Introduzione alla nuova edizione
Cosimo Schinaia
Il presepio dei folli Scene da un manicomio Presentazione di Fausto Petrella
Collana I Territori della Psiche diretta da Doriano Fasoli Board Scientifico: Alberto Angelini, Andrea Baldassarro, Marina Breccia, Giuseppina Castiglia, Domenico Chianese, Salomon Resnik, Marcello Turno, Adamo Vergine
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© Copyright Alpes Italia srl - Via G. Romagnosi, 3 – 00196 Roma, tel./fax 06-39738315 II edizione, 2018 (Prima edizione Dal manicomio alla città. “L’altro presepe” di Cogoleto, Editori Laterza, Roma-Bari, 1997.
Cosimo Schinaia, psichiatra e psicoanalista, membro ordinario con funzioni di training della Società Psicoanalitica Italiana e full member IPA (International Psychoanalytical Association). È stato direttore dell’Ospedale psichiatrico di Cogoleto (Ge), delle Strutture residenziali psichiatriche di Quarto (Ge) e del Dipartimento di salute mentale di Genova Centro. È autore di numerosi articoli scientifici in riviste di psicoanalisi e di psichiatria nazionali e internazionali e di saggi in libri collettanei. Ha pubblicato nel 1997 il libro Dal manicomio alla città. L’“altro” presepe di Cogoleto (Laterza, Roma-Bari); nel 1998 Il cantiere delle idee (La Clessidra, Genova); nel 2001 Pedofilia Pedofilie. La psicoanalisi e il mondo del pedofilo (Bollati Boringhieri, Torino) tradotto in inglese, spagnolo, portoghese, polacco, francese e tedesco; nel 2014 Il dentro e il fuori. Psicoanalisi e architettura (Il Melangolo, Genova) tradotto in inglese; nel 2016 Interno Esterno. Sguardi psicoanalitici su architettura e urbanistica (Alpes Italia, Roma), attualmente in traduzione in spagnolo e francese. In copertina: Foto di Margherita Loewy.
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Indice generale Introduzione alla nuova edizione di Cosimo Schinaia...................................................................... XIII Prefazione di Fausto Petrella......................................................................... XXIX Introduzione............................................................................ XXXV
I Il Manicomio di Cogoleto..................................................... 1 II Progetti per il superamento del manicomio.......................
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III Progetti e materiali per un presepio in manicomio..........
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IV La NativitĂ ..........................................................................
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V La segregazione....................................................................
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VI La piazza.............................................................................
59
VII La stanza dei medici.........................................................
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VIII L’elettroshock.................................................................
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IX Il reparto dei bambini........................................................
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X Il lavoro................................................................................
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XI La morte.............................................................................
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XII Tra passato e futuro..........................................................
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Postfazione di Giovanna Terminiello Rotondi................................................. 167
‌ Non c’era posto per loro. Luca 2-7
Alle donne e agli uomini che sono stati in manicomio. Alle donne e agli uomini che non andranno mai in un manicomio
Ma anche quando non sussiste più nulla di un antico passato, dopo la morte delle persone, dopo la distruzione delle cose, soli, più fragili ma più vivi, più immateriali, più persistenti, più fedeli, l’odore e il sapore restano ancora per molto tempo, come delle anime, a ricordare, ad attendere, a sperare sulle rovine di tutto il resto, a portare senza piegarsi sulla loro faccia quasi impalpabile, l’immenso edificio della memoria. Marcel Proust Che cosa sono io agli occhi della maggior parte degli altri? Una nullità, un originale, un uomo sgradevole che non ha e non avrà mai un posto nella società. Vorrei provare attraverso la mia opera che, nonostante ciò, nel cuore di questo originale, di questa nullità c’è qualcosa. Vincent Van Gogh
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Ringraziamenti Non sarebbe stato possibile concepire questo libro senza l’intuizione visionaria e la successiva opera di coordinamento e regia di Tomaso Molinari, l’infermiere che per primo ha pensato all’allestimento di un grande presepio nell’Ospedale psichiatrico di Cogoleto, allontanandosi dalle tradizionali rappresentazioni folkloristiche e dando spazio alle immagini di vita istituzionale nella fase di transizione, in cui il vecchio era in agonia e il nuovo non era ancora nitidamente visibile all’orizzonte1. Questo libro è dedicato alla sua memoria. Altrettanto fondamentale per la realizzazione del presepio è stata l’abilità artigianale e la creatività artistica di Bruno Galati, giardiniere dell’Ospedale psichiatrico, a cui si devono la maggior parte delle statuette in ceramica e cartapesta e degli scenari, e a cui va la mia immensa gratitudine. Bruno Galati ha trasformato e trasfigurato in un’opera d’arte povera2 le memorie e le esperienze di Tomaso Molinari. Si è successivamente affermato come artista dallo stile iperrealista e ha diretto il laboratorio di ceramica all’interno dei progetti di riabilitazione psichiatrica. Mi piacerebbe inoltre ringraziare uno per uno tutti i ricoverati e quegli operatori psichiatrici del tempo che, apportando ciascuno di essi le proprie competenze, le proprie abilità e le proprie memorie, hanno significativamente contribuito alla progettazione e alla realizzazione del presepio. Un ringraziamento affettuoso va a Giovanna Terminiello Rotondi, storica dell’arte e già soprintendente per i beni artistici e storici della Regione Liguria, che ha immediatamente riconosciuto il senso artistico e 1 T. Molinari, (2008), Un eretico in manicomio. Quaderno FBC, 2, Ecig, Genova, 2016, pp. 1-67. 2 Quello dell’arte povera è un movimento che nasce in aperta polemica con l’arte tradizionale, della quale rifiuta tecniche e supporti per fare ricorso a materiali «poveri» come terra, legno, ferro, stracci, plastica, con l’intento di evocare le strutture originarie del linguaggio della società contemporanea. Un›altra caratteristica del lavoro degli artisti del movimento è il ricorso alla forma dell›installazione, come luogo della relazione tra opera e ambiente.
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Il presepio dei folli memoriale dell’opera, impegnandosi entusiasticamente in prima persona per la sua valorizzazione e conservazione. A lei è rivolta la mia gratitudine per la postfazione che fa il punto sullo stato dell’opera. Ancora ho da ringraziare Fausto Petrella, maestro e amico di una vita, per la generosità che ha mostrato nella scrittura della bella e appassionata prefazione, che a distanza di tanti anni dimostra tutta la sua attualità e originalità. Ringrazio ancora Francesco Barale, Tiziana Bastianini, Giorgio Bergami, Armando Besio, Natale Calderaro, Rocco Canosa, Lino Ciancaglini, Pietro Ciliberti, Carmelo Conforto, Giorgio Cosmacini, Michel David, Gilda De Simone, Luigi Ferrannini, Marie Antoinette Ferroni, Antonio Maria Ferro, Costantino Gilardi, Vito Guidi, Piero Iozzia, Uliano Lucas, Emilio Maura, Giovanni Meriana, Gianfranco Meterangelis, Bruno Orsini, Paolo Francesco Peloso, Adriano Sansa, Franco Sborgi e Simone Vender, che a diverso titolo hanno favorito la nascita del libro e accompagnato il suo cammino. Un affettuoso e riconoscente pensiero va a Antonio Balletto, Giuseppe Berti Ceroni, Piera Bevilacqua, Aristo Ciruzzi, Dario De Martis, Antonio Drommi, Giovanni Franzoni, Andrea Gallo, Roberto Ghirardelli, Giuseppe Menduni, Sergio Piro, Edoardo Sanguineti, Antonio Slavich, Gian Soldi e Gianfranco Vendemmiati, che non ci sono più. Un ricordo particolare lo dedico alle persone che hanno collaborato alla chiusura dell’Ospedale psichiatrico di Cogoleto: Marco Barisone, Elisabetta Biancucci, Nicola Buogo, Orietta Cagnana, Luisa Ciammella, Maurizio Cristofanini, Maurizio Ferro, Camelia Jianu, Luigi Maccioni, Claudio Marcenaro, Antonio Pischedda, Olga Schiaffino, Claudia Traversa, Simona Traverso, Cristina Valle, Massimo Valeri e tutti gli infermieri che hanno creduto e si sono impegnati nel suo superamento. Ringrazio Daniela Pittaluga, professoressa presso la Scuola Politecnica dell’Università di Genova, per l’impegno profuso nello studio, la conservazione e il restauro delle opere d’arte presenti nell’Ospedale psichiatrico e insieme a lei Luca Nanni e Maurizio Gugliotta, che con le loro assoX
Ringraziamenti ciazioni volontarie continuano a mantenere vivida la memoria di quei luoghi e di quelle storie. Sono grato al cantautore Simone Cristicchi per avere ampiamente ricordato nel suo libro3 il Presepio dell’Ospedale psichiatrico di Cogoleto. Un grazie anche a Giacomo Doni che nel 2016 ha pubblicato un libro fotografico sul presepio4. Ricordo e ringrazio ancora per la continua attenzione e il generoso sostegno Mauro Cavelli e Marina Costa attualmente sindaco e vicesindaco del Comune di Cogoleto e gli ex sindaci Luigi Cola e Anita Venturi. L’ultimo e particolarmente intenso sentimento di gratitudine è infine rivolto a Margherita Loewy, che con le sue splendide fotografie ha permesso che il presepio uscisse dai fondi di uno squallido padiglione di un ospedale psichiatrico per offrirsi agli sguardi incuriositi e commossi di tante donne e uomini.
