Psicoanalisi e campo gruppale

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Emanuele Prosepe – Marco Piccinini

Psicoanalisi e campo gruppale Riflessioni ferencziane

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I Edizione: 2019

Emanuele Prosepe, Psicologo Psicoterapeuta, Psicoanalista Ordinario della Società Psicoanalitica Italiana e della International Psychoanalytical Association. Active Member of the American Psychoanalytical Association. Psicoanalista Didatta della Società Italiana di Psicoanalisi e Psicoterapia-Sandor Ferenczi. Condirettore della Scuola di Specializzazione Aretusa. Senior Didatta della Scuola di Specializzazione Istituto Erich Fromm. Direttore della Airone – Comunità Terapeutica per Tossicodipendenti Doppia Diagnosi. Marco Piccinini, Psicologo clinico, Psicoterapeuta, collabora con diversi enti e associazioni sul territorio nazionale. In copertina: grafica di Julija Stevanovic.

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INDICE Prefazione Emanuele Prosepe....................................................................... V Presentazione Luigi Boccanegra.................................................................. VII Prima parte Capitolo I. Introduzione e riferimenti teorici. Un percorso fatto di incontri.... 1 Sándor Ferenczi gruppoanalista?............................................................. 2 L’intreccio............................................................................................... 5 Capitolo II. Sigmund Freud e la prima psicoanalisi del campo sociale......... 13 Capitolo III. Elementi psicoanalitici nella psicologia di gruppo................... 23 Differenti letture per una stessa opera: Psicologia delle masse e analisi dell’Io................................................ 23 Passaggi................................................................................................... 37 Per concludere........................................................................................ 53 Capitolo IV. Il pensiero di Sándor Ferenczi: per una psicoanalisi del gruppo.... 57 Introduzione........................................................................................... 57 La continuità dai primi lavori di Ferenczi al Diario clinico. Breve storia...... 61 Capitolo V. Connotati gruppali dell’impostazione ferencziana..................... 77 Seconda parte Capitolo VI. I Pionieri.................................................................................. 111 Le origini del trattamento psicoterapeutico gruppale: breve excursus...... 111 Trigant Burrow............................................................................................. 119 Introduzione........................................................................................... 119 Il preverbale e il gruppo. Continuità, identificazione e trasmissione........ 123 Samuel Richard Slavson................................................................................ 133 La validità della classificazione consueta.................................................. 133 Le dinamiche intragruppali fra transfert e identificazione........................ 134 Alexander Wolf............................................................................................. 141 Peculiarità del gruppo............................................................................. 145 Wilfred Ruprecht Bion................................................................................. 153 Il livello Protomentale............................................................................. 158 Gli assunti di base................................................................................... 160 Dipendenza............................................................................................ 161 Accoppiamento....................................................................................... 162 Attacco-fuga........................................................................................... 163


Il gruppo di lavoro, l’individuo eccezionale, la visione binoculare e la negative capability........................................... 164 Sigmund Heinrich Foulkes........................................................................... 173 “Attraverso”: la prospettiva foulkesiana.................................................... 174 Rete e matrice......................................................................................... 180 Rete................................................................................................... 180 Matrice.............................................................................................. 181 Relatedness........................................................................................ 183 Enrique Pichon-Rivière................................................................................ 189 Il vincolo................................................................................................ 191 Il gruppo interno.................................................................................... 197 Michael Balint.............................................................................................. 205 Arglos..................................................................................................... 206 Il difetto di base...................................................................................... 218 La cura della relazione. I gruppi Balint.................................................... 225 Prime riflessioni............................................................................................ 235 Introiezione............................................................................................ 241 Perdita.................................................................................................... 246 Trasmissione........................................................................................... 247 Mito, sogno e gruppo................................................................................... 254 Aspetti comuni del dispositivo analitico nell’intervento in contesto gruppale.... 261 Terza parte Capitolo VII Contesto istituzionale, gruppo, psicoanalisi............................ 271 Comunità..................................................................................................... 277 Équipe.................................................................................................... 283 Gruppi istituzionali................................................................................. 285 Sintesi..................................................................................................... 293 La forma della clinica.................................................................................... 297 Un’ipotesi psicodinamica sul gruppo: le forme dell’identificazione.............. 301 Legame................................................................................................... 305 Riflessioni sul gruppo............................................................................. 311 Pensieri conclusivi........................................................................................ 317 Bibliografia........................................................................................................ 323


