ai cittadini gli spazi alternativi per quei desideri, che nelle metropoli non possono essere soddisfatti. Nella sala seguente l’approfondimento è rivolto alla Bulgaria: dai Monti Rodopi M.Gerlach, 2.655 m), nel Sud ovest del paese, i Pomacchi; dai Tatra (RysY, 2,499 m), ai confini tra Polonia e Slovacchia, i Gorali che parlano la lingua slava arcaica “podhale”. Attraverso la torre circolare una scala a chiocciola conduce alle stanze dei piani superiori. Al primo piano la scelta è tra Asia e America. Alle sale dedicate all’Oriente, che presentano le popolazioni dell’Himalaya, dell’Hindukush, del Karakorum (Hunza) e del Transhimalaya, si accede con una porta appartenente alla cultura Naga.

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Sulle pareti il tema dell’acqua e della sua preziosità nelle culture ed economie agricole di montagna è ben rappresentata dal tronco scavato a mano per la conduzione idrica che accompagna il visitatore lungo la rampa in discesa. Alla parete di fronte due splendide porte in legno istoriate e una suggestiva serie di maschere provenienti dalla Kohistan Valley del Pakistan. La popolazione Naga, 32 tribù, 3,5 milioni di persone, abita il territorio del Monte Saramati (3,840 m), all’estremo confine Nord orientale dell’India, mentre i Tharu, di cui sono esposte alcune interessanti porte e orci per il cibo, sono insediati nel Sud est del Nepal alle pendici dell’Himalaya lungo il confine con l’India. La sala dedicata alle popolazioni Indios delle Ande permette di completare il quadro esplorando così anche il continente americano. L’ultima stanza di questo piano, dedicata alle architetture, vede riuniti i modellini delle abitazioni dei popoli delle montagne mirabilmente realizzati da Giuseppe Toscani con esempi dall’Himalaya alle Ande sino a quelle del Sud Tirolo riportate qui da Monte Rite. A parete una pregevole carta geografica proveniente dal Pasang Norbu Khumjung. Nelle sale originarie del castello, alcuni oggetti di rilievo tra cui una bella stufa di ceramica verde e un costume locale di fine Ottocento finemente cesellato. Resta da conquistare il terzo piano. La salita verso l’alto porta con sè, anche in questo caso l’opportunità di soffermarsi sulle religioni e sul rapporto tra il bisogno di Dio e le montagne. Lo stimolo alla riflessione è affidato, tra l’altro, alle parole di Friedrich Hölderlin: Vicino/E difficile da afferrare è il Dio./Ma dov’è pericolo, cresce/Anche il salvifico./ Nell’oscuro abitano/Le aquile, ed impavidi se ne vanno/ Oltre l’abisso i figli delle Alpi/Su fragili ponti./E, poiché d’intorno s’affollano/Le vette del tempo... La cristianità è di casa, con le splendide stanze vescovili: soggiorno, biblioteca, camera da letto. Nel soggiorno degno di nota l’importante soffitto a cassettoni con lo stemma dei conti/vescovi Von Spaur e un pavimento ornato con intagli di legno (la data 1900 e le lettere A e S per il vescovo Simon Aichner). Assai belle sono anche le stufe di stucco, una in ogni stanza, ornate con lo stemma del Principe vescovo: due quadranti opposti con àncora e freccia e i rimanenti, in alto con l’agnello aureolato con croce astile e in basso con l’aquila di San Venceslao. I muri sono affrescati con pitture in uno stile molto raro per la zona; ad eccezione di un quadro, che raffigura la città di Bressanone, tutti gli altri sono paesaggi di pura fantasia. Nella biblioteca troneggia la teca che conserva un prezioso incunabolo opera di Nicolai De Cusa (Nicolò Cusano) illustre matematico, astronomo, teologo, filosofo, Principe vescovo di Bressanone tra il 1450 e il 1464 anno della sua morte. Il piano è completato dalle rappresentazioni dell’Islam, dell’induismo e del lamaismo, quest’ultimo così commentato da un pensiero di Claude Lévi-Strauss: Verso il buddhismo provo una certa affinità: da un lato, perché il buddhismo non

conosce un Dio personale, dall’altro, perché esso ammette che, nell’assenza di senso, nel senza-senso, sia racchiusa l’ultima verità. Una fede di questo tipo la posso senz’altro accettare. Altre due sale sono rispettivamente dedicate a una raccolta di armi dei popoli delle montagne e a una riflessione sulla scomparsa civiltà Inca. Gli scavi archeologici ci rivelano che nelle Ande gli Inca erano saliti quasi fino a 7.000 m d’altitudine sul livello del mare. Forse per avvicinarsi al divino Sole? Questi primi scalatori d’alta quota ci lasciarono innumerevoli mummie sulle loro vette, tante quanti gli enigmi che li circondano, la la loro cultura è andata distrutta con la Conquista Spagnola. Quel che resta, sono reliquie di una cultura di montagna inconfondibile, persa per sempre. Di fronte all’area ristoro, inquadrata da due fontanelle finemente cesellate, resta da visitare la sezione dedicata al turismo nella aree di montagna che prevede la salita alla torre quadrata in cima alla quale sarà possibile godere di una sorprendente vista panoramica sulla città e sui suoi dintorni. Alla base una delle salette è dedicata all’esposizione temporanea di tanka tibetane, gioielli e monili, vestiti, strumenti musicali, calzari decorati, serrature, quella adiacente invece ospita cristalli e vasi colorati, pubblicazioni turistiche. Il turismo e l’eredità culturale stonano fra loro, quando questa eredità è trasformata in un prodotto a sé stante, ridotto infine a merce di scambio. L’eredità culturale non è più, quindi, un elemento portante della società che il turista viene a visitare, ma uno stereotipo o mera rappresentazione teatrale. (Kurt Luger) Alle pareti opere pittoriche datate tra i primi anni dell’Ottocento e il Novecento di Heinrich Heinhein, Gustav Jahn, Thomas Ender, Carl Ludwig, Albin Eggerlienz, Rudolph von Alt Zugenschieben, Benedetto Feltrin, Rudolph Carl Huber, Hernst Plaz, Joseph Prayeri, raffiguranti scenari vari provenienti da territori montani. La torre, attrezzata con scala a rampe e piani di framezzo in legno, non manca di rivelare altre ricchezze come una scritta in legno Tscharten Rambuk del 1924, due pannelli tibetani raffiguranti Milarepa e Mahakala del 1880, un bassorilievo in legno “Buddha’s Enlightement” del 1830 e tankhe più recenti (2005 – 2009) ma sempre di pregevole fattura. Nell’ultimo tratto di salita verso la porta che spalanca il panorama mozzafiato sulla città ci accompagnano le gustose rappresentazioni delle spedizioni himalayane affidate alla poesia dei dipinti, dal tratto naiff, dello sherpa Gyalzen Norbu e del pittore locale Tripten Lama. Le ore sono trascorse con la stessa leggerezza che di solito accompagna le nostre camminate in quota. Ma la lunga escursione nel mondo dei popoli alpini è stata altrettanto faticosa. Vale una birra nella bellissima sala affrescata del bar dove ritroviamo Caroline. Ci diamo appuntamento tra poco al bookshop, il tempo di soffermarci ancora un poco nella sala proiezioni, situata nella destra entrando nella torre. PAG. 57 /

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IL BELLISSIMO SALONE ORIGINARIO MIRABILMENTE RESTAURATO CHE OSPITA LA CAFFETTERIA

AL CENTRO UNA DELLE NUMEROSE OPERE ARTISTICHE OSPITATE NELLE SALE DEL MUSEO CI ACCOGLIE SUBITO ALL’INGRESSO SOTTO IL PREZIOSO INCUNABOLO QUATTROCENTESCO DEL PRINCIPE VESCOVO NICCOLÒ CUSANO

È ancora la compagnia di Reinhold che dal video aggiunge nuovi elementi per meglio capire i popoli delle montagne. Quando arriviamo all’appuntamento Caroline è già andata via: «Domani parte per un viaggio in Nepal», ci informa la sua collega Maria. A me e a Giulio non resta che portare via qualche ricordo del viaggio virtuale appena percorso: qualche oggetto e le colonne sonore di alcuni degli ambienti in cui ci siamo intrufolati, in punta di piedi, per cercare di capire qualcosa di più dell’umanità che popola le terre alte del pianeta.

Alla fine del viaggio

Per concludere questo nostro viaggio, in cui vi abbiamo accompagnati alla scoperta dell’ ultima dimensione del pianeta Messner ecco ancora alcune considerazioni affidate direttamente alla sua voce. «Serviranno ancora un sei mesi, un anno, per perfezionare tutte le sinergie possibili tra i vari nuclei museali. Resta inoltre da risolvere, in alcune situazioni, un migliore avvicinamento a piedi e qualche problema di parcheggio, ma li risolveremo. Poi mi potrò ritirare affidando il sistema dei MMM a un direttore che vorrei giovane, per introdurre, così, nuove idee. Allora sarò libero di cominciare la mia settima vita. I gatti, dicono, hanno sette vite: perché io no? Se poi avrò la forza e l’energia per ripartire da zero, ancora una volta, per far crescere da una visione un fatto di concreto non lo so ancora. Ma è la prima volta che ho finito qualcosa che lascia una traccia concreta. Perché quando sono tornato dai quattordici Ottomila avevo un bellissimo ricordo, accompagnato da bellissime esperienze e sensazioni, ma di concreto non c’era nulla. Lentamente, dall’età di cinquant’anni in poi, ho compreso che nella mia vita avevo avuto la grande fortuna di vivere la vita, avendo a disposizione i mezzi, il tempo, l’entusiasmo e il il know how per frequentare i confini della Terra, dove gli altri non possono andare perché hanno una famiglia, una casa di cui magari pagare il mutuo, un lavoro che non può essere abbandonato. Forse le stesse cose che ho fatto io persone più abili di me non lo hanno potuto fare. Allora mi è sorto il desiderio di condividere con tutte gli umani, di tutto il mondo, le mie esperienze. Tra le svariate forme di comunicazione che ho praticato considero la rete dei MMM la maniera migliore per condividere tutto quello che so della montagna e tutto ciò che è stato vissuto sulle montagne. Perchè la storia dell’alpinismo è la somma di tutte le avventure che la montagna rende possibili. Non posso certo raccontarle tutte. Anche nei musei sono costretto a scegliere esempi, volendo comunque esprimere tutto ciò che è può essere vissuto sulle montagne, specialmente quando si portano al limite le possibilità. Il valore vero che la frequentazione delle montagne può dare è sicuramente un bagaglio enorme di esperienza. Un’altra considerazione mi piace esprimere al termine di questa mia sesta vita. Ognuna delle strutture che formano il mio circuito museale ha una posizione straordinaria e in sintonia con gli argomenti affrontati: Solda sotto il ghiacciaio; Rite, forse il posto più forte, a balcone sulle Dolomiti; Firmian sulla collina che domina Bolzano; Juval all’apice di un sistema agricolo che è rinato. Anche a Brunico ho avuto la fortuna di scegliere bene, al centro di un territorio ancora abitato da un popolo montanaro. E non abbiamo costruito nulla di nuovo se non a Solda dove però è tutto nascosto dentro la collina della casa sherpa». ■

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Info Utili

Il popolo Sherpa al Messner Mountain Museum Ripa MMM RIPA I popoli delle montagne Castello di Brunico Vicolo del Castello, 2 39031 Brunico (Bz) tel. +39 0474 410220 fax +39 0474 410525 ripa@messnermountain-museum.it www.messnermountain-museum.it Come arrivare In auto dall’autostrada A22 Modena-Brennero si esce a Bressanone - Val Pusteria, si seguono le indicazioni per la Val Pusteria immettendosi sulla SS49 in direzione di Brunico / Bruneck e poi verso Brunico centro, da cui si incontrano le indicazioni per il Castello di Brunico, dove ha sede il museo. Provenendo da est, si imbocca l’A27 VeneziaBelluno che si percorre fino al termine, si prosegue sulla SS51 di Alemagna per la Val Cadore fino a Dobbiaco / Toblach, da cui si svolta a sinistra sulla SS49 verso Brunico centro. In treno da Trento, Bolzano e Vipiteno / Sterzing (per chi arriva da nord) si arriva fino a Fortezza, da cui si prosegue per Brunico: dalla stazione ci si dirige a piedi verso il centro storico e il Castello di Brunico (20 min). In aereo collegamenti con l’aeroporto di Bolzano.

Orario di apertura 2012 Il MMM Ripa è aperto dal 13 maggio al I° novembre 2012 e dall’8 dicembre al 24 marzo 2013, 25 e 26 dicembre chiuso ore 10 - 18; ultimo ingresso ore 17 martedì chiuso Tariffe 2012 Adulti 8,00 €; bambini (6-14 anni) 3,00 €; studenti e anziani (oltre i 65 anni) 6,00 €; gruppi (minimo 15 persone) 6,00 € a persona; carta famiglia 18,00 € Il Museum Ripa nel Castello di Brunico ha riaperto le sue sale al pubblico lo scorso 13 maggio con una mostra e una rassegna dedicate al popolo nepalese degli Sherpa. È così possibile avvicinarsi all’affascinante storia e alla cultura di una popolazione il cui nome è oggi riduttivamente associato, nel linguaggio comune, alla figura dei portatori e delle guide d’alta quota dell’Himalaya. Attività che effettivamente svolgono caricandosi sulle spalle, da più di cento anni, i pesanti bagagli degli alpinisti di tutto il mondo. Abili imprenditori e guide alpine, gestiscono oggi il turismo in Nepal fin sulla cima del Monte Everest. La loro storia ha radici antiche: cinque secoli fa migrarono dalla regione

di Dege in Kham nel Tibet orientale, e dopo un lungo esodo che li spinse a superare l’alto pass o himalajano di Nangpa La (circa 6000 m), si stabilirono nell’odierno territorio delle valli di Solu e Khumbu, ai piedi del versante sud occidentale del Monte Everest. L’uomo dell’Est (shar = oriente; pa = uomo, gente) ha portato con sé e conservato la propria lingua (dialetto tibetano), la propria cultura e religione (lamaismo) e vive oggi di agricoltura, commercio e turismo. Il programma che consentirà di conoscere la loro vita quotidiana tra turismo, tradizioni e alpinismo, si svilupperà oltre che

con l’interessante mostra temporanea con dipinti e proiezioni video, anche attraverso numerosi appuntamenti estivi con film, concerti, serate culinarie, letture e conferenze. Ne saranno interpreti principali quattro rappresentanti del popolo Sherpa che soggiorneranno al castello durante l’estate. Illustreranno di persona la loro vita quotidiana, le loro feste e antiche tradizioni religiose, il loro artigianato e la loro economia turistica. Fedele alla sua missione, il museo intende in questo modo stimolare uno scambio interculturale e anche una riflessione sulla nostra cultura alpina. PAG. 59 /

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la Val Cornei: never say never Finale... F Fi n non muore ma mai. C’è tanto da dire en nulla da aggiungere. Qu Quando sei in cima ai T Tre Frati e guardi il P Paretone di P Pianarella, sen senti la brezza che mischia la neve del delle Alpi con il sale del mare, e capisci che sei in un posto un unico al mondo. I bo boschi di carpini e fa faggi ondeggiano liev lievemente e le pareti gri grigie e bianche, silenti, osp ospitano puntini colorati che appaiono sos sospesi qua e là.