3 S., Cristicchi, Centro di igiene mentale. Un cantastorie tra i matti. Mondadori, Milano, 2007. 4 G. Doni, Anime di cartapesta. Attucci, Carmignano (PO), 2016.
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Introduzione alla nuova edizione di Cosimo Schinaia
Nonostante la Legge 180, che sanciva la fine degli Ospedali psichiatrici in Italia, sia stata approvata nel 1978, per essere poi inglobata nella Legge 833 di Riforma Sanitaria del 1980, bisognerà attendere la fine degli anni novanta perché questi luoghi di esclusione e violenza istituzionale vengano definitivamente superati e chiusi. È nelle maglie di questo storico ritardo che nei primi anni ‘80 alcuni infermieri e ricoverati, con la collaborazione di alcuni medici, progettano prima e mettono materialmente in atto poi la costruzione di un grande presepio che rappresenti le vite, le sofferenze, ma anche le speranze e i sogni delle donne e degli uomini reclusi all’interno dell’istituzione manicomiale di Cogoleto. Il presepio, grande più di cinquecento metri quadri, viene costruito e installato nei sotterranei del padiglione dove un tempo era ubicata la tipografia e viene inaugurato nel 1984 dopo quattro anni di lavoro intenso e volontario coordinato da Tomaso Molinari, un infermiere visionario ed entusiasta. Con il valido aiuto di molti degenti, che vengono sguinzagliati nell’ampio perimetro chiuso del manicomio alla ricerca dei materiali poveri (rami, frasche, fil di ferro, stoffe non più utilizzate, polistirolo, vari materiali di scarto) con cui allestire la scenografia del presepio, la maggior parte degli ambienti e delle statuine viene creativamente realizzata da Bruno Galati, un giovane giardiniere dell’Ospedale psichiatrico dalle mani d’oro, che successivamente dirigerà la scuola di ceramica pensata per l’attività arteterapeutica dei pazienti e che diventerà un artista noto per le sue opere iperrealiste. A differenza dei presepi tradizionali che vengono smontati e inscatolati dopo le feste per essere allestiti di nuovo l’anno successivo, il Presepio di Cogoleto viene pensato e realizzato come un’opera stabile, XIII
Il presepio dei folli che funzioni da memento perenne grazie alla potenza etica ed estetica del suo messaggio. La scelta di rappresentare la sofferenza all’interno dell’istituzione manicomiale, attraverso l’allestimento di un grande presepio, risiede nella forza evocativa che il presepio possiede in quanto luogo privilegiato delle memorie dell’infanzia e rappresentante simbolico di una religiosità spontanea e popolare arricchita dall’ibridazione con il mondo dei sogni, delle fiabe e del folklore contadino, in cui prevalentemente affondano le radici culturali degli ospiti del manicomio. Nel Presepio del Manicomio di Cogoleto, a differenza di altre rappresentazioni artistico-artigianali simili, non vi è nulla di consolatorio: il dolore, scorciato da angolature differenti, è immediatamente visibile, percepibile e condivisibile. Non vi è spazio alcuno per abbellimenti, per accomodamenti, per mascheramenti difensivi. La rievocazione impietosa dell’universo concentrazionario attraverso una serie successiva di quadri e scene è da considerarsi un documento eccezionale, un’impareggiabile testimonianza della forzata e opprimente quotidianità dei ricoverati. Funzione catartica e funzione pedagogica, funzione storico-documentale e funzione di denuncia, funzione difensiva e funzione auto-osservativa trovano nella singolarità di questo presepio una magica coesistenza. Grazie anche alla prima pubblicazione di questo libro nel 1997, le commoventi statuine del Presepio hanno scavalcato le mura manicomiali per trovare ampia risonanza nei quotidiani nazionali e in molte riviste popolari, scientifiche e culturali. Le belle fotografie di Margherita Loewy sono diventate le icone di una realtà da conoscere, da non rimuovere e da superare, ma anche testimonianza e simbolo di vitalità esistenziale. Come una pianta talvolta è capace di crescere rigogliosamente nel deserto, e non si capisce come questo miracolo della natura si possa realizzare in condizioni ambientali tanto svantaggiose, così la creatività collettiva e una produzione artistica sui generis, probabilmente unica al mondo, sono riuscite ad attecchire nell’arido terreno del manicomio per ragioni riparative tanto misteriose quanto affascinanti, ma anche e soprattutto XIV
Introduzione alla nuova edizione come testimonianza dell’ estrema ed eroica sopravvivenza del Sé nel deserto delle relazioni umane, Nonostante la profusione di auspici e promesse da parte di politici e amministratori, il presepio oggi, a circa trentacinque anni dalla sua realizzazione, mostra agli occhi del visitatore un grave stato di abbandono: è impolverato, rovinato, vittima dell’incuria e della trascuratezza. È ancora nei sotterranei dello stesso triste padiglione, ma ancor di più all’interno di un’area sostanzialmente abbandonata e priva di concreti e rispettosi progetti di riutilizzo. Quello che era stato vissuto e raccontato come emblema della speranza emancipatoria, sembra essere diventato l’emblema di un colpevole degrado. In un certo senso, il destino del Presepio del Manicomio di Cogoleto va di pari passo con il destino di tutte le speranze di riutilizzo dell’area di cento ettari su cui era nato l’Ospedale psichiatrico, dove si sono arenati diversi progetti, fra cui quello di un campus studentesco e di un orto botanico per la Facoltà di Agraria dell’Università di Genova, a cui pure si era pensato con lodevole lungimiranza. Sono tornato a visitare il presepio dopo molti anni insieme a Giovanna Terminiello Rotondi, nota storica dell’arte. Insieme, io nella mia funzione di Direttore dell’Ospedale psichiatrico e lei, in quella di Soprintendente per i beni artistici e storici della Regione Liguria, più di vent’anni orsono abbiamo costituito un’associazione per la salvaguardia, il restauro e la valorizzazione delle importanti opere artistiche presenti all’interno dell’area manicomiale. Le opere su tela del pittore dei primi del Novecento Gino Grimaldi, ricoverato in manicomio, presenti nella chiesa dell’Ospedale psichiatrico, sono state restaurate e spostate in un oratorio cittadino e, quindi, esposte al pubblico anche in alcune importanti mostre5. Il notevole degrado delle pitture murarie di Gino Grimaldi all’interno della chiesa è stato arrestato grazie all’intervento dell’Amministrazione comunale, di alcuni sponsor e della facoltà 5 Figure dell’anima. Arte irregolare in Europa, a cura di Bianca Tosatti. Esposizioni a Pavia presso il Castello Visconteo e a Genova presso il Palazzo Ducale nel 1998. Il catalogo della mostra è stato pubblicato dalla casa editrice Mazzotta di Milano.