PREFAZIONE I lunghi anni di apprendistato nella psicoanalisi, prima da giovane universitario fino alla mia associatura alla Società Psicoanalitica Italiana, sono planati accanto al mio personale interesse e lavoro clinico svolto nel contesto comunitario e istituzionale, nello specifico a contatto con l’ambito delle tossicodipendenze. Coniugare questi due mondi è spesso stato un lavoro duro, a volte difficile da spiegare. La psicoanalisi, nella sua storia, ha avuto un certo interesse per la questione tossicomanica, anche se relegata in qualche angolo oscuro della sua teorizzazione – ricordo qui per dover di cronaca come il lavoro di Freud Sulla Cocaina (1894) sia stato estromesso dalle opere psicoanalitiche. Inoltre il gruppo, come dispositivo terapeutico per la cura della persona (gruppoanalisi), è stato spesso sottovalutato e sottoutilizzato dalla psicoanalisi. Infatti la tossicodipendenza da un lato e la gruppoanalisi dall’altro complicano l’esistenza della psicoanalisi stessa, in quanto per le problematiche e per la loro sofferenza tali pazienti non sono semplici, e i dispositivi psicoanalitici che si possiedono (dispositivo classico – lettino, alta frequenza di sedute) non trovano un’adeguata applicazione: i continui attacchi al setting attraverso agiti quotidiani rendono il lavoro psicoanalitico arduo e complesso e spesso le risposte sembrano complicare ulteriormente la nostra teorizzazione. In questi lunghi anni il mio pensiero si è propagato in due direzioni: la prima mi portava a trovare un congiungimento (ideale) fra teoria psicoanalitica e clinica delle tossicodipendenze; la seconda, invece, mi portava a trovare una prassi relazionale, un rapporto libidico-emotivo che permettesse di comprendere meglio le sofferenze più profonde che il mondo tossicomanico ci (mi) fa sentire. In realtà, work is still in progess, ma l’intento di questo libro è proprio quello di delineare alcune osservazioni fatte in questi anni, cercando qua e là di integrare gli aspetti teorici con la pratica clinica da un lato, e di arricchire gli aspetti clinici con la pratica teoretica. Compito arduo. Devo qui confessare una mia passione, che è anch’essa planata accanto a questi due mondi: la passione per i lavori di Sándor Ferenczi. Questa mia passione, adulta, si è tramutata ed è cresciuta dall’iniziale tenerezza, infantile, che ho provato nella mia lettura delle opere ferencziane. Il lavoro clinico che mi accingo a descrivere parte proprio dalle mie riflessioni sull’opera di Ferenczi e dalle sue applicazioni nel campo della psicoanalisi di gruppo in contesto istituzionale. Il testo è suddiviso in tre parti. Nella prima siamo andati in cerca dei punti di vista, degli argomenti, che hanno o che avrebbero potuto far pensare al gruppo come una possibilità psichica e terapeutica da parte dei due citati Autori. La seconda parte tratta di alcuni fra i primi clinici alle prese con il setting gruppale

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cercando di mettere in luce, tramite un lavoro di ricerca sistematica, alcune convergenze partendo dai loro apporti ed esperienze in merito. Abbiamo infine trovato proficuo proporre, nell’ultima parte, una riflessione e un ampliamento della prospettiva in base alla nostra esperienza del lavoro di cura proprio nei contesti istituzionali. Nel testo, si è scelto di mantenere gran parte delle citazioni nella loro lingua d’origine qualora provenienti da edizioni anglofone. Questo libro nasce da un antico progetto che ha trovato respiro profondo nell’incontro, fortunato, con il coautore. La lettura dell’opera freudiana e ferencziana ci ha permesso di stendere una primordiale traccia che successivamente è stata sviluppata e ordinata dal coautore. Lavoro suo certosino e di grande cultura che ha dato il giusto equilibrio a questo libro. Le sue qualità sono ineguagliabili e certamente ne sarò sempre grato.