Finale CHRISTIAN ROCCATI SU ARSURA (FOTO C. FALCONE) NELLA PAGINA A FIANCO IL PROFILO DEL CORDONBLEU (FOTO E ARTWORK C. FALCONE)

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tes di testo CHRISTIAN ROCCATI CH

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CORDONBLEU

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CRISTIAN “HAWK” FALCONE SUI TETTI DI DESTRA (FOTO C. ROCCATI, ARTWORK C. FALCONE)

NELLA PAGINA A FIANCO, L’ESTETICO SETTORE DI DESTRA AL CORDONBLEU. IN ALTO CRISTIAN “HAWK” FALCONE (FOTO C. ROCCATI), IN BASSO CHRISTIAN ROCCATI SU TURISTI FAI DA TE (A SINISTRA), E SU POLLASTRO E PATATINA (A DESTRA, FOTO C. FALCONE)

La Liguria è una terra davvero particolare, celata nei valloncelli e nel carattere dei suoi abitanti, alcuni di essi molto più morigerati nelle parole che nel portafoglio, come invece la tradizione li vorrebbe tutti. Rispecchiano nel temperamento la sensibilità misteriosa della propria geografia. Finale nello stesso modo appare come un borgo medievale magnifico a pochi minuti dai lidi, eppure nasconde – soltanto nelle immediate vicinanze – circa 3000 vie di scalata. Queste linee non sono chiare e visibili, ma come eremi appaiono tra i crinali, a macchia di leopardo. Un passo dopo l’altro, sui sentieri scorgi placche, tetti, pance e pilastri, che svaniscono e riappaiono, a ogni più piccolo capriccio morfologico di Madre Terra. Il popolo degli scalatori pensa che Finale sia conosciuta principalmente per il suo stile durissimo, i suoi gradi compressi, e le personalità che la vivono... ma questa non è tutta la verità. Mentre il numero degli itinerari cresce costantemente, la guida tradizionale e completa di Andrea Gallo è oramai alla sua versione 8.0... e i tanti frequentatori crescono esponenzialmente, i piccoli e grandi apritori e chiodatori, anch’essi silenziosi, continuano umilmente il loro lavoro per la comunità, senza far troppo rumore. Quest’anno persino il GISM, il Gruppo Italiano Scrittori di Montagna, ha scelto Finale come sede del proprio convegno annuale italiano. Se in fondo questo territorio racchiude in sé l’archetipo della regione, potremmo dire che la Val Cornei è in se stessa lo stereotipo di queste combe. Finale non muore mai... grazie a soliti noti che continuano da decenni a chiodare e richiodare fale-

sie, con etica e umiltà. È il caso dell’Outdoor Liguria, un’associazione con cui collabora da cinque lustri un gruppo di amici che sta riqualificando sentieri per biker ed escursionisti, tracce per arrampicatori, e ovviamente pareti. Sono circa 450 le vie di scalata aperte o richiodate in tutto il Levante ligure e, a esse, si sono aggiunte nel tempo moltissime linee – intorno alle 150 – nell’area finalese, scelte proprio nella Val Cornei. Del resto fu proprio il citato Andrea Gallo ad affermare che «se non hai visto Cornei, non hai visto Finale». Questa piccola comba fu scoperta negli anni ‘80 dal quasi leggendario Fulvio Balbi. In essa tra il 2008 e il 2011 è stato fatto un restyling etico, che continua tuttora grazie al gruppo capitanato dal chiodatore e climber Fabio Pierpaoli da Moneglia. Di grande aiuto il contributo costante del tuttofare Walter Leonardi (autore del portale www. arrampicate.it che illustra ogni passo in avanti quasi in tempo reale e propone iniziative dedicate), e il sapere unito all’arte fotografica del bravo Felice Brambilla, soprannominato “Per un pugno di spit”. Pensando a questo grande lavoro, il primo sito che mi salta in mente è la Gola dei Briganti, individuata storicamente da Fulvio Balbi e Diego Nesi, in un ambiente in piena wilderness che nel tempo fu parzialmente abbandonato. Nel 2005 vi fu la valorizzazione della fascia bassa da parte di Marco Tomassini e la sua associazione Tothemass; tre anni più tardi arrivò l’associazione Outdoor Liguria, che si applicò alla fascia superiore con ben 4 settori risistemati – dai livelli più semplici a quelli più difficili – e 16 tiri nuovi, oltre che con l’otPAG. 63 /

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GURU CHRISTIAN ROCCATI ATTACCA GLI STRAPIOMBI DI SINISTRA DEL GURU... OGNI EROSIONE UNA SCOMMESSA (FOTO F. BRAMBILLA)

NELLA PAGINA A FIANCO VALENTINA “NANÀ” ROCCATI SI LIBERA SUL DIEDRO ALLE CINQUE DELLA SERA, E ALLE 17 SPUNTA IL SOLE! (FOTO C. ROCCATI)

timizzazione e l’allungamento delle altre linee preesistenti. Fu poi la volta della vicina Falesia della Goletta, che vide il lavoro sistematico del gruppo, interessato alle pareti ingurgitate dalla macchia. Era stata chiodata nel 2000 dall’attivissimo Marco Zambarino, ma le belle linee si erano poi perse nella foresta. Nella primavera del 2008 l’Outdoor Liguria ha dato il via alla ristrutturazione, sempre con l’aggiunta di linee nuove e la creazione di una base fruibile anche dalle famiglie, area che diventa fondamentale nel caso in cui si debba ricorrere all’elisoccorso. Dal fortuito incontro tra Pierpaoli e il celebre “Gerry” Fornaro nacque l’idea di un restyling anche della Falesia della Placconata, settore sinistro.

Nel maggio del 2008 partirono i lavori, che anche in questo caso furono sia di richiodatura sia di apertura di nuove linee, accanto agli itinerari storici dei Cravasards (gli appassionati dei massi di Cravasco, NdR) di

Mauro Carena. Tra le vie nuove sono apparsi anche dei tiri di grado 3... quasi una rivoluzione per Finale! L’associazione proseguì il suo viaggio operando in un’altra fra le gemme di Fulbio Balbi, la Falesia del Guru. Per quest’operazione vi fu la prolifica collaborazione con i climber Luca Fida, Stefano Dondero e Giovanni Piaggio. Subito dopo, la Outdoor Liguria si dedicò alla vicina Falesia della Tranquillità, anche in questo caso inserendo nuove linee. Entrambi questi siti sono caratterizzati da un ampio spazio alla base, sia per le famiglie che vogliano passare una bella giornata, non solo appesi... sia nell’ottica della sicurezza. Se il Guru è caratterizzato da una magnifica roccia rossa a colate su uno strapiombo a 45° e una parte laterale in placca sui grigioni, la Tranquillità è il regno del calcare compatto e aderente, pur con morfologie diversificate. Si parte dal grado 3 con Scala per galline zoppe e si sale

nelle difficoltà, di lettera in lettera, di grado in grado! Il lavoro successivo fu espletato alla Falesia dell’Invidia, con una piccola puntata ai settori limitrofi di altre falesie, per alcuni singoli tiri. Circa 20 anni fa Fabio “Bigo” Pierpaoli lo Shaolin, Andrea “Punta” Costaguta il Visir e Ivano Costa, si erano dedicati all’apertura di queste dure vie di scalata. L’associazione, proprio in collaborazione con Costaguta, ha riqualificato anche questo sito, che oggi presenta corti muri ipertecnici e davvero difficili. Tra le linee nuove sono nati stimoli per i più bravi con vie fino all’8b. Se possiamo dire che il resto dei settori a cui la Outdoor Liguria si dedica sia molto “democratico”, qui c’è invece pane per i denti dei più bravini. Tra l’altro il Visir, con il suo gruppo, si è per l’occasione dedicato all’apertura di una serie di boulder limitrofi alla falesia, dove si può «scalare a nastro», per usare una sua espressione! Le sorprese però non sono fi-

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GOLETTA

nite. Finale non muore mai, ricordo! Mentre io ero occupato con le mie varie vie lunghe, di arrampicata moderna e trad, alla parete nord della Rocca di Perti, insieme al grande Ernesto Dotta, e l’associazione allargava ancora la Gola dei Briganti, è nata una nuova collaborazione. La Outdoor Liguria si è dedicata infatti al restyling del Cordonbleu, che prende il nome dal gruppo di torinesi che scoprì l’area. Il lavoro è stato effettuato questa volta insieme all’attivissimo e già citato Marco Tomassini, a sua volta impegnato in ben tre guide relative al territorio di Finale. Questa falesia, che contiene circa 60 linee, è in pratica la continuazione della Placconata del settore sinistro. Il “cantiere” è tuttora attivo e ha già dato risultati. Vi sono ben tre settori già operativi su cui è possibile scalare dal 5b al 6b+/6c. Sono inoltre nate una serie di vie nuove che partono dal grado 4. Come sempre, l’associazione mira a creare pareti per il popolo medio degli scalatori, soprattutto puntando PAG. 65 /

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BRIGANTI SIMEONE “DISGAGGIO” DUSSONI MORDE LE BELLE VIE DELLA GOLA ALTA (FOTO C. ROCCATI)

ai gradi più bassi. Attualmente sono fruibili tre porzioni della falesia, di notevoli dimensioni. C’è il settore di destra, magnifico e caratterizzato da una serie di placche articolate, con svasi e pancette e un pilastro centrale che taglia in due la falesia, con uno splendido diedro rosso. Al centro, celato dal bosco gradevole, si trova il settore Ceralacca, denominato così per via della resina rossa di qualità che vi è stata utilizzata. È la porzione dedicata ai principianti, davvero molto utile per chi voglia mettere le mani su un calcare così vergine da pungere le dita! Infine, c’è il più vasto settore Arsura, che prende – in parte – il nome di una via dalla curiosissima morfologia. Scoprirete di che parlo sul posto... La riqualificazione proseguirà poi a sinistra con le vie tuttora in lavorazione, dato che a tutti gli effetti la falesia è stata chiodata soltanto per metà. L’associazione ha chiesto un contributo alla comunità degli arrampicatori per riuscire a fronteggiare i costi enormi che in tutti questi anni sono sempre stati sostenuti con l’autofinanziamento. L’appello è stato diffuso in rete e fa riferimento al citato sito www.arrampicate.it. Purtroppo per ora non c’è stata una risposta significativa, solo qualche timido singolo caso. L’idea dell’associazione è molto semplice: le amministrazioni dovrebbero fornire i materiali, in modo che i chiodatori possano operare al meglio e nel rispetto dell’ecocompatibilità. Il lavoro non retribuito dei vari apritori di vie innesca un flusso di turismo verde, che porta energie nelle vallate amministrate da quegli stessi enti.

Il problema è che alla fine le spese rimangono sempre sulle spalle dei soliti noti che da più di 25 anni chiodano i vari siti pagando di tasca propria, cercando sempre di migliorarli, nel rispetto dell’ambiente e della storia dei luoghi. Negli ultimi vent’anni, infatti, la Outdoor Liguria ha provato ad aprire vie in autofinanziamento nelle vallate depresse, per decongestionare quelle più conosciute e stimolare un po’ l’economia di quelle abbandonate. Nonostante i buoni propositi e le tante iniziative – serate, articoli e molto altro – non si è ottenuta una risposta adeguata... Pare che gli arrampicatori siano disposti a pagare per la birra post scalata, ma non a dare, a chi gli ha regalato le vie su cui arrampica, anche soltanto un euro ogni cinque o sei settimane di scalate, che sarebbe semplicemente utilizzato per chiodare altre vie... e solo per pagare i materiali! Va da sé che gasolio, autostrada, pernottamenti, materiali personali e migliaia di ore di lavoro restano e resteranno sempre a carico del chiodatore. Nonostante tutto, l’associazione continua nella sua “missione”, e non è la sola. Marco Tomassini, ad esempio, nell’ultimo suo lavoro al Bric Grigio, ha iniziato a preparare la parete con soste utili al recupero da parte del soccorso alpino e speleologico, un caso unico nel finalese e probabilmente davvero raro in Italia. Quest’operazione è in linea sia con le finalità dell’associazione, sia con gli intenti dello stesso CNSAS, che in Liguria è estremamente attivo e sta diventando sempre più un punto di riferimento per molti. ■

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INVIDIA CHRISTIAN ROCCATI ALL’INVIDIA... DOVE LE BASTONATE ARRIVANO PER TUTTI! (FOTO W. “ARRAMPICATE.IT” LEONARDI) E, A SINISTRA, SUI TETTI DELLA TRANQUILLITÀ CON LA SUGGESTIVA CHIESA DI ORCO SULLO SFONDO (FOTO F. BRAMBILLA)

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schedaGIALLA

TI i CCA ra d N RO u c A a ISTI CHR

Inesauribile Finale I NUOVI SETTORI DELLA VAL CORNEI Le più recenti proposte sulla magnifica Pietra del Finale arricchiscono ulteriormente la già variegata offerta di itinerari “facili” di questo storico centro di scalata, soprattutto per climber già contagiati dal mal di roccia...