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Il presepio dei folli di Architettura dell’Università di Genova, nonché di alcune associazioni di volontariato costituite per la valorizzazione di queste opere. Del grande presepio, però, nessuno si è più curato. Le scenografie ora appaiono sconnesse dalle scorribande dei topi, le quinte sono mestamente consunte, strappate e pendule, le belle statuine rotte e abbattute. Ma com’è possibile che un’opera così significativa, pregna di grande originalità creativa e di altrettanto grande valore documentale, venga lasciata a un tale colpevole oblio? Dove sono finite le promesse di una ricollocazione dell’opera in un ambiente dove possa essere custodita, protetta, conservata ed esposta, dopo essere stata sottoposta a un adeguato restauro? Ho la triste sensazione che tale abbandono vada di pari passo anche con il netto calo di risorse e di dotazioni a favore dei Servizi di salute mentale, nati dopo la chiusura dei manicomi, che dovrebbero sostenere in termini terapeutici e assistenziali duttili, e quindi non aprioristicamente ideologici, i progetti d cura e di riabilitazione sociale delle persone sofferenti. Situati spesso in luoghi non specificamente pensati, progettati e adibiti alla cura della psiche, senza un principio architettonico informatore che tenga conto dei bisogni emotivi e affettivi delle persone sofferenti e delle loro specifiche necessità spaziali, nonché delle esigenze terapeutiche e assistenziali degli operatori, anche questi servizi sembrano spesso impolverati e malandati. Si assiste frequentemente al banale e grigio riutilizzo di spazi pensati, costruiti e arredati per svolgere altre funzioni sanitarie o socio-amministrative e, pertanto, da considerare residuali e raccogliticci, non investiti di una funzione terapeutica individuata e specifica. Questa assenza di un pensiero architettonico che si congiunga al pensiero terapeutico propone luoghi spesso anonimi, indeterminati, sistemi binari camera-corridoio, privi di anima, mancanti di capacità contenitiva e socializzante, dove le donne e gli uomini sofferenti vengono trasformati in passivi oggetti di terapia, con partizioni spaziali non investite di senso, che non agevolano la composizione delle scissioni psichiche, ma che anzi spesso ne favoriscono il mantenimento. XVI
Introduzione alla nuova edizione Seppure in termini molto spesso paternalistici ed autoritari, lo spazio della cura e dell’assistenza è stato storicamente oggetto di riflessione di psichiatri e architetti. Nella progettazione degli Ospedali psichiatrici si è passati dalle antiche strutture falansteriali, sul modello del Panopticon di Jeremy Benton, che avevano come obbiettivo principale la trasparenza e il controllo visivo assoluto, alle strutture a villaggio disseminato, con padiglioni fra loro separati e circondati dal verde, in cui la vita e il lavoro all’aria aperta, ma in un luogo separato dal resto del mondo e assolutamente autarchico e autoreferenziale, potessero di per sé essere fautori di cura e di benessere. Ovviamente la modalità escludente e repressiva con cui la malattia mentale veniva affrontata ha determinato nei manicomi una partizione degli spazi nettamente disegnata in termini coercitivi e violenti, nonostante gli asseriti intenti igienico-naturalistici. Da una parte vi erano i matti, dall’altra gli psichiatri che, per conto loro e tra di loro, al massimo discettavano dei matti in separata sede, in stanze lontane dai luoghi di degenza. Non vi era incontro e, se vi era, il contatto avveniva negli spazi medici, mai nei lontani padiglioni, dove risiedevano e si accalcavano spesso in condizioni impietose e gravemente degradate i ricoverati. Alle enormi camerate di degenza accedevano, ma solo per il tempo ritenuto strettamente necessario per il minimo mantenimento dell’igiene personale e ambientale e per la distribuzione del vitto e degli psicofarmaci, gli infermieri che, a loro volta, appena possibile se ne allontanavano per rifugiarsi in altri spazi separati e protetti, che garantissero l’evitamento di un contatto prolungato e proteggessero dal rischio di restare contagiati dalla follia. Nei reparti psichiatrici attuali situati all’interno degli ospedali civili la partizione degli spazi è meno netta e meno distanziata che nei manicomi, ma è al tempo stesso più strutturalmente differenziata: accanto alle corsie di degenza vi sono le stanze degli infermieri, quelle dei medici, la guardiola, la cucinetta, ecc. Si tratta di spazi di decantazione, di decompressione dell’angoscia, spazi cioè impropriamente utilizzati per il riconoscimento difensivo dell’identità di gruppo di chi è sano in opposizione a chi è malato, rifugi per ritirarsi dall’incontro faticoso e talvolta insostenibile con la malattia, il dolore, la follia. XVII
Il presepio dei folli La progettazione dei nuovi spazi di cura dovrebbe tenere conto certamente in primo luogo delle istanze, dei bisogni (primari e secondari) dei curati, ma dovrebbe anche dare rappresentazione alle istanze degli operatori della salute, al mantenimento del loro equilibrio psichico, alle loro necessità difensive nei riguardi di un contatto gravoso e prolungato con elevate quote proiettate di dolore e di disperazione. La progettazione di luoghi intermedi, di spazi di transizione, di mediazione, eviterebbe la costituzione di ritiri clandestini, di cripte rigide di non consumazione delle angosce, di rifugi apparentemente rassicuranti, sostanzialmente anti-relazionali e distanzianti. Ippocrate di Coo sosteneva che la guarigione è legata anche alle circostanze esterne, all’ambiente di cura, per cui negli Asclepia, gli ospedali dell’antica Grecia, veniva dato spazio alla bellezza architettonica, al teatro, alla pittura e alla scultura. Già Leon Battista Alberti, nel XV secolo, parlava di architettura con funzione terapeutica nell’introduzione del De re aedificatoria6 e nel Rinascimento gli ospedali avevano i soffitti e le pareti affrescate. Lo stesso pensiero viene ripreso nel periodo illuminista con la valorizzazione dei concetti di igiene fisica e morale, che attribuisce una funzione terapeutica allo spazio dell’architettura sanitaria. Per JeanÉtienne Esquirol l’Ospedale psichiatrico non è un presidio terapeutico insieme agli atri strumenti, ma è esso stesso di per sé la cura. Anche il Movimento Moderno, agli inizi del ’900 sostiene fermamente le potenzialità terapeutiche dell’ambiente architettonico, ma in termini completamente differenti, se non rovesciati, rispetto al passato. Informandosi ai principi della trasparenza e della luminosità, nascono ospedali, colonie estive, sanatori, cucine modello. L’antico concetto forgiato da Giovenale di mens sana in corpore sano (Satire, X, 356) si ritrova trasferito dal corpo umano all’ambiente che lo ospita e lo cura. La distanza dal riconoscimento della centralità dell’equilibrio psicofisico diventa via via siderale. Dopo il periodo illuminista, dal Movimento Moderno in poi 6 L. B. Alberti, (1452). De re aedificatoria. Il Polifilo, Milano, 1966.
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Introduzione alla nuova edizione gli ospedali sono pensati prevalentemente come macchine sanitarie che abbiano come funzione prioritaria la salvezza dei viventi, per cui vengono progettate e realizzate soluzioni architettoniche sempre più asettiche e anonime, che permettano il controllo trasparente e purificatorio della malattia attraverso la penetrazione disinfettante della luce del sole e delle sostanze igienizzanti. Gli spazi pensati in quest’ottica sono in funzione delle logiche curative, secondo le quali non è contemplata, né è contemplabile l’integrazione tra la malattia da debellare e la persona da curare, per cui risulta automatica, data per scontata, la distanza emotiva dal paziente e dalla sua malattia. Anzi, per certi versi, la neutralità emotiva e l’estraneità affettiva sono prescritte come necessarie all’efficienza tecnologica dell’organizzazione terapeutica. Le stesse caratteristiche di neutralità ed estraneità vengono riproposte nello spazio ospedaliero odierno, nel quale l’uso dei colori, dal bianco al grigio, al verdino o all’azzurrino dei materiali – metallo e materiali sintetici – delle luci e di tutte le finiture hanno come unico obbiettivo l’igiene, la qualità prestazionale. È andata prevalendo nel tempo l’attenzione rivolta al soddisfacimento di esigenze dimensionali, funzionali e igieniche e si è trascurata la potenzialità dell’ambiente esterno nel favorire processi interattivi e comunicativi tra individui, attività terapeutiche, attrezzature e macchinari, non riconoscendo l’incidenza emotiva dello spazio sul soggetto che in quello spazio lavora e sul soggetto malato che di quello spazio usufruisce. L’ambiente che accoglie non può fare riferimento a modelli ovunquisti e razionalizzanti, sostanzialmente spersonalizzanti (ospedali tradizionali e ambulatori), che trovano conforto in riferimenti culturali forti, quali “la macchina della salute” di Le Corbusier, modelli fautori della totale sanitarizzazione degli spazi, dell’uso imponente del bianco. Questi modelli sono da evitare, in quanto sono possibili promotori della censura comunicativa e si costituiscono come un ostacolo insormontabile per attuare scambi orizzontali, in quanto contribuiscono a raffreddare le emozioni, i sentimenti e la loro espressione (Schinaia, 2017)7. 7 C. Schinaia, Interno Esterno. Sguardi psicoanalitici su architettura e urbanistica. Alpes, Roma, 2017.