Emanuele Prosepe

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PRESENTAZIONE Dai sodalizi creativi al gruppo di lavoro Credo che un breve cenno biografico rimanga inerente ai caratteri di questo libro, senza distrarre il lettore dalla presa di contatto con il testo proposto dai due Autori. Infatti fui piuttosto lusingato quando prima dell’estate, Emanuele Prosepe, collega del Centro Veneto di Psicoanalisi, mi chiese di leggere questa storia della psicoterapia di gruppo a partire dalle origini, scritta insieme all’amico Marco Piccinini, per farne poi anche una Presentazione. Mi resi subito conto che altri colleghi esperti nel campo avrebbero potuto meritare questo privilegio meglio di me, ma Emanuele rispose che aveva fatto questa scelta proprio in nome dell’esperienza del gruppo di studio su Bion fatto insieme al Centro Veneto, facendomi una gradita sorpresa. Conoscevo la sua cultura psicologica e psicoanalitica, la scioltezza del suo tratto poco incline alla retorica, la dimestichezza con le lingue, in particolare con la lingua inglese dato il suo lungo soggiorno americano (prima di giungere in Italia), ma non immaginavo che essendo impegnato come psicoanalista nel campo delle tossicodipendenze avesse potuto trovare la concentrazione per scrivere un intero libro di storia “a quattro mani” con un collega psicologo: due colleghi-amici quindi, una rarità. Infatti proprio questo era stato il proposito che aveva animato all’inizio il gruppo di studio su Bion, perché dopo la morte di Agostino Racalbuto avevamo sentito in molti il bisogno di raccoglierci e di riprendere gli studi tornando insieme sui banchi di scuola. La sorpresa dunque era che nel corso degli anni, accanto alla lettura comune dei testi di Bion, anche la scrittura avesse potuto procedere in parallelo. Per questo cercherò anch’io di mantenere la corrispondenza dovuta. Di solito chi lavora nelle istituzioni ha meno tempo per soffermarsi a studiare, e d’altra parte chi riesce a concentrarsi in modo particolare nella ricerca storica di una disciplina, non sempre dispone di un campo di osservazione quotidiano per individuare cosa sia effettivamente più rilevante dal punto di vista clinico e quindi meriti di essere trasmesso. E poi, quando si lavora nelle istituzioni si ha una visuale affannata ed incalzante della clinica per cui, anche volendo, difficilmente ci si ritrova nelle descrizioni cliniche ripulite che si richiedono i libri. E ancora, se si vuol fare storia sul serio, cioè che la ricostruzione del passato permetta di comprendere meglio il presente, non basta enumerare le date e i personaggi più illustri, perché bisogna ricreare il clima, l’humus adeguata, i luoghi e i momenti in cui le relazioni tra ricercatori hanno raggiunto quella soglia difficilmente riproducibile in cui, come diceva Aldo Giorgio Gargani, il filosofo italiano studioso di Ludwig Wittgenstein, “il sodalizio a due diventa florido, e da una relazione umana profonda nascono delle idee nuove”.