L’ACCESSO Dall’A10 Genova-Ventimiglia si esce al casello di Orco Feglino, da cui si scende sino alla strada principale della vallata. Allo stop si svolta a sinistra verso Orco-Feglino e a un bivio presso lo storico bar La Scaletta si continua diritto sotto il ponte autostradale. L’asfaltata diventa una piacevole strada di montagna, tra crinali verdeggianti e cataste di legna. Si prosegue per circa 3 km fino a un secondo bivio a cui si prende a sinistra in salita, trascurando la strada a destra in discesa che lungo la valle di Cornei conduce a Finale. Si giunge quindi al colle presso cui si trova la chiesa di Orco. Si parcheggia a sinistra negli spiazzi. A destra c’è una fontana di acqua potabile, della quale fare un uso parsimonioso e da non lasciare aperta. L’AVVICINAMENTO Dal parcheggio, con alle spalle il borghetto, si attraversa la strada in direzione del crinale, lasciando a destra la fontana e il monumento, e si procede in salita. Si oltrepassa il cimitero a destra, e si continua diritto guadagnando una bella sterrata in falsopiano, caratterizzata da qualche sentierino qua e là, da trascurare. Si continua senza deviazioni per circa 400 m, osservando le svariate diramazioni secondarie sulla destra in discesa, tra cui una caratteristica – da ignorare – che parte da un piccolo slargo e una seconda poco più avanti, l’unica segnalata da un ometto di pietre. Si imbocca questo sentiero sulla destra in discesa, disarrampicando un microsaltino di circa due metri, di II grado. La traccia piega in 282 / PAG. 68

discesa a sinistra nel bosco per circa 10 minuti, nettissima, sino ad arrivare in falesia.

I SETTORI I primi settori che si incontrano sono quelli tuttora in lavorazione. Una volta raggiunti, si deve proseguire a mezzacosta sotto le pareti sino al primo settore riqualificato, Arsura, evidente perché oltre a essere l’unico chiodato con resinati nuovi, ha un ampio spiazzo alla base. Per giungere agli altri settori si deve proseguire a piedi nel bosco, sempre a mezzacosta. Dopo circa 15 m si incontra un settore nuovo, Ceralacca: lampante la denominazione, dovuta alla resina rossa. Continuando si giunge quindi al Settore di destra, l’ultimo del comprensorio. Al termine e a metà dei siti ci sono due aree ripulite adibite a toilette, ben segnalate con vernice verde: in tutte le falesie Outdoor Liguria, prima di piantare il primo chiodo, si riqualifica l’area adibita a WC... per evitare che la natura sia sporcata da fazzoletti o da altri oggetti non graditi. Questa regola finora ha funzionato molto bene! LE VIE I gradi dei nuovi tiri sono da ritenersi indicativi, in quanto soltanto le ripetizioni potranno assestare la valutazioni soggettive, frutto del molteplice passaggio dei climber. Le gradazioni dei tiri storici sono invece riferite alla più classica “scala finalese” adottata anche nelle altre falesie richiodate o aperte da

Outdoor Liguria o in collaborazione con altri soggetti, come riportato nell’articolo. Questi settori hanno un’alternanza cromatica magnifica derivata dal carsismo delle pareti. La famosa Pietra del Finale è un calcare molto lavorato dall’erosione dell’acqua che garantisce per questo una serie di concrezioni davvero incredibili. Nel finalese oltre ai rinomati e ormai famosi buchi, vi sono “architetture” conseguenti quali clessidre e karren, o campi carreggiati. In questo specifico settore si possono notare i classici grigioni, le placche compatte che prendono il nome dalla loro colorazione, facilmente riconoscibili. I piccoli antri sono invece evidenti per via della tinta arancione vivo e acceso. Le pareti inframmezzate da geostrutture varie, spesso articolate e meno “monotone” degli scudi grigi, sono invece di colore bianco. In questi settori si trovano morfologie pronte ad accogliere ogni tipo di scalata, dall’aderenza allo strapiombo, su linee corte o di media lunghezza.

IL WEB • www.arrampicate.it il sito con le ultime novità del Finalese ma non solo • www.ideeverticali.it è il sito dell’omonima casa editrice, che fornisce notizie e aggiornamenti sulle pareti • www.rockstore.it dallo storico negozio di Finalborgo, nato negli anni ‘80 dalla passione di free climber protagonisti dell’evoluzione dell’arrampicata nel Finalese, tutte le novità della zona


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• www.finalebythomas.com il sito di Marco Tommasini, autore della guida di arrampicata a Finale • www.comunefinaleligure.com del Comune di Finale Ligure, con le informazioni utili al visitatore • www.visitfinaleligure.it è il sito dell’ufficio turistico di Finale, che ha una sede anche a Finalborgo, vicino alle falesie

PER DORMIRE Finale Ligure è una località marina con un’ottima e variegata offerta turistica: sul sito dell’ufficio turistico e del Comune si può trovare l’elenco di alberghi, B&B, agriturismi e campeggi. Segnaliamo in particolare l’agriturismo Il bandito e la principessa, tel.+39 019 6994407, +39 348 2790154, www.ilbanditoelaprincipessa.it, a Orco Feglino, gestito da due veterani dell’arrampicata locale

01 Volente o volante 6b, 20 m 02 Trimo non farti toccare 6b+, 10 m (ancora da richiodare) 03 Free joint 5c, 15 m 04 Giovani e ribelli 5c, 15 m 05 Modello base 6a+, 15 m 06 Aldo Avanzini 6a+, 15 m

07 Affittansi scale 6b+/6c, 15 m 08 La storia infinita 6b, 15 m 09 Art of noise 6a+ ,15 m 10 Il gruppo T.N.T. 6a, 18 m 11 È ora di basta 6a, 16 m 12 Arsura vaginale 6a+, 16 m

Avvertenze L’arrampicata e l’alpinismo sono discipline potenzialmente pericolose che ognuno pratica a proprio rischio e pericolo, assumendosene la responsabilità. Le relazioni qui riportate sono compilate precisamente e sono da riferire alle condizioni al momento della valutazione. Prima di ogni salita è fondamentale che lo scalatore valuti al momento le condizioni dei tracciati e affronti la salita solo se esperto e preparato e in possesso delle conoscenze e facoltà necessarie.

LE GUIDE • Andrea Gallo, Finale 8.0, rock climbing a Finale Ligure, Ed. Idee Verticali, Finale Ligure 2012 • Marco Tomassini, Finale Climbing, Ed. Versante Sud, Milano 2011 • Marco Tomassini, Finale... non solo mare, ospitalità, storia, natura e sport nell’entroterra finalese, Ed. Le Mani-Microart’s, Recco (Ge) 2010 LE CARTE • IGC 1:50.000 f. 15 Albenga Alassio Savona • Kompass 1:50.000 f. 642 Costa ligure Finale Ligure Savona

13 Astratta 5c, 15 m 14 Charme 5b, 15 m 15 Relax 5b, 15 m 16 Minimo sindacale passo di 4b, poi 3b, 15 m

L’ESTETICO CALCARE BIANCO DELLA GOLA DEI BRIGANTI (FOTO W. LEONARDI)

17 Senza Nome 5a, 15 m 18 Senza Nome 6a, 15 m 19 Arriva la Tatina 5b, 15 m 20 Marcolino a canestro 5c, 15 m 21 Senza Nome 6a, 15 m 22 Senza Nome 6a, 15 m

23 Innominata 6b, 18 m 24 Turisti fai da te 6b+, 16 m 25 Pollastro e patatina 6b+, 16 m 26 Buon compleanno 6b+, 16 m 27 Pinzimonio 6a+, 15 m

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TERRA DI ASTRONOMI, DI SCRITTORI E ANCHE DI ALPINISTI Castello Balcone di Marta 1960 m Pointe de Lugo 1929 m

Balcone Toraggio di Marta 1973 m 2123 m

Mille suggestioni provengono da questa valle ricca di sentieri che, dai monti al mare e viceversa,

Pietravecchia M. Grai 2038 m 2012 m

Carmo Ciaberta 1765 m M. Corma 1597 m

sanno regalare chi li percorre la sensazione semplice e unica dell’aria, della luce che illumina

M. Saccarello 2200 m

M. Frontè 2153 m

i borghi storici, del profumo del mare misto a quello della montagna, degli ulivi e dei vigneti.

La VALLE CROSIA (o Valle del Crosia) è uno degli ultimi bacini del Ponente ligure, a circa 15 chilometri dalla vicina Francia. Geograficamente si può dire che nasca dal Monte Caggio – al cui piede settentrionale si trovano i colli Termini di Perinaldo e Termini di Baiardo, che fanno comunicare la Valle del Crosia con la Valle di San Romolo – la sua cima più elevata che si trova sul lungo contrafforte sud-est che s’origina dal Monte Grai, che a sua volta fa capo alla costiera sud del Monte Saccarello, la più alta montagna della Liguria, proprio sullo spartiacque alpino. Come molte vallate liguri, si può ben affermare che abbia “i piedi nel mare e la testa in montagna”. Poco frequentata dal punto di vista escursionistico, offre tuttavia, una serie di itinerari che si possono effettuare durante l’intero anno: particolarmente indicato è il periodo che va dalla metà di settembre alla fine di maggio. Non è una valle particolarmente lunga, al contrario dell’attigua Val Nervia, e le sue “mulattiere di mare” ben si sposerebbero con Creuza de ma, la famosa canzone di Fabrizio De Andrè. Ma questa zona è, soprattutto, lo scenario vissuto e raccontato dallo scrittore IN ALTO DA PERINALDO SI SCORGE UN TRATTO DEL CONTRAFFORTE CHE SI DIRAMA DAL MONTE GRAI A SUD OVEST, A CUI FANNO DA SFONDO IL BALCONE DI MARTA (A SINISTRA) E LE ALPI LIGURI (A DESTRA)

Francesco Biamonti, nato proprio qui, a San Biagio della Cima nel 1928, dove si è spento nel 2001, lasciando incompleto il suo ultimo romanzo, Il silenzio, pubblicato postumo nel 2003. Nei suoi quattro romanzi, nati nella casa-laboratorio di San Biagio, dove sempre ha risieduto dopo aver un po’ girovagato da giovane in Spagna e, particolarmente nel sud della Francia, lo scrittore ligure è magistralmente riuscito a evocare le suggestioni di questa terra che saprà regalare al visitatore la sensazione semplice e unica dell’aria, della luce, del profumo del mare misto a quello dei monti, degli ulivi e dei vigneti.

testo e foto di ALESSANDRO LASAGNO

NELLA PAGINA A FIANCO IL MONTE SANTA CROCE VISTO DAI PRESSI DEL COLLE APROSIO

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Biamonti aveva esordito in letteratura solo nel 1983, a 55 anni, con L’angelo di Avrigue, pubblicato per conto di Einaudi e presentato con entusiasmo da Italo Calvino, uno dei suoi più grandi ammiratori (che nella vicina Val Nervia ambientò Il Barone rampante). Proprio in questo suo primo romanzo (aveva già scritto un primo lavoro mai pubblicato, Colpo di grazia, e alcuni saggi dedicati alla pittura di cui era un grande appassionato, come di cinema francese e di musica classica, in particolare di quella sinfonica) i personaggi di Biamonti si muovono tra i carruggi e le mulattiere che risalivano i fianchi della Collina della Crovairola, la montagna che sovrasta il suo paese natale con un formidabile appicco, conosciuta un tempo anche come “A Pila du Crou” (Collina dei Corvi). Oggi questa panoramica cima – solo 358 metri, ma che superbo panorama – sulle carte geografiche e sui moderni testi è riportata come Santa Croce, a

seguito della volontà di un religioso di San Biagio di far erigere sulla sua cima, nella seconda decade dell’Ottocento, l’omonima cappella oggi sconsacrata e, purtroppo, lasciata da molti anni al degrado. Quando si parla della Val Crosia, naturalmente, si parla anche di Perinaldo, la nostra meta, magnifico villaggio di pietra abbarbicato alla sua testata, da cui si ha una spettacolare veduta sui contrafforti delle Alpi Liguri, in particolare sul gruppo Toraggio-PietravecchiaGrai, alle cui spalle s’impone il Balcone di Marta (rilievo, quest’ultimo, compreso nel territorio francese della Val Roya). Se San Biagio è legata a doppio filo a Francesco Biamonti, Perinaldo può vantare invece di aver dato i natali – nel Seicento e nel Settecento – a due importanti famiglie di astronomi e matematici: i Cassini e i Maraldi. La figura più illustre di questi scienziati è senza dubbio quella di Gian Domenico Cassini (1625). Egli aveva studiato

a Genova e insegnato astronomia a Bologna, dove aveva costruito la meridiana della Basilica di San Petronio; dal 1669, divenuto ormai celebre in tutta Europa, fu chiamato da Luigi XIV a dirigere l’Osservatorio astronomico di Parigi, dove si sposò dando il via a una dinastia di astronomi. Tra le sue numerose scoperte ricordiamo quella di quattro satelliti di Saturno e la divisione degli “anelli” del pianeta, che oggi porta il suo nome (Divisione di Cassini); tornato nel 1696 per l’ultima volta nella natia Perinaldo, morì a Parigi nel 1712. Fino ad allora il Senato di Bologna, città che aveva “conquistato” e che mai si era completamente rassegnata alla sua partenza, gli mantenne libera la cattedra di Astronomia. Recentemente, nel 1997, la NASA gli ha intitolato la sonda spaziale Cassini-Huygens che, nel 2004, ha raggiunto Saturno, cominciando a inviare verso la Terra numerose preziose immagini del pianeta che più di

tutti aveva affascinato il grande scienziato. Giacomo Filippo Maraldi (Perinaldo 1665 - Parigi 1729), nipote di Cassini, fu un suo valente collaboratore, distinguendosi nello studio di Marte – di cui scoprì le calotte polari –, del Sole e della Luna, confermando la divisione degli anelli di Saturno scoperta dal suo illustre maestro. Gian Domenico Maraldi, anche lui nato a Perinaldo, nel 1709 divenne membro dell’Accademia delle Scienze francese; scoprì e studiò varie stelle, alcune nebulose e fece ritorno nel suo paese natale nel 1772, dove si spense nel 1788. Alla sua memoria è stato intitolato, dal 1935, un cratere lunare. In questa terra di astronomi e scrittori, proponiamo un’escursione che si sviluppa quasi sempre in prossimità della panoramica dorsale Crosia-Nervia, cercando in qualche maniera di “ricalcare” lo spirito delle relazioni del grande alpinista-scrittore ligure Bartolomeo

