Nicolò Terminio
A ciascuno la sua relazione Psicoanalisi e fenomenologia nella pratica clinica Prefazione di Mario Rossi Monti
Collana i Territori della Psiche diretta da Doriano Fasoli Board Scientifico: Alberto Angelini, Andrea Baldassarro, Marina Breccia, Giuseppina Castiglia, Domenico Chianese, Marcello Turno, Adamo Vergine
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© Copyright Alpes Italia srl Via G. Romagnosi, 3 – 00196 Roma, tel./fax 0639738315 I edizione, 2019
Nicolò Terminio, psicoterapeuta e dottore di ricerca, pratica la psicoanalisi a Torino. La sua attività di ricerca è rivolta alla clinica dei nuovi sintomi e al rapporto tra metodo e creatività in psicoanalisi. Lavora come supervisore per équipe di servizi ambulatoriali e residenziali dedicati alla cura delle dipendenze patologiche. È docente all’Istituto di Ricerca di Psicoanalisi Applicata di Milano e alla Scuola COIRAG di Torino. È membro fondatore dell’Associazione Lacaniana Italiana di psicoanalisi e socio del Laboratorio di Gruppoanalisi. Fa parte dell’équipe torinese del Centro Telemaco di Jonas. Tra i suoi libri più recenti: Tradurre dal silenzio. La psicoanalisi come esperienza assoluta (2018) e Introduzione a Massimo Recalcati. Inconscio, eredità, testimonianza (2018). .
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Ai momenti d’essere trascorsi con l’équipe del Bourgeon de Vie
Indice generale Prefazione di Mario Rossi Monti..............................................................
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Introduzione ............................................................................................ XI
Parte prima – Metodo e Relazione 1. Psicoanalisi e psicoterapia psicodinamica.........................................
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2. Psicoanalisi e dispositivi di vulnerabilità..........................................
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3. Psicoanalisi e generatività.................................................................
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Parte seconda – Dasein e Reale 4. Il fallimento del Dasein nella psicosi................................................
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5. Esistenze sintetiche e psicosi............................................................
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6. Generazione borderline e mondo tossicomane.................................
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7. Tempo, verità e Reale nella nevrosi..................................................
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Parte terza – Applicare i modelli 8. L’uso dei modelli in psicoterapia......................................................
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9. Tre errori da non ripetere.................................................................
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Bibliografia tematica ...................................................................... 107
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Prefazione di Mario Rossi Monti Questo testo, scrive l’Autore nell’Introduzione, “non ha nessuna pretesa di originalità riguardo ai contenuti. Ciò che è nuovo riguarda semmai l’organizzazione e le connessioni stabilite tra i contenuti, che vengono qui riassemblati privilegiando la valenza pragmatica del sapere”. Nell’ambito di questa impostazione respiro fin da subito un’aria di famiglia. Nel suo lavoro di tesi di Laurea Magistrale nel Corso di Laurea in Psicologia Clinica all’Università di Urbino (dove lo ho conosciuto) Nicolò si era appassionato alla possibilità di stabilire connessioni significative tra il concetto di “perdita della evidenza naturale” nelle psicosi paucisintomatiche elaborato nella psicopatologia fenomenologica di Wolfgang Blankenburg e i contributi di Peter Fonagy e della sua scuola intorno al concetto di funzione riflessiva. Quel lavoro aveva dato luogo alla pubblicazione di un piccolo volume intitolato I presupposti evolutivi della perdita dell’evidenza naturale (2003). Anche in quella occasione Nicolò mi aveva chiesto di scrivere una breve Prefazione. Avevo accettato – allora come adesso – con entusiasmo. Fin da allora Nicolò aveva scelto strade impervie, difficili, in salita, lontane dalle ipersemplificazioni di una psicopatologia descrittiva imperante che si accontenta di nominare i sintomi e ricondurli a entità di malattia rispetto alle quali restano ancora troppe cose da capire. Allontanandosi dalle autostrade costruite dalla psicopatologia descrittivo-categoriale ci si imbatte in percorsi meno ordinati e “puliti”, lungo i quali si sviluppano frequentazioni insolite quando non si fanno strani incontri. Si incontrano ad esempio situazioni cliniche che non è facile collocare all’interno degli schemi ben pettinati della nosografia. Si incontra una clinica spuria ma straordinariamente ricca, non certo modellata sui casi prototipici descritti dalla nosografia né sui campioni puri utilizzati nella ricerca empirica. Si incontrano ad esempio pazienti che coniugano una importante dipendenza da sostanze con un funzionamento che rimanda alla organizzazione borderline di personalità. Persone che appartengono a quella “generazione borderline” di cui ci parla Nicolò in un bellissimo capitolo di questo libro e che conducono la loro vita in un mondo tossicomanico. Pazienti che la nosografia contemporanea vorrebbe confinare nel recinto delle “doppie diagnosi”: là dove il raddoppio delle diagnosi corrisponde in realtà a un dimezzamento delle conoscenze. Ma come si incontrano pazienti, si incontrano anche modelli, teorie, costrutti di varia