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Di solito ogni esercizio clinico implica un’attitudine comparativa che disponga di un criterio di rilevanza in base al quale tra psicopatologia ed esistenza si riesca a discriminare delle priorità in base alle quali individuare delle indicazioni adeguate e se è il caso suggerire un trattamento. Se manca questo tentativo di sintesi condivisa, per quanto insatura essa possa rimanere, non si dispone di quell’attendibilità reciproca che facendo riferimento ad una verosimiglianza complessiva nei confronti dell’esistenza umana, permetta ai singoli ricercatori di riconoscersi in una visione d’insieme comune che rimanga aderente all’uso del linguaggio ordinario. Quando poi, come avviene in questo momento storico, i criteri per distinguere il normale dal patologico sfumano troppo rapidamente, se non si dispone di un “entroterra” storico-critico (Bonnefoy) sufficientemente esteso che fornisca degli aspetti comparativi condivisibili, è prevedibile che lo psicoanalista che operi da solo, senza un gruppo di colleghi di riferimento, si scontri più spesso con gli aspetti impossibili della propria professione ed assista impotente all’aumento diffuso dei dubbi e delle riserve nei confronti del trattamento psicoterapico in genere, e psicoanalitico in particolare. Più di una volta è capitato con Emanuele che negli incontri canonici di carattere organizzativo tra addetti ai lavori, ci si cercasse spontaneamente con lo sguardo quando alcuni colleghi, considerati persone squisite se prese una ad una, diventavano quasi irriconoscibili in gruppo, per essere venuti improvvisamente a contatto con una turbolenza interiore del tutto inedita. C’è una frase di Bion, che più volte nel gruppo di studio abbiamo letto e riletto, e che merita di essere riportata. È proprio in “Elementi della psicoanalisi” (Armando, 1973) quando descrive la Griglia, cioè proprio dove uno non penserebbe di trovarla. A conferma di come con i gruppi ci si debba allenare a ricominciare ogni volta da capo, Bion dice (p. 107) “A quanto ho già detto circa le pulsioni emotive aggiungo l’avvertimento di ricordarsi che l’analista si preoccupa degli aspetti premonitori di queste pulsioni e che, nel valutare la forza e la direzione di queste premonizioni, bisognerebbe tener presente la natura politica dell’essere umano. I fattori determinanti anche nella manifestazioni intime del sesso e dell’aggressività possono trovarsi al di fuori della personalità e all’interno del gruppo”. Qui Bion è così sintetico da riassumere in poche righe come si possa continuare a fraintendere cos’è “un gruppo di lavoro” proprio perché si crede che per gli addetti ai lavori sia possibile acclimatarsi una volta per tutte nei confronti di quel sentimento iniziale di “smembramento psichico” che si prova ogni volta. In realtà, pur rimanendo una costante sgradevole, quel sentimento di smarrimento iniziale costituisce al tempo stesso la “tabula rasa” comune, il presupposto pulviscolare da cui ripartire ogni volta, che per gli amanti della materia è quasi un marchio di fabbrica. Anche se ormai da più parti si sostiene l’importanza per la formazione analitica di fare, dopo l’analisi personale un’esperienza di psicoterapia di gruppo, quella

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Presentazione

dello psicoanalista si presta a rimanere una professione che a lungo andare accentua gli aspetti narcisistici, se non c’è la possibilità di un confronto ravvicinato con quello che Franco Fornari definiva il “gruppo dei pari”. Non solo, ma trovandomi ora, citando questo parere, già dentro alla mia genealogia formativa mi sentirei di ricordare che a questo proposito anche Giorgio Sacerdoti suggeriva di non trascurare, nella valutazione dei futuri Candidati che operassero in ambito psichiatrico, il loro modo di essere come persone nell’istituzione. Valorizzando l’importanza di un’osservazione reciproca tra psichiatri, psicoanalisti e psicologi in istituzione, anche Giovanni Hautmann affiancava la sua attività di analista di Training con l’intervento istituzionale (supervisione), mirato al lento lavoro di ricostruzione del caso clinico, attraverso il contributo associativo di un’intera équipe. Venendo più vicini ancora al mio apprendistato, per quanto riguarda il narcisismo professionale, anche Salomon Resnik sosteneva che in campo psicoanalitico non valgono le idee (platoniche) di scienza infusa o (romantiche) di genialità, ma che nella professione dello psicoanalista “ciascuno riesce a dare in conformità di quanto ha ricevuto”. Sui gruppi poi sosteneva che “se non si è avuto di meglio, neanche ci si accorge dei limiti del gruppo di cui si fa parte”. Non solo, ma seguendo il filo dei nostri due Autori, per fare un esempio dal punto di vista strettamente storico, proprio Resnik, pur avendo una formazione prevalentemente kleiniana, sosteneva per esempio, a proposito della disseminazione in atto nel corso di una crisi psicotica, l’importanza scientifica del concetto degli “ego-nuclei” di uno psicoanalista come Edward Glover, che agli inizi non era stato certo incoraggiante nei confronti di Melanie Klein, dato che lei non era medico. Credo, come è successo anche a me poco fa, che a ciascuno faccia piacere ripercorrere la storia della psicoterapia vedendo che gli Autori più che animati dal desiderio di esporre la loro teoria personale sul gruppo, hanno generosamente ripercorso “a ritroso” anche per noi l’origine di questo importante indirizzo della psicoanalisi. E che abbiano saputo farlo non solo risalendo al momento in cui la disciplina presa in esame compie i primi passi, ma prendendo in considerazione quella che a questo punto, dopo la loro ricerca, può essere definita una raccolta delle “biografie dei sodalizi” che hanno caratterizzato lo sviluppo della psicoanalisi in ambito sociale. Invece che soffermarsi sulla proposta di un proprio modello hanno saputo cogliere della storia i momenti in cui le relazioni tra psicoanalisti si rivelavano germinative rispetto ai concetti e a quelle che sarebbero state le elaborazioni successive di veri e propri modelli. Infatti il pregio del libro è di ripercorrere il cammino di questa disciplina lungo tutto l’asse di sviluppo che proviene dal pensiero