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Asquasciati, che nei primi del Novecento divulgò con appassionanti scritti molte sue ascensioni ed escursioni nelle Alpi Liguri e Marittime, pubblicando tra le sue opere Contrafforti e Alpi Liguri, edito dal CAI di Imperia nel 1924. Nelle Alpi Marittime, sulla dentellata cresta che dal Colle Est del Monte Clapier sale alla sommità dell’omonima montagna (Monte Clapier 3045 m) gli è stata dedicata una vetta (Cima Asquasciati 3034 m) che si potrebbe, a tutti gli effetti, considerare il primo e più meridionale Tremila di tutto l’arco alpino. > A Vallecrosia, ai limiti occidentali del paese, dai pressi della chiesetta di San Rocco si imbocca la via Santa Croce che s’innalza sui primi declivi del versante orientale della Val Nervia. La stradetta, in alcuni tratti abbastanza ripida, raggiunge un cancello (120 m) che, se chiuso (ricordiamo al visitatore il massimo rispetto dei luoghi attraversati e che in questo tratto non è consentito uscire dalla stradina), deve essere aggirato sulla destra per proseguire poi per un breve tratto a ponente. Raggiunto un traliccio della linea elettrica (143 m) il cammino volge a levante, entrando in vista del versante meridionale del Monte Santa Croce e raggiungendo, al culmine della regolare salita, la dorsale Nervia-Crosia (188 m), all’altezza di una cisterna per la raccolta dell’acqua. Seguitando in piano a settentrione, su fondo naturale (qualche bella veduta sulla lontana Perinaldo e la sottostante Vallecrosia Alta) si perviene in breve a un tornante a sinistra (altra vasca per l’acqua) dove si origina un non troppo evidente sentierino (da seguire verso nord) che s’arrampica su un pendio, tra roccette e radici scoperte dei pochi pini che lo popolano. Raggiunto un poggio (Colle Aprosio 237 m, 0.45 ore da Vallecrosia), ottimo punto d’osservazione sull’incombente Monte Santa Croce, ci si abbassa per pochi metri fiancheggiando sulla destra dei ruderi in pietra, dominando con grande effetto il sottostante viadotto autostradale “Vallecrosia”. Guardando in direzione sud-est, sul fianco sinistro del torrente Crosia (o Verbone, NdR), si possono scorgere

dei vagoni ferroviari; non si tratta di una stazione, bensì del “Museo della Canzone Italiana e della Riproduzione sonora” creato nella seconda metà del Novecento dal geniale ristoratore Erio Tripodi (1938-2005), e ospitato all’interno dei succitati vagoni – del tipo “Centoporte” – risalenti al 1927 e agganciati alla locomotiva “Cirilla” del 1904. Il sentiero, ora più evidente, prende quindi quota tra la macchia mediterranea puntando in direzione della sommità del Monte Santa Croce, affiancando la condotta dell’acqua, poi antiche terrazze, raggiungendo infine la sommità di questo panoramico rilievo (358 m, 0.25 ore), caratterizzato, oltre che dalla sconsacrata omonima cappella ormai in rovina, da due grandi cisterne dell’acquedotto. Da quassù si domina magnificamente il litorale compreso tra Bordighera e i rilievi francesi dell’Esterel, i contigui bacini del Nervia e del Crosia incorniciati da numerosi contrafforti delle Alpi Marittime e Liguri che da ponente (Cima Longoira 1151 m – Grammondo 378 m – Tron 1339 m) a settentrione (Balcone di Marta 2123 m – Toraggio 1973 m – Pietravecchia 2034 m – Grai 2012 m – Saccarello 2200 m) a nord-est e levante (Frontè 2153 m – Ceppo 1627 m – Bignone 1299 m – Caggio 1090 m) ne caratterizzano l’orizzonte. Acquattati sul fondovalle, o abbarbicati su pendii e dorsali, si riconoscono anche i borghi di Dolceacqua, Perinaldo, Soldano, San Biagio della Cima, Seborga, e i sottostanti abitati di Vallecrosia Alta e Camporosso. Si abbandona il Monte Santa Croce seguendo la pista sterrata che si abbassa a sud-ovest (splendidi esemplari di pini a ombrello), poi a settentrione, perdendo ulteriormente quota, con belle e dettagliate vedute su Camporosso. Aggirando il fianco occidentale del Monte Santa Croce si procede poi su un tratto cementato, tra vari coltivi dove, dall’inizio di gennaio, spicca il giallo delle mimose. Toccata una diramazione (212 m) si procede a destra, in piano, su fondo naturale, accanto a varie serre, trascurando un successivo bivio (211 m) che si abbassa a sinistra verso Camporosso, per guadagnare quindi i pressi della chiesetta dell’Annunziata (217 m, 0.15 ore), nuovamente sulla dorsale, dove converge da destra una stradetta che arriva da San Biagio della Cima (100 m), raggiungibile da chi lo desideri in 0. 20 ore.

SAN BIAGIO DELLA CIMA San Biagio della Cima, (bus per Vallecrosia/Ventimiglia e Perinaldo) sorge sul fianco destro orografico della Val Crosia. Piuttosto noto per la sua varietà di rose, San Biagio fece parte dalla fine del Seicento al 1797 della “Magnifica Comunità degli Otto Luoghi”, una piccola fiorente repubblica che, grazie al protettorato di Genova, si opporrà con successo per un secolo alle angherie dei conti di Ventimiglia. Da visitare i suoi carruggi e la singolare piazzetta dove si affaccia la parrocchiale dei Santi Sebastiano e Fabiano (del 1497, rifatta nel 1777 da Andrea Notari – al suo interno è custodita una statua lignea raffigurante San Sebastiano, attribuibile al famoso scultore genovese Anton Maria Maragliano). Poco distante sorge l’oratorio dell’Assunta, mentre a nord dell’abitato si trova il Santuario dell’Addolorata (“Nostra Signora dei Dolori”) risalente al XVIII° sec; dalla stradetta che vi passa accanto parte (al termine del tratto asfaltato), verso sinistra, un sentiero che, ceduto poi il posto a un tracciato cementato, si innalza sulla displuviale Crosia/Nervia, intersecando l’itinerario a quota 300. Procedendo sulla panoramica stradina a settentrione, dapprima in moderata salita, con nuove belle “inquadrature” su Camporosso, dopo alcuni modesti saliscendi si incrocia il tracciato cementato (300 m, 0.30 ore) che arriva da San Biagio, in corrispondenza di una sella e nei pressi di una condotta per l’acqua. Vinta una breve salita, il cammino, ora su fondo naturale, pianeggia tra belle ginestre e vigneti, sfilando poco dopo sul fianco orientale del Monte Bellavista (383 m) dove campeggiano alcune strutture dell’acquedotto, lasciando a destra un cammino secondario che si abbassa su Soldano. Seguitando sempre a nord (lato Crosia) si passa sotto la linea dell’elettrodotto, in presenza di altri vigneti dalle cui uve si ricava il famoso Rossese, una peculiarità di questo tratto dell’estremo Ponente ligure. Dopo una breve salita, ritornati sulla dorsale si giunge in seguito all’agreste pianoro di Cian dei Morti (355 m, 0.25 ore da quota 300), lasciando poco prima una diramazione che divalla sul versante Nervia. Attraversato il magnifico altopiano caratterizzato da vigneti, si lascia al suo limite settentrionale una stradina con cui, volendo, in 0.40 ore è possibile giungere a Soldano (80 m, bus per Perinaldo e Vallecrosia/Ventimiglia), attraverso il vallone del rio Fulavin.

A NORD DELL’ABITATO DI SAN BIAGIO DELLA CIMA SI TROVA IL SANTUARIO DELL’ADDOLORATA, XVIII° SEC.

NELLA PAGINA A FIANCO PERINALDO VISTO DA SUD-OVEST; SULLO SFONDO IL MONTE BIGNONE

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NELLA PAGINA A FRONTE SUGGESTIVO TRAMONTO INVERNALE DA PERINALDO; A DESTRA IL PROFILO DEL MONTE SANTA CROCE IL SANTUARIO DELLA MADONNA DEL CARMINE, NEI PRESSI DI SOLDANO. A DESTRA IL LITORALE COMPRESO TRA VENTIMIGLIA E BORDIGHERA VISTO DAI DINTORNI DELLA COLLINA DELLE MAULE

SOLDANO Conosciuto un tempo come Castrum Soldani, tipico esempio di borgo ligure, è impreziosito dalla bella parrocchiale di San Giovanni Battista, che ospita un pregevole polittico cinquecentesco dedicato al santo, opera di Andrea della Cella di Finale. Sulla stessa piazzetta si affaccia altresì l’oratorio settecentesco di San Giovanni Evangelista. Incastonato tra le case in pietra dell’abitato si trova, curiosamente, il campanile della primitiva parrocchiale. Procedendo (nord) per questa stradetta, dapprima in salita per una rada pineta, si taglia il fianco occidentale della Cima Gian Domenico (454 m), per seguitare in piano tra vari coltivi di eucalipto e mimosa (non mancano mai, naturalmente, gli ulivi...), con belle vedute a nord-ovest sui monti Abelliotto (901 m) e Abellio (1016 m), separati dall’omonima Bassa d’Abellio (752 m). Lasciato a sinistra un tracciato che proviene dalla Val Nervia si giunge quindi a un’ampia sella (411 m), dove convergono quattro sterrati. Da questo incrocio si procede in salita, sul ramo principale (qualche “inquadratura” su Perinaldo), doppiando un tornante per continuare rivolti sempre a settentrione, già entro i confini della località Gasco, che si attraversa in piano (varie proprietà), per affrontare poi una breve salita per il panoramico crinale, tra nuovi magnifici vigneti ricavati su scoscesi pendii, raggiungendo un bivio (470 m, 0.30 ore – all’altezza di una cisterna per l’acqua) che si abbassa sulla Val Nervia (possibilità di arrivare

a Dolceacqua in circa 1.10 ore). Restando ancora sullo spartiacque per alcuni minuti, con belle vedute a ponente sulla sottostante chiesa di San Gregorio e sul più lontano Santuario della Madonna Addolorata, si supera una breve rampa (indicazioni per Casa Bahr) in direzione del Monte Rebuffao che si erge a nord, per volgere quindi sul versante Crosia sull’ampia pista a fondo naturale che contorna la testata del rio Beragna, tributario del torrente Crosia (o Verbone), dove solo alcune terrazze sono tuttora coltivate. Continuando a nord-est, ignorando una diramazione a sinistra verso “Rochin”, si procede in moderata salita proprio in direzione dell’elegante boschiva piramide del lontano Monte Caggio. Costeggiati i resti di un edificio in pietra (535 m, 0.30 ore) si ritorna in vista della scenografica e ben più vicina Perinaldo, incorniciata dai rilievi che, più o meno distanti, dal Toraggio si susseguono verso levante sino al succitato Monte Caggio. Oltrepassato il successivo tornante,

procedendo piacevolmente sempre su fondo naturale, si sfila nei pressi di una casupola in pietra (a destra) e, superata una breve salita, si raggiunge un importante bivio (555 m, 0.15 ore). Si imbocca la diramazione verso sinistra (sud-est), che dopo pochi minuti volge a destra (nord-ovest), guadagnando la vicina dorsale: giunti nei pressi di due ulivi (580 m), al termine di un breve tratto cementato si prende il sentierino a sinistra che culmina sulla sommità del Monte Rebuffao (599 m). Dal panoramico rilievo, seguendo una traccia poco evidente (nord) che serpeggia sulla displuviale, o procedendo a settentrione sul più comodo versante Nervia si raggiunge una sottostante sella, da cui si sale alla cima del Monte Alpicella (615 m, 0.20 ore da quota 555), caratterizzata dai resti di una torre circolare, un tempo usata per le segnalazioni “a corno” dagli antichi abitanti di questi luoghi. La piccola cima, dominata dal Monte Toraggio e quanto mai affascinante, è uno straordinario belvedere su Perinaldo e sulle valli circostanti, incorniciate dai contrafforti delle Alpi Liguri. Ritornati al bivio a quota 555 (0.15 ore), si segue lo sterrato che si distende a nord in moderata discesa, tra varie terrazze dove predomina l’ulivo; doppiato un tornante si contorna il vallonetto del rio Figareo, poi la località Alpicella (530 m, 0.15 ore), per intersecare, infine, la stretta rotabile che mette in comunicazione

Perinaldo con Dolceacqua attraverso la regione Morghe. Seguendola a destra in discesa, con continue spettacolari vedute sull’ormai prossima Perinaldo, si va in seguito a incrociare, proprio sulla dorsale, in località San Michele Bana (481 m) la carrozzabile che sale dalla Val Crosia e si abbassa su Apricale; dopo averla attraversata si imbocca un tracciato che, lasciando a destra la chiesetta di San Michele, prosegue in salita risalendo la ripida omonima via pedonale con cui si perviene a Perinaldo (572 m, 0.35 ore dalla località Alpicella – bus per Vallecrosia e Ventimiglia), l’antica Podium Rinaldi, dove nei pressi della parrocchiale di San Nicola di Bari (di origini quattrocentesche e rifatta nel Settecento) e dell’ex loggia comunale termina l’escursione: dal vicino Belvedere Chianea si gode di un’indimenticabile panorama sulle Alpi Liguri e i loro contrafforti. Il paese degli astronomi possiede tre musei, che si trovano nella parte orientale del borgo, vicino alla chiesa di Sant’Antonio: uno, con annesso piccolo osservatorio astronomico, è dedicato alla famiglia Cassini, il secondo “napoleonico” e il terzo, infine, “entomologico”. Da Perinaldo si può rientrare a Vallecrosia in bus ma, nella bella stagione, approfittando delle molte ore di luce, ci si può godere il ritorno lungo il percorso di salita, riassaporando pienamente profumi e colori di questa terra così particolare.

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SSA

Valle Crosia

NDR

schedaGIALLA

O L a cura ASA d GNO i

CAMMINANDO DAL MARE AI MONTI Proponiamo una facile escursione lungo sentieri che, partendo da Vallecrosia e lasciandosi il mare alle spalle, si inerpicano sulle colline tra serre e vigneti, sviluppandosi quasi sempre in prossimità della panoramica dorsale Crosia-Nervia, con lo sguardo rivolto ai primi contrafforti delle Alpi Liguri. INFO Dislivello in salita: 900 m Tempo di percorrenza: 5 ore Difficoltà: T/E Segnavia: non segnalato, ma evidente Periodo consigliato: percorribile tutto l’anno, ideale da settembre a maggio Note: l’itinerario descritto si sviluppa quasi interamente in prossimità della dorsale occidentale della Val Crosia (Im), nel Ponente ligure, dove corre lo spartiacque Crosia/ Nervia, entro il territorio dei Comuni di Vallecrosia, San Biagio della Cima, Soldano, Perinaldo, Camporosso e Dolceacqua. La valle è percorsa dal torrente Crosia (o Verbone) che sfocia nel Mar Ligure all’altezza dell’abitato di Vallecrosia.