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Il presepio dei folli Nonostante ancora oggi non sia del tutto chiaro in che termini la connessione fra psicosi e ambiente debba essere pensata, vista la complessità delle interrelazioni e la multifattorialità causale dei disturbi, si assiste, invece che a seri investimenti progettuali, alla totale mancanza di studio e programmazione di spazi adibiti alla cura della malattia mentale, di progetti in grado di favorire la personalizzazione e la vitalizzazione dei pazienti e la protezione delle relazioni terapeutiche. Sono pochi gli autori che si sono interessati specificamente a queste tematiche. Da una parte vi è l’esigenza di integrare le strutture di cura psichiatrica nel tessuto urbano, di fare in modo che si armonizzino fino a fondersi con il suo paesaggio, cancellando l’immagine stigmatizzante della diversità e sostituendola con la proposizione di luoghi rassicuranti, contemporaneamente protetti e aperti al quartiere, alla città; da un’altra parte, però, sono pochissimi i modelli architettonici e gestionali rivolti alle esigenze terapeutiche delle persone sofferenti che propongano percorsi, traiettorie differenziate, specificamente individuate, non conformisticamente univoche, che tengano conto elasticamente anche del bisogno di solitudine, talvolta di isolamento partecipe, della necessità di contenere il confuso, l’indifferenziato, oppure all’opposto di tollerare quanto è difensivamente e rigidamente scisso. Da un lato è necessario proporre luoghi funzionalmente ed esteticamente specialistici, anche architettonicamente definiti e riconoscibili nella loro funzione, in cui la comunicazione relativa alla domanda di cura e l’offerta di una prestazione terapeutica e assistenziale siano formalizzate, istituzionalizzate, come per esempio, le stanze della prima consultazione e della psicoterapia, sia quella individuale che quella di gruppo, all’interno dei Servizi di salute mentale territoriali. Dall’altro è assolutamente necessario prevedere che questi percorsi siano interconnessi a luoghi interstiziali8, quindi sottratti a un linguaggio formalmente e fortemente 8 Il termine interstizio viene dalla lingua latina interstitium e significa stare – tra, cioè risiedere, trovarsi in una situazione non definita, per certi versi anomica o, perlomeno, non rispondente alle regole formali di ordine e organizzazione. “L’interstizio non necessariamente è un luogo, non è necessariamente stabile nel tempo, non è necessariamente funzionale […], non necessariamente tende all’equilibrio” (Cianconi, 2013, p. 2). Vedi P.
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Introduzione alla nuova edizione codificato e aperti a una comunicazione informale, meno gerarchizzata e divisiva, dove possa depositarsi ciò che è latente di strutturazione e di senso, che resta informe, informulato, in “transizione” nella psiche (Roussillon, 1988)9, dove sia progettata la grandezza delle stanze, la luminosità degli ambienti, la coloritura delle pareti, la disposizione degli arredi in relazione a una funzione terapeutica meno prestabilita e circostanziata. Uno spazio intermedio tra relazione comune e relazione specializzata, fra spontaneità dell’incontro umano e intenzionalità dell’assetto terapeutico. Non si tratta neanche di riprodurre tout court l’eccessiva personalizzazione dell’ambiente domestico nel nuovo ambiente di cura, come più o meno è avvenuto in alcune esperienze di meccanico trasporto delle camere da letto degli anziani nelle strutture residenziali geriatriche. Sarebbe un’operazione di trasposizione oltre che inutile, fuorviante e confusiva, perché sostituirebbe l’elaborazione della perdita con un suo tamponamento superficiale e posticcio. E neanche bisogna pensare a luoghi di residenza eccessivamente colorati e spregiudicatamente anticonformistici che, attraverso l’assunzione di una sorta di ideologia Disneyland, rimandano più all’intrattenimento infantilizzante che alla cura rispettosa. Scrive Anna Ferruta (2009, p. 24)10: “L’architettura-cultura psichiatrica istituzionale per la cura del malato psichico chiede di affrontare una questione complessa, di trovare quelle costruzioni spazio-temporali per lo sviluppo di relazioni vive per entrambi i soggetti in gioco, che permettano di unire bellezza, creatività, partecipazione, individualità. Si possono edificare nella relazione terapeutica costruzioni solide ma estranee […], che finiscono per diventare prigioni nelle quali la vita psichica viene reclusa, langue e muore. […] Anche una struttura architettonica molto individualizzata, poco di regime, in apparente contrasto con le leggi di gravità condivise, può finire per essere una prigione altrettanto ingabbiante, un falso movimento, un’ideologia Cianconi, Teoria dell’interstizio e psicopatologia. Psichiatri Oggi, XV, 4, 2013, pp. 1-3. 9 R. Roussillon, (1988). Spazi e pratiche istituzionali. In AA.VV., L’istituzione e le istituzioni. Studi psicoanalitici. Trad. it.. Borla, Roma, 1991, pp. 182-205. 10 A. Ferruta, Architetture della mente. In M. Capuano (a cura di), Miss Architect. Architetture al femminile. Architettonicamente. ETS, Pisa, 2009, pp. 22-26.
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Il presepio dei folli di movimento, un contenitore che è diventato contenuto, che non consente dialogo, accoppiamenti, incontri liberi, avvicinamenti e allontanamenti”. È obbiettivamente più difficile, ma sicuramente più affascinante pensare e poi creare percorsi di libertà e di democrazia effettive, che agevolino, accompagnino e proteggano l’entrata e l’uscita, il passaggio dall’esterno all’interno e viceversa, e progettare tragitti che si intreccino e interconnettano con relativi luoghi di sosta o di attesa o di semplice passaggio, spazi di transizione che abituino al nuovo paesaggio e che permettano il lutto del vecchio in modo sobrio, senza scarti, senza strappi. Psichiatri e architetti dovrebbero insieme studiare luoghi capaci di consentire e rispettare tempi e ritmi delle donne e degli uomini sofferenti senza ricorrere a soluzioni arbitrariamente cortocircuitanti e quindi autoritarie. Altrettanto importante sarebbe evitare la realizzazione di soluzioni architettonicofunzionali ambiguamente demagogiche, semplicisticamente facilitanti e vicariamente protesiche, che possano ridurre le potenzialità di autonomia e di rigenerazione psicofisica, beni da salvaguardare ed incrementare nella cura. Luoghi che partecipino del domestico e del pubblico, attraverso la commistione via via più accettabile di elementi noti e ignoti, quindi luoghi di riconoscimento e valorizzazione della precedente identità, ma anche contemporaneamente di facilitazione dell’assunzione della nuova di malato. Partecipare del domestico e del pubblico vuol dire talvolta allontanarsi dalle distanze spaziali convenzionali, per pensarne di nuove, dove il contatto sia caldo, partecipe, prossimo al familiare, ma contemporaneamente sufficientemente formalizzato e rispettoso della condizione di sofferenza e dei limiti ad essa connessi per non scadere in quell’assenza di spazio che spesso caratterizza confusivamente i contatti intimi fra le persone. Spazi empaticamente partecipi, ma non invasivi, protettivi dell’intimità ma non autoritariamente prescrittivi, discretamente e duttilmente capaci di garantire la necessità per la persona malata di isolarsi senza dovere rinunciare alla possibilità di comunicazione con gli altri, quando questa venga avvertita come necessaria. XXII
Introduzione alla nuova edizione Uno dei modelli di riferimento per le comunità di riabilitazione psichiatrica potrebbe essere il percorso architettonico del monastero, luogo di accoglienza e di dolcezza dei rapporti umani. La cella è luogo massimamente privato, materno perché intimo e contenitivo, deputato al riposo notturno, ma anche paterno in quanto consacrato alla contemplazione, al raccoglimento e allo studio. Con modalità attentamente bilanciate ci si porta nel chiostro, dove le celle dei monaci si affacciano su un cortile comune, che ha al suo centro un giardino di cui prendersi cura. Il giardino è circondato da un porticato che a sua volta, mettendo in contatto il coperto con lo scoperto, funge da deambulatorio e da riparo ed è luogo di conversazione sommessa e intima, di meditazione silenziosa ma collettiva, dove i fili dell’attenzione si intrecciano tra il dentro e il fuori di sé, viaggiano tra l’irriducibile singolarità di ciascuno e la variegata composizione di una comunità (Boatti, 2012)11. Quindi si giunge alla sala capitolare, luogo pubblico e istituzionalmente paterno, dove si svolge la maggior parte delle assemblee dei monaci legate al funzionamento del monastero e della sua comunità, luogo della democrazia delle opinioni e degli affetti, dove la leadership si esercita attraverso l’ascolto. Nella sala capitolare si discutono gli ordini del giorno o si elegge l’abate, quando quest’ultimo viene a mancare; si discute inoltre dell’ammissione al noviziato, ma anche degli acquisti e delle vendite di terreni, oppure si affrontano con il sostegno collettivo delicate questioni personali, come quando un confratello è in crisi esistenziale e/o religiosa. Il capitolo monastico rappresenta il primo esempio di democrazia effettiva in cui viene dato ai monaci il diritto di esprimere liberamente il proprio parere su tutte le questioni che riguardano il monastero. Poi vi è la chiesa, al cui interno si trova l’oratorio, il coro, che ordinatamente ospita i monaci ognuno nel proprio stallo in piedi con i gomiti appoggiati lateralmente ai poggioli, luogo centrale di comunicazione orale fortemente ritualizzata e normata e dove la giornata si chiude con Compieta, l’ultima preghiera. E ancora 11 G. Boatti, Sulle strade del silenzio. Viaggio per monasteri d’Italia e spaesati dintorni. Laterza, Roma – Bari, 2012.
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Il presepio dei folli attraversando i corridoi, entrando nell’austera biblioteca, spazio dedicato alla lettura e alla conservazione dei libri, infine si giunge al refettorio, luogo di convivialità e di nutrimento del corpo e dello spirito, luogo dello scambio ancora ritualizzato ma meno formalizzato, meno vincolato, più libero, in un certo senso preludio, insieme alla sala capitolare, di una socialità che prefiguri l’esterno, l’uscita mondana dal monastero verso l’aperto della piazza, del mondo, mediata anche dalle “varie attività lavorative che avvenivano in aree attrezzate all’uopo predisposte, […] con l’aspetto di piccole botteghe” (Marazzi, 2015, p. 103). Bisognerebbe prendere spunto specificamente dai conventi francescani12 che, in uno sforzo immaginativo e progettuale per andare incontro alla varietà dei bisogni individuali e sociali, hanno tolto agli spazi del monastero la ferrea normatività e la rigida ripetitività che caratterizzano le giornate dei monaci e che sono sancite dagli antichi trattati, dalle Regulae, per valorizzare, invece, la possibilità di utilizzare elasticamente le diverse partizioni spaziali e permettere ai diversi linguaggi un’espressione non irrigidita, non irreggimentata a priori da ricettacoli privi di duttilità, consentendo funzionalità e potenzialità espressive e comunicative multiple e appropriatamente embricantisi13. Il convento si esprime oltre che con le leggi della convivenza fraterna, con quelle dell’ospitalità, in quanto la comunità è così solida, ma anche così duttile, da potersi permettere di accogliere anche un elemento estraneo e sconosciuto senza scompaginare i propri ritmi quotidiani. “Si tratta di rendere accessibili e sapere trattare dimensioni nelle quali la distinzione fra Sé e non-Sé è ancora indecisa (Winnicott, 1971)14 o è andata 12 I conventi si differenziano dai monasteri per la povertà, le dimensioni più ridotte e l’assenza di proprietà fondiaria, e la collocazione nei dintorni, se non addirittura all’interno, della cinta urbana. Vedi L. Scaraffia, Andare per monasteri. Il Mulino, Bologna, 2015. 13 Nel caso degli insediamenti degli Ordini predicatori e mendicanti, accanto ai luoghi in cui abitavano le comunità e che restavano preclusi agli estranei, qualificandosi quindi pienamente come clausurae, vi fu la concezione completamente nuova dello spazio della chiesa, concepito come un luogo interamente aperto all’accesso dei fedeli. Vedi F. Marazzi, Le città dei monaci. Storia degli spazi che avvicinano a Dio. Jaca Book, Milano, 2015. 14 D. W. Winnicott, (1971), Gioco e realtà. Trad. it.. Armando, Roma, 1974.
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Introduzione alla nuova edizione perduta, di predisporre ambienti capaci di contenere questa indistinzione, e che richiedono setting specifici. Oppure di inventare spazi capaci di ospitare efficientemente i costrutti immaginari che non trovano alcun posto nel mondo: quei fantasmi che collochiamo solitamente in un inframondo, contenente i desideri, le paure, gli odi e i bisogni che riscontriamo nei nostri pazienti […]. Si crea così un ‘fuor-di-luogo’, uno spaesamento che è della psicosi, ma che è anche necessariamente il nostro spaesamento” (Petrella, 1993, pp. 657 e 659)15. Uno spaesamento che possa però preludere al ritrovamento di sé e del rapporto umano con gli altri, al riappaesamento nella vita quotidiana, alla possibilità di utilizzo funzionale di differenti registri comunicativi. Le considerazioni sui luoghi di cura e sulla loro architettura valgono ovviamente tanto per i pazienti, per i degenti, per gli utenti, per i cittadini che si ammalano, quanto per i medici, gli infermieri, gli operatori della salute tout court, non solo quella mentale. In un ambiente che riconosca anche le loro sofferenze e le loro condotte difensive e faciliti il loro affrontamento e la loro elaborazione, gli operatori della salute possono, se non evitare del tutto atteggiamenti e movimenti di difesa, almeno ripensarli riflessivamente e ridurre il ricorso alle distorsioni difensive più gravi, dove trovano terreno fertile cinici e assoluti sbarramenti comunicativi ed elevati e scarsamente elaborabili livelli di angoscia distruttiva che possono sfociare in fenomeni d violenza, ma anche di burn out istituzionale che, tra l’altro, sono disfunzionali e producono gravi danni in termini di efficienza e di efficacia all’intero sistema di cura. Il restauro e la conservazione del presepio e la sua collocazione in una struttura espositiva adeguata, che ne valorizzi la bellezza e l’originalità, potrebbero favorire una maggiore conoscenza della storia dell’assistenza psichiatrica e delle storie delle persone che hanno avuto la sventura di vivere e morire in manicomio, negli operatori sanitari, nei cittadini, ma soprattutto nelle nuove generazioni. 15 F. Petrella, Interno/esterno: Spazio vissuto e ambiente terapeutico. In F. Petrella, Turbamenti affettivi e alterazioni dell’esperienza. Cortina, Milano, 1993, pp. 650-659.
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Il presepio dei folli Questo libro, guardando al Presepio del Manicomio di Cogoleto da un vertice di osservazione psicoanalitico16, propone una riflessione approfondita sui rischi della neomanicomializzazione, cioè del misconoscimento anche oggi che i manicomi sono chiusi, dei bisogni psicologici profondi delle persone sofferenti attraverso la riproposizione, in termini apparentemente più modernamente sofisticati e quindi mistificanti, di pratiche di oggettivazione biologistica dei disturbi psichici. Scriveva Eugenio Gaburri17 (1994, p. 347): “L’istituzione, morta e sepolta dalla legge, è risorta come novella araba fenice, ostruendo […] lo sviluppo di quella relazione medico-paziente indispensabile per raggiungere l’essenza del dolore psichico, permettendo quella crescita mentale che le cicatrici psicotiche hanno ostacolato e che gli psicofarmaci non sono in grado di favorire”. È necessario contrastare pratiche e ideologie scientifiche che, sedotte da tentazioni biologistiche, facciano prevalere una terapia farmacologica, depurata da ogni intento relazionale e incapace di tenere conto delle esigenze esistenziali ed emotive dei pazienti, dei loro mondi interni, delle loro vicissitudini affettive. In un rinvigorito impeto descrittivo, assistiamo alla proposizione di sistemi di diagnosi delle malattie mentali ad alto tasso difensivo che classificando, distinguendo e separando, propongono un’arrogante e svalutante esposizione medicalistica dei sintomi e degli eventi correlati, a cui soltanto associare lo psicofarmaco ritenuto corretto. Non meno pericolosa è l’assolutizzazione acritica di pratiche psicoterapeutiche di stampo cognitivo-comportamentale che, sostanzialmente evitando il confronto con le angosce più profonde, i silenzi più incom16 Fra i miei scritti sul tema ricordo: a) Il cantiere delle idee. Le feste nell’ex Ospedale psichiatrico di Cogoleto. La Clessidra, Genova, 1998. b) Immagini della follia tra memoria e progetto. Saggio introduttivo in U. Lucas, Altri sguardi, T-scrivo, Roma, 2001, pp. 5-15. c) Fotografia e psichiatria. In U. Lucas (a cura di), Storia d’Italia, Annali 20 – L’immagine fotografica 19452000. Einaudi, Torino, 2004, pp. 459-476. d) Chiaroscuri. Sui rapporti tra fotografia e psichiatria. In S. Parmiggiani (a cura di), Il volto della follia. Cent’anni di immagini del dolore. Skira, Ginevra-Milano, 2005, pp. 33-48. 17 E. Gaburri. Piero Leonardi: uno psicoanalista nell’istituzione psichiatrica. Rivista di psicoanalisi, XL, 2, 1994, pp. 345-354.
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Introduzione alla nuova edizione prensibili, le parole apparentemente destituite di senso, allontanano dal difficile, faticoso, conflittuale, ma insostituibile contatto emotivo ed empatico con le donne e gli uomini sofferenti. La rianimazione istituzionale che, come psicoanalista, insieme all’équipe terapeutica da me condotta, ho cercato di attuare nell’Ospedale psichiatrico, è stata la prima operazione di affrontamento diretto della cronicità ed è consistita in un lavoro antientropico per contrastare la tendenza alla stasi, all’immobilità e all’indifferenziazione, proponendo figure quali il movimento, il ritmo, lo spazio e il tempo, che l’esperienza manicomiale aveva inesorabilmente coartato fino all’esaurimento. “Dare ai ricoverati un nome, ricostruire o costruire ex novo insieme una storia possibile, aiutarli a scandire i ritmi di una quotidianità non mortifera, a cui fosse possibile attribuire un senso, sono state operazioni complesse che hanno avuto bisogno di profonde conoscenze psicoanalitiche e del lavoro di gruppo, per non rischiare di scadere nel comportamentismo e nel pedagogismo” (Schinaia, 1998, p. 105)18. La funzione rianimativa può essere pienamente assolta se lo psicoanalista si pone come garante della simbolicità di tutte le operazioni riabilitative e della loro narrabilità. In una logica pedagogico-comportamentista, il paziente viene considerato come una persona a cui offrire occasioni che gli sono mancate nel corso della vita e a cui insegnare come svolgere funzioni – di tipo professionale, artigianale o artistico, di cui nel processo di cronicizzazione ha perso la conoscenza o la padronanza. Un approccio di questo tipo rischia di non tenere conto che l’insistenza sugli aspetti produttivi e socializzanti del paziente, se non calibrata e ritmata sui suoi tempi di elaborazione e di crescita mentale, possa alimentare la scissione, favorendo il rafforzamento del falso sé, adattato alle richieste del contesto, ma separato dal suo nucleo interno drammatico e sofferente, oppure svuotato e senza risorse. In secondo luogo poiché spesso il dramma di questi pazienti è costituito 18 C. Schinaia, Che cosa ci fa uno psicoanalista in un ex manicomio? A Piero Leonardi e Dario De Martis. In L. Pesce e P. F. Peloso (a cura di), 180 vent’anni dopo. La Redancia, Albisola Superiore (Sv), 1998, pp. 97-111.