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psicoanalitico facendo in modo che i modelli siano visti sul nascere, cioè che gli Autori significativi siano immersi nell’humus culturale e nel legame umano da cui sono sorti. A me pare che gli Autori abbiano voluto intendere il loro lavoro comune come una storia della psicoterapia di gruppo che, partendo da Freud, fosse una ripresa viva delle relazioni originarie che lui aveva con i suoi allievi (Freud-Ferenczi). In questo modo anche il lettore attuale amante della materia, è messo nella condizione di potersi immergere nel testo facendo esperienza nel corso dell’atto di lettura di quella che in ambito fenomenologico viene definita da alcuni filosofi la trans-generazionalità fungente (Husserl, Paci, Franzini, Venier). Dunque come se la scrittura venisse sottratta al compito rituale di una ricostruzione storica pura e semplice e il lettore, attraverso il libro, potesse seguire una spirale ideativa rinnovando anche per le scienze umane quel processo di immersione nei classici che di solito è proprio delle materie umanistiche e che permette di attingere agli “amori degli inizi” (come li ha chiamati Pontalis), ricavandone in prospettiva una progettualità che permetta di orientarsi nel presente. Non come un mero elenco di nomi e di date dunque, ma come un album di famiglia allargata, in cui anche i colleghi più giovani possano cogliere “a ritroso”, partendo da quelle care immagini dei sodalizi ideativi delle origini, la fisionomia di un nascituro, di un adveniens, come futuro possibile. In questo modo, il lettore può seguire i classici da vicino individuando una propria genealogia “in chiave minore”, ed immaginarne il seguito fino a giungere agli anni in cui ha avuto inizio il proprio apprendistato, che per quanto riguarda i gruppi in Italia risale agli anni ‘60. Più specificatamente il loro testo propone una lettura sui gruppi che implica l’osservazione del lungo e lento esercizio che potremmo definire “filologico”, richiesto per il graduale assorbimento in profondità di un metodo. Questo è reso possibile dal fatto che, ripercorrendo la storia, il lettore sente che chi scrive non solo in gruppo c’è effettivamente stato anche lui, ma al seguito di questa esperienza per certi versi unica, si è pure accorto di poter cambiare profondamente trovandosi alla fine in grado di “pensare in modo gruppale”. Non credo di esagerare dicendo che, integrando i contributi concepiti in tradizioni psicoanalitiche diverse (di lingua tedesca, inglese, spagnola, francese, italiana) il testo contiene pure un implicito suggerimento dell’ideale europeistico in un momento delicato della propria storia. Tenendo conto della diversità linguistica dei contributi originari l’analogia più immediata che viene alla mente è quella suggerita dalla simultaneità rappresentata nel disegno cartesiano della Griglia bioniana, cioè come se fossero delle personificazioni che nel corso della lettura emergono a tutto tondo (Burrow, Slavson, Wolf, Foulkes, Pichon-Rivière) dalla linea C, come a sbalzo, formulando nella propria lingua il loro parere di allora, come una proposta viva ancora attuale.