L’ACCESSO In auto Vallecrosia è raggiungibile da Genova (circa 150 km) attraverso la via Aurelia oppure l’autostrada A10 uscendo ai caselli di Bordighera o Ventimiglia. Da Cuneo, sulla SS20 del Colle di Tenda si arriva a Ventimiglia, da cui in 3 km si raggiunge Vallecrosia. In treno sulla linea ferroviaria GenovaVentimiglia, scendendo alle stazioni di Bordighera oppure di Ventimiglia, entrambe a soli 2 km dal centro cittadino.

• Museo della canzone e della riproduzione sonora www.museodellacanzone.it • CAI Ventimiglia, via Roma 63, tel. +39 0184 35774, www.caiventimiglia.it • CAI Bordighera, corso Europa 40, tel. +39 0184 262797, www.caibordighera.it

PER DORMIRE Riportiamo alcuni siti che contengono varie possibilità di alloggio presso hotel, pensioni, agriturismi e Bed&Breakfast dei Comuni toccati dall’itinerario: • www.visitrivieradeifiori.it • www.turismoinliguria.it • www.paesionline.it • www.bed-and-breakfast.it • www.ventimiglia.biz • www.campingvallecrosia.com LE CARTE • IGC 1:50.000 f. 14 San Remo Imperia Monte Carlo • Kompass 1:50.000 f. 640 Nice/Nizza Monaco Sanremo • Blu Edizioni: 1:50.000 La provincia di Imperia • Multigraphic 1:25.000 f. 112 Alpi Marittime e Liguri

LE GUIDE • Euro Montagna, Lorenzo Montaldo, Alpi Liguri, Guida dei Monti d’Italia, ed. CAI-TCI Milano 1981 • Enzo Bernardini, Villaggi di pietra, Blu Edizioni, Peveragno (Cn) 2002 (esaurito) • Alessandro Lasagno, 25 itinerari escursionistici nella Provincia di Imperia e nell’alta Val Roya, Atene Edizioni, Arma di Taggia 2003 • Alessandro Lasagno, Escursioni nelle valli intemelie, Atene Edizioni, Arma di Taggia 2007 (esaurito) • Cinzia Pezzani, Sergio Grillo, A piedi in Liguria, vol. 2, Iter edizioni, Subiaco (Rm) 1999

T = Turistico / E = Escursionisti / EE = Escursionisti Esperti / EEA = Escursionisti Esperti con Attrezzatura

GLI INDIRIZZI UTILI • Comune di Vallecrosia www.vallecrosia.com • Comune di San Biagio della Cima www.comunedisanbiagio.com • Comune di Soldano www.comunesoldano.it • Comune di Perinaldo www.perinaldo.org • Comune di Camporosso www.camporosso.it • Comune di Dolceacqua www.dolceacqua.it • Osservatorio astronomico di Perinaldo www.astroperinaldo.it • Francesco Biamonti, il sito ufficiale www.francescobiamonti.it

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AGN i ra d CAMP u c a LO PAO

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AVVENTURE & DISAVVENTURE DEI LETTORI DI ALP

CORRENDO LUNGO I SENTIERI DEL GRAN PARADISO

C

«

erto questa non è la gara per debuttare in una sky race!», è l’ammonimento con cui inizia la nostra domenica 31 luglio. Sono le quattro e un quarto di notte, stiamo facendo colazione nell’albergo di Ceresole Reale e nessuno di noi osa dichiarare di essere alla prima esperienza. Due veterani pluripremiati della manifestazione snocciolano aneddoti su asperità e durezze della gara. Ascoltiamo un po’ assonnati, un po’ intimoriti da

tanta sapienza, e ci limitiamo ad annuire compiacenti. Gli esperti skyrunner mi aiutano a sciogliere un dubbio. I bastoncini possono far scaricare la pressione sulle gambe del 20% almeno, «purché usati bene, però, devi avere già esperienza con lo scialpinismo». Stavolta annuisco con più sincerità. Alle cinque eccoci stivati dentro il pulmino che da Ceresole ci condurrà alla partenza della gara, il Lago di Teleccio, quota

INVIATE LE VOSTRE STORIE

a: redazionesplendidagiornata@vivaldaeditori.it

DA UN RACCONTO DI ALESSIO PETRELLI, TORINO

1900. La stradina è impervia, sospesa nel vuoto, di quelle in cui ti ripeti come un mantra «ma cosa vuoi che succeda, chissà quante volte l’avrà fatta il conducente». Invece il conducente non l’ha mai percorsa prima, ma per fortuna lo scopriamo solo all’ultimo tornante. Così, alle sei, in qualche modo mettiamo i piedi a terra. Gli skyrunner arrivano a frotte e si addensano nella zona di partenza. Mi colpisce la quantità di donne. È l’alba, lo sguardo vola in alto cercando segnali di conforto dal meteo, che arrivano solo in parte. Molte nubi, forse troppe. Compaiono Giuliano e Alessandro, che hanno pernottato in tenda vicino al lago. Sono arrivati da Torino alle undici di sera, sotto il diluvio, e non hanno quasi chiuso occhio. Noi che abbiamo dormito per ben quattro ore ci sentiamo improvvisamente riposati. L’atmosfera è surreale: circa duecento “corridori del cielo”, in abbigliamento “stratecnico”, vagano nella semioscurità cercando di contrastare il gelo. Buona parte cerca rifugio nell’unico edifico presente, la casa-ufficio dei guardiani della diga, dove si offrono caffè e tè bollenti. Il calore delle

bevande scioglie le lingue. Le dispute vertono tutte sulla durezza della gara. Le opzioni sono due: è tra le più dure di sky race o è la più dura in assoluto. Più o meno come chiedersi se sia più forte Pelé o Maradona… Finalmente è l’ora, l’organizzatore ci illustra il percorso, mette su una musichetta con le cornamuse e alle sette si parte! Costeggiamo il lago in piano, poi attacchiamo la prima salita che conduce al Colle dei Becchi, 4 km con mille metri di dislivello. Non si può correre, il sentiero è ripidissimo e sempre più tecnico, l’ambiente è lunare, severo, molto suggestivo. Un buon quarto d’ora se ne va alla prima rampa, l’ingorgo che si crea ci costringe a stare fermi per molti minuti. La seconda parte della salita è quasi tutta su roccette e bisogna arrampicarsi. Dopo un pendio nevoso raggiungiamo la cima, a quasi 3000 metri. Era il tratto più temuto, il primo “cancello”, con il tempo limite più complicato da rispettare, due ore, in parecchi non ce la faranno. Un tè caldo, uno sguardo al panorama in parte limitato dai nuvoloni, e siamo pronti per la discesa dei Becchi, quella mitica

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di cui sentiamo parlare da giorni, temuta e rispettata per le difficoltà tecniche previste. È un pendio di grossi massi, che bisogna scendere sempre concentrati, un po’ saltellando e un po’ arrampicandosi. Mi diverto molto a salire e scendere su queste rocce, anche se inquietanti macchie rosse rendono l’atmosfera severa. A un tratto le gocce si fanno più fitte, un roccione è completamente coperto di sangue, davanti a me un runner ferito alle braccia viene soccorso con fasciature di fortuna, in attesa di essere recuperato dall’elicottero. Saltellando tra le rocce, scivolando sui pendii nevosi, entro in un vallone a 2400 metri di quota. Solo allora la traccia si fa sentiero e si può accennare una timida corsetta. Le distanze tra gli atleti ora sono dilatate, così mi ritrovo solo, in un ambiente fantastico: radure erbose, torrenti, laghetti, macchie bianche di fioriture estive e un camoscio che salta via tra le rocce. L’idea di libertà trova una sua declinazione reale. L’illusione dura solo un paio di chilometri, poi il sentiero torna a essere roccioso, preannunciando la seconda ardua salita verso la Bocchetta del Ges, a quasi 2700 metri.

IL MASSICCIO DEL GRAN PARADISO

A DESTRA LA SUGGESTIVA PARTENZA DALLA DIGA DEL LAGO DI TELECCIO IN BASSO IL TRATTO PIÙ IMPEGNATIVO

L’ITINERARIO

NELLA PAGINA A FIANCO CONTROLLO AL PRIMO CANCELLO: IN MOLTI NON RIUSCIRANNO A SUPERARLO NEL TEMPO MASSIMO PREVISTO (FOTO P. RUISI / GRUPPO ORCHI)

NOME: Roc Sky Race PARTENZA: Lago di Teleccio, Locana (To) ARRIVO: Ceresole Reale (To) DISLIVELLO: 2000 m in salita, 2400 m in discesa SVILUPPO: 27 km CARTA: IGC 1:50.000 f. 3 Parco nazionale del Gran Paradiso

Riprendo a camminare cercando di sfruttare le leve dei bastoncini, scavalco il secondo colle e poi giù per una discesa ripidissima, con piccole rocce mobili pericolose per se stessi e per chi si trova più a valle. Il percorso è sempre ben segnalato e presidiato da volontari nei punti strategici. Con tutti un saluto e una battuta. Procedo sempre a una quota abbondantemente sopra i 2000 e con fatica, ma anche con piacere, arrivo al “cancello” della vecchia casa di caccia dei Savoia. Dopo 17 km di gara la stanchezza comincia a farsi sentire. Un gipeto enorme volteggia sopra le nostre teste leccandosi i baffi: forse dovrei

preoccuparmi… Da lì un lunghissimo traverso dove riesco a correre a tratti e a superare qualche atleta. Al termine un “cancello”, il ristoro successivo, i concorrenti della “ultra” dirottati verso l’ennesima salita. Il mio sguardo li osserva con cinico autocompiacimento per non doverla affrontare. Noi della gara “breve” andiamo a sinistra, in discesa. Ancora pietre e saliscendi fino a un colle basso, poi l’imbocco del bosco dove il sentiero consente di iniziare a correre verso valle con regolarità. Si incontrano trekker in gita domenicale, più giù abitanti ed escursionisti, tutti prodighi di saluti e complimenti. Ancora

qualche chilometro ed ecco Ceresole Reale, la diga, poi finalmente l’arrivo, con un’accoglienza calorosa e anche qualche intervista. Un’atmosfera bellissima, ben diversa dalla freddezza di molte gare su strada. Do uno sguardo al cronometro, giusto per rendermi conto di quanto tempo, tanto tempo, sia stato necessario: il GPS segna 31 km, quasi 4 più dei 27 annunciati. Dopo pochi minuti arrivano Paola e Fabrizio, corro ad abbracciarli. Il nostro pensiero va a Giuliano e Alessandro impegnati nel percorso lungo, che arriveranno dopo molte ore. Un’eccellente polentata suggella questa mia prima, memorabile, Roc Sky Race. ■

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RITRATTI di alpinisti di DANIELA ZANGRANDO

THIS WILL DESTROY YOU / 3

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uando seppe di aver del tempo per salire al Giomein, fece fatica a contenere la gioia. O belle montagne protettrici ed amiche! Sarebbe presto salito lì, fino ad un palmo dal Cervino. Sarebbe stato difeso da queste presenze, protetto da ogni forza ostile. Avrebbe finalmente ritrovato un’ispirazione sana e benefica. Si sarebbe persino rasserenato. I dolori, gli affanni delle moltitudini, la vita travagliata, le anime afflitte, la fatica e l’afa, non avrebbero nemmeno osato seguirlo. Un periodo completamente separato dal mondo dunque. Era quello che ci voleva. Guardandolo dall’alto, magari, sarebbe anche stato possibile rinfrancarne un senso. Quanto poi alla potenza devastante della montagna, non ci aveva mai creduto. Favoleggiamenti letterari. Non vedeva l’ora di partire. Aveva salutato le cime con un così grave rammarico la stagione precedente! Ed era bello tornare, era come un riconoscersi. Poter stare lì di nuovo. Era il suo unico pensiero. Scorse con la memoria il paesaggio che avrebbe di lì a poco rivisto. Che influenza esercitava sulle sue capacità creative?

Edmondo De Amicis Nessuna forse, ma non aveva particolari facoltà creative. In fondo probabilmente non c’era nemmeno un vero e proprio paesaggio. C’era solo il Cervino. Ottundeva tutto il resto. Occupava una così gran porzione di cielo da diventare il cielo stesso. Appena arrivato, avrebbe iniziato a scrutarlo come un’enorme viso imperturbabile, sarebbe andato in continuazione alla ricerca dei suoi occhi, senza mai trovarli, l’avrebbe interrogato per capire se sperare, se temere, se… Inutile poi stare a pensare come avrebbe passato il tempo. Severo si rispondeva:

«Come sempre. Venti ore al giorno nella mia camera, a lavorare ad un libro sullo studio della lingua, e a un monte di altre cose». Eventualmente qualche momento poteva essere dedicato a guardare le persone. Donne con il viso bruciato dal sole, mulattieri, alpinisti, la mula Lisa, inglesi di passaggio, la ragazza della posta. La materia prima non sarebbe di certo mancata. Unico fattore non considerato, il figlio Ugo. Arrivò infatti un giorno, con l’intenzione di fare delle ascensioni. Una in particolare, con una tirata di dodici ore, senza nemmeno la sosta di una notte

alla capanna. Tirata di dodici ore?! Lo stomaco gli si contorse. Era ora di lavorare però. Animo e mano alla penna. Sarà stanco? La cima è coperta! Potrebbe smarrire le guide. Ah no, ecco che rasserena. Ora il sole lo scalderà, tutto sarà come nei pronostici più cortesi. Ma tu, sfinge, dì qualcosa! Non farmi penare! Non posso perdere anche lui, non posso! Dov’è? Sospeso sull’abisso? Ferito? Gigante sinistro, anche tu ti sgretolerai sasso per sasso, scheggia per scheggia! ■

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L’arrampicatore e il suo replicante Nella nostra esplorazione del futuro (Alp oro n. 280) abbiamo fatto un incontro particolare che vi vogliamo raccontare. Roberto

Zannini ha fatto del suo sport preferito il proprio lavoro e della roccia l’ambiente in cui abitualmente si svolge.

