Lo spettacolo della distruzione

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Marco Pacioni

LO SPETTACOLO

DELLA DISTRUZIONE Rovine, immagini, terrore Prefazione di Nelly Cappelli

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© Copyright Alpes Italia srl Via G. Romagnosi, 3 – 00196 Roma tel./fax 06-39738315 I edizione 2019 Foto di copertina di Alessandro Celani. Foto dell’autore di Vincenzo Elviretti. Marco Pacioni insegna nel programma USAC dell’Università della Tuscia (Viterbo) e a Cortona per l’University of Alberta (Canada). Collabora con il manifesto e Psiche. È autore di Neuroviventi. Politica del cervello e controllo dei corpi (Mimesis); co-autore del volume su Proust Dalla parte di Marcel (Clichy); Dante, Petrarca, Boccaccio e il paratesto (Edizioni dell’Ateneo); con Adriano Prosperi ha curato di Luca Della Robbia, La condanna a morte di Pietro Paolo Boscoli (Quodlibet); con Claudia Smigrod, Day of Judgment (University of Central Florida); di Michele Ranchetti, Poesie edite e inedite (Anterem). È inoltre autore dei libri di poesie Il bollettino dei mari alla radio (Aguaplano) e Lo sbarco salato del risveglio (Interno Poesia).

Parti riscritte di questo testo sono apparse su “Diacritica”, “Psiche” e sul catalogo “La forza delle rovine”. L’autore desidera ringraziare Silvia Piras, Rita Ruggeri, Rosella Pacioni, Annunziata Pacioni, Maurizio Balsamo, Maria Panetta, Marcello Barbanera, Fabio Benincasa, Stefano Mancini, Adriano Prosperi, Salvatore Settis.

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INDICE Resti perturbanti e distruttività - Prefazione di Nelly Cappelli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Il patrimonio della distruzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Archeologia della parte . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Occidentalismo e vittimismo. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Distruzione creativa e documentazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Annichilimento o re-esistenza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Lapidi e lapidazioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Catacresi e totemismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Gesto e parto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Di-visione e immaginazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . L’immagine iconoclasta . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . L’irruzione del terrore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Evenienza narcisistica dello spettacolo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

BIBLIOGRAFIA. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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a Mark Fisher in memoria


L’abile mano è legata allo sguardo; e lo sguardo, a sua volta, poggia sul gesto sospeso. Tra la sottile punta del pennello e l’acciaio dello sguardo lo spettacolo libererà il suo volume. Foucault, Le parole e le cose si sentono tutti quanti minacciati a causa del sacrilegio e si affrettano a eseguire personalmente la mancata punizione. […N]on di rado la punizione dà agli esecutori l’opportunità di commettere a loro volta, sotto il manto giustificativo dell’espiazione, la stessa azione sacrilega. Freud, Totem e tabù Dovunque sia il cadavere, lì si raduneranno gli avvoltoi. Vangelo secondo Matteo