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Ho già detto che, secondo me, l’interesse del libro sta nell’effetto di contemporaneità che in certi punti la lettura della ricostruzione storica ha sul lettore. Mi limito quindi ad indicarne uno in particolare su cui avrei desiderato soffermarmi e discutere subito con loro. Un punto che si trova al centro del libro, nelle Prime riflessioni, dove affiora un’indagine linguistica più approfondita nei confronti dell’introiezione e si allude, attraverso l’uso del termine “kinship”, alla “partecipazione ad una comune sostanza”. In quella annotazione è come se il lessico degli Autori riuscisse a lasciare un’impronta “di proprio pugno” avrebbe detto Gargani, attraverso un semplice scorcio di natura filologica. Vien detto infatti che il termine significa “comunità di stirpe” e che viene usato quando si intende esprimere, a proposito dell’introiezione, che il pasto sacrificale accomuna membri della stessa stirpe. Viene anche riferito che è riportato dallo stesso Freud in Totem e tabù, che lo prende a sua volta da William Robertson Smith. Ma se il termine “kinship” significa “partecipare ad una comune sostanza” è come se con un colpo solo venissero evocati gli interrogativi e le perplessità di intere generazioni di ricercatori che nel corso dei secoli si sono succedute, nel tentativo di svelare il nesso tra la psicologia individuale e la psicologia di gruppo. I due Autori commentano l’uso di questo termine dicendo giustamente che qui Freud “fornisce delle basi analitiche ad un pensiero pangenetico”: commento che per noi mediterranei non può che evocare la materia animata com’era intesa dai filosofi italiani del Rinascimento (Giordano Bruno, in Carannante, 2016, Le Lettere ed.). Un enigma questo che rimane e che ogni volta si ripropone, anche se ciascuno vorrebbe risolverlo una volta per tutte, riuscendo a raggiungere i confini dell’anima, a “toccarla” con le proprie mani. Anche se la ricostruzione storica riferita in questo caso è quella esemplare che parte dal sodalizio tra Freud e Ferenczi, la successione delle ricerche si snoda per gemmazioni successive, in modo così ramificato fino alle propaggini attuali, che non va mai perso per strada il tronco di partenza iniziale. L’attenzione e la cura con cui sono esaminate le divaricazioni iniziali mi ha fatto ricordare una installazione osservata alla Biennale di alcuni anni fa. L’artista belga Berlinde De Bruykere (coadiuvata nella sua performance dallo scrittore Coetze) aveva proposto come opera un grande albero che con i propri rami si propagava attraverso le stanze dell’intero padiglione, esibendo delle medicazioni opportune in cotone nei punti di divaricazione dal tronco, come se fossero punti di sofferenza, da osservare con particolare cura. Il visitatore, percorrendo lo spazio del padiglione era invitato a ritornare sui suoi passi e a ricongiungere con la memoria le immagini delle estremità più lontane con le radici di partenza. Così, come spesso accade per le diverse elaborazioni teoriche dei ricercatori, quando più avanti con gli anni emergono i punti di riconciliazione.

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Mi sento di aggiungere che il tempo in cui viviamo rende più che mai opportuna una riflessione sui gruppi, ed in modo particolare quella che Emanuele Prosepe e Marco Piccinini hanno pensato di offrirci con questo libro. Da più parti si osservano tentativi di riformulazione del contributo della psicoanalisi alla comprensione dei cambiamenti cui sta andando incontro la convivenza umana, dato che la globalizzazione ha reso da un lato più estesi gli orizzonti di riferimento e al tempo stesso standardizzato il lessico delle nostre discipline (Resnik, Vedo cambiare il tempo, Mimesis, 2015). In altri termini, l’epoca attuale (Sloterdjk, Che cosa è successo nel XX secolo, Bollati Boringhieri, 2017) avrebbe raggiunto la consapevolezza dei limiti delle proprie possibilità di sviluppo sul pianeta, per cui è importante che in ogni ricerca l’elemento esplorativo debba tener conto in partenza delle ricadute sull’ambiente circostante. In questo senso alla disseminazione psichica che ogni gruppo raggiunge sul piano del “sentimento oceanico” attuale deve far riscontro un contrappeso di natura critica che permetta di ridimensionare la componente visionaria in modo da sottrarre all’immagine del futuro le componenti che presumono di ignorare l’eventualità apocalittica. Secondo me non si comprende veramente il fatto che ad un certo punto Freud abbia scelto Romain Rolland come interlocutore della sua stessa biografia personale, se si dimentica che fu proprio agli inizi del 1914 che l’umanista francese cercò di scuotere le intelligenze europee di fronte al fatto che stessero andando senza accorgersi verso l’abisso. Vi sono libri che non solo aiutano a comprendere meglio il passato, a renderlo più vicino ed assimilabile in modo che ci nutra una seconda volta (après coup), ma che sono anche in qualche modo anticipatori. Infatti, pensando che quest’anno ricorre il cinquantenario del ‘68, non è forse il caso di tenersi fin d’ora ancorati ad un testo come questo in modo da non essere sviati da quelle che saranno le prevedibili proposte di rilettura a cinquant’anni di distanza? Credo che non sarà facile incrociare una sintesi storica di questa portata che riesca come in questo caso, risalendo alle origini della psicoanalisi, ad innestare così in profondità l’osservazione del “gruppo di lavoro” nella biografia dei maestri, cioè nella generazione stessa dei suoi fondatori. Allora, dato che la ricostruzione storica degli Autori si snoda lungo tutte le opere antropologiche di Freud fino a Mosé e monoteismo, può essere utile riprendere un’altra citazione di Bion proprio sull’animismo espressa in Esperienze nei gruppi (pp. 144-145), ed accostarla alla ricerca antropologica attuale. “In altre parole”, dice Bion, “la differenza apparente tra la psicologia di gruppo e la psicologia dell’individuo è un’illusione dovuta al fatto che il gruppo offre un campo di studi intellegibile per certi aspetti alla psicologia dell’individuo e così porta alla