Ma ci ha messo, insieme alla passione, anche fantasia e innovazione. Ne sono nati i suoi racconti di fantascienza ma, soprattutto,

Roboclimber, un aiutante che arriva dove nessun può.

Una parete rocciosa poco fuori l’abitato di La Saxe, in Val d’Aosta: seicento metri a piombo, di dubbia consistenza. Il cantiere di disgaggio è diretto da Roberto Zannini, alpinista e grande appassionato di fantascienza, ideatore di Roboclimber, un macchinario teleguidato capace di risalire e mettere in sicurezza i versanti instabili. Roboclimber ha figliato poi un immaginario automa scalatore, presente in Barili on the rock, antologia di racconti d’arrampicata ambientati in un futuro abbastanza prossimo. Il libro, recentemente uscito per i tipi della teramana Demian, si apre con un’entusiastica prefazione di Heinz Mariacher. Cinquantadue anni, viso un po’ sgherro e sorriso facile sotto due spioventi baffi da peon, Roberto è il fratello maggiore di Andrea Zannini, già direttore della scuola

testo e foto di LUCIANO SANTIN

di alpinismo di Mestre, coautore della GMI del Sella e Sassolungo, presidente della Commissione nazionale CAI per le pubblicazioni. Vive tra Bassano del Grappa e Primolano, quando non è in giro per il mondo – specie in Sudamerica – per curare gli interventi del “Consorzio triveneto rocciatori”. In questa intervista racconta del suo lavoro e della sua ormai quasi esaurita attività in montagna: «Per l’età, ma anche perché se stai una settimana appeso ai chiodi per lavoro, la domenica hai voglia di fare altro. Ormai ho passato il testimone a mio figlio Piero». Nonché di una visione dell’alpinismo dalla quale discendono intriganti storie di science fiction, che gli hanno fruttato anche un recente secondo premio per gli inediti al concorso nazionale “Leggimontagna”. Innanzitutto le credenziali alpinistiche, che precedono quelle letterarie. Se Mariacher firma il tuo libro, significa che qualche quarto di nobiltà te lo riconosce.

«Le motivazioni potrebbero anche essere altre. Perché è grazie a me che Heinz ha conosciuto Luisa Iovane, nella primavera del ’78. Eravamo andati in Sella in quattro, e dormivamo alla casa cantoniera Orsaroles. Lei si era fissata con la Schubert al Piz Ciavazes, pronta a fare da capocordata; io, pur titubante, alla fine avevo acconsentito. Poi, sotto le pareti,

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abbiamo visto una coppia di austriaci, uno dei quali era appunto Mariacher: velocissimi, facevano una via in salita, scendevano slegati per la del Torso, poi ne attaccavano un’altra. “Io andrei con quei due” ha detto Luisa. E lì è cominciato tutto, con qualche sollievo personale, perché per l’epoca e per le mie capacità la Schubert era una via impegnativa». I tuoi modelli, o riferimenti alpinistici, quali sono stati?

«Direi più di ogni altro Lorenzo Massarotto, una figura leggendaria, non valorizzata quanto avrebbe meritato. Ho avuto la fortuna di arrampicare con lui, e perfino di lavorarci assieme: negli anni ’80, in Calabria, ci siamo trovati insieme in un cantiere di disgaggi. C’erano anche Almo Giambisi e Roberto Bassi, un altro grande dimenticato». A proposito, nei tuoi racconti c’è un Almo Parisi. Casualità?

«No, in effetti ci ho inserito dei personaggi che si rifanno a persone conosciute. Il più caratterizzato è il bulgaro Blagoj, un tipo straordinario, che ha lavorato per Giovanni Groaz. Su di lui non ho dovuto fare nessun lavoro: stava lì e io l’ho messo sulla carta senza neppure cambiargli il nome». Sospetto che tu ti sia rivolto all’alpinismo del futuro perché sul passato è stato scritto quanto basta, mentre il presente si avvita in rincorse d’enfasi che restituiscono sempre lo stesso libro. È così?

«La letteratura di montagna ha un peccato originale ben noto: si è sempre rivolta agli addetti ai lavori, non ha saputo aprirsi. Le cronache di Livanos, per esempio, sono ben scritte, e, per un alpinista, assolutamente affascinanti. Ma possono realmente interessare un lettore che non ha mai scalato? C’è stata qualche eccezione, come Frison-Roche. Conservo ancora il suo Primo in cordata, edizione Garzanti, che per me è stato un bildungsroman. Va detto che anche la sf (science fiction, NdR) ha i suoi problemi».

Ovvero?

«I bug eyed monsters, la conquista dello spazio, le macchine del tempo, hanno fatto il loro tempo. E anche il cyberpunk si è abbastanza esaurito. Personalmente ho trovato in William Gibson, l’autore di Neuromante dei riferimenti convincenti: la non specificazione dell’esatto periodo temporale in cui viene ambientata la narrazione e l’introduzione di ipotesi tecnologiche e scientifiche accurate in un quadro sociale plausibile. Cose che ho provato ad applicare alla fantascienza». Usando anche diversi registri tematici. Per esercizio stilistico o per trovare quello del più congeniale a te?

«Volevo provarci con generi diversi. In un racconto affiora una vena fantastica, un altro è orwelliano, un altro puro thriller. Quello che dà il titolo al libro rappresenta un omaggio a Lovecraft. Tra gli inediti, poi, c’è anche un giallo, ispirato a Angel heart, il film di Parker». Lo scenario più convincente tra quelli da te ricostruiti parla, ahimè, di un alpinismo divorato dai media e dalla mercificazione, preda delle scommesse sportive e di quanto ne consegue...

«Ho paura che sia la strada che abbiamo imboccato. Non sono titolato a dar giudizi, ma dalla mia posizione marginale mi pare che sia in atto una crisi causata da due elementi. Il primo è il naturale esaurirsi delle cose nuove. Si è provato a fare tutto, e l’ultimo grande picco di interesse che è stato l’introduzione delle tecniche di free climbing in quota. Adesso sopravvive bene solo l’arrampicata sportiva, che però è un’attività da palestra. Il secondo elemento è che l’alpinismo oggi è diventato uno sport “utile”». Dici “sport”.

«Uso il termine perché è la definizione corrente, quella di Wikipedia. Non credo lo sia, se non altro perché lo sport presuppone delle regole che l’alpinismo fortunatamente non ha, se non quella di tornare a valle sani e salvi. Comunque, dicevo, ormai è un mondo attorno al quale girano abbastanza interessi da

ROBERTO ZANNINI SUL ROBOCLIMBER. IN ALTO IL MACCHINARIO ALLA BASE DELLA PARETE

NELLA PAGINA A FIANCO, IN ALTO ROBERTO ZANNINI OGGI E AL CENTRO NEI PRIMI ANNI SETTANTA. IN BASSO DA SINISTRA PIERLUIGI BINI, LUCIO LAZZARO E LO STESSO ZANNINI NEL 1978

soffocarlo. Dovrebbe ritrovare la sua gratuità, la sua inutilità». Mariacher si definisce un “vecchio nostalgico”. Come te.

«Probabilmente lo sono. In Dolomitica, parlo di una gara che prevede il concatenamento di via dell’Ideale, Fachiri, Furchetta e Philip Flamm, quattro grandi classiche. E dico che salirle in quel contesto equivale a profanarle». Veniamo a Roboclimber, protagonista nella tua realtà lavorativa e nei tuoi racconti...

«Beh, nei racconti c’è un discendente molto evoluto, un esapode con notevoli capacità di snodo, mentre il Roboclimber reale - un bestione da quattro tonnellate, ancora a livello di prototipo - è soltanto un gran risalitore di corde. Ne ho avuto l’idea e ho depositato alcuni brevetti, poi, per la realizzazione, si è costituito un consorzio in cui sono entrati l’Università di Genova, il Consejo superior de investigationes cientificas e alcune aziende private. Abbiamo avuto un finanziamento europeo, ora ne attendiamo un altro per avviare la produzione in serie». ■ PAG. 81 /

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Soffici bianche emozioni sul

testo e foto di DANIELE NARDI

Bhagirathi

Daniele Nardi racconta passaggi cruciali di una salita tutta speciale sui giganti dell’India, lungo quella via Il seme della follia che ha ricevuto il Premio Paolo Consiglio del CAI.

Due settimane di attesa, pioggia, nebbia e freddo. Lo Shivling troneggia sopra di noi, mentre di fronte al campo base di Nandavan, in mezzo alla valle del ghiacciaio di Gangotri, prende spazio il Kedar Dome con la sua prorompente parete rocciosa. Nell’altra valle invece, quella alle spalle del campo base, sorge nascosto il Satopanth una vetta di oltre 7000 m, invece sopra le nostre teste appena visibili ci sono i Bhagirathi, il nostro bersaglio.

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Delle Monache

Nardi

Roberto Daniele

DANIELE SU UN TRATTO DI NEVE E MISTO, L1 SECONDA SEZIONE (FOTO R. DELLE MONACHE)

NELLA PAGINA A FRONTE DANIELE IN AZIONE SU L7 TERZA SEZIONE DOPO IL PRIMO BIVACCO IN PARETE

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TRE MINUTI IN NEVE FRESCA

«R

obyyyyy stai bene?» non sento rumori né risposte, tutto tace. Quando sento la corda tirare, non è uno strattone violento, ma quasi dolce e un po’ nervoso. Immagino la sua stanchezza perché la sento anche sulla mia pelle. Siamo legati alla stessa corda da più di 40 ore, con due bivacchi sulle spalle. Il primo, piuttosto agiato, al Campo 1 a circa 4900 m. L’altro in uno stralcio di 1 metro quadro e mezzo ricavato nel ghiaccio che ha una pendenza di 60 gradi, poco prima del terzo quarto di parete, quello più tosto. Ora vogliamo uscire da questo inferno e lottiamo con tutto quello che ci rimane. Ce l’abbiamo quasi fatta, quando una slavina che dura tre minuti esatti ci investe ancora una volta. Il mio compagno di cordata è lassù, lo sento aggrappato alla vita e sprigiona quella stessa forza sulle piccozze serrate nella neve soffice. È contraddittorio pensare di essere aggrappati a un soffice manto bianco, ma in questo caso è la nostra unica salvezza. Se Roby potesse credo pianterebbe le picche direttamente all’inferno pur di rimanere attaccato a quel nulla. Sul casco riporta una scritta che ha ricavato tagliando magistralmente con le forbici due “Mo” dagli adesivi di Radio Monte Carlo. MoMo. Sta per Simone, che ha due anni e mezzo e lo sta aspettando a casa. Ogni sera parla pochi minuti con lui: da pochi giorni ha cominciato l’asilo. Le emozioni sono a cascata, su ogni piatto della bilancia ogni volta che sei qui in Himalaya posi qualcosa. Il problema è far si che i piatti siano in equilibrio. Roberto sul caschetto non ha solo MoMo, ha tutta una serie di sponsor appiccicati e poi 20 m di corda lasca sotto i piedi su una pendenza tra i 60 ed i 70 gradi. Neve ed ghiaccio si alternano, ma qui dove ci troviamo gli accumuli di neve dei giorni scorsi e di oggi stesso hanno la meglio. Ecco che ricomincia a salire e io tiro un sospiro di sollievo. Cerco di scrollarmi di dosso la tonnellata di farina che mi ricopre, controllo la sosta e sembra tutto a posto. Mentre venivo travolto dalla cascata bianca avevo la telecamera Philips in mano: l’unico pensiero è stato riprendere ciò che accadeva, pensando «almeno se vengo scaraventato a valle qualcuno un giorno, ritrovandola in mezzo al mucchio di ossa putrefatte, potrà capire quanto mi sento stronzo in questo momento, in quale casino ci siamo ficcati?». UNA SOTTILE LINEA BIANCA

Siamo stati in attesa al campo base per ben due settimane in cui a entrambi prudevano le mani. Nonostante il prato accogliente, prosciutto, pecorino e una buona partita a pallone, non ce la facevamo più ad attendere. Avevamo già fatto un giro al Campo 1 a portare

l’ennesimo barile di roba per la big wall, la via Impossible star sullo sperone di sinistro della parete ovest del Bhagirathi III. Nebbia e pioggia costanti lasciano che la parete si riveli per una ventina di minuti, quanto basta per capire che per salire su roccia è ancora troppo presto. Ma eccola, bianca, esile, delicata, si rivela come un po’ come un fantasma una linea sottile al centro tra il Bhagirathi III e il IV. Nulla da fare, mi piace la roccia ma non sarò mai un puro rocciatore. Sono un ghiacciatore, un mistarolo e quando vedo linee così parte dentro di me un conto alla rovescia. Anche Roby si illumina. È deciso, fintantoché la parete e il tempo non si sistemano, proveremo una salita fulminea su quella linea. Una salita che può essere suddivisa in quattro sezioni più o meno simmetriche per lunghezza, ma molto differenti tra loro per tecnicità. La prima è un pendio di 300 m tra i 50 ed 55 gradi. La seconda si impenna con alcune pance intorno agli 80 gradi, ma con una media di 70/75 gradi, su neve dura che poggia su una parete monolitica di granito. La terza sezione è quella più dura e più verticale. La quarta è costituita da una serie di pendii sommitali con una pendenza media di 65/70 gradi per 250 m circa che escono sulla cresta che collega i Bhagirathi III e IV. TINTINNII E SCINTILLE NEL BUIO

Eccoci alla base della terza sezione, la più impegnativa. Si potrebbe decidere di affrontarla a sinistra dove una sorta di linea a mezza luna sfiora il bordo della parete e supera il risalto. Ma guardando con attenzione si nota che è sulla traiettoria di caduta massi e viene letteralmente bombardata. Inoltre la neve è solo appoggiata, soffice e non ghiacciata per davvero... anche se la pendenza non è eccessiva e quindi la progressione spedita. Oppure si potrebbe affrontare la pancia granitica semi-scoperta esattamente al centro, dove sembrano correre alcune esili linee di neve. Il che vorrebbe dire ritrovarsi nella roulette russa delle slavine che cadono proprio lì. Non solo, dovremmo essere sicuri di realizzare tiri di 60 metri senza mettere nulla, perché il granito pare liscio e senza fessure e la neve di certo non terrebbe in posizione una vite da ghiaccio. Da sotto tuttavia tutto questo non era proprio visibile. Forse, a malapena, intuibile. Noi scegliamo la parte della parete più strapiombante, più protetta dalle slavine, con una linea di ghiaccio che si incastra in mezzo a diedri e fessure. Dobbiamo comunque attendere l’ora giusta affinché il Dio del freddo renda la neve salda alla parete. Dopo un paio d’ore di sosta al primo bivacco a 5725 m, appena l’aria rinfresca si parte. Impiego tre ore per un solo maledetto tiro. Due tratti strapiombanti di misto che mi richiedono l’artificiale.