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Il presepio dei folli dalla debolezza delle forze coesive del sé, è necessario che questo aspetto sia al centro dell’interesse terapeutico e non tanto le prestazioni in quanto tali (Correale, 1991)19. La funzione della riabilitazione è quella di aiutare il paziente a mettere in moto dentro di sé un processo creativo e non a rispondere a un vuoto che bisogna riempire o a un difetto che bisognerebbe riparare (Hochmann, 1992)20. La riabilitazione, pertanto, dovrebbe agire in quanto i pazienti vengono reinseriti in un circuito di interesse e di desiderio e ciò a onta delle istanze distruttive, che quasi sempre hanno caratterizzato il loro sviluppo, ostacolandolo o rendendolo altamente disarmonico (Petrella, 1993)21. La progettazione e l’allestimento del Presepio del Manicomio di Cogoleto e la sua successiva valorizzazione hanno avuto proprio questa funzione: rianimare la vita istituzionale comatosa e favorire processi di riappropriazione simbolica, attraverso la narrazione plastica dei vissuti di dolore e angoscia, ma anche e soprattutto dare consistenza e visibilità al desiderio e alla speranza delle donne e degli uomini ricoverati. La capacità narrativa e rappresentativa ha avuto modo di dispiegarsi in tutta la sua potenzialità terapeutica, permettendo il recupero di parti di sé congelate, rese aride, sconosciute o non riconosciute e la scoperta e la sperimentazione di movimenti propulsivi e di attitudini creative fino ad allora inimmaginabili.
19 A. Correale, Il campo istituzionale. Borla, Roma, 1991. 20 J. Hochmann, L’or et le cuivre, Entrevues, 4, 1982, pp. 3-18. 21 F. Petrella, Sulla riabilitazione in psichiatria. In Turbamenti affettivi e alterazioni dell’esperienza. Cortina, Milano, 1993, pp. 647-649.
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Presentazione di Fausto Petrella22
Il libro di Cosimo Schinaia è un’opera singolare, che finisce per costituire un genere letterario esso stesso un po’ altro e anomalo come il presepio che l’ha ispirato. Il libro va considerato come uno scritto per così dire sui generis, nel quale confluiscono una quantità di componenti eterogenee. Questa anomalia va considerata uno dei pregi dell’opera, ciò che ne determina la sua viva originalità. Ma è anche l’aspetto che può forse maggiormente giovarsi di qualche riflessione introduttiva che ne favorisca la lettura: una semplice introduzione al libro e non una sua normalizzazione entro qualche canone letterario consueto. Nello scrivere queste pagine introduttive, affettuosamente richiestemi dall’autore – psicoanalista, psichiatra e, in anni passati, allievo affezionato di Dario De Martis e mio a Pavia, e ora valente direttore dell’ ex Ospedale psichiatrico genovese di Cogoleto – sono stato nuovamente immesso nelle vicende e nei ricordi un po’ remoti della mia esperienza manicomiale. Sono memorie sempre vive e brucianti, anche per chi, come me, ha avuto la fortuna di potersi distogliere da un impegno diretto su queste realtà a partire da poco prima del 1978. L’esperienza del manicomio, per chi l’ha avuta (e io l’ho avuta per circa un decennio), credo possa assomigliare a quella del lager o del carcere. Molti medici, infermieri e pazienti hanno fatto giustamente questo paragone. Chi l’ha conosciuta, anche solo come psichiatra o infermiere, ne è restato durevolmente segnato in varie direzioni. Il problema è oggi come dare testimonianza di questa realtà, che sembra, soprattutto ai giovani che non l’hanno vissuta, così lontana, ma che è invece vicinissima e della 22 Psichiatra e psicoanalista. È stato Direttore della Clinica Psichiatrica della Facoltà di Medicina dell’Università di Pavia e Presidente della Società Psicoanalitica Italiana.
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Il presepio dei folli quale persistono residui variamente consistenti. Tutti gli psichiatri sanno che solo la morte degli interessati permetterà di non vedere più le tracce viventi e i segni di uno scempio che non mi sembra lecito venga dimenticato e negato. Non mi ritengo pessimista nell’usare queste sconsolate parole. Né d’altra parte mi è possibile assumere toni da colpo di spugna. Ho verificato spesso che oggi, per un’infinità di ragioni che sarebbe troppo lungo considerare, la testimonianza del reduce è comunque, per quanto commovente, sgradita a quasi tutti, che siano giovani rampanti che non vogliono sapere, o anziani ospedalieri più o meno compromessi con il passato, che non vogliono ricordare. Personalmente penso (ma si tratta più di modi di sentire che di pensieri) che nessuna nostalgia possa mitigare il ricordo sconvolgente di immagini, persone e situazioni sperimentate nell’Ospedale psichiatrico. Nel mio caso si trattava dei Manicomi di Cagliari e di Voghera, anziché di Genova, ma la sostanza non muta. I toni rievocativi di tipo nostalgico, con accenti lirici e intensificazioni patetiche e idealizzanti, sono presenti talora in testimoni medici pennifluenti che, in cronico contatto con la realtà manicomiale, credettero di riuscire a distillare dall’orrore preziose essenze umane, che sono per la verità rinvenibili in ogni contesto anche il più degradato. Personalmente non amo gli psichiatri-scrittori che esibiscono queste essenze, che mi ricordano la vecchia categoria della “falsa coscienza”. La scrittura, mezzo tipico della memoria che diventa documento, mi è sempre apparsa insufficiente e alquanto mistificante nel generare descrizioni veramente adeguate alla realtà manicomiale. Ho sempre avvertito che ogni “finzione” narrativa, per quanto sensibile e impegnata, tradisca facilmente il pathos dell’esperienza diretta, la vertigine dello spaesamento e l’orrore miserabile di questa umanità brulicante e estraniata entro le strutture mediche della malattia mentale. È difficile rappresentare nel suo significato di esperienza estrema l’emarginazione, questa parola abusata. La stessa parola poetica, con le sue immense possibilità espressive, non mi soddisfa, né tantomeno la meglio intenzionata rappresentazione filmica della follia nell’istituzione. Certamente vi sono XXX
