RADAR
Dispositivo di progettazione creativa under 28 sulle rotte della Via Emilia
Pubblicazione a cura di Altre Velocità in collaborazione con ERT - Emilia-Romagna Teatro Fondazione. Coordinamento di redazione: Ilaria Cecchinato, Alex Giuzio, Vittoria Majorana, Damiano Pellegrino. