Paola Cecchetti, Carmen Tagliaferri (a cura di)
ANALISI INCOMPIUTE L’ANALISTA IN GIOCO CON LO PSICODRAMMA FREUDIANO
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© Copyright Alpes Italia srl Via Giandomenico Romagnosi, 3 – 00196 Roma – tel./fax 06-39738315 I Edizione, 2018 Paola Cecchetti: Psicoanalista. Psicodrammatista di coppia, individuale e di gruppo. Presidente SIPsA. Responsabile del Centro didattico Apeiron SIPsA, didatta SIPsA, docente Coirag sede di Roma. Si interessa, in particolare, di territori di frontiera fra arte, psicoanalisi e osservazione diretta. Carmen Tagliaferri: Psicoanalista. Psicodrammatista di coppia, individuale e di gruppo. Presidente Associazione Apeiron, didatta SIPsA, docente e vice-direttore Coirag sede di Roma. Si occupa in particolare di psicoanalisi e adolescenza. Immagine di copertina: liberamente tratta da V. Kandinsky “Linea curva libera verso il punto”. Rielaborazione grafica di Gisella Penazzi: Animator, Graphic e web designer. Diplomata al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma in cinema di animazione d'autore.
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INDICE
INTRODUZIONE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Sezione I CASI CLINICI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Ettore Zerbino – L’analisi come lettura di un testo già scritto. . . . . . . . . . Carmen Tagliaferri – Lo scacco dell’analista e il lavorìo dell’incompiuto . . . . Ivonne Banco – Una Kappa nel numero 3 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Giovanni Angelici – Al posto del morto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Stefania Tedaldi – L’incontro mancato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Anna Marcella Cara – Mancarsi, un incontro che origina dalla fine L’interruzione interpellata dallo psicodramma analitico . . . . . . . . . . . . . . . . Stefania Picinotti – Una in-te-irruzione nel corpo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Giuseppe Preziosi – Maestra e Margherita . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Gianfranco Mercolino – Alla ricerca dell’antica bellezza . . . . . . . . . . . . . Mariarosaria Danza – Attrazione mortifera . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Paola Cecchetti – Un caso mai nato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Sezione II LA FORMAZIONE ALLO PSICODRAMMA FREUDIANO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Fabrizio Seripa – La comparsa. Breve storia di un significante. . . . . . . . . . . Petros Katsaras – Il sogno come modello della mente dello psicodrammatista in formazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Giuseppe Preziosi – L’impostura della formazione . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Sezione III GLOSSARIO a cura di Daniela Lo Tenero e Giuseppe Preziosi. . . . . . . . . .
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Introduzione Ché intorno a lui alla fine restavano ancora/ quelli che aveva studiato, i nevrotici e i sogni e le ombre che ancora attendevano/ d’entrare/ nel cerchio luminoso della sua attenzione W. H. Auden 1
Prologo Da tempo Apeiron, piccola comunità clinica e di ricerca si confronta attorno alla questione delle Analisi Incompiute o Interrotte. Tema che da il nome al libro. Da questo non usuale punto di vista ogni scritto interroga l’incontro tra analista e paziente. Si inoltra nello spazio psichico in cui il paziente che interrompe lascia l’analista. Tenta di accostare la vertigine o il vortice delle domande che la questione apre: quando inizia un’analisi, quale posto l’analista prefigura per se stesso? In quale luogo inconscio lo collocherà il paziente? Dove approderà? Consapevoli che “Non c’è soltanto quello che […] l’analista intende fare del proprio paziente. C’è anche quello che l’analista intende che il suo paziente faccia di lui” (Lacan, 1964, p. 154). Ognuno ha tentato, da solo, un viaggio non solitario nel luogo dove ancora sostano… i sogni e le ombre… in attesa di una parola e di una scrittura che generi pensiero e metafora, che disinneschi l’ovvio del già conosciuto, del già pensato. Sappiamo che la psicoanalisi nasce con casi dall’esito incerto, incompiuti, interrotti: Anna O., Dora, L’ Uomo dei lupi… La questione dell’interruzione, nelle sue varie declinazioni – intermittenza, sospensione, incompiutezza – è al cuore della psicoanalisi. Non è un caso che ad essa Freud abbia dedicato una delle sue ultime fatiche, Analisi terminabile e interminabile (Freud, 1937). 1
1940 In memoria di Sigmund Freud, Un altro tempo 1977 Adelphi, Milano, p. 192. V
Analisi incompiute
Basta sporgersi sul testo tedesco freudiano e sull’uso meditato che l’Autore fa dei lemmi, per rendersi conto della complessità teorica del problema. Non è nostra intenzione affrontarne gli aspetti filologici, vogliamo solo evocare la vastità delle questioni che si spalancano davanti quando diciamo casi interrotti. C’è il problema dell’esito temporale dell’esperienza e quello del suo compimento che rimanda alla natura di cura della psicoanalisi e alle domande su una possibile guarigione. Potremmo rievocare la polisemia del greco telos, che è la fine – cronologica – ma anche e soprattutto il fine, il compimento appunto. Possono le due cose coincidere? Quando? Non è un caso che Freud scriva, nel Saggio al quale facciamo riferimento, che l’analisi può essere più facilmente portata a termine quando c’è un’eziologia prevalentemente traumatica; ma poi, con un viraggio tipico, va in direzione di un altro problema: perché, si chiede “gli analisti non si pongono la domanda attorno agli ostacoli che si frappongono alla guarigione analitica?” (Freud 1937, p. 503). In una nota al celebre caso l’Uomo dei Topi, aveva scritto che “l’indagine scientifica mediante la psicoanalisi costituisce soltanto l’esito accessorio dei suoi sforzi terapeutici, ragione per cui i risultati scientifici derivano proprio dai casi trattati senza successo” (Freud, 1909, p. 45). Il viraggio di cui parlavamo è dunque dall’analizzante all’analista. Non vogliamo quindi centrare il caso clinico solo sulla questione dell’interruzione, perché questo lo chiuderebbe sbrigativamente sulla ferita narcisistica dell’analista e sulla sua narcisistica saturazione attraverso un uso difensivo e/o falsamente riparativo della teoria, perché “la psicoanalisi ci ha insegnato che il nostro intelletto è qualcosa di fragile e dipendente, gingillo e strumento delle nostre pulsioni e dei nostri affetti” (Freud, 1914, p. 121). Lacan, dopo aver preso distanza da un eminente collega che definisce maldestra e per giunta antiquata la tecnica freudiana, sottolinea l’incompletezza dei casi freudiani. Qualcuno – osserva – le potrebbe definire come analisi “[…] lasciate per strada, brandelli di analisi[…]” (Lacan, 1953, p. 15). Alla domanda perché Freud abbia compiuto una simile scelta, egli risponde che non basta indicare un incoraggiante risvolto del procedere freudiano, ossia quel granello di verità contenuto in ogni frammento o brandello di analisi ed invita a non assumere la posizione del “caro collega (a cui) l’albero della pratica quotidiana (cela la visione) della distesa della foresta che si erge dai testi freudiani” (Lacan, 1953, p. 16). La comunità psicoanalitica – noi nel nostro operare quotidiano – spesso dimentica l’esortazione freudiana ad apprendere dall’insuccesso, conVI
Introduzione
fonde l’albero della pratica quotidiana con la distesa della foresta soprattutto in un oggi disegnato dall’orizzonte dell’efficacia quantificabile e misurabile (Ripa di Meana, 2016). Il nostro lavoro intende rilanciare freudianamente la priorità metodologica da assegnare alle analisi attraversate dallo scacco, dal fallimento, dall’impasse… i luoghi dove l’analista incontra i resti inanalizzati della propria analisi. Solo i casi difficili, impossibili sembrano permettere di vivere, da analista, ciò che, da paziente, non si è incontrato. Perciò la nostra scrittura del caso è centrata attorno al lavorio dell’incompiuto, a ciò che è freudianamente interminabile, alla domanda su cosa di quel caso continua ad operare, a scriversi in sua assenza, su cosa transferalmente esso trasporta nell’autoanalisi sempre operante dell’analista. Ogni scrittura del caso resta aperta, inconclusa, luogo di un legame e cicatrice che conserva la memoria di un taglio. Lo scritto psicoanalitico non è il testo compiuto ma la traccia che la psicanalisi si ingegna sempre di nuovo a leggere ma per leggerla deve renderla visibile e udibile in una scena. Lo psicodramma analitico è stato per noi la scena altra su cui ritessere quel dialogo paziente-analista ormai da tempo ridotto al silenzio. In après coup, ciò che non si è potuto vedere e ascoltare ha preso una nuova forma, ha aperto inedite riflessioni e nuove catene associative. Attraverso lo psicodramma analitico, ognuno ha messo in gioco se stesso, il proprio apparato concettuale e psichico per farne oggetto di ricerca collettiva affinché l’interruzione di un’analisi da parte del paziente diventasse cifra dell’interminabilità della ricerca psicoanalitica e della formazione permanente, affinché ognuno affrontasse il lutto delle proprie ambizioni terapeutiche, il mito della perfettibilità dell’analisi idealmente completa anziché fattibile. Solo la formazione, freudianamente interminabile, permette di avvistare la strategia inconscia – del paziente o dell’analista – tesa ad eludere il lavoro della fine trasformando l’analisi in un processo atemporale, facendo dell’interminabilità l’altra faccia dell’interruzione.
Pensare per casi Una parte rilevante degli scritti psicoanalitici è costituita da racconti di storie cliniche. Il pensare analitico è soprattutto un Pensare per casi (Passeron, Revel, 2005) o attraverso i casi: pensare a partire dalla singolarità, assumendo il rischio insito nell’ambiguità semantica che avvolge la nozione stessa di caso, sospesa tra ciò che emerge imponendosi all’attenzione e il casus, inteso come ciò che accade/cade, il cascame, o ciò che resta e interroga. VII
Analisi incompiute
Quale esperienza psichica è associata all’identificazione di un caso come tale? È evidente che il caso non è l’esempio clinico, non ha nulla di seriale, di riproducibile. Non pretende di dimostrare, non si fonda su certezze acquisite, si presenta piuttosto come un enigma che ci interroga. È irruzione di un’irriducibile eterogeneità che impedisce la conclusione e l’archiviazione del caso stesso, è ciò che ci interpella come un enigma esigente. La singolarità del caso sottolinea il carattere incompiuto, dunque aperto del passato, le potenzialità inespresse nascoste nel già accaduto. L’incompiutezza ci segnala anche che nulla di ciò che ha segnato il nostro essere hylflos può essere compiutamente superato “Ciò che è accaduto – scrive Bloch – è accaduto solo a metà” (Bloch, 1918, p. 34). Potremmo dire che nel riattraversare un caso clinico è in gioco non tanto il passato quanto un’esperienza altra del presente non interamente riconducibile alla freudiana Vorstellung o rappresentazione, un eccesso che ci convoca e ci interpella, una sorta di scarto che scardina e trasforma il presente. Ma che cosa, singolarmente, mobilita la pulsione di ricerca, il volerne sapere di più attorno a quel singolo caso? Crediamo che al cuore del desiderio di “un più di sapere” ci sia il desiderio sessuale infantile di trovare il perché, la chiave del segreto. Così noi rimaniamo in ascolto di una storia che ci interroga ma ci seduce anche, con la promessa che forse un enigma verrà sciolto, un segreto svelato. Una pista, questa, che – attivando quell’attività fantasmatica che Freud considerava centrale – ci conduce al nostro personale romanzo familiare. Creare e ricreare incessantemente una realtà dove la verità si può dire solo a metà (Lacan, 2013), dove l’incompiutezza esprime l’impossibile conclusione dell’enigma dell’infanzia (Green A, 2000). Pensare per casi attraverso lo psicodramma freudiano “Nello psichico si instaurano immagini cui il soggetto volta a volta s’identifica per recitare, unico attore, il dramma dei loro conflitti è una commedia dell’arte perché ogni individuo la improvvisa […] secondo una legge paradossale che sembra mostrare la fecondità psichica di ogni insufficienza vitale […] Commedia dell’arte perché si recita secondo un canovaccio tipico […] Si riconoscerà in un’immagine dove ci condurrà l’altro versante di questo lavoro, la figura dell’arlecchino” (Lacan, 1966, pp. 83-84). La figura enigmatica di Arlecchino che, nella commedia dell’arte o della vita, incessantemente irrompe e interrompe la scena, ne disfa la trama ma ogni volta torna a riannodare il filo che ha sciolto o allentato è metafora del processo clinico nello psicodramma freudiano. VIII
Introduzione
Un dispositivo dalla topologia complessa, che nasce con G. e P. Lémoine (Lémoine G. e P., 1973) come ri–scrittura della pratica terapeutica inaugurata da J. L. Moreno (Moreno, Toeman , Moreno, 1959). La pratica freudiana dello psicodramma include l’Uno del soggetto, l’Altro cui si rivolge e la Rappresentazione drammatica o Gioco, colui che parla si trova catturato nel discorso con altri, esce dal monologo privato per avere un riscontro nel gruppo. Il partecipante porta allo scoperto davanti e con gli altri un suo spazio privato. La seduta diventa arte del dialogo ossia del discorso condiviso con gli altri mantenendo la propria dis-parità o differenza soggettiva. Ogni formulazione soggettiva, ogni gioco porta le tracce della parola dell’altro che l’ha preceduta e annuncia gli interventi successivi, dando vita ad un ciclo di risonanza significante articolata nel qui ed ora. Lo sviluppo del discorso diventa catena causale cioè causa, produce altro… altra parola, altro gioco, altro ascolto, costruendo un discorso di seduta che non consiste semplicemente nell’articolazione di discorsi successivi. Il processo è più complesso, rappresenta il circuito obbligato a partire dal quale un soggetto può articolare il proprio discorso e farsi ascoltare. È l’equivalente della freudiana costruzione in analisi (Gaudé, 1998). Perché interpellare l’interruzione di un’esperienza analitica attraverso questo dispositivo? Potremmo dire che lo psicodramma è montaggio fantasmatico di uno scenario metodicamente da smontare, come Arlecchino nella commedia dell’arte, disfa la trama per riannodare il filo in un altro punto, scuce e ricuce. La sua topologia e articolazione producono un processo clinico ed un atto analitico capaci di ospitare la loro stessa interruzione. È pratica di rappresentazione e del suo taglio discorsivo. Ma entriamo nella trama del dispositivo, nella sua specifica declinazione in quanto luogo di revisione di un evento clinico. Due colleghi, a turno, assumono la funzione di animatore e di osservatore, mettendo in gioco – anche sul piano della conduzione – la propria soggettiva dis-parità. Il gruppo non ha un referente unico. Ogni analista presenta un’esperienza di interruzione analitica. L’interruzione – si sa – sospende ogni senso possibile, si resta muti davanti ad una massa di silenzio. I fondamenti del significato dobbiamo costruirli in quell’attimo iniziale di mutismo che ci colpisce e ci lascia interdetti. Per questo bisogna avere pazienza: si guarda, si aspetta, ci si interroga. Attraverso il racconto del caso clinico ognuno porta con sé una storia che conosce ed è in grado di ricostruire ma anche una storia che non sa di sapere, un testo parlato nei cui interstizi muti si cela il linguaggio inconscio. Chiuso nelle strutture sintattiche della frase, nei fonemi e nelle lettere, nella IX
Analisi incompiute
materialità del dire, è occultato un più di senso, forse inesauribile. Nello scenario dello psicodramma compare un analista che da corpo, voce e parola al proprio paziente assente. Ma come ogni paziente anch’egli, nel qui ed ora della situazione di revisione clinica, erige difese, barriere protettive; la narrazione è tesa sia al disvelamento che all’occultamento. L’animatore, colui che – per il tempo di quella seduta – ha la direzione della cura, ascolta, lascia che il discorso circoli tra i colleghi, infine propone un punto da mettere in gioco o rappresentare. È un primo taglio, una prima interruzione nel fluire discorsivo ininterrotto. Perché una rappresentazione non sia pura illustrazione deve aprire allo scenario interno, toccare l’evidenza dell’invisibile, perturbare la logica della descrizione e anche della narrazione. In altri termini, ad essere rappresentata figurativamente non è una narrazione ma una drammaturgia psichica. Il gioco è efficace solo grazie al suo scarto con la realtà vissuta, solo se introduce elementi di discontinuità, di frattura e, non sempre questo succede. Per dare vita alla rappresentazione il protagonista lascia la circolarità del gruppo, si alza e accede allo spazio vuoto deputato al gioco, delimitato dal corpo dei partecipanti. Spazio che ogni volta virtualmente si dilata per raccogliere lo sviluppo e la dissolvenza del dramma per tornare poi di nuovo vuoto, simbolo della mancanza. È un altro taglio, il soggetto si allontana da una possibile colla gruppale per entrare in quel luogo altro dove l’Io depone, almeno temporaneamente, la maschera. La divisione dello spazio del gioco da quello degli scambi reciproci evita la confusività del legame gruppale. Il protagonista sceglie tra i colleghi chi è chiamato a giocare una parte nel proprio racconto, a personificare, rendere presente l’assente. La scelta è sempre di grande rilievo, c’è sempre nell’altro una componente inafferrabile. Benché vincolato da un copione l’altro fa il proprio gioco, sempre qualcosa sfugge nel gesto, nello sguardo, nella voce. La scelta è rilevante perché esclude/estrae il prescelto dal gruppo e fa, di Uno, uno in meno. Non a caso spesso si dice, nello scegliere: “vado per esclusione”. Il metodo prevede che, in un capovolgimento di scena o cambio di ruolo, l’analista prenda il posto del paziente. Il cambiamento avviene non tanto o non solo per immedesimarsi empaticamente nel posto dell’altro ma per vedere se stesso da un altro punto di vista: cambiare prospettiva produce un’altra posizione soggettiva Ma ogni messa in scena è anche trappola dello sguardo che sempre chiede di sedurre ed essere sedotto. Nello psicodramma non c’è altro da vedere se non la decostruzione della forma, smontare lo spettacolo, costringere lo sguardo ad aggirarsi nei luoghi impossibili del Reale: buchi, crepe, ombre, fessure. X
Introduzione
Subito dopo la scena si disfa e il soggetto torna al suo posto. Ha avuto uno spazio e un tempo tutto per sé dove qualcosa, proveniente dall’Altro – l’intervento dell’animatore, il doppiaggio di un collega – ha fatto vacillare l’Io del soggetto. Si esce dal gioco attraverso un taglio del discorso deciso dall’animatore, si esce con qualcosa di meno, una sottrazione di godimento. Per noi è riuscito il gioco in cui il soggetto incontrando la propria impotenza o non onnipotenza, elabora il lutto di quel godimento perduto ma perdutamente inseguito. Quindi lo psicodrammatista da un lato costruisce e sostiene, dall’altro disfa, mette in gioco e in causa. Ci troviamo davanti non solo una Vorstellung, ma un rappresentante della rappresentazione. La seduta termina con la parola dell’osservatore che puntualizza i significanti emersi, restituisce gli scarti del discorso, ciò che è caduto nel gioco e nella parola, rimanda la catena metaforica del gruppo lasciandola aperta alla riscrittura singolare, propria a ciascuno. Infine nella scrittura solitaria di ogni analista, si raccoglie il contributo di tutto il gruppo, avviene il passaggio alla ricerca clinica affinché la complessità strutturale propria a ciascuno diventi complessità strutturante l’atto analitico.
Significar per verba […]2 Proviamo ad affacciarci su due territori contigui alla psicoanalisi: la scrittura e l’arte figurativa. Iniziamo il nostro breve viaggio proponendo la riproduzione del frontespizio del libro di Lafitau, Moeurs des sauvages ameriquains, intitolato La scrittura e il tempo e riportato da De Certeau nel suo saggio La scrittura dell’altro (De Certeau, 1985) (Fig. 1).