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A ciascuno la sua relazione
natura e provenienza. Molti di loro appartengono a territori “ambigui”, la cui appartenenza all’una o all’altra disciplina o prospettiva non è sancita una volta per tutte. Se si riesce a non cadere nella trappola di un eclettismo acefalo, queste aree si rivelano di straordinaria ricchezza poiché consentono di guardare ai fenomeni della clinica (e soprattutto della “nuova” clinica) con occhi nuovi, capaci di vedere anche ciò che le conoscenze tradizionali ci hanno abituato a lasciare in ombra. Ha senso, ad esempio, continuare ad applicare la categoria “depressione maggiore” ai vissuti depressivi che si rintracciano nella esperienza borderline? Se si sposta l’attenzione dalla descrizione del sintomo alla ricognizione del vissuto si coglie una qualità del vissuto depressivo dotata di una sua specificità che si rende visibile solo all’intersezione tra psicopatologia descrittiva e psicopatologia fenomenologico-dinamica. Ancora: ha senso continuare a interpretare ad oltranza la instabilità emozionale borderline come una difesa o una fuga dal contatto con una posizione depressiva di fondo senza cogliere quanto la realtà traumatica di molti di questi pazienti impedisca loro di sviluppare una qualche gradualità nei cambiamenti di stato emozionale? Saltano da una emozione all’altra per difendersi da qualcosa o solo perché non hanno potuto imparare a camminare? Il libro scritto da Nicolò Terminio si colloca in prossimità di questi incroci, abita questi luoghi di confine e cerca di ricavare dal confronto tra modelli teorico-clinici diversi strumenti utili alla clinica. In particolare mette a fuoco una serie di “intersezioni” (come le chiama l’Autore): l’intersezione tra psicoanalisi lacaniana e psicoterapie psicodinamiche; l’intersezione mediata dai dispositivi di vulnerabilità tra psicoanalisi e psicopatologia fenomenologica; l’intersezione tra psicoanalisi e generatività. Questi sono i percorsi lungo i quali si è avviata la ricerca, la riflessione e la pratica clinica di Nicolò Terminio, come di molti altri giovani colleghi (psicologi clinici e psichiatri) che hanno saputo tenere viva la riflessione psicopatologica fenomenologico-dinamica e contribuire alla sua diffusione nella pratica clinica. Il giovane studente che si era appassionato a Blankenburg e al costrutto di funzione riflessiva di Fonagy oggi è alle prese con i problemi della clinica, con le angosce, gli spaesamenti ma anche le curiosità e le speranze che affliggono e accompagnano la vita di chiunque vede ogni giorno persone che fanno fatica a vivere o a dare un senso alla loro vita perché ristrette in mondi asfittici, prigionieri della loro psicopatologia. Immaginiamo di trovarci in una riunione d’équipe – scrive Nicolò. Come potremmo provare a spiegare in quel contesto in cosa consistono il Dasein e il Reale, due concetti che occupano un posto centrale nella riflessione psicopatologica e in quella psicoanalitico lacaniana? Anche questa domanda mi suona fa-
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Prefazione miliare. Non tanto per lo specifico problema che pone intorno al tema del Dasein o del Reale. Quanto piuttosto per il fatto che pone il problema di come articolare il rapporto tra conoscenze teoriche e pratica clinica. Una articolazione nella quale si gioca il destino di una disciplina e la possibilità stessa di sopravvivenza di una prospettiva che consente di vedere e conoscere “oggetti” che altre prospettive non possono nemmeno concepire. Ad esempio, il “muro di sbarramento linguistico” dietro il quale si sono troppo spesso trincerati gli esponenti della psicopatologia fenomenologica di prima generazione ha promosso in molti colleghi l’idea che questo approccio proponesse una prospettiva filosofico-contemplativa avulsa da ogni prospettiva terapeutica. Sono stati necessari alcuni decenni di lavoro per mettere in crisi questo assunto e mostrare come la prospettiva psicopatologica consenta di cogliere fenomeni singolari che sfuggono alla psicopatologia nosografico-categoriale e che rappresentano invece importanti indicatori clinici. Basti pensare, ad esempio, alle anomalie della esperienza soggettiva legate a un disturbo basico della ipseità negli esordi psicotici messe a fuoco dal gruppo di ricerca di Joseph Parnas in Danimarca o all’ampia letteratura sui “fenomeni base” nella schizofrenia. Oppure, in Italia, ai contributi di Arnaldo Ballerini (recentemente scomparso) in tema di autismo schizofrenico. Disinteressarsi di come rendere fruibili in un contesto clinico concetti teorici anche complessi ha un costo troppo alto: priva chi lavora in ambito clinico di strumenti di osservazione e orientamento indispensabili. È accaduto alla psicopatologia. Ma anche una certa psicoanalisi “palombarica”, troppo amante degli abissi, non ha certo aiutato chi lavora sul campo a orientarsi meglio nella congerie di problemi che i casi difficili pongono al clinico. Per non parlare di una psicoanalisi lacaniana che faceva ostentazione della propria incomprensibilità. Non possiamo permetterci di perdere altre occasioni. Questo libro nasce come tentativo di dare una risposta a domande e passaggi come questi. Io credo che un clinico e una cultura clinica si costruiscano muovendosi in primo luogo su questo terreno e il libro di Nicolò Terminio dà un importante impulso in questa direzione. Di questo e di tanto altro mi piacerebbe continuare a discutere con Nicolò conservando il privilegio di accompagnarlo (anche da lontano) in questo suo percorso di formazione e conoscenza.