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Presentazione

luce fenomeni che appaiono sconosciuti a un osservatore non abituato a lavorare con i gruppi. Non mi sembra che Freud affermi da qualche parte che le sue concezioni sul gruppo derivino da uno studio dell’animismo. Egli afferma che il suo contributo consiste soltanto in una selezione di materiali e di opinioni (forse dai lavori di base che cita in Totem e Tabù, p. 75, nota 1). Mi sembra che le sue spiegazioni del comportamento di gruppo siano frutto di deduzioni dalla situazione psicoanalitica. È possibile che per questa ragione le descrizioni che Freud fa del gruppo, e ancora di più quelle di Le Bon che Freud cita con una certa approvazione, risultassero per me un po’ strane se paragonate alle mie esperienze personali in un gruppo. Ad esempio, quando Freud cita la frase di Le Bon “i gruppi non hanno mai sete di verità. Vogliono delle illusioni e non possono farne a meno” (Freud, 1921), non posso essere d’accordo con lui. Come ho già detto all’inizio di questo capitolo, io attribuisco molta forza e influenza al gruppo di lavoro, che a causa del suo impegno nella realtà è portato a servirsi di metodi scientifici, anche se talvolta molto rudimentali. Secondo me uno degli aspetti più sorprendenti di un gruppo è il fatto che, nonostante l’influenza degli assunti di base, il gruppo razionale o di lavoro alla fine riesce a trionfare”. Anche chi ha una qualche familiarità con gli scritti di Bion, rimane colpito dal fatto che sia quasi categorico proprio su questo punto. Riprendendo il lessico di Franco Fornari, indipendentemente dal fatto che si possa essere orientati più verso il “codice paterno” come Freud, che verso il “codice materno” come Ferenczi, mi pare importante una recente osservazione di Philippe Descola (Compositions des mondes, Flammarion, 2014), l’antropologo francese continuatore di Levi Strauss, al fine di una miglior comprensione di quella che sul piano inter-etnico definisce come la quota di animismo indispensabile per una globalizzazione praticabile. Questo autore ci mette sull’avviso che l’approccio di noi occidentali, che definisce di tipo “naturalistico”, è troppo riduzionistico per le altre culture del pianeta (che suddivide appunto in totemiche, analogiche ed animistiche), per cui suggerisce di mantenere una sorta di “animismo residuo” che ci permetterebbe di comunicare ugualmente sul piano simbolico. In questo modo, pur mantenendo il nostro orientamento scientifico che tende ad avere della mente una rappresentazione materialista di derivazione atomistica (su base biochimica), verrebbe preservata un’area di interazione e di scambio definibile come “co-pensiero” (Widlocher) di natura simbolica, che permetterebbe una condivisione semantica dei contenuti, senza la pretesa di disporre di una rappresentazione scientifica comune. Ripensando ora al contributo decisivo di Sándor Ferenczi, maestro di Melanie Klein, che rimane il primo ispiratore della possibilità degli esseri umani di riuscire ad aiutarsi anche in gruppo, mi sentirei di affiancare un contributo recente sul suo sodalizio con Freud, proposto dalla psicoanalista francese Monique Schneider dal