RESTI PERTURBANTI E DISTRUTTIVITÀ Davanti alle immagini della distruzione del sito archeologico di Palmira, ad opera del Daesh, ero attonita. Ad agosto dello stesso anno (2015) giunse anche la notizia dell’uccisione di Khaled Asaad, direttore del sito archeologico. L’alternarsi delle sorti della guerra, ci portarono nuovamente, nel 2017, a essere spettatori di ancor più radicali devastazioni dell’antica Tadmor. Impressioni, pensieri, affetti contrastanti e intensi si affacciavano simultaneamente, producendo un senso di smarrimento. I droni della Difesa russa, oggetti in sé tutt’altro che rassicuranti, inviavano immagini di rovine, poi diffuse dai media. Al centro dell’attenzione erano però questi video, girati e messi in rete dagli stessi estremisti islamici che si volgevano in favore di telecamera mentre demolivano statue, bassorilievi, reperti, libri del Museo di Mosul, l’antica Ninive. Mi sorpresi mentre sfogliavo febbrilmente vecchi libri di storia dell’arte, in cerca di immagini di Palmira, la “Sposa del deserto”: forse il desiderio di preservare nella memoria le immagini delle vestigia “integre”, non oltraggiate, di ripristinare, almeno in fantasia, vita e bellezza là dove si voleva imporre la morte. Desideravo “riavvolgere il nastro”? Non ho mai visitato Palmira: perché mi addolorava tanto la sua devastazione? «Palmira era già “rovine”. Disabitata: da secoli nessuno pregava più nei templi, nessuno si affaccendava al mercato, o andava a teatro» mi dicevo, ma sapevo di banalizzare per consolarmi, e non mi serviva affatto. In quel periodo, anche sulla spinta degli attentati terroristici che avevano colpito il cuore dell’Europa, avvertii, forte, l’urgenza di interrogarmi sul fenomeno del terrorismo e sui cambiamenti che subisce il pensiero in tempi di guerra; e in effetti mi occupai di questi temi, con la redazione di Psiche. Diressi così la mia attenzione su un altro versante della riflessione e dell’impegno. Le immagini, o meglio, il significato di Palmira, devono essersi depositati nel preconscio, in attesa che qualcosa mi si chiarisse. Alcuni mesi dopo, Marco Pacioni mi chiese un parere sul libro che aveva appena scritto e che stava per pubblicare: Lo spettacolo della distruzione. Rovine, immagini, terrore. Scoprii, leggendo, un interlocutore che esplorava da studioso e in modo meditato le questioni che avevo lasciato in sospeso dentro di me, e molte altre.

Quando Petrarca visitò Roma, interpretò la grandezza delle sue rovine come segno della grandezza della città. Prima di allora, le rovine architettoniche evocavano principalmente scenari di guerra e di distruzione: gli antichi le vedevano come monito VII


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di quel che sarebbe potuto accadere a seguito degli attacchi nemici; i cristiani le guardavano come segno del proprio trionfo sul paganesimo. Il concetto stesso di spettacolo e di spettatore si è modificato nel corso del tempo. Ai giorni nostri, l’accento viene posto su ciò che è rimasto. A ciò che rimane, al resto, è dato valore di testimonianza. I resti sono vestigia (vestigia, investigare), segni, di ciò che è passato e che tuttavia permane in forme che sono trasformate dagli eventi e dal tempo. Ciò che resta ci permette di immaginare ciò che era: «La rovina non sta per, ma è la forza immaginativa e ricostruttiva del tutto» (Pacioni). In questo senso, il legame rappresentazionale tra ciò che era e ciò che rimane non è reciso, anzi, il legame e lo scarto (tra “là e allora” e “qui e ora”) sono generativi di significato: questo differenzia il resto dalle macerie. È in un tale contesto, o scenario, di “valorizzazione” delle rovine (riprenderò questo aspetto), che irrompono eventi traumatici che ne scuotono l’“assetto”: le immagini di distruzione dei siti archeologici, dei musei o anche altri di edifici architettonici che, a vario titolo, “ci rappresentavano” (siano essi i Buddha di Bamiyan, le Twin Towers, Palmira, o il Museo di Mosul). Le immagini hanno un potere mimetico; se le si esamina nella loro concretezza, nella loro materialità e singolarità, sfugge la differenza tra ciò che è “vero” e ciò che è “falso” (fake); tra ciò che è reale e ciò che è fictio (rappresentazione, messa in scena). Si aprirebbe una riflessione sul montaggio delle immagini (G. Didi-Hubermann, 2002, 2007) che non posso qui affrontare, ma che è ampiamente sviluppata nel volume da Pacioni. Vorrei solo soffermarmi su un aspetto, a margine della questione, forse un détour, una digressione, ma questo volume autorizza e anzi invoglia il lettore a girovagare “tra i pensieri” come il flâneur, e a tentare percorsi personali di comprensione. Se ci limitiamo all’evidenza, a ciò che è manifesto, non possono non colpirci le analogie tra i video girati dagli estremisti nell’atto di compiere la distruzione e alcune performance artistiche. È solo indagando la tessitura dei significati che potremo cogliere alcune differenze sostanziali. E anch’io dubito fortemente, come Pacioni, che queste differenze derivino, come molti sbrigativamente sentenziano, dall’appartenenza a «civiltà» diverse, inevitabilmente destinate a scontrarsi. Bene, a Firenze, qualche anno fa, ci fu una mostra di Athar Jaber intitolata: Where pain becomes beauty. Il giovane artista belga, di origine irachena e nato in Italia, lavora, con buona tecnica, il marmo. Crea sculture (con qualche suggestione neoclassica) che poi distrugge (le scaraventa a terra, le lega al paraurti dell’automobile, chiuse in una scatola di legno e le trascina lungo strade sterrate, o le frantuma con colpi d’arma da fuoco). L’opera è l’insieme di tutte queste operazioni; le performance sono incentrate sulla distruzione e documentate con video. In un’intervista, Jaber ricorda che, da piccolo, al ritorno da scuola, vedeva, in televisione, le immagini della guerra in Iraq e riconosce, a posteriori, il connubio di dolore e insieme di aspirazione al VIII