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Introduzione Come fare Questo libro raccoglie una serie di riflessioni teorico-cliniche che scaturiscono dal mio lavoro terapeutico. Vengono trattati alcuni temi relativi alla pratica psicoanalitica svolta in studio e al lavoro d’équipe in una comunità terapeutica. Ci sono anche diverse sollecitazioni concettuali che provengono dalle supervisioni che svolgo in alcuni servizi di cura e da altri momenti dedicati alla ricerca clinica. Il discorso che viene proposto non ha nessuna pretesa di originalità riguardo ai contenuti. Ciò che è nuovo riguarda semmai l’organizzazione e le connessioni stabilite tra i contenuti, che vengono qui riassemblati privilegiando la valenza pragmatica del sapere. È rispetto al “come fare” che possiamo verificare la pertinenza e l’appropriatezza di alcune formulazioni teoriche. Nella mia pratica professionale individuo la necessità crescente di un sapere che sappia farsi carne, che sappia diventare rilevante nell’operatività clinica senza perdere tuttavia spessore teorico e rigore scientifico. Nel suo complesso il libro è costruito come un progressivo sovrapporsi di strati successivi. Il filo conduttore è costituito dalla necessità di garantire “a ciascuno la sua relazione”. Questa formula è valida sia per i terapeuti che per i pazienti. La relazione terapeutica deve infatti puntare alla cura della singolarità del paziente attraverso un’applicazione soggettivata del metodo clinico. Ogni terapeuta deve sviluppare un proprio stile relazionale e deve saperlo modulare caso per caso. “Lo stile è l’uomo a cui ci si rivolge” sottolineava Jacques Lacan (1966).
Metodo e relazione Nella prima parte del libro sono presenti tre lavori che prendono in esame l’intersezione tra modelli teorico-clinici diversi. Sono partito dal confronto tra la psicoanalisi lacaniana e le psicoterapie psicodinamiche evidenziando le aree di sovrapposizione epistemologica. Ho ripreso le caratteristiche distintive della psicoterapia psicodinamica con l’obiettivo di far emergere gli aspetti salienti e trasmissibili della pratica psicoanalitica lacaniana. XI
A ciascuno la sua relazione
Seguendo questa rotta mi sono successivamente dedicato all’intersezione tra psicoanalisi e psicopatologia fenomenologica. In particolare, ho centrato l’attenzione sui dispositivi di vulnerabilità, che si configurano come un ponte efficace per il passaggio dalla teoria alla pratica clinica. Ho poi approfondito, nel terzo capitolo, il rapporto tra psicoanalisi e generatività. Questa volta si è trattato di definire le caratteristiche essenziali di un modello terapeutico che fosse pertinente con le questioni cliniche del lavoro con le famiglie. Questa prima parte si configura come una sorta di condensato metodologico del mio lavoro clinico. Descrivo un approccio clinico che vuole mantenere un rapporto tra la coerenza metodologica e la flessibilità che viene richiesta dall’applicazione pratica. Sullo sfondo c’è l’attenzione per la modulazione pragmatica dei concetti. Nell’arco dell’intero libro attraverso infatti diversi nodi tematici mantenendo la rotta della traducibilità operativa dei principi teorici.