NELLA PAGINA A FRONTE IN ALTO DANIELE CERCA L’USCITA (LA TROVERÀ A SINISTRA) SU L8 TERZA SEZIONE, UN TIRO DIFFICILE SUPERATO IN ARTIFICIALE SOTTO MENTRE ROBERTO FA SOSTA A L10, DANIELE SALE L’UNICO TRATTO DI GHIACCIO BUONO (FOTO R. DELLE MONACHE)

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IN ALTO UN TRATTO LUNGO IL GIRONE DANTESCO DELLA DISCESA

QUI SOPRA DANIELE AL PRIMO BIVACCO (5745 M) AL TERMINE DELLA SECONDA SEZIONE (FOTO R. DELLE MONACHE)

Un masso da un quintale, sollevato dalle camme di un friend piazzate orizzontali, fa finta di venirsene giù. Lo fermo appena in tempo perché non ammazzi Roby di sotto in sosta. Riesco con delicatezza a rimontare il masso e a issarmi un po’ più su, sfruttando una fessura sul lato destro del diedro. Ma a questo punto dovevo decidere cosa fare. Esco a sinistra facendo dei numeri da circo per scavallare uno spigolo su neve marcia? Oppure tiro dritto per il dietro e poi rimonto a sinistra da sopra? Vada per la seconda. Riesco quasi a uscire dopo una lotta forsennata di tre ore. Con le punte dei ramponi in una fettuccia faccio per alzarmi ancora una volta lungo la fessurina che taglia il diedro. Metto un chiodo a lama dove si strozza. Mi isso. Collego un rinvio dall’imbrago al chiodo a lama. Diretto, così da essere più stabile e alleggerire il lavoro di Roby. Faccio attenzione a farlo lavorare in rotazione e mi preparo a piantare un’altra lama vicino al bordo superiore del diedro. Stile alpino

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significa poco materiale. Non posso scegliere fra un migliaio di chiodi, o di friend, o di dadi. Abbiamo con noi a malapena una mezza serie abbondante di friend, 9 chiodi di cui la metà già finiti in parete, una scelta di dadi medio piccoli e la mia fortunata serie di dadini e friendini che ho sempre con me... posso affermare di amarli e quando si torcono nelle fessure soffro con loro! In questa salita ne ho dovuti lasciar due in parete e uno mi ha salvato la pelle. Ho appena finito di martellare quella lama sul bordo e sto per incastrarla con un moschettone alla vita quando sento quel ti-ttiiingg che mai avrei voluto sentire. Sono le otto di sera: il chiodo a lama a cui sono attaccato con l’imbrago salta via, lasciandomi volteggiare nel vuoto. Mancavano pochi centimetri per agganciare quel moschettone, ero completamente issato e lui fa tittiiinggg. È buio intorno a me e non ho riferimenti. Vedo la scintilla del chiodo che esce dalla fessura. Unica domanda: andrò a schiantarmi sulla cengetta di sotto? Quella che in salita era lo strapiombo dove ho lasciato l’altro dado in alluminio con la fettuccia in dynema blu che mi ha fornito Salewa. Sento l’aria scorrermi intorno. Poi altre scintille, di vari colori, bianche, rosse, blu. Ed eccomi sospeso a mezz’aria, dall’unica corda gialla cui sono davvero legato e che mi ha fermato dolcemente. Già perché due mezze corde sono troppe per una via in velocità e allora ne abbiamo portata una sola, con un cordino in dynema di servizio. «Però queste corde da sole tengono anche i botti! Chissà quante ne sono saltate lassù di protezioni?». In realtà il dado posizionato nella fessura aveva tenuto alla perfezione. Quel dado tanto amato che ormai mi accompagnava dappertutto, aveva tenuto: «porco demonio sei stato fantastico!». Una trentina di metri più in basso una voce «ti sei fatto male?», «no, niente, solo i ramponi hanno grattato i denti», «ho visto scintille dappertutto...». L’idea di continuare non mi dispiace, ma sono troppo stanco e non bevo nulla da stamattina. Decido di risalire per fissare la corda e scendere in doppia. Accarezzo il mio dado, faccio un paio di asole. Bestemmio per slegare il nodo in vita stretto a morte dal volo e in piena notte senza luce frontale riesco a metter su discensore e freno: «ehi Roby, ma questo come si insegna in un corso?». CRESTA E ULTIMO BIVACCO

La quarta sezione come anticipato è costituita da pendii di pendenza media 65/70 gradi che escono sulla cresta tra i due Bhagirathi. Non una semplice cresta, ma una lama di coltello carica della neve dei giorni scorsi, soffice e cattiva, che unisce i 6454 m del Bhagirathi III ai 6200 m del Bhagirathi IV. Proprio sui pendii che portano in cresta, ci ha colto la

slavina di tre interminabili minuti con cui abbiamo iniziato questo racconto. Si fa notte e Roby caricandosi sulle spalle lo zaino più pesante comincia a tracciare in mezzo a quella follia. Quando ci incrociamo all’ultima vera sosta, capiamo che non si può pensare di bivaccare sul pendio. Bisogna uscirne, contro le slavine, contro il nulla e contro la notte. Decidere la direzione non è facile. Siamo costretti a superare paretine di roccia nascoste dalla neve, a salire dentro i canaletti di scolo delle slavine, perché altrove è praticamente impossibile avanzare. La neve è troppo profonda e la pendenza esagerata. I canali, terreno un po’ più compatto, costringono la nostra traiettoria verso destra. Passo avanti e traccio fino a pochi metri dalla cresta, quando, in uno sprazzo di visibilità che nebbia, nuvole, neve e notte ci concedono, vedo in basso sulla sinistra il colle che avremmo dovuto raggiungere sotto il Bhagirathi IV. Siamo decisamente più in alto, come era prevedibile. Nuoto letteralmente nella neve, scavando con tutte le forze. Mi viene da vomitare e mi chiedo che cosa il mio stomaco voglia buttar fuori, visto che le provviste sono finite da tempo. In realtà non le abbiamo neanche portate, per non correre il rischio di doverle mangiare. Di colpo mancano tre metri alla cresta. Sono i più devastanti della mia vita. Infilo tutte le braccia nella neve per ancorarmi, spingo sui tricipiti e cerco di sollevarmi. Premo la neve con le ginocchia per compattarla e farmi spazio. Sono in equilibrio precario. Ogni venti centimetri mi fermo a prendere fiato, ma la cresta è troppo vicina per lasciarsi andare. Il desiderio è forte, fanculo tutto e mi butto di sotto, così la faccio finita. Ma che modo è questo di lottare per la vita? Non doveva essere un sogno? Ancora un po’ e… riesco a sedermi a cavalcioni sulla cresta. Urlo subito a Roby «sono fuori, sono fuori». Uno schiaffo di vento e per poco non torno giù di mille metri. Aiuto Roby tirando la corda, visto che ha sulle spalle un dinosauro. Ci vuol poco a capire che di notte non si può continuare così, la cresta è troppo pericolosa in queste condizioni. Sono le 22,00: abbiamo bisogno di dormire e bere qualcosa. Solo allora, mentre faccio pochi metri di cresta a cavalcioni come fanno i bambini con i poni a dondolo, mi rendo conto che non sento più le dita delle mani. «Dobbiamo bivaccare», «va bene». Mi porto sul lato est della cornice, tiro fuori la pala e cominciamo a scavare. Siamo esausti ma è l’unica cosa da fare. Otteniamo tre buchetti: uno per il materiale, uno per Roby e uno per me. Roby continua a sentire un’immaginaria musica rock: continua a chiedermi di spegnere l’iPod che mi ha prestato. Continuo a pensare PAG. 87 /

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che abbia le allucinazioni, ma gli rispondo che l’ho appena fatto. In fondo anche io sogno a occhi aperti un bel pollo alla brace e le fettuccine ai carciofi della mamma. È vero, sono un pessimo cuoco, per fortuna in questa spedizione c’era Roby che invece è piuttosto bravo. Comunque il menu della serata si riduce a un pacchetto di cracker a testa, una barretta energetica a metà e acqua e zucchero! L’altimetro segna 6178 m. La notte è dura e breve: il ghiaccio non ha permesso di scavare molto e la situazione è precaria. Non riesco a togliere gli scarponi per far respirare i piedi, un fatto che mi costerà una bella bollita agli alluci. Con la mattina arriva la consapevolezza che mani e piedi non hanno gradito il freddo. I guanti sono completamente ghiacciati e anche se li riscaldiamo sul fornelletto rimangono bagnati. Non possiamo usare le moffole su questo terreno, troppo tecnico per affidarci a una presa poco precisa. Ci muoviamo appena arriva il sole, che si fa desiderare giocando a nascondino tra le nuvole e negandoci gran parte del suo desiderato calore. NON RESTA CHE SCENDERE

Il nostro piano è tentare di traversare tutta la cresta e raggiungere la vetta del Bhagirathi IV, da dove sembra facile guadagnare un pendio di neve, per poi scendere sulla dorsale. Bastano pochi metri per rendersi conto che continuare significherebbe suicidarsi. La neve è troppa e troppo soffice. Al primo risalto roccioso da aggirare non abbiamo più dubbi: dobbiamo toglierci da questo posto. Prepariamo una doppia e ci buttiamo lungo la parete est, un insieme di risalti verticali e di sfasciume a noi completamente sconosciuto. Ricomincia a nevicare e le manovre non sono semplici. Un pezzo alla volta progrediamo in diagonale verso un nevaio poco più in basso, ma sulla stessa linea che avremmo raggiunto passando per il Bhagirathi IV. Purgatorio Dantesco passato. Quando finalmente poso i piedi su un terreno più solido e meno verticale tiro un sospiro di sollievo, ma lo stomaco brontola, la nebbia è fitta e bassa e non abbiamo nessun punto di riferimento tra sassi, morene e ghiacci completamente ignoti. Continuiamo a vedere tende ovunque, a sentire musica rock e gente che ci chiama. Una tenda sembra più reale delle altre: forse è quella degli olandesi al Satopanth. Corro e urlo. Ma non è altro che l’ennesimo inganno di un sasso e della mente. Rassegnati al fatto di allucinare, continuiamo a circumnavigare la montagna cercando di non scendere troppo in basso. Controlliamo l’altimetro, facciamo il

punto gps e poi l’idea: proviamo a spedirlo a Claudio in Italia. Riceve, controlla la posizione e dopo un’ora richiama e mi dice che siamo sulla strada giusta. Porco demonio tecnologico! Nel frattempo finalmente abbiamo riconosciuto la valletta che ci porterà al campo base di Nandavan. Ma si fa di nuovo notte. Io vorrei bivaccare, ma Roby insiste che è meglio arrivare al campo base. Ogni volta che ci fermiamo per riposare ci si chiudono gli occhi. Avanziamo con coraggio e testa perché di tutto il resto è rimasto veramente ben poco. Ginocchia dolenti, mani gonfie e alluci dei piedi che hanno perso la sensibilità da un pezzo. Poi, di lontano due luci: Liaison Officer (nell’esercito sarebbe l’ufficiale di collegamento NdR). Ha visto le nostre frontali e ci viene incontro. Ci abbraccia come se avesse rivisto il fantasma della nonna. La radio non funzionava e l’abbiamo lasciata al campo 1, ma avevamo detto che saremmo ridiscesi al massimo a pranzo del giorno dopo. Sono passati 4 giorni. IN TENDA VERSO IL DOMANI

Eccoci al campo base. Primo, via gli scarponi. Poi si beve e si mangia qualcosa, anche se lo stomaco è chiuso. Indi svengo letteralmente. Roby mi prende per i piedi, vorrebbe il telefono, ma io non sento più nulla. Verso le 2 però le mani cominciano a svegliarsi e con loro anch’io per il forte dolore. Chiamo a bassa voce il mio compagno, scopro che anche lui non dorme. Ci ritroviamo in tenda mensa a leccarci le ferite e chiamiamo Mimmo, il nostro amico medico, che ci mette in cura a distanza. Poi un fiume di parole. Non se ne parla di andare a dormire. L’alpinismo, filosofia ed emozioni. Un flash bianco: tre minuti sotto una slavina… Abbiamo esagerato? Ci siamo divertiti un sacco e riteniamo di esserci sempre sentiti all’altezza della situazione. Però, senza l’esperienza e l’abitudine all’aria degli 8000 m, quest’avventura sarebbe forse risultata ingestibile. Dobbiamo festeggiare: dopo dieci anni, io e Roberto abbiamo realizzato una nuova spedizione insieme. In fondo il giorno della partenza non avevamo aspettative, sembrava più una vacanza che altro. Eppure è proprio così che a volte nascono le cose più belle. Una grande salita, forse la più bella degli ultimi anni, anzi certamente la più bella: un’esperienza straordinaria. Quello che più mi ha colpito è la tranquillità con cui abbiamo preso ogni decisione. Seduto all’ombra dell’albero della follia, sento di essere un po’ più saggio... o forse semplicemente pronto per un’altra avventura. La luce si rispegne alle 5 di mattina e questa volta è sonno vero. ■

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ROBERTO DELLE MONACHE IN AZIONE SU L6 SECONDA SEZIONE PRIMA DEL BIVACCO B1 (SOPRA A SINISTRA) SU L11 PARTE BASSA DEL SECONDO TRATTO DIFFICILE DELLA TERZA SEZIONE (QUI SOPRA) E SULLO STRAPIOMBO L11 DELLA TERZA SEZIONE, POCO PRIMA DELLA SLAVINA (A SINISTRA)

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Info Utili a cura di Daniele Nardi