Prefazione

bello che lo muovono. Osserva che la scultura è un atto che comporta una certa dose di violenza: il martello picchia con forza lo scalpello che obbliga la pietra a una certa forma. Sostiene che ciò che lo ispira è il fatto che tutte le cose sono sottoposte ad entropia e dunque destinate a dissolversi: il suo lavoro non fa che rappresentare tale processo, accelerandolo. Ogni interpretazione sarebbe un’interpretazione selvaggia e me ne guardo... ciò che interessa è che vi è un pensiero, per quanto venato di concretezza; troviamo una serie di idee che reggono, giustificano o sottendono la performance. Questo viene colto, in qualche modo, dal fruitore. Banksy distrugge alcune opere per beffare e contestare la mercificazione dell’arte: intento che potrebbe stimolare più di una riflessione. Nella performance Rythm, (Napoli, 1974), Abramovich usò il proprio corpo come oggetto passibile di qualsiasi azione da parte del pubblico, anche di attacchi distruttivi. Intendeva creare, dichiarò poi, una sorta di luogo semionirico, a statuto speciale, in cui gli spettatori divenivano attori (coloro che agiscono), uno spazio che “rivelasse”, slatentizzasse, la natura “più autentica” dell’interazione. Anche quando l’opera d’arte consiste nella frammentazione o nell’effrazione dell’oggetto, c’è nell’artista la consapevolezza di usare la distruzione per costruire qualcosa. L’arte mostra, in genere, la tensione alla rappresentazione e comporta un certo grado di riconoscimento e di accettazione di questa tensione; è espressione di un’attività psichica complessa di legare, slegare e ri-legare che consiste nello stabilire legami nuovi tra contenuti psichici diversi, provenienti da aree psichiche diverse, e di porgerli in una forma particolare. Quando parlo di legame intendo Bindung, il rapporto psichico tra più termini collegati tra loro, come nel discorso associativo; un insieme che mantiene una certa coesione e ha dei limiti, dei confini (boundary); una certa quantità di energia psichica che resta legata e non può defluire liberamente producendo così l’inibizione della scarica dell’impulso (dell’“impulsività”). L’opera d’arte contiene un certo grado di simbolizzazione. L’etimo del vocabolo «simbolo» rinvia all’accostare, al mettere insieme e allude al segno di riconoscimento. Presso gli antichi Greci, il padrone di casa usava spezzare irregolarmente in due un oggetto, conservandone una parte e donando l’altra all’ospite, così che i discendenti delle due famiglie serbassero ciascuna un frammento come segno di legame e amicizia reciproca. I due frammenti, ricomposti, avrebbero permesso anche alle future generazioni il riconoscimento. Il ri-legame (come scrive Green) non potrà ricomporre un presunto intero, ma costituirà qualcosa di “nuovo” (o lo evocherà) perché contiene una componente inedita, dovuta al re-impasto psichico (affettivo, figurativo e rappresentazionale). (Nell’esempio che portavo prima, si potrebbero fare diverse congetture: una è che la mescolanza tra dolore e bellezza sia riconducibile all’elaborazione del ricordo infantile IX