Fig. 1 – Riproduzione del frontespizio del libro di Lafitau, Moeurs des sauvages ameriquains. 2
Dante Alighieri, La divina Commedia, Paradiso, canto I, verso 70. XI
Analisi incompiute
Il vecchio angelo della morte, il tempo, mostra a colei che si accinge a scrivere i due poli del suo operare: da un lato la contemplazione di un mondo sublime e ricco di simboli, regno del Divino e del Sacro, dall’altro l’immersione negli scarti, negli avanzi di un mondo che non esiste più. Un’Annunciazione nella quale, a vedersela con ciò che la donna scrive, sono il Tempo, con la falce che distrugge, e la Signora con la penna, che crea. La visione si fa testo. Quale migliore viatico per la scrittura di un gruppo? Quale scrittura per tradurre i brandelli di verità delle analisi lasciate per strada? Il dispositivo dello psicodramma freudiano è stato per noi il granello di verità a partire dal quale il collettivo di lavoro ha elaborato una scrittura allo stesso tempo singolare e plurale.
L’incompiuto nella scrittura Di chi e per chi scrive un analista? È noto che Lacan che nei suoi seminari si è spesso riferito a storie cliniche pubblicate da altri, non ha quasi mai fatto riferimenti, se non fugaci, alla propria esperienza clinica. Perché? Dobbiamo riconoscere che alla fine di un’analisi, conclusa o interrotta, l’analista non può parlare dalla stessa posizione occupata finché l’analisi è stata in atto. Questo pone una questione radicale: chi scrive quando si scrive un caso clinico? È lo stesso soggetto che ha diretto quella cura? Lo psicanalista che scrive una storia clinica non si rivolge al proprio analizzante, il nucleo soggettivo del racconto clinico non è quello del paziente ma quello dell’analista che interroga se stesso attorno alla propria azione analitica e ai suoi effetti di trasformazione e così facendo introduce una particolare dimensione di discorso. Potremmo dire che a scrivere una storia clinica è colui che tende ad essere analista senza mai poter dire di esserlo veramente diventato. Senza questa condizione il racconto dell’esperienza rischia di essere finzione, costrizione in una falsa oggettività di quella pratica soggettiva che è l’analisi. Questo appiattimento non è solo un risultato teorico insufficiente ma l’indizio di un inciampo, la manifestazione di un fallimento nel compito etico della psicoanalisi. Lacan insiste sull’implicazione soggettiva dell’analista nel processo di cura. Sottolinea con forza che ogni analista guarisce meno per ciò che dice e fa che per ciò che é. Cosi descrive le passioni dell’analista, “il suo timore non dell’errore ma dell’ignoranza, il suo gusto non di soddisfare ma di non deludere, il suo bisogno, non di governare ma di conservare la superiorità” (Lacan, 1958, p. 591). XII
Introduzione
Di chi scrive un analista se non dell’ossessione della propria lacuna o di coloro di cui ha mancato di intendere il messaggio? “Chi tra di noi non è più alle prese con qualche spettro? […] Pensiamo soltanto a Freud col suo Uomo dei Lupi. Dal 1910 fino alla vecchiaia, il caso di quel russo enigmatico, stregato da un segreto, non ha cessato di ossessionarlo” (Abraham, Torok, 1976). Abraham e Torok ci propongono un’analisi del testo freudiano Sogno e occultismo (Freud, 1932) come possibilità di scrittura di una storia della psicoanalisi, attraverso l’analisi simultanea del paziente e dell’analista, convocati entrambi sulla soglia di quella frontiera – il linguaggio – che dovrà continuamente ripercorrere i propri tracciati per scovare residui non analizzati, violenze metodologiche e pervertibilità teoriche. Nel testo ora citato, Freud dichiara: “è però vero che chi si è tenuto chino tutta la vita per schivare uno scontro doloroso con i fatti, è disposto anche nella vecchiaia a curvare la schiena di fronte a nuove realtà” (Freud, 1932, p. 167). A partire da questa frase allo stesso tempo evocativa ed enigmatica, M. Torok analizza il testo alla ricerca del dramma occulto e schivato da Freud e dall’Uomo dei Lupi nel corso della loro vita. Occultamento che rende il dramma continuamente operante. “L’analisi di questo testo punta a individuare l’esistenza di un trauma sotto la sua superficie, tale da legare indissolubilmente Freud all’Uomo dei Lupi e da impedirgli di scoprire il lavoro occulto nella vita del suo paziente”(Abraham, Torok , 1976, p. 227). Ciò che Abraham e Torok sottolineano non è che un esempio di evitamento, di impossibilità di ascolto dovuta ad ostacoli interni all’analista stesso e a lui stesso occulti. La voce dell’Uomo dei Lupi gioca una partita sottile e ostinata, partita che, secondo Serge Leclaire, si fonda sulla percezione da parte dell’Uomo dei Lupi della particolare risonanza che determinati significanti (strappare, svelare, scoprire o il termine “giallo” che ricorre nel testo Ricordi di copertura) hanno nell’inconscio di Freud. I significanti dell’uno si intrecciano con i significanti dell’altro e nel transfert si evidenzia che il significante è sempre dell’altro. La corrispondenza tra Freud e Ferenczi, prima della rottura del loro legame, porta le tracce di una ricerca attraverso il medium della telepatia. Freud osa una topica sconosciuta. Attraverso il fantasticare, tradurre, indovinare (Freud S. 1895) tenta l’Impossibile, osa una ricerca in via di sviluppo ancora priva del necessario rigore concettuale. È possibile pensare che anche i nostri pazienti, riportati alla memoria, studiati e amati nelle tracce trascritte, comunicate ai colleghi, continuino, attraverso altri pensieri e altre vie il lavoro interrotto con il proprio analista? Riprendiamo il filo della scrittura. XIII
Analisi incompiute
M. de Certeau, in una delle sue ultime conversazioni, dichiara che il Personaggio centrale dell’esperienza analitica non è il paziente, non è l’inconscio, ma lo scrittore o meglio la scrittura. (De Certeau, 2014, p. 46). Del resto sappiamo come Lacan, perfino prima della scrittura della sua Tesi di Dottorato in Medicina (Lacan, 1932), attraverso l’analisi dettagliata degli scritti “ispirati” di Marcelle C., giovane schizofrenica, avesse individuato e definito il processo di schizografia, ovvero quel processo di tipo letterario avvicinabile al surrealismo, presente nella parola scritta, assente nell’oralità. Torniamo all’interrogativo già posto: quale scrittura per tradurre i brandelli di verità delle analisi lasciate per strada? Quale scrittura può accostarci non genericamente alla complessità e all’intraducibilità dell’inconscio, ma alla specificità dell’incontro analitico tra quell’analista e quel paziente, a ciò che di singolare mette in gioco e che attraverso il “gioco” dello psicodramma analitico andiamo a interrogare? Seguiamo la traccia che Fédida ci indica: la scrittura è metafora del silenzio, “È fatta più che per conservare e richiamare alla memoria, per dare un fondo alla parola e affidarla all’inteso del suo detto” (Fédida, 1978, p. 24. trad. nostra). La scrittura visibile, il nero su bianco è solo figurazione o illusione ottica. Come gli specchi – ciò che è reso visibile – serve, per così dire, solo di facciata. Sulla superficie del testo affiorano tracce che vivono nell’interiorità e, ciò che