Presentazione alcune eccezioni e forse posso sembrare troppo esigente e severo. Resta il fatto che il manicomio non ha ancora trovato il suo Primo Levi. Ci vorrebbe forse una combinazione tra lo sguardo estraniato di un valente antropologo che fosse anche un po’ folle, l’ardore dell’autore delle Memorie del sottosuolo, combinato con la lucida iperestesia di un Gadda per il grottesco e per la disarmonia polivoca del mondo. Chi scrive del manicomio, dando voce ai contrasti e alle aporie su cui si fonda, deve dunque fare quasi necessariamente un pastiche, un pasticcio, un “pasticciaccio brutto” per avvicinarsi al suo oggetto, accordando la verità sconvolgente di un’esperienza viva con la verità richiesta dalla scrittura, che sia essa scientifica o artistica poco importa. Schinaia, testimone appassionato e indignato, ma anche operoso addetto ai lavori del superamento dei manicomi, ha prodotto anch’egli un aspro pastiche o patch-work né, conoscendolo, avrebbe potuto impressionisticamente addolcirne i toni. Il suo libro è assai più che una testimonianza di una realtà clinica, assistenziale e umana passata e presente. È anche il documento che narra di una trasformazione storica e insieme è una critica alla prassi medico-sociale della violenza psichiatrica, armata tuttavia di considerazioni non solo etiche e umanitarie, ma tecniche. Si presenta infine, per una sua ordinata sistematicità, come una sorta di manuale e insieme di piccolo museo dell’orrore. Il Presepio di Cogoleto, opera ossimorica, tenera e stridente a un tempo, è servito a Schinaia da canovaccio, un canovaccio di cui il presepio stesso fornisce le indicazioni e le stazioni fondamentali. Il Presepio di Cogoleto fa cioè da struttura a tutto il discorso, cosicché il libro trova nel presepio ora la sua illustrazione, ora il suo pretesto, ora ciò che deve ricevere una risposta. Questo teatrino pio e popolare, talvolta rustico e povero, talvolta puerile e talvolta baroccamente sontuoso, fornisce a bambini e adulti lo spettacolo ingenuo e accattivante della natività di Gesù e dell’avvento del Dio bambino, con la sua famiglia, nel mondo umano. Il mistero cristiano dell’incarnazione di Dio viene ridotto nel presepio a proporzioni umane, ambientandolo in un paesaggio e in un habitat che è il pezzo forte di questo genere di narrazione mimetica. Troviamo qui illustrati molti degli XXXI
Il presepio dei folli ingredienti di un’esistenza rurale e paesana, i vari mestieri, le figurine immobilizzate nelle più varie attività, tra campagna, boschi, villaggi e alture. Tutto può essere osservato panoramicamente e nei dettagli dallo spettatore e non mancano i presepi semoventi più o meno aggraziati. Nei presepi Bambino e mondo appaiono ben ordinati e provvidenzialmente organizzati. Il Bambino ha attorno a sé un mondo naturale e sociale saldo e chiaramente formulato, mentre noi tutti sappiamo quanto lunga e perigliosa sia per ogni infante la sua costruzione e il suo inserimento nella vincolante realtà della società e della cultura. Ma nel presepio Dio e bambino coincidono, come esige la mirabile intuizione mitica del Cristianesimo e tutto, almeno all’inizio, va per il meglio. Potremmo immaginare di aggiornare il presepio, rendendolo attuale? Qualcuno l’avrà sicuramente fatto: sostituendo, per esempio, al paesaggio agreste tradizionale un ambiente moderno e metropolitano, con automobili, trenini, razzi spaziali, soldati con mitra e re magi in motocicletta. I pittori rinascimentali realizzavano questi anacronismi con la massima disinvoltura e la piena approvazione del pubblico; e così fanno anche oggi certi registi teatrali, cinematografici o d’opera lirica, quando, più o meno felicemente, rivestono d’abiti moderni divinità mitologiche e personaggi storici, forniscono i Romani conquistatori delle armi più recenti, ecc. Quest’operazione di aggiornamento è di rado artisticamente efficace, lo sappiamo, ma talvolta è efficacissima nel valorizzare il significato di un’opera remota, di Sofocle, di Shakespeare, o poniamo, di Händel, D’altra parte abbiamo avuto qualche uomo di teatro che ha organizzato la sua pièce mettendo in scena quel luogo antiscenico per eccellenza che è il manicomio: penso a Grotowski e alla sua azione teatrale con tipiche scene di manicomio ambientate a distanza ravvicinata dal pubblico, privato del comfort rassicurante del palcoscenico e ridotto alla posizione del paziente. Ma nessuno, credo, aveva mai pensato di ambientare la Sacra Famiglia del presepio, sostituendo al paesaggio agreste la struttura grifagna dell’asilo, con le sue celle, le stanze d’isolamento e quella per i medici, gli spazi per l’elettroshock, ecc. Pastori, contadinelli e artigiani sono rimpiazzati con medici, infermieri e pazienti, ciascuno impegnato nella sua parte. XXXII
Presentazione A Natale in molti manicomi italiani, come in molti reparti ospedalieri di medicina, sempre gli infermieri allestiscono alberi di Natale e presepi, come fanno in casa propria i genitori con i loro bambini. Non c’era niente di strano in questa iniziativa: non era il manicomio per molti degenti cronici la loro casa? Quei poveri allestimenti e addobbi festivi lo ricordavano impietosamente, pur essendo in definitiva un atto di simpatia e solidarietà. Ma il Presepio del Manicomio di Cogoleto è qualcosa di diverso e decisamente inedito. A idearlo e costruirlo hanno messo mano pazienti e infermieri, in un grande gioco al quale ha collaborato anche un artista di professione. Un presepio da conservare dunque, e da non disfare dopo la festa. Antropologicamente parlando, il presepio può essere considerato in realtà come l’espressione di una cultura e di un’arte che si pone agli antipodi del manicomio, questo non luogo, senza dei e senza opere, senza alcuna vera connessione comunicativa con quella cultura egemone di cui il presepio resta un amabile emblema. Il Presepio di Cogoleto rompe questa frattura e contrapposizione e realizza una sorta di coincidenza degli opposti, saldando, col suo gesto provocatorio, la Spaltung di una paranoia culturale fondatrice, che separa e contrappone valore e disvalore, sano e pazzo, mondo e non mondo. Il Presepio è questa rappresentazione unificatrice. Cristo si è forse fermato a Cogoleto. L’atto unificante potrebbe essere il gesto inaugurale di una nuova cultura impossibile, dove l’istituzione totale irrompe all’esterno, diventando una parte del mondo, anziché la sua segreta e nascosta contropartita. Questo accostamento di contrari che non possono coesistere è quasi inconcepibile se non all’interno del discorso dell’arte e viene in realtà tentato nelle pratiche riabilitative postmanicomiali odierne. Sul piano dell’arte si tratta di un accostamento sublime; sul piano sociale, a seconda dei punti di vista, può trattarsi del simbolo di una evangelizzazione del barbaro o di un attentato carnevalizzante al sacro. Ma resta soprattutto evidente un fatto: l’accostamento un po’ onirico del sacro con questo specifico aspetto profano, fa scattare nello spettatore la scintilla di una critica e di una riflessione; la stessa che ha presieduto alla creazione di questo accostamento, non si sa quanto irridente e quasi XXXIII
Il presepio dei folli profanante, quanto carico invece di una critica sociale generalizzata (il mondo di tutti è un misconosciuto manicomio collettivo). La presenza di Genova nel panorama farebbe escludere questa ultima intenzione espressiva e rappresenterebbe per lo spettatore una rassicurazione. Attorno a questa realizzata idea di un presepio psichiatrico, Schinaia ha organizzato un vero anti-manuale di psichiatria e insieme il racconto di una realtà clinica, di una forma mentis e di un sistema di vita: quello della psichiatria istituzionale, insieme allo sforzo di un suo oltrepassamento ideologico e pratico. L’ha scritto per ricordarci l’istituzionalizzazione della violenza in psichiatria e per denunciare ancora una volta, ma in una forma nuova, sia la possibilità che la scienza operi contro una follia inerme, sia le profonde ragioni per cui ciò che è accaduto nella storia della medicina moderna e potrebbe sempre, magari in nuove forme, ancora accadere.