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delle immagini di guerra nel “luogo d’origine” e la gioia di trovare la madre viva al ritorno da scuola, ecc.). Potranno così costituirsi, nella mente, nuove unità, suscettibili di ulteriori interpretazioni: un rilancio, potenzialmente infinito, che coinvolge, in modi diversi, artista e fruitore. Lo spettatore può sentirsi rapito, sedotto, turbato o disturbato, in relazione anche al maggiore o minore grado di elaborazione psichica che si sprigiona dall’opera. I video delle distruzioni perpetrate dal Daesh sono senza dubbio eseguiti con una certa padronanza tecnica. Più difficile è individuarvi questo impasto tra slegare, legare e ri-legare che è poi l’intergioco delle pulsioni di vita e delle pulsioni di morte. “Pietra”, “Luogo”, probabilmente anche “destinatario del messaggio” si appiattiscono l’uno sull’altro. L’assenza non è pensabile perché è satura di presenza di un oggetto persecutorio che deve essere distrutto (l’Occidente e i suoi valori). C’è l’intento di destare terrore e fare proseliti. Ritengo che, dal punto di vista psichico, vi sia un limite, per quanto frastagliato e suscettibile di mutamenti, tra un’attività di rappresentazione e di regolazione e, come dice Lacan, «il culto realistico della Cosa» che non conosce mediazione simbolica.

Anche quando il Daesh distrugge musei e siti archeologici, con lo scopo di annientare tracce di una cultura ritenuta empia, l’annientamento non è mai assoluto. Da un lato, osserva pragmaticamente Pacioni, alcuni frammenti di opere vengono venduti. Altri, troppo piccoli, vengono polverizzati. Allora, non resta nulla? L’oggetto in sé, nella sua concretezza, può essere sbriciolato; il mezzo attraverso il quale si vuole celebrare la distruzione, cioè il filmato, resta, è un documento riproducibile. Anche quando l’intenzione è l’annichilimento, viene sempre prodotto un resto. Per traslato, nella vita psichica, anche se in un certo senso si può dire che ciò che è perduto è perduto, lo si può rendere non avvenuto? Si annulla veramente ogni ripercussione della perdita? O i resti, benché spesso non evidenti, fanno parte anch’essi dell’ineluttabilità della perdita? Pacioni qui avvicina, e ne è consapevole, anche uno degli aspetti più interessanti della “questione del negativo” così com’è trattato in psicoanalisi, in particolare da Green. Quando Green parla di polisemia del negativo (Il lavoro del negativo, p. 28 e segg.) considera: un negativo che si definisce per opposizione al positivo; un negativo che si correla simmetricamente col positivo, semplice contrario di valore equivalente; un negativo legato a una cosa che non si manifesta ma che continua a esistere o come assenza o come latenza (tutto ciò che non è presente alla coscienza, può essere detto negativo, in tal senso); il negativo come niente, nulla. Questo negativo non è solo negativo perché rimanda a qualcosa che c’era e non c’è più (qualcosa che è morto), ma a qualcosa che non è mai giunto all’esistenza (non è nato). Il fatto è che, definendo qualcosa: “niente”, si fa esistere questo niente, che altrimenti sarebbe inconcepibile. X