riflettono, aiuta per un istante al loro riconoscimento “Ma non dicono nulla della presenza nell’assenza… Se la parola crede di potersi rendere visibile in una scrittura che la riflette, abbandona il luogo in cui essa si scrive[…] Ciò che appare – come il volto in uno specchio – è l’allucinazione auto–ottica della parola in una scrittura scambiata con il proprio riflesso” (Fédida, 1978, p. 31, trad. nostra). Lo scritto è sempre scrittura di una perdita, scrittura in perdita, della voce anzitutto. Di quel segno del corpo che parla, resta solo la grafia. È l’assenza della presenza parlante, della parola viva, a creare il lavoro della scrittura ed è lo psicodramma, per noi, ad aprire la scena al ritorno di gesti e voci perdute, al discorso inarticolato e vocale. Lo spazio dello psicodramma è disseminato di “gesti sonori ”, il corpo occupa la scena anche con i suoi organi di fonazione e locuzione: sospiri, colpi di tosse, balbettii produzioni vocali significanti e inaspettate, un voler dire non riconducibile al voler dire qualcosa. Vorremmo trasmettere il valore di esperienza che ha il racconto clinico quando sorprende aprendo nuovi interrogativi, quando esce dalla prevedibilità che distrugge l’esperienza diventando ciò che Green chiama trascrizione di origine sconosciuta (Green, 1977, p. 27), perché il filo della scrittura, in psicoanalisi, non può che aggirarsi attorno ad un’incognita, l’oggetto irrapresentabile del transfert (Fédida 1990, p. 260). XIV
Introduzione
Attraverso il caso clinico raccontiamo una storia da cui siamo raccontati. Una storia pur sempre in perdita perché, nella scrittura, molto della singolare bellezza del caso si è dissolta. Il lavoro è così esteso che trabocca sotto le mani, scrive Freud a Jung, e un po’ amaramente conclude: “[…] che lavori abborracciati sono le nostre riproduzioni, come smembriamo miserabilmente le grandi opere d’arte della natura psichica” (Freud, Jung, 1906-1913, p. 244).
L’incompiuto nelle arti figurative Spostiamo il vertice dal quale poniamo la domanda, che resta però sempre la stessa, sulla terminabilità e/o l’incompiutezza dell’analisi. Ora ci chiediamo: quando parliamo di un’opera d’arte come incompleta, non terminata e quando invece diamo all’espressione non finito il riconoscimento di una libera e audace scelta creativa, con una valenza piena di ammirazione, operiamo una distinzione analoga a quella che facciamo quando parliamo di terminabile/non terminabile per l’analisi? Ci aiuta quest’analogia a comprendere i casi interrotti? Quale l’atteggiamento di Freud dinanzi alle opere d’arte? Sappiamo che egli non amava particolarmente la pittura, ma accostava la scultura con la passione testimoniata dalla profondità e dalla continuità dello studio dedicato ad alcune opere, come il Mosè di Michelangelo. Tuttavia Freud non ha mai fatto riferimento alle celebri esperienze artistiche dello stesso Michelangelo costruite sul non finito, e che certamente conosceva. Perché? La questione può apparire ingenua, o irriverente, ma nasconde, ci sembra, un problema di fondo. Innanzi tutto dobbiamo tener presente che per un artista il lavoro e la tensione creativa sono tesi alla Raffigurabilità; per Freud invece il problema è la Rappresentazione e ciò che si muove ai bordi del rappresentabile. Cesar e Sara Botella chiariscono bene come ogni discorso sulla rappresentazione debba fare i conti con il problema del negativo. “Come concepire una metapsicologia che possa oscillare tra andate e ritorni, che abbracci il negativo per definizione irrappresentabile, l’immediatezza di una raffigurabilità e le deviazioni e i tormenti del mondo delle rappresentazioni?”(Botella C. e S., 2001, p. 14). Al Freud della teoria del sogno, opera della raffigurabilità, interessa soprattutto l’interpretazione, interessa come il lavoro onirico si trasforma in immagine. Questa posizione ci aiuta a far chiarezza sull’interesse che Freud ha per certe opere. Una per tutte: il Mosè di Michelangelo. Sono chiare, perché lui stesso ce le ha illustrate, le motivazioni della passione che XV
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Freud ha per il tema e il personaggio (il problema del Padre e la Legge; ebraismo e monoteismo; la sua personale identificazione con Mosè…) e non avrebbe senso ripeterle qui. Ma ci preme sottolineare la compresenza in lui di almeno due fattori diversi, il che rende complesso comprendere il suo atteggiamento verso le esperienze artistiche contemporanee, sia in senso cronologico, sia stilistico-espressivo (il non finito e il superamento della forma…). Da un lato, dobbiamo ricordare che in Freud prevale sempre, dinanzi all’opera d’arte, l’interesse per la soggettività dell’autore, la ricerca nella psiche dell’artista del sintomo che interviene nella sua creatività. Pensiamo a Il delirio e i sogni nella Gradiva di W. Jensen Freud cita il pittore Rops e la sua opera, La tentazione, e scrive: “[…] proprio ciò che è stato scelto come mezzo di rimozione diventa il portatore di ciò che ritorna; nel rimovente stesso e dietro ad esso si afferma alla fine, vittorioso, il rimosso.” (Freud, 1906, p. 286). Dinanzi ad un’opera così ricca di conflitti e associazioni (la donna nuda al posto del crocefisso), se pensiamo all’età in ci si colloca (1878), Freud sembra interessato solo a confermare la propria tesi: il ritorno del rimosso. Che fine fanno le emozioni, le associazioni, la composizione, la forma dell’opera? Se si fosse lasciato sedurre dall’immagine, dalla raffigurazione, sarebbe probabilmente approdato a pensieri impensati. Ma egli è interessato sopratutto alla rappresentazione, alle dinamiche del mondo della psiche. Ci sembra però che questa motivazione (l’interesse per la soggettività dell’artista piuttosto che per l’opera) non sia sufficiente per spiegare l’atteggiamento di Freud, di colui che ha scoperto gli abissi della soggettività. È come se Freud avesse potuto scoprire il mondo oscuro dell’Es, dell’eredità arcaica ma al tempo stesso sopportarne la vista solo fin tanto che è traducibile in pensieri, parole. Freud decripta le regole dell’anamorfosi operata dalla coscienza, ma soffermarsi sul disfacimento che non è distruzione ma esperienza di rottura della forma, propria dell’arte del Novecento, non gli è consentito. Possiamo così comprendere meglio l’orientamento complessivo di Freud verso la modernità e il contemporaneo, inteso, non solo in senso cronologico. Con quale sguardo Freud accosta la libertà delle ultime opere di un Tiziano? O il non-finito michelangiolesco? C’è qualche analogia tra queste esperienze figurative e la non finitezza costitutiva di ogni analisi, fin in ogni seduta? Cerchiamo di dare un contributo alla questione soffermandoci nell’analisi della Sant’Anna di Leonardo (Fig. 2) Come sappiamo, esistono due versioni dell’opera: una, nota come Cartone preparatorio per la Sant’Anna, a Londra (Royal Academy of Arts, Fig. 3), l’altra, per noi compiuta ma che Leonardo considera incompiuta, al Louvre (Sant’Anna, la Vergine e il Bambino). Freud conosce entrambe le versioni ed XVI
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Fig. 2 – Leonardo Sant’Anna, la Vergine e il Bambino.