L’India dei Bhagirathi Il Bhagirathi è un imponente massiccio con 3 vette principali BI (6856 m), BII (6512 m) e BIII (6454 m) che si trova nel Garhwal, regione montuosa costituita da una porzione della catena himalayana che sconfina in India. Il Garhwal si colloca nel nord-est dell’Uttarakhand, stato federale indiano (divenuto autonomo nel 2000 dopo anni di lotte) che confina a nord-est con il Tibet e ad est con il Nepal. ARRIVARE Dall’Italia abbiamo volato direttamente su New Delhi (da Fiumicino) dove si sbrigano le pratiche burocratiche dei permessi per entrare in Uttarakhand, che si può raggiungere in treno, tramite autobus pubblico o mezzo privato. Le necessità di una spedizione alpinistica ci hanno spinto a prenotare un pulmino privato tramite agenzia che ha permesso di trasportare con facilità tutto il materiale e le persone (due alpinisti e una video-reporter più lo staff indiano del campo base). BUROCRAZIA Questione molto delicata: non sono ammesse né radio, né telefoni satellitari e il lungo incontro presso l’Indian Mountaineering Federation (IMF) richiede qualche ora e qualche mezza verità. Un lungo documento va compilato in tutti i dettagli, specificando ogni genere di attrezzatura che si porta spedizione e a quale scopo verrà utilizzata. Vietati, se non a pagamento, cavalletti di grande formato, nonché telecamere e macchine fotografi-

che professionali. METEO Il clima dell’ Uttarakhand risente dell’influenza dei monsoni. Per quanto riguarda il Garhwal il periodo sconsigliato è tra luglio e agosto, ma anche nelle prime due settimane di settembre le piogge posso creare problemi. Realtà che abbiamo provato sulla nostra pelle. Per i trekking il periodo consigliato è aprile-maggio, l’estate locale, oppure settembre-ottobre, più vicini all’inverno. Noi abbiamo scelto il mese di settembre, che è stato molto piovoso, soprattutto nelle prime due settimane, ma anche in parte soleggiato: con il passare dei giorni il meteo è sempre migliorato. Molte tra le migliori scalate in Garhwal sono state compiute nei mesi di maggio, settembre e ottobre, comprese quelle di Marko Prezelj ai Bhagirathi e di Conrad Anker alla Shark’s Finn sul Meru Peak. IL NOSTRO VIAGGIO Da New Delhi attraversiamo in più tappe i distretti di Haridwar e Rishikesh, fino ad arrivare a Uttrakashi. Il viaggio può essere diviso in tappe a seconda delle esigenze turistiche. Noi decidiamo di fermarci a Rishikesh per vedere la Aarti, una manifestazione religiosa, e visitare gli Ashram dove i Beatles risedettero nel 1968. Un luogo che diventa incantevole al calar della sera: il Gange impetuoso con il suo vorticare incute timore mentre lo attraversiamo su uno dei due

ponti che ci permette di raggiungere l’altra sponda del fiume. Il giorno seguente arriviamo a Uttarkashi dove acquistiamo le ultime verdure e ci prepariamo per l’avvicinamento a Gangotri. A tratti la strada è interrotta da frane e smottamenti. Siamo fortunati perché, dopo soste al più di poche ore, riusciamo comunque a proseguire. In quei momenti tuttavia l’attesa sembra infinita: alcune esplosioni per liberare la strada, ruspe che lavorano alacremente e sistemano alla meglio la strada perché tutti possano proseguire verso la loro destinazione. Gangotri è villaggio di partenza del trekking in direzione di Nandavan, l’area dove posizioneremo il campo base. Gangotri è considerato un luogo sacro e di culto dove gli Ashram dei Sadhu più famosi hanno trovato posto e dove sono stati aperti dei veri e proprio “supermarket del

misticismo”. Da qui con una tappa di poche ore si raggiunge Chirbasa, da cui decidiamo di proseguire verso Bhojbasa (3790 m). Decidiamo di completare il trekking in soli due giorni, ma prenderci un giorno di riposo in più a Gangotri che è un luogo curioso e, con i suoi 3140 m, ci aiuta ad acclimatarci. Nei market ci sono decine e decine di bottiglie di tutte le fogge: serviranno ai pellegrini degli Yatra, i sentieri del pellegrinaggio, per portare via con sé un po’ della sacra acqua del fiume Bhagirathi. Affluente del Gange, il torrente omonimo della montagna che andremo a scalare sorge dal Ghiacciaio Gangotri. Sul nostro percorso incontriamo tantissimi pellegrini che volgono il loro passo verso Gaumukh, ritenuta la principale delle tre sorgenti del Gange. Una sosta in questo luogo sacro ci infonde le energie per salire sul ghiacciaio e arrivare a Nandavan. Intorno a noi ci sono le montagne della storia alpinistica, Lo Shivling deidicato al Dio Shiva, i Bhagirathi, il Kedar Dome, il Thalay Sagar, il Satopanth, il Kedarnath e tante altre. Anche il campo base diventa una sorte di luogo sacro per noi alpinisti.

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LE TRE VIE APERTE SUL BHAGIRATHI NEL 2009 DA MARKO PREZELJ, ROK BLAGUS E LUKA LINDIC. AL CENTRO LA SALITA DI 1000 M, COMPLETATA IN GIORNATA E QUOTATA D+, SULLA SINISTRA DEL VERSANTE OVEST DEL BHAGIRATHI IV (6193 M). A SINISTRA LA LINEA LUNGO LA PARETE SUD OVEST DEL BHAGIRATHI III (6454 M) TRA IL PILASTRO DEGLI SCOZZESI (1982) E LA VIA DEI CECHI (1993): 1300 M DI ED (6B, M5, WI5) PORTATI A TERMINE CON UN BIVACCO. A DESTRA, IN UN CRESCENDO DI DIFFICOLTÀ IL DURISSIMO ITINERARIO SUL BHAGIRATHI II (6512 M): 1300 M DI ED+/ABO (6B+, M8, WI6+) (FOTO M. PREZELJ) SOTTO DUE PUNTI DI VISTA DELLA LINEA IL SEME DELLA FOLLIA DI DANIELE E ROBERTO: 1250 M ED (A2+, M6/M7, WI5+). A DESTRA MARKO PREZELJ (FOTO M. FERRIGATO)

Un ringraziamento per il sostegno al Centro Preparatorio Olimpico del CONI CPO di Formia (Direttore Nicola Perrone, Antonio Abbruzzese, Alessio Di Florio, Manuela Vellecco) e un grazie ad Antonietta Martino campionessa olimpica per i suoi consigli.

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INTERVISTA Sono davvero in pochi a essersi avventurati sui Bhagirati, oltre a Daniele Nardi dell’Alpine Extreme Team di Salewa, non si può dimenticare la spedizione del 2009 di uno degli alpinisti più forti del mondo, lo sloveno Marko Prezelj. Classe 1965, laureato in ingegneria chimica e guida alpina, è l’unico ad aver vinto due Piolet d’Or, quello d’esordio nel 1992 con Andrej Štremfelj per la nuova via aperta in stile alpino sul Kangchenjunga South (8476 m) e il secondo nel 2007 con Boris Loren?i?, per la prima salita del pilone nord-ovest del Chomo Lhari (7326 m) Abbiamo approfittato dell’occasione per porre a entrambi, in parallelo, qualche breve domanda. QUI SOPRA IL TRATTO DI AVVICINAMENTO ALLA VIA DI NARDI E DELLE MONACHE

DANIELE NARDI ITALIA 1976 DN

NELLA PAGINA A FRONTE MARKO PREZELJ FOTOGRAFA I COMPAGNI DI CORDATA SUL PENDIO DEL BHAGIRATHI II NELLA SPEDIZIONE DEL 2009 (FOTO M. PREZELJ)

Com’è nata la vostra passione per l’alpinismo?

Due parole sull’esperienza Bhagirathi?

DN > Ricordo due momenti che hanno fatto scattare la scintilla:

DN > Fantastica. Già alla partenza ne sentivamo l’energia nell’aria. Un’intesa perfetta con il mio compagno di cordata. Nessuno si è mai tirato indietro quando serviva qualcosa. È un po’ come quando ti accorgi lentamente della forza nella marea, arriva semplicemente ed è dirompente. Ed è quest’energia che ci ha permesso di superare i due momenti difficili della caduta e della slavina che racconto su questo numero di Alp.

una conferenza di Lacedelli e Compagnoni e una dimostrazione del soccorso alpino. Perché camminare in montagna, quando loro potevano scalare? Mi pareva più divertente, così ho deciso di provare a partire dalle montagne vicino a casa (l’Appennino, NdR). Ho cominciato con mezzi rudimentali, senza dir nulla a nessuno e correndo non pochi rischi: non conoscevo nodi e imbraghi, improvvisavo guardando le foto su Alp.

MP > La spedizione Bhagirathi è stata una classica esperienza MP > È la curiosità che mi ha portato all’alpinismo. Andavo

spesso in montagna con mio padre e un giorno siamo dovuti tornare sui nostri passi per la nebbia: non eravamo sicuri del percorso. Ma ho sentito alcuni alpinisti procedere molto più in alto: erano più esperti di noi. Lì ho capito che per divertirmi davvero in montagna avrei dovuto imparare, far mie tante competenze differenti. Diventare una guida alpina è stata la più logica evoluzione di questo desiderio.

“onsight”. Saremmo dovuti andare altrove (al Rimo nel Karakorum pakistano, NdR), ma abbiamo dovuto cambiare programma tre settimane prima della partenza perché ci hanno negato il visto. Non avevamo grandi aspettative ed è stata questa la chiave per un approccio rilassato. La prima settimana al campo base, il che davvero azzerò le aspettative. Stiamo stati costretti a scoprire la montagna step by step e ha funzionato perfettamente.

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MARKO PRAZELJ SLOVENIA 1965 MP

Quanto conta lo stile?

MP > In alpinismo lo stile è tutto. Senza stile non possiamo

tante montagne nel mondo che, da un lato, non vale la pena farsi il sangue amaro per una scalata andata male o per un’idea tua realizzata da altri, dall’altro, ogni situazione è anche un’opportunità. Nel 2010 in Charakusa Valley volevamo scalare una parete del K7 west, un big wall. Quando siamo arrivati due Russi la stavano scalando già da una settimana, ci siamo guardati intorno e abbiamo aperto una nuova via sul Farol West. L’anno scorso volevo andare sul Saser Kangri II: è stato scalato da Richey-Swenson-Fredrick che hanno vinto il Piolet D’Or, così ho cambiato programma e abbiamo aperto Il seme della follia sui Bhagirathi.

scalare nulla. Le esperienze ricche richiedono stile semplice: un fatto noto ben prima che qualcuno iniziasse a scalare montagne.

MP > Non ho particolari sogni segreti. Ho così tante idee e

Sogni nel cassetto da svelare?

progetti che sarei felice se fossi capace di realizzarne anche solo una piccola parte. Questa vita eterna è breve, e interessante.

DN > Per me lo stile è tutto, ma questo non significa che io sia

categorico. Ho scalato 8000 per vie normali e usando corde fisse. Ho scalato vie nuove in puro stile alpino. Prima mi piaceva il gioco dell’aria sottilissima e scoprire me stesso in quell’ambiente estremo. Oggi mi diverte di più scalare su vie inesplorate e quindi scoprire un altro mondo. La natura è avventura dentro e fuori, dobbiamo solo trovare quella che ci piace di più. Cerco e, prima o poi, trovo.

DN > Due, grandi e senza segreti: una via nuova sul Kangchenjunga e il Masherbrum (anche noto come K1, NdR) sul lato del ghiacciaio Baltoro. Ma non si può mai sapere, ci sono così PAG. 93 /

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Marcos Devalle (segretario di redazione) +39 011-7720405 redazione@vivaldaeditori.it Eliana Barbera (art director) eliana.barbera@vivaldaeditori.it Realizzazione grafica Rosa Malfitano rosa.malfitano@vivaldaeditori.it Valdimara Mo mara.mo@vivaldaeditori.it Disegni Valdimara Mo Cartografia Sara Chiantore arasdis@libero.it Rubriche Veronica Balocco (spedizioni) Paolo Campagnoli (splendida giornata) Maurizio De Matteis Marziano Di Maio (montagna viva) Giuseppe Garimoldi (i classici di Alp - fotografia) Renata Germanet (libri) Paolo Gugliermina (dr Alp) Daniele Jalla (i classici di Alp) Hanno collaborato a questo numero:

Arch. Boccalatte Arch. Giordani Arch. Messner Mountain Museum

Arch. Trento Filmfestival Felice Brambilla Giampaolo Calzà Davide Carrari Roberto Delle Monache Marco Destefanis Cristian Falcone Manuel Ferrigato Barbara Goio Alessandro Lasagno Walter Leonardi Daniele Lira Daniele Nardi Luigi Ocaserio Dino Panato Alessio Petrelli Marko Prezelj Maurizio Puato Christian Roccati Pino Ruisi / Gruppo Orchi Ivo Rabanser Luciano Santin Ugo Vallantri Camilla Visca Daniela Zangrando Roberto Zannini Maurizio Manolo Zanolla Cristina Zorzi

SEDE - VIVALDA EDITORI SRL via Invorio 24/a, 10146 Torino, tel. +39 011-7720 444 fax +39 011-7732 170 vivalda.editori@vivaldaeditori.it

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LA SCOPERTA DEL MONTE BIANCO

LA SALITA DEL CERVINO

LA MIA SCALATA AL MONTE BIANCO

1760: deciso a calcolare l’altitudine del Monte Bianco,

1865: dopo anni di tentativi, l’inglese Edward Whimper

1838: una nobildonna francese colta e indipendente,

il naturalista svizzero Horace Benedict de Saussurre, promette una ricompensa a chi per primo troverà la via per raggiungere la cima. L’8 agosto 1786 Jacques Balmat e Michel Gabriel Paccard di Chamonix riescono ad individuare la via e raggiungere la vetta più alta d’Europa: è la nascita dell’alpinismo.

partito da Zermatt individua lungo la cresta dell’Hörnli la via per raggiungere la vetta del Cervino. Un’impresa ardua e combattuta, resa ancor più avvicente dalla competizione con il valdostano Jean Antoine Carrel impegnato nelle stesse ore a raggiungere la cima per la via italiana.

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Henriette d’Angeville, decide di raggiungere la vetta più alta d’Europa contro il parere delle amiche inorridite. Ordina alla sarta uno speciale vestito imbottito, ingaggia una squadra di portatori e diventa per tutti la “fidanzata del Monte Bianco”. Un diario d’ascensione, venato di humor, in cui brillano idee e emozioni al femminile.

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