Prefazione

Voler annientare, non voler lasciare tracce non può non evocare la “Soluzione finale del problema ebraico” ideata dai nazisti: anche su questo Pacioni si sofferma perché il suo discorso segue sempre più binari: storia, arte, politica, filosofia si intersecano. Spazia e approfondisce; ne deriva la creazione di una specie di spazio di pensabilità ricco, in cui ci sente a proprio agio e che sollecita fantasie, riflessioni, ripensamenti. Lo spettacolo della distruzione. Rovine, immagini, terrore porta a interrogarsi sulla perdita e la separazione; tema che, dal punto di vista delle dinamiche psichiche, può essere affrontato a partire da differenti atteggiamenti teorici. Certe «lacerazioni dell’Io» possono essere ricondotte a un rifiuto subito, a un abbandono, a una perdita, di solito precoce e senza ritorno, dell’oggetto, mettendo con ciò in risalto l’accidentalità degli eventi (che sortisce degli effetti). Si può anche, però, (e una cosa non esclude l’altra) evidenziare il fatto, che nella vita, non si può aggirare l’inevitabilità della perdita. Green parla di «destino dell’Io» (La morte dell’Io e i destini degli oggetti, Propedeutica, p. 288). La perdita dell’oggetto in rapporto all’Io rivela all’Io la propria morte… Neanche la soddisfazione può mai cancellare le tracce dei tentativi, delle prove, o semplicemente dell’attesa, che hanno preceduto la realizzazione. «C’è sempre un resto che non viene mai colmato dalla soddisfazione» (Green, 1995, Op. cit., p. 289). Lacan sostiene poi che das Ding, l’oggetto (inconscio) del desiderio, non è mai conforme a die Sache, ossia a ciò che alla fine si trova. C’è uno scarto, una differenza, un resto.

È proprio mettendo in evidenza l’idea di «resto», che Pacioni sviluppa la sua riflessione sulla pulsione di morte e la pulsione di distruzione. Forse non è superfluo evidenziare che la concettualizzazione freudiana della pulsione di morte, oltre a derivare dalla necessità di trovare una spiegazione a eventi clinici non riconducibili al principio di piacere, e ad essere legata agli eventi storici contigui alla sua formulazione e in qualche modo allo Zeitgeist, riprende con vigore quei fili logici che il giovane Freud aveva già tessuto a partire dal Progetto (1895), per esempio il tema dell’energia legata/slegata, a cui mi riferivo sopra. Se la pulsione di morte rappresenta la tendenza eminente di ogni essere vivente a tornare allo stato inorganico, la libido (Eros, pulsione di vita) deve cercare di mettere la pulsione di morte nella condizione di non nuocere e ottiene questo dirottandone gran parte dell’energia verso l’esterno; è allora che Freud parla di pulsione di distruzione e di volontà di potenza. Una parte della pulsione di distruzione può essere al servizio della funzione sessuale (sadismo); una parte che non viene esternalizzata resta nell’organismo e può essere libidicamente legata con l’aiuto dell’eccitamento concomitante (masochismo originario erogeno), come scrive Freud (Il problema economico del masochismo, 1924, O.S.F. 10, pp. 9, 10). La pulsione di morte è silente; in più, in quanto pulsione, si può cogliere solo attraverso i suoi derivati: il suo effetto più manifesto è la distruttività. La pulsione di distruzione può essere anche rivolta contro XI