Fig. 3 – Leonardo Cartone preparatorio per S.Anna, la Vergine e il Bambino.
entra in merito alla querelle che ha coinvolto numerosi studiosi sull’anteriorità dell’una o dell’altra; cita, tra gli altri, gli studi del pastore Pfister, e utilizza gli schizzi con i quali questo ha illustrato i suoi scritti; ma in conclusione studia e predilige l’opera del Louvre, ignorando il cartone di Londra, a giudizio dei critici migliore sul piano artistico. A Freud il piano estetico interessa solo parzialmente, per questo trascura il cartone di Londra, nel quale avrebbe potuto vedere la genesi dell’opera ed elementi compositivi estremamente suggestivi: le teste ravvicinate delle due donne, la madre e la figlia, come emergessero da un unico corpo; il loro reciproco sguardo amoroso; la mano della S. Anna che indica l’alto, con un gesto che sarà fondativo in altre opere dell’autore, come il San Giovannino; il doppio costituito dai due bambini, e così via. Tutti elementi che non compaiono nell’opera del Louvre e che Freud trascura, teso com’è a capire il caso clinico nel suo fondamento sessuale, in quella che Laplanche chiamerà la metterza, la Sant’Anna come terza. Scriverà, così, il celebre Un ricordo di infanzia di Leonardo da Vinci (Freud,
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1910) attratto dalla sua biografia, orgoglioso di aver colto il segreto del grande genio nascosto nella sua infanzia. Anche quello che dice sulla incompiutezza di tante opere di Leonardo è da leggere sul piano dell’evoluzione psicologica dell’autore, come sintomo, e non su quello estetico-formale. Del resto, se la creazione artistica affonda le radici nello stesso magma pulsionale che dà vita a sogni e desideri inconsci, Freud chiarisce che le produzioni oniriche restano confinate in una dimensione asociale, narcisistica, mentre le opere d’arte, oltre a rivolgersi ad un cerchio ampio di fruitori, fanno della bellezza formale una sorta di premio di allettamento (Freud, 1907). Per questo Freud non ha potuto o voluto attingere all’arte astratta o al surrealismo a lui contemporaneo, o ad aspetti rivoluzionari della classicità, per rappresentare i conflitti delle istanze psichiche che cambiano assetti, creano equilibri sempre più instabili, assumono forme sempre più difficili da delimitare e da riconoscere nell’armonia delle parti. Forse Freud ha con la contemporaneità il rapporto che il poeta Osip Mandel’stam così esprime: “mio secolo, mia belva, chi potrà/guardarti dentro gli occhi/e saldare col suo sangue/le vertebre di due secoli?” (Agamben, 2009, p. 22). Freud sembra incunearsi proprio nella frattura tra i due secoli, così come Michelangelo con il non finito. Per molti aspetti la costruzione freudiana ci ricorda la trasformazione delle forme pittoriche in Cézanne. Nei suoi dipinti l’oggetto è così amato, incorporato, da diventare una presenza che, nella raffigurazione, perde l’identità acquistando il carattere dell’assenza. Così Cézanne, senza varcare la soglia, apre al cubismo, raffigurazione in cui l’oggetto è visto contemporaneamente da più punti di vista, dove lo spazio e il tempo non sono più legati all’occhio dell’osservatore in una prospettiva sistematizzante. Freud ha aperto al nuovo mondo, ma è come se si fosse fermato alla frontiera tra le terre note e quelle ignote. La voce di Freud è tra le grandi che hanno reso possibile il Novecento, ma sembra che egli, come Mosè, abbia potuto arrivare fino alla frontiera, vedere dall’alto, accompagnarvi il suo popolo, ma non entrare nel paese della promessa: nello spazio corroso del tempo, nel vuoto delle pieghe disarticolate, caotiche, non riconoscibili, proprie del linguaggio del Novecento. Freud ha potuto esplorare le terre oscure della psiche: si vis vitam para mortem. Ha scoperto che le forze distruttive che aggrediscono la realtà, contemporaneamente esplorano l’Impossibile del Reale, das Ding. È lui a sostenere che solo la cooperazione e il contrasto di Eros e della Pulsione di morte possono rendere ragione dell’esistenza. È come se avesse potuto dare la forma al disfacimento della forma, alla de-formazione, alla simultaneità, alla contraddizione, all’inversione, alle identificazioni mostruose che XVIII
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sono tipiche dei processi onirici che prendono forma nel sogno, ma non trasformarli in immagini. Può intuire, fantasticare, indovinare, prevedere, ma non rendere visibile l’informe. Una forma che deve rimandare ad altro ed essere metafora deve per ciò stesso essere riconoscibile. È difficile fare sogni con linee, punti, curve, nello stile di un Kandinskji e di tanti altri. Per Freud era prioritario rendere luminoso ai contemporanei quel fascio di tenebra che andava praticando. Eppure è proprio lui a sentire l’esigenza di nuovi linguaggi, come quando, nell’Introduzione alla psicoanalisi, dopo aver elaborato un’immagine/schema delle funzioni psichiche, scrive: “I contorni lineari, come quelli del nostro disegno e della pittura primitiva, non sono in grado di rendere la natura dello psichico; servirebbero piuttosto aree cromatiche sfumanti l’una nell’altra, come si trovano nella pittura moderna […]”.(Freud, 1932, p. 190). Picasso ha più volte detto che se si segnassero su una carta tutti gli itinerari che ha attraversato e li si unisse con una linea, ne verrebbe la figura del Minotauro. Nel caso di Freud, c’è una linea che unisce una delle sue prime opere, il Progetto di una psicologia, all’ultima, il Compendio di psicoanalisi, sul problema dell’interruzione. Sappiamo come nella prima Freud cercasse una sistematizzazione di tutta la psicologia come scienza, ma, nel momento in cui tutto gli appariva chiaro, egli ha troncato il lavoro. “In una tempestosa notte della scorsa settimana, in uno di quei momenti di oppressione dolorosa in cui il mio cervello lavora meglio, le barriere si sono sollevate all’improvviso, i veli sono caduti e sono riuscito a vedere tutto, dalle singole particolarità delle nevrosi ai fatti che determinano la coscienza. Ogni cosa sembrava combaciare con le altre […]” (Freud, 1887-1902, p. 95). Come mai questo stato di grazia è venuto meno? Sappiamo dell’importanza della partita in gioco, del fallimento/superamento di una prospettiva tutta positivistica, del passaggio da un discorso economico-quantitativo ad uno ermeneutico, sul senso. Ma è come se, dietro, ci fosse ancora un mistero, in questo abbandonare, incompiuta, l’opera proprio nel momento in cui stava raggiungendo la sintesi totale:. “La psicologia è davvero una croce per me” (Freud, 1887-1902, p. 27). Passano quarantatré anni e un’altra interruzione avviene sull’ultima opera, il Compendio di psicoanalisi. Irrompe la realtà del grave intervento operatorio e della morte, ma anche in questo caso è come se trapelasse qualcosa sul nesso oscuro tra compimento e interruzione. “Chi come questo clinico, attaccato al terra-terra della sofferenza, ha interrogato tanto intrepidamente la vita sul suo senso, e non per dire che non ne ha, maniera comoda di lavarsene le mani, ma per dire che ne ha uno solo, quello in cui il desiderio è portato dalla morte?” (Lacan, 1958, p. 638). Non a caso Freud si congeda dal lettore citando Goethe, con parole che, XIX
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tradotte con qualche libertà, suonano: ciò che tu hai ereditato da me, riconquistalo, se vuoi possederlo davvero. “Si iscrive qui quella Spaltung ultima per cui il soggetto si articola col Logos e su cui Freud, cominciando a scrivere, ci stava dando all’estremo di un’opera dalle dimensioni dell’essere, la soluzione dell’analisi ‘infinita’, quando la sua morte vi mise la parola Rien” (ibidem, p. 638).