Il Dasein e il Reale Nella seconda parte del libro ho proseguito con alcuni studi clinici che connettono psicoanalisi e fenomenologia. Ho scelto di chiamare questa sezione “Dasein e Reale”. Il primo è un concetto filosofico che caratterizza la psicopatologia fenomenologica, il secondo invece risulta decisivo per comprendere la portata clinica della psicoanalisi lacaniana. Entrambi si configurano come due “organizzatori psicopatologici” che sono presenti in modo trasversale quando mi occupo della psicosi, del borderline o della nevrosi. Sono degli organizzatori trans-strutturali che di volta in volta, cioè struttura per struttura, assumono una fisionomia che definisce la particolarità delle problematiche cliniche con cui paziente e terapeuta si confrontano nel vivo della cura. Adesso immaginiamo di trovarci in una riunione d’équipe, un’équipe multidisciplinare dove si condividono alcuni principi fondamentali, ma con percorsi formativi e sensibilità diverse. Se volessimo spiegare in quel contesto in cosa consiste il Dasein e il Reale, dovremmo ridurre gli argomenti e avvalerci, giusto per il tempo della riunione, di qualche metafora anziché di proposizioni filosofiche o scientifiche. Potremmo allora dire che il Dasein è il terreno sotto i nostri piedi: nel caso della psicosi per il soggetto non è scontato avere un terreno sotto i piedi e ogni mattina la persona deve fondare i presupposti del proprio cammino; il paziente borderline si muove invece su un pavimento instabile dove cerca di orientarsi coinvolgendo le altre persone con cui si trova a inXII
Introduzione teragire, ogni mattina il borderline cerca di capire, in modo “impaziente”, di chi potrà fidarsi per trovare un po’ di stabilità; il paziente nevrotico si sentirà ancorato al terreno e la questione che si porrà riguarda la direzione da scegliere nella propria vita e cercherà di capire quale direzione corrisponde effettivamente al proprio desiderio. Ovviamente la distinzione tra i tre modi di vivere il terreno sotto i piedi non è così netta. Ci sono alcune caratteristiche del Dasein che possono essere trasversali alla psicosi, al borderline e alla nevrosi. Per esempio, il vissuto del “tempo sospeso” non è soltanto prerogativa della psicosi, l’istantaneità del tempo borderline può riguardare per certi periodi anche i soggetti nevrotici, e infine l’esitazione nella scelta non attanaglia soltanto il nevrotico. Il modo in cui i diversi soggetti vivono il tempo non è solo indice del Dasein su cui si muovono, ma anche del modo in cui si confrontano con il proprio Reale. Nell’esperienza di ciascuno il Reale è ciò che è indeterminato, non facilmente decodificabile e che rimane insaturo. Il Reale è il mistero che abita il Dasein. E così, nella psicosi la sospensione del tempo si accompagnerà a un’atmosfera dove è il senso del proprio esserci (Dasein) a essere in sospeso. In questa sospensione generalizzata del senso il soggetto rischia di trovare un significato dappertutto, di scoprire un presagio e una soluzione al mistero in qualsiasi segno che provenga dal mondo esterno. Il delirio diventa una liberazione dall’incertezza radicale che caratterizza il proprio Dasein. Nel paziente borderline l’esperienza del Reale non è mai senza un riferimento intersoggettivo. Il borderline non sa aspettare, vive con bramosia il proprio esserci e cerca di regolare il rapporto con il mistero spostando la partita verso l’esterno, coinvolgendo gli altri in un gioco di specchi dove spera di trovare la stabilità e le risposte che non riesce a darsi da sé. Il soggetto nevrotico evita di fare i conti con il Reale, non vuole pagare il prezzo dovuto alla perdita di padronanza su di sé. Vive con disagio ogni minimo segnale che rimanda alla presenza di un qualcosa d’altro che minaccia il controllo del Dasein. E il sintomo del nevrotico costituisce il miglior compromesso per evitare e, allo stesso tempo, mantenere un rapporto con quel Reale che non si acciuffa mai e che tuttavia non ci si toglie mai di dosso. Alla fine della nostra riunione la questione pratica che rimarrà nelle mani di ciascun membro dell’équipe riguarda l’impostazione di una relazione terapeutica che sia sensibile alle combinazioni che si realizzano tra Dasein e Reale nella vita dei pazienti.
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A ciascuno la sua relazione
I modelli e il nodo della relazione La conduzione della cura è esposta al vento del transfert e alle oscillazioni della relazione tra paziente e terapeuta. In alcuni momenti, se vogliamo riprendere la rotta terapeutica, dobbiamo far riferimento a una bussola, a un modello che possa permetterci di ristabilire la direzione della cura senza escludere o rimuovere l’inciampo del nostro incedere nella relazione con il paziente. Nell’ultima parte del libro ho proposto delle ulteriori riflessioni sull’uso che facciamo dei nostri modelli di riferimento e, soprattutto, su alcuni errori da evitare quando li applichiamo. Il rapporto tra i modelli e la loro applicazione costituisce infatti il nodo della relazione terapeutica, ossia del sapere che sa farsi relazione. Ecco una delle ragioni per cui ho messo in primo piano ciò che accade tra soggetto e Altro, valorizzando pagina dopo pagina le diverse sfaccettature di un annodamento, quello appunto tra soggetto e Altro, mai del tutto realizzato ma pur sempre necessario per poter stare al “mondo”. Torino, febbraio 2019
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