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se stessi, mentre la pulsione di aggressione riguarda sempre l’esterno. Leggendo attentamente il saggio sulla Negazione (1925), citato anche da Pacioni (è il saggio in cui Freud collega la negazione al linguaggio) vediamo che la pulsione di distruzione ha tuttavia anche un effetto conservatore che contrasta l’azione della rimozione e mette fine alla «compulsione del principio di piacere», come osserva anche Green (Il lavoro del negativo, p. 39, corsivo nel testo). Sempre sulla falsariga di una sorta di dialogo a distanza con l’Autore, consideravo che, effettivamente, Freud insegna che gli esseri umani tendono a coprire (relegandoli nell’inconscio) i propri desideri di morte verso gli oggetti (uso il termine “oggetto” in senso psicoanalitico) “innalzando” gli stessi oggetti uccisi in fantasia elevandoli a una seconda vita, posta lontano. Vale a dire sacralizzandoli, facendoli diventare oggetti di culto. Il totem, in fondo, serve a incanalare l’energia pulsionale, è qualcosa verso cui indirizzare la carica che altrimenti ricadrebbe su di noi persecutoriamente diffusa dappertutto. Freud dà, del concetto di sacro, una lettura metapsicologica già nella Minuta N. (1897), quando ancora la “metapsicologia” non era che un suo vago intendimento, cogliendo la valenza sessuale: «il sacro si basa sul fatto che gli uomini hanno sacrificato, per il vantaggio di una più vasta comunità, una parte della loro libertà sessuale e di perversione» (O.S.F 2, p.66). La stessa definizione è mantenuta nelle opere successive, e sviluppata, in particolare, in Totem e tabù (1913), come ricorda Pacioni. Come alcuni vocaboli “primordiali” dai significati opposti, sacer significa sia “sacro” che “sacrilego”. Freud scrive che se i membri di una stessa famiglia formassero una comunità sessuale rimarrebbero permanentemente uniti e incapaci di legarsi a estranei. L’orrore dell’incesto (di qualcosa di empio) si basa proprio su questa rinuncia. «Quindi l’incesto è antisociale, e la civilizzazione consiste in questa progressiva rinuncia» (ibidem). Per mantenere in essere le forme sociali è necessario che il divieto sia, a poco a poco, interiorizzato, attraverso un’istanza psichica che detta regole e divieti: una formazione superegoica che contrasta e vieta gli istinti primordiali. Il compito precipuo della civiltà è difendere l’uomo dal caos del ritorno allo stato di natura. Per difendersi dalle forze della natura, l’uomo primitivo antropomorfizzò gli eventi naturali, fino a farli assurgere a divinità e a venerarli. (Questa reazione ha il suo prototipo nella prolungata Hilflosigkeit del bambino che, a causa della propria inermità, tende a considerare i genitori, e soprattutto il padre, come divinità onnipotenti, al tempo stesso amate e temute). Secondo Freud, quando l’uomo capisce di non potersi aspettare una protezione assoluta, di non poter essere al riparo dal dolore e dalle sciagure, deve costruirsi delle rappresentazioni religiose che gli rendano sopportabile l’esistenza e così crea una «Provvidenza benigna» che veglia sull’umanità. In questo modo può negare la morte, che diventa l’inizio della vita nell’aldilà. È noto che, per Freud, le rappresentazioni religiose sono illusioni che appagano i desideri XII


Prefazione

dell’uomo e lo rassicurano contro le sue paure ancestrali. Ma, poiché sono anche reminiscenze storiche, che recano traccia del passato arcaico dell’umanità sarebbe pericoloso togliere agli uomini questo mezzo di sostegno e conforto, «senza fornire loro qualcosa di meglio in cambio» (L’avvenire di un’illusione, O.S.F.10, 435-485). Anche alla luce di queste considerazioni, comprendiamo quanto, lo spettacolo della furia iconoclasta con la quale Palmira viene distrutta dal Daesh, ci renda smarriti di fronte alla violazione dei confini del “sacro”. Possiamo dunque ammettere la tendenza a sacralizzare i resti archeologici e le vestigia del passato, quasi come fossero reliquie. In questo senso Palmira è (era) un luogo sacro in quanto rappresenta le nostre origini, la nostra storia, gli dèi del nostro passato. Ma la sua distruzione non sarà mai la distruzione del processo che sopra ho descrritto, né dell’idea di “sacro”. Il “sacro” non può essere distrutto. Ancora ci troviamo a sottolineare che c’è sempre un resto. È semmai il perimetro, il limite del “sacro” ad essere attaccato con la volontà grandiosa di annientare ciò che l’insieme rappresenta. L’esibizione di tale distruzione è rivolta a noi perché la visione della perdita dei confini (del “sacro”) rigetti nella nostra mente tutto l’irrazionale che vi era contenuto in forma legata (re-ligione), sprofondandoci nello smarrimento di fronte all’imprevedibile, all’assenza del limite. In altre parole, ponendoci di fronte alla nostra follia.