Mosaico: singolare e collettivo Possiamo concludere queste pagine introduttive, dando uno sguardo ai singoli contributi degli autori. Alcuni sono affreschi di autentici paesaggi e passaggi del transfert, altri, come i disegni a carboncino, mostrano il chiaroscuro, le ombre di infinite torsioni transferali. Vogliamo, ripercorrendo i casi presentati, dare dell’incompiutezza un’immagine composta dalle tante immagini singole, ciascuna frutto delle diverse angolazioni cliniche, delle diverse colorazioni emotive e delle diverse scritture. Siamo convinti che, la verità non sta in una storia ma in tutte le storie, come insegnano le Mille e una notte. Il disegno generale, il senso, è dato dall’accostarsi, dall’affiancarsi delle singole figure, tessere di un mosaico, nel tempo e nello spazio. La ricerca clinica ha interrogato il transfert dei diversi analisti verso i pazienti, ridando vita all’incompiutezza dell’origine o Hilflosigkeit, interrompendo le strade intraprese e chiamando in causa il grande Altro del reclamo che, nella posizione di ascolto, si ritrova a dialogare con il posto vuoto lasciato dal paziente. In che posizione si viene a trovare l’analista: orfano, assassino, disorientato, ladro, diavolo, abbandonato?. Pensare l’interruzione significa avventurarsi nel cuore dell’analisi. Il dispositivo dello psicodramma riattualizza le cause del fallimento, ritrovandosi tra le mani la vita pulsionale, il fondamento dello psichismo, con le rimozioni e le difese attivate. L’incompiutezza diventa sinonimo del negativo, cioè del modo che ogni paziente inventa, o è costretto a trovare, per mettere fine alla lotta inevitabile e mai compiuta tra eros e thanatos, lotta che si ripropone di riflesso nell’analista. In L’analisi come lettura di un testo già scritto centrale è la complessità di un’interruzione che riguarda l’impasse in una lunga, classica, analisi. Il sogno dell’analista svela che il tunnel imboccato dall’analisi ha un’entrata ma non un’uscita. Paziente e analista sono catturati in un luogo diabolicamente ripetitivo. Nella rappresentazione psicodrammatica del sogno dell’analista, l’io ausiliario al posto del paziente reclama e chiede ragione della XX
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scelta – Perché scegli proprio me ? – dando voce al reclamo muto e inascoltato del paziente. Il tunnel sembra farsi cassa di risonanza al reciproco, simmetrico domandare Che cosa vuoi da me? sull’onda di un transfert mai annodato In un altro caso, Lo scacco dell’analista e il lavorio dell’incompiuto, il paziente interrompe su una questione di inaccessibile generatività. L’analista diventando l’esperienza traumatica del paziente, di sé stesso come paziente, la trasforma in esperienza onirica Su questa ferita aperta il sogno dell’analista mette in luce la grafia dell’impossibilità di generare. L’incompiutezza ha il volto dell’inermità.. Una K nel numero Tre, un caso che potrebbe essere rinominato Funzione della Lettera come significante. La K attraversa, nel nome, madre – padre – figlia senza fare nodo, trasformandosi in una cappa che incombe. Il primo incontro paziente/analista è segnato da un agito, una precoce richiesta di separazione tra la madre e la neonata. Escrescenza materna da recidere per la terapeuta, da trattenere per la madre. L’interruzione è nell’incipit. L’oggetto impossibile per la coppia sintomatica terapeuta – paziente è il padre morto. Al posto del morto da il nome allo scritto. Anziché occupare analiticamente il posto del morto, l’analista prende il posto del padre morto. Ciò che fa questione è la malattia del terapeuta e le sue ricadute sulla relazione di cura. Le belle scarpe che il paziente vede meravigliato ai piedi dell’analista diventano metafora del fargli le scarpe. Ne L’incontro mancato l’interruzione viene annunciata con un preciso ritmo temporale: ogni tre mesi Perché ogni seduta potesse avere il carattere esclusivo della visitazione? La terapia dell’adolescente omosessuale mostra l’intreccio tra analisi individuale e psicodramma e si interrompe quando il voglio conoscere supera il non voglio conoscere. Lo psicodramma mette in luce un agito dell’analista. Essere in scena può nutrire l’avidità scopica. In Mancarsi, un incontro che origina dalla fine l’interruzione prende nell’immaginario dell’analista la scena caravaggesca di un notturno in cui si ripercorrono all’inverso le scale (salita anziché discesa), per aver lasciato l’oggetto transazionale – lasciarpa – sul luogo dell’analisi. L’enigma dell’incontro tra analista e paziente nello psicodramma è un incontro perturbante con l’intimo estraneo. La rappresentazione diventa lo scenario di un doppio sogno. Riguarda tanto l’analista quanto il paziente. Prende parola il grande enigma del lutto Con Una in-te-irruzione nel corpo, siamo all’interno di una clinica del corpo. Corpo dimezzato. Tempo e spazio dell’analisi dimezzati. Percorso analitico che non prende corpo. Il primo incontro con la paziente è prefigurazione della futura interruzione. Nella realtà il suono del campanello interXXI