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Introduzione La rappresentazione del manicomio così come si offre allo sguardo del visitatore del Presepio di Cogoleto risponde al principio informatore secondo il quale ci deve essere piena corrispondenza fra la realtà e la trasfigurazione artistica, per cui la successione dei quadri del presepio non solo non è arbitrariamente fantasiosa, ma riproduce l’organizzazione spaziale, la distribuzione funzionale e topologica delle diverse parti costitutive del manicomio con un notevole grado di precisione. In più il gioco delle luci e delle prospettive permette di accedere emotivamente al clima di atemporalità ed abbandono, che caratterizzava la vita all’interno dei reparti. Subito al di là del cancello, irrimediabilmente chiuso, c’erano le palazzine della direzione e dell’ispettorato, al cui interno erano ubicate anche la stanza dei medici, gli uffici amministrativi, la biblioteca e in parte gli appartamenti dei medici, che là dimoravano. Era la zona abitata e frequentata dalle persone deputate all’assistenza e all’amministrazione, con la sua vicinanza all’uscita, con la possibilità di fuga all’esterno, un esterno che nei momenti critici potesse confermare l’identità di curante e quindi normale, in opposizione a quella di curato e quindi diverso. Con la sua lontananza dai padiglioni di degenza, luoghi della sadica segregazione, da cui i medici cercavano il più possibile di tenersi a distanza di sicurezza. Quindi cominciava l’ampio territorio in cui i vari padiglioni di degenza erano disseminati, tutti invariabilmente chiusi e non comunicanti l’uno con l’altro. Ognuno di essi era dotato delle camerette per l’isolamento degli agitati o in ogni caso di coloro che arrecavano disturbo all’inumano ordine istituzionale, dell’anonimo e disadorno soggiorno, luogo di incomunicabilità invece che di socializzazione e della piazza, prolungamento all’esterno del soggiorno, spazio all’aperto rigorosamente recintato. Ognuno dei reparti aveva anche la stanza dell’elettroshock, intrisa di angoscia e di mistero, generalmente contigua alla sala medica, spesso in
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Il presepio dei folli posizione centrale all’interno del padiglione, una sorta di memento per tutti i degenti; le facce impaurite, le grida di dolore avrebbero avuto un valore di prevenzione e dissuasione contro ogni atto di disturbo dell’ordine manicomiale. Il reparto dei bambini e la vicina scuola erano separati dagli altri padiglioni per evitare il contatto con gli adulti e i rischi che i bambini potessero essere vittime di agiti aggressivi, ma presentavano le stesse caratteristiche di abbandono e di isolamento relazionale. Dopo il villaggio dei padiglioni cominciava l’estesa colonia agricola con i suoi campi coltivati, con gli olivi e gli alberi da frutto, con la porcilaia, gli animali da cortile e gli allevamenti bovini. In quest’area erano ubicate anche la falegnameria, l’officina, la lavanderia, gli ateliers, i luoghi del lavoro nella quasi totalità. La successione dei quadri del presepio segue l’idea architettonicamente e funzionalmente costitutiva del Manicomio di Cogoleto, che si differenzia dalla maggioranza degli altri manicomi per non avere né una struttura falansteriale, costituita cioè da un corpo centrale da cui partono una serie di bracci a raggiera, per cui basta essere in pochi al centro del complesso per controllare a vista tutti i bracci, né una struttura a cerchi concentrici, dove i reparti si dispongono come gironi infernali sempre più terribili, man mano che dalla periferia ci si avvicina al centro (per intenderci dal reparto osservazione al reparto agitati). Il cancello e il posto dei medici da un lato e l’esteso territorio della colonia agricola dall’altro segnano i confini del villaggio a padiglioni disseminati, confini non così evidenti come nelle altre strutture, anzi spesso camuffati e abbelliti da alte siepi, ma assolutamente invalicabili e al cui limitare trova spazio il cimitero nettamente diviso in due sezioni, uno per i cittadini di Cogoleto a cui i ricoverati del manicomio non possono avere accesso, uno per i folli, mestamente egualitario, con anonime croci tutte uguali, segnate da un numero, che il tempo invariabilmente provvede prima a sbiadire e poi a far scomparire del tutto. Le più importanti variazioni che gli artisti dilettanti, pazienti, infermieri, operai, medici, si sono concessi nella creazione del presepio sono XXXVI
Introduzione la Natività all’inizio del percorso del presepio, una Natività a grandezza naturale a ricordare il profondo significato emotivo-affettivo che i temi della nascita e dell’appartenenza rivestono per i ricoverati e alla fine del tragitto la grande veduta di Genova, che dal porto si inerpica sulle colline, affascinante nei colori tenui delle facciate dei suoi palazzi, espressione della speranza di un ritorno al luogo delle origini mai sopita, per quanto lungamente frustrata e rimossa. Se il tema del viaggio nel presepio tradizionale viene «inteso come percorso lineare verso una meta: la grotta dove si era verificato il misterioso incontro tra l’umano e il divino, tra la nostra finitezza e la promessa della nostra redenzione»23, il viaggio attraverso il Presepio di Cogoleto comincia proprio dalla Natività per poi addentrarsi nei meandri del labirinto manicomiale, svelarne gli errori e gli orrori, affrontarne la sottile fascinazione e finalmente giungere alla splendente città agognata, contenitore di tutte le speranze di emancipazione e socializzazione, una città dove diventi possibile la convivenza con gli altri uomini senza sociologistiche rimozioni delle differenze, ma anche senza rigide ed inumane separazioni. La costruzione dell’itinerario narrativo ha voluto il più possibile rispettare l’impianto realistico del presepio e dei suoi quadri e quindi l’originario percorso interno del Manicomio di Cogoleto, così come ha voluto sottolineare la possibilità di una luce alla fine di un lungo cammino inquietante e doloroso, un approdo possibile per il desiderio di libertà, per la speranza, comunque espressa o apparentemente inespressa. Per ogni quadro del presepio vi è un capitolo, una piccola autonoma monografia, che si costituisce come didascalia e si propone di descrivere gli aspetti storici, antropologici e psicoanalitici a cui la rappresentazione artistica rimanda. I quadri del presepio in questo modo non risultano fisse immagini del passato, ma cercano di trasmettere la sensazione del movimento, dell’evoluzione, della progettualità. Una certa discontinuità, che in alcuni punti diventa vera e propria arbitrarietà nella selezione e nella presentazione dei quadri è il prezzo da pagare per evitare il rischio 23 S. Riolfo Marengo, Prefazione a I Presepi di Liguria. Scheiwiller, Milano 1996.
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Il presepio dei folli che il volume diventi il catalogo di un museo e non uno strumento vivo, da utilizzare per conoscere la storia, ma anche per confrontarsi con opzioni, idee, progetti, calati nel conflittuale presente della psichiatria, nelle diverse ipotesi scientifiche in campo per lenire, curare la sofferenza mentale senza ricorrere all’istituzionalizzazione. E allora dopo avere tratteggiato la storia del Manicomio di Cogoleto dalle origini fino ai giorni nostri e avere descritto gli attuali progetti di un suo superamento e dopo avere ricordato la storia del presepio, del suo progetto e della sua realizzazione, si passa alla descrizione dei quadri più significativi. La rappresentazione della Natività permette di passare dall’illustrazione degli aspetti antropologici della nascita alle ipotesi psicoanalitiche sul vissuto e sul ricordo della nascita. Il quadro della Natività esprime tutto il bisogno di maternità, ma anche di paternità, di calore familiare che l’esperienza manicomiale tende brutalmente ad azzerare. Il cancello inesorabilmente chiuso, le camerette d’isolamento per gli agitati, il soggiorno del padiglione e la piazza sono le rappresentazioni della segregazione, dell’incomunicabilità, della sottrazione radicale delle dimensioni del tempo e dello spazio. La stanza dei medici si costituisce come l’emblema delle grossolane misure adottate dai curanti per difendersi non solo dalla condivisione, ma anche dal contatto con la sofferenza mentale: i camici bianchi hanno bisogno di riconoscersi uguali fra loro e diversi dai degenti, pena la messa in crisi di un’identità che potrebbe rivelarsi fragile e posticcia. La stanza dell’elettroshock è il luogo dove le difese dei curanti diventano apparentemente più sofisticate, sostanziandosi nell’esercizio di una tecnica che abolisce ogni contatto con l’Altro, che diventa vittima della prevaricazione e dell’arbitrio; essa però diventa anche l’occasione per una riflessione sulle radici storiche di uno strumento terapeutico ancora molto usato nel mondo e che, come vedremo, appare ancora sensato, almeno come extrema ratio, nel trattamento di alcune forme quali i gravissimi stati depressivi che non rispondono né alla farmacoterapia, né alla psicoterapia e per i quali è elevato il rischio suicidiario. XXXVIII
Introduzione I quadri del reparto dei bambini e della scuola permettono una riflessione sulla scarsa attenzione che la società ha dedicato ai bambini e, in particolare, ai bambini con grave handicap psicofisico, sui colpevoli ritardi assistenziali e più in generale sulla mancanza di una cultura che privilegi l’aiuto alla famiglia del bambino con problemi psichici di varia entità, piuttosto che il ricorso all’istituzionalizzazione. I molti quadri dedicati al lavoro danno l’opportunità di descrivere il passaggio dall’ergoterapia istituzionale con i suoi sottintesi ideologici di illiberalità e sfruttamento, alla riabilitazione psicosociale, con la costruzione di cooperative, con lo spazio concesso al cosiddetto privato sociale, per comporre una dimensione contemporaneamente terapeutica e sociale dell’attività lavorativa. Il quadro del cimitero diviso in due sezioni nettamente separate, una per i morti «normali» e una per i morti «folli» e il quadro del trasporto su un carretto della salma del ricoverato, che viene effettuato segretamente di notte per non disturbare la quotidianità delle relazioni all’esterno del manicomio e per non arrecare scandalo, ci avvertono della forza del pregiudizio, dell’intensità del timore del contagio, che la sofferenza mentale evoca. I quadri del paese di Cogoleto che finalmente al suo interno ricomprende la collina del manicomio e quello di Genova la Superba, bella, grande e lontana offrono l’occasione per alzare lo sguardo e puntarlo verso il futuro, verso gli ambiziosi e sostanziosi progetti terapeutici e riabilitativi che prevedono il superamento del manicomio. I progetti devono partire però dall’arricchimento della sostanza emotiva alla base del rapporto terapeutico; devono essere individualizzati e non massificanti per evitare pericolose e ideologiche fughe in avanti, razionalizzazioni sociologiche per aggirare il confronto con le angosce profonde che il paziente cronico comunica e mette dentro al curante, insieme al senso di aridità, di impotenza, di fallimento. Gli ospiti dell’ex Ospedale psichiatrico di Cogoleto hanno diritto ad essere risarciti con un futuro tanto dignitoso quanto realisticamente percorribile e provano a mostrarcelo proprio attraverso il loro presepio. XXXIX