Ci teniamo strette le nostre difese, tant’è che i siti archeologici sono più protetti delle popolazioni che vivono nelle città “nuove” edificate nelle zone limitrofe… Talvolta visitiamo i siti archeologici quasi come fossimo pellegrini (vedi p. 6: protezione totemica e reliquiaria); o, all’opposto, ci “cibiamo” di queste vedute, come turisti distratti, avidi, indistintamente, di monumenti e di vetrine. Si incorpora quello che si ama e lo si fa scomparire… D’altra parte, il fatto che monumenti e palazzi siano spesso costruiti con tecniche e materiali tali da resistere al tempo, progettati quindi per sopravviverci, può far vivere il loro crollo o la loro distruzione come sovvertimento di un ordine che abbiamo finito col percepire come “ordine naturale” delle cose. Mi si potrà opporre che non è così in tutte le culture: è vero che i monaci buddisti creano mandala per poi distruggerli, e che molti templi sono programmaticamente costruiti con materiali deperibili. Quando si deteriorano vengono riedificati altrove, come segno della vita che si rinnova. Però, uno dei cardini del buddismo è la metempsicosi (o metensomatosi)… è difficile in ogni caso, fare i conti con la finitudine. Pacioni, in questo testo, ci conduce ancor più avanti, mostrando come la documentazione della distruzione dei siti archeologici rafforzi o addirittura produca, la sacralizzazione di quegli stessi luoghi. In effetti, se rispondiamo al bisogno di distinguere il buono dal cattivo (pensiamo alla funzione di giudizio in senso metapsicologico: giudizio di attribuzione e giudizio XIII


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di esistenza) in modo regressivo, secondo una modalità infantile dicotomica, polarizzatrice, individuiamo “facilmente” nei distruttori i nostri nemici, e in noi, e nei luoghi in cui ci riconosciamo, gli oggetti buoni (sacrificati, ossia fatti sacri). Ci sentiamo dunque autorizzati a combattere il nemico a ogni costo, anche a costo dei nostri valori più alti, in difesa del Patrimonio dell’umanità. I vocaboli: costo, valori, patrimonio evocano sia l’espressione latina haec commune omnium bonum sunt (queste idee sono un bene di tutti), ma soprattutto rivelano la logica del profitto (come Settis, 2010, 2017, citato da Pacioni, sottolinea). Se ci disponiamo a ragionare in termini critici, si paleserà allora una fisiognomica politica (Pacioni) che vuole definire i tratti dei barbari, dei nemici da annientare, che incita a difendersi costruendo muri. Come affrontare, allora, questo stato di cose? Innanzitutto rinunciando a un intento semplificatore e unificatore, che, per creare un modello di comprensione univoco, trascura la molteplicità dei punti di vista senza preoccuparsi di articolarne le varie componenti. Del resto, l’apparato psichico si struttura secondo un’eterogeneità diacronica che mantiene rappresentazioni affetti e temporalità in uno stato di tensione e che esperienza e significazione sono concepite in funzione di una memoria attivamente trasformatrice inconscia.