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rompe la seduta, l’analista va ad aprire. Nella realtà della rappresentazione il suono diventerà campanello di allarme che interroga l’analista sul suo agito. Maestra e Margherita nel nome attribuito all’analizzante la domanda che annoda terapeuta e paziente: m’ama /non m’ama? L’incontro casuale tra i due, dopo l’interruzione, sancisce l’impossibilità del riconoscimento reciproco svelando al terapeuta l’immaginario misconoscimento della propria domanda d’amore. In Alla ricerca dell’antica bellezza, il caso si interrompe sulla rincorsa metonimica dell’oggetto, la bellezza maschile. Oggetto che non potendo essere perduto, non può essere incontrato. Il Fallo compare come significante e come eccitazione dell’agire. In un rovesciamento onirico, l’analista sogna: gli uomini non capiscono le donne. Il sogno messo in scena svela la difficoltà a tenere la posizione analitica del supposto sapere e l’analista scivola nella posizione fallica del padre. Attrazione mortifera tra attaccare, attaccarsi, farsi oggetto di attacco. Il godimento attraversa queste posizioni psichiche della paziente. La duplicazione di un evento clinico caratterizza il lavoro sul caso La paziente interrompe l’ultima seduta con un accesso di tosse. In una perfetta simmetria la scena si riproduce nello psicodramma. L’io ausiliario, al posto della paziente, interrompe la seduta con un acceso di tosse. L’attacco all’analista e al setting viene agito per diventare, in un altro tempo, lavoro di elaborazione. Un’analisi mai nata racconta la separazione a conclusione dei colloqui preliminari. Il mancato pagamento delle sedute crea un’architettura simmetrica dove il sintomo si fa monumento dell’immaginario e il cammino della paziente verso Santiago di Compostela, metafora di un transfert che non può nascere. Quali condizioni si fanno promessa di nascita di un’ analisi e quali la confinano nel Limbo? Conclude la scrittura attorno ai casi clinici uno sguardo sulla formazione allo psicodramma freudiano e al rapporto con i resti non analizzati della propria analisi. La comparsa, L’impostura della formazione e Il sogno come modello della mente dello psicodrammatista in formazione sono testimonianza ed elaborazione di singolari percorsi formativi. Il campo comune è la ricerca riguardo e attraverso il dispositivo dello psicodramma, il suo rapporto con la psicoanalisi, i suoi ambiti di applicazione.
Per concludere Vorremmo aver fatto della scrittura singolare e collettiva una costruzione “simile ad un cannocchiale, a un microscopio e ad altri strumenti del XXII
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genere” (Freud, 1938, p. 572) fatti per vedere le immagini delle parole, del sogno, l’in-visibile di analisi incompiute che, della tessitura, mostrano strappi, buchi, nodi… una particolare ed enigmatica compiutezza. Rimane nell’ombra una questione poco pensabile e poco affrontata. Il desiderio dell’analista non è indistruttibile, può accadere che diserti rischiando la desertificazione del campo analitico. Per ogni paziente o analista che ci lascia portiamo il lutto con i possibili effetti di svalutazione nella misura in cui l’oggetto era, a nostra insaputa, il supporto della nostra castrazione. Quando cade il velo noi ci vediamo per quello che siamo. Restano sul campo le insegne e un’ indemandabile eredità. Ogni interruzione comporta una perdita, il grado zero della rappresentazione. Ma c’è un momento in cui pensare e scrivere di essa non è più impensabile. È quando si apre, una smagliatura, il passaggio rapido e inafferrabile di un tempo “altro”, la percezione che ciò che abbiamo perduto non ci lascia mai del tutto. Vorremmo che queste scritture animassero un movimento che mette in circolazione l’altrui voce. Bibligrafia Abraham, N., Torok M. (1987), La scorza e il nocciolo, Borla, Roma, 1993. Abraham, N., Torok M., (1976), Il verbario dell’Uomo dei Lupi, Liguori, Napoli, 1992. Agamben, G. (2009), Nudità, Nottetempo, Roma. Alighieri, D. La Divina Commedia Paradiso. Le Monnier, Firenze, 1985. Auden W. H. (1940), “In memoria di Sigmund Freud” in: Un altro tempo. Adelphi, Milano, 1977. Bloch, E. (1918), “Per la teoria motorio-fantastica di questa proclamazione”, in: (a cura di Marcheson M.) Bloch E, Benjamin W. Ricordare il futuro, Mimesis, Sesto S. Giovanni (MI), 2017. Botella, C., S. (2001), La raffigurabilità psichica. Clemenzi Ghisi (a cura di), Borla, Roma, 2004. De Certeau, M. Traversate d’Occident. Medusa, S. Giorgio a Cremano, Napoli, 2014. De Certeau, M. (1985), La scrittura dell’altro. Cortina, Milano, 2005. Fédida, P (1978) “Le stries de l’écrit. La table d’écriture”. In L’Absence, ed Gallimard, Paris. Freud S. (1895), Progetto di una psicologia, O.S.F., vol 2, Boringhieri, Torino, 1968. Freud, S. (1887- 1902), Le origini della psicoanalisi, Lettere a W. Fliess. Boringhieri, Torino, 1968. Freud, S. (1899), Ricordi di copertura. O.S.F., vol 2, Boringhieri, Torino, 1968. Freud, S. (1905), Un ricordo di infanzia di Leonardo da Vinci. O.S.F., vol. 6, Boringhieri, Torino, 1975. Freud, S. (1906), Il delirio e i sogni nella Gradiva di W.Jensen O.S.F., vol. 5, Boringhieri, Torino, 1975. Freud, S. (1907), Il poeta e la fantasia. O.S.F., vol. 5, Boringhieri, Torino, 1975. Freud, S. (1909), Caso clinico dell’Uomo dei Topi. O.S.F., vol. 6, Boringhieri, Torino 1974. Freud, S. (1914), Lettera a F. van Eeden. O.S.F., vol. 8, Boringhieri, Torino 1976. Freud, S. (1932), Introduzione alla psicoanalisi. O.S.F., vol. 8, Boringhieri, Torino, 1975. Freud, S. (1932), Sogno e occultismo, Boringhieri, Torino, 1980. Freud, S. (1937), Analisi terminabile e interminabile. O.S.F., vol. 11, Boringhieri, Torino, 1978. Freud, S.(1938), Compendio di psicoanalisi. O.S.F., vol. 11, Boringhieri, Torino, 1978. Freud, S., Jung G.C. (1906-1913), Lettere tra Freud e Jung. Montinari, M., Daniele, S. (a cura di), Boringhieri Torino, 1990.
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