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titolo “La détresse: aux sources de l’étique” (Seuil, 2011). La Schneider, sottolineando la proposta di mutualità interpretativa che ad un certo punto Ferenczi fece a Freud, introduce un accostamento con il processo di traduzione come viene inteso da Bonnefoy (poeta e traduttore di Shakespeare in francese), cioè come il frutto di una collaborazione tra due comunità cooperanti e al tempo stesso distinte: quella formata dalle personificazioni che definisce più propriamente dei “traduttori in senso stretto” e “quella formata dai critici”. Quest’ultima, secondo l’autore, avrebbe il compito di vigilare in termini più riflessivi e filologici sulle analogie che la prima tende a suggerire troppo generosamente. La traduzione allora più che un tradimento sarebbe il frutto di una collaborazione. Attraverso il linguaggio essa esprime il tentativo di recuperare l’unitarietà dell’oggetto originario perduto, dato che ogni lingua madre può rimediare solo in parte alla disseminazione simbolica provocata dalla cesura catastrofica che caratterizza la nostra nascita. In questo senso solo più forme simboliche concomitanti sarebbero in grado di rappresentare “filologicamente” la relazione con l’oggetto originario. Se il pulviscolo di una notte stellata può corrispondere a quella disseminazione iniziale, il logo adeguato a questo libro potrebbe essere il titolo del mio vecchio sillabario: Le Pleiadi, come costellazione augurabile per un gruppo di lavoro: stellare e al tempo stesso ricca di reminiscenze esiodee. Pur essendo lassù infatti, raccolte nella loro pluralità coesistente rispetto al pulviscolo disseminato, esse sono ricche di richiami terrestri: per numero (sette) ricordano i giorni della settimana, per forma (grappolo) il lavoro assiduo che ogni raccolto richiede nel corso dell’anno, senza togliere niente alla singolarità soggettiva, cioè conservando tra i componenti al lavoro una distanza inter-stellare quasi infinita. Riprendendo quanto dicevo all’inizio, cioè come Emanuele Prosepe, rispose alle mie perplessità iniziali, mi permetto di terminare citando un testo ormai classico che la storiografia attuale sembra prediligere e che fa riferimento proprio al fatto che il “gruppo di lavoro” realizzi una sorta di mutualità reciproca ravvicinata, senza che venga meno la distanza tra i suoi componenti. È una frase di Nietzsche che lo storico francese Boucheron ha citato recentemente (Esprit, n. 423, marzo-aprile, 2016), ripresa dalla Prefazione ad Aurora: “[…] Oggi fa anche parte del mio gusto non scrivere più nulla che non porti alla disperazione ogni genere di gente “frettolosa”. Filologia infatti è quella onorevole arte che esige dal suo cultore soprattutto una cosa, trarsi da parte, lasciarsi tempo, divenire silenzioso, diventare lento, essendo un’arte di orafi della parola, che deve compiere un finissimo attento lavoro e non raggiunge nulla se non lo raggiunge lento […] è proprio per questo mezzo che essa ci attira ed incanta quanto mai fortemente, nel cuore di un’epoca del “lavoro”, intendo dire della fretta, della precipitazione indecorosa e sudaticcia, che vuol “sbrigare “immediatamente ogni cosa, anche ogni libro antico e nuovo: per una tale arte non è tanto facile sbri-

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Presentazione

gare una qualsiasi cosa, essa insegna a leggere bene, cioè a leggere lentamente, in profondità, guardandosi avanti e indietro, non senza secondi fini lasciando porte aperte, con dita ed occhi delicati... (datata Genova, autunno 1886, in Prefazione ad “Aurora”, pp. 8-9, Adelphi, 1964). Come concludere se non con l’augurio ai due Autori di una trans-generazionalità fungente anche per loro, cioè che qualche volonteroso lettore più giovane, una volta avuto tra le mani questo libro voglia condividerne la lettura anche con altri, e proponga di fare “un gruppo di studio” in cui leggerlo insieme. Allora vi sarebbero tante più cose da scoprire, problematizzando gli uni con gli altri il taglio che gli Autori hanno scelto per questa ricostruzione, nell’intento di coinvolgere in una discussione comune storici, psicologi, psicoanalisti e psichiatri. Cioè, in corso di lettura, poter discutere la selezione stessa delle figure più eminenti che ha prevalso in loro, individuando eventualmente la propria predilezione, quella che ciascuno confrontandosi con gli altri potrebbe accorgersi a sua volta di scoprire. Luigi Boccanegra

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