Riprendendo alcuni concetti mutuati da Agamben (2005), Pacioni poi mette a confronto sacralizzazione e secolarizzazione. La profanazione neutralizza l’“oggetto” che profana, privandolo del suo potere e della sua aura; la secolarizzazione non neutralizza l’oggetto, semplicemente sposta il potere dall’ambito divino a quello temporale. La rovina può allora essere intesa come una secolarizzazione della reliquia. Cadremmo in un’aporia se vi fosse completa reversibilità tra secolarizzazione e sacralizzazione. I due concetti non si tramutano l’uno nell’altro senza scarti. Uno degli scarti che ci permettono di non cadere o nell’uno o nell’altro corno del problema è la profanazione, che equivale a un disinnesco. Per assonanza mi viene in mente che la psicoanalisi esiste perché il suo fondatore si concentrò su ciò che le altre psicologie avevano considerato come scarti, nel senso di temi di scarso rilievo, come i sogni e i lapsus. Trovo, nella prospettiva di Pacioni una profonda consonanza con l’idea, a me più familiare, che il movimento psichico di «slegame, legame, ri-legame» proceda per scarti, nel senso di scostamenti, differenze. All’estremo opposto dell’immagine replicabile all’infinito, dell’immagine dell’immagine, dell’immagine sacralizzata (in un processo considerato mimetico), si situa l’immagine della distruzione dell’immagine che, con un ossimoro, Pacioni definisce “immagine iconoclasta”: un’immagine definitiva, perentoria, mortifera, che preten-

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Prefazione

derebbe di cancellare la rappresentazione, e realizzare il vuoto di rappresentazione. È questo l’elemento terrifico, inconcepibile, che non può compiersi, terminarsi (perché ci sarà sempre un resto), ma può attuarsi (attraverso acting distruttivi). È la spinta possente verso l’al di là del principio di piacere… Alla luce di queste, e altre, considerazioni, leggiamo gli ultimi capitoli del libro, dedicati all’analisi del terrorismo suicida. Viene sostanzialmente accolta, ma rielaborata alla luce delle riflessioni sviluppate nei capitoli precedenti, la tesi di Benslama (Un furioso desiderio di sacrificio. Il supermusulmano, 2016). Sulla base delle osservazioni condotte sul campo tra giovani provenienti da famiglie islamiche e residenti nelle periferie delle città francesi, Benslama paragona il fondamentalismo islamico alla “sindrome autoimmune”. Analogamente a quanto accade a livello organico, in cui l’innesco è dato da un disordine del sistema immunitario che scambia per nemico ciò che non lo è e lo attacca, il soggetto individua come nemico ciò che è impuro e che è rappresentato eminentemente dalla moderna società occidentale, ritenuta causa del disagio nel quale egli versa. Recidendo il legame con la società e con tutto ciò che è impuro ed empio, il soggetto “crea” per sé una condizione “sacra”. Ma corollario del sacro è il sacrificio. Le difese alterate attaccano il nemico, incuranti della distinzione tra sé e altro da sé, distinzione sovrastata dalla contrapposizione tra sacro e impuro, che rivela un narcisismo patologico sotto il dominio della pulsione di distruzione. L’atto distruttivo ha bisogno di essere mostrato, di avere un pubblico, di «farsi sintomo».

Le citazioni colte, ricavate da più aree del sapere, aggiungeranno piacere alla lettura, infatti non sono mai un ornamento, ma fattore necessario per il procedere del ragionamento. Leggendo, si avverte la capacità particolare dell’Autore di raccordare utilmente da più aree del sapere spunti diversi ma con un comune denominatore. Questo fa sì che il discorso sia polisemico e “respiri”. Senza anticipare le considerazioni conclusive cui giunge Pacioni, dirò che mi sono sembrate un esempio di come può procedere il pensiero quando non è ostacolato da remore o pregiudizi.

Così, mentre leggevo, avvertivo che si rimettevano in movimento, come non avessero aspettato altro, le mie fantasie sull’antica Palmira. Ho potuto rielaborare e autoanalizzare significati profondi che avevo lasciato in disparte, apprezzando ancora di più le pagine di Freud sui suoi “tormentati” viaggi a Roma e all’Acropoli di Atene. … Si comprenderà se, per discrezione, interrompo qui il mio scritto. Nelly Cappelli Milano, gennaio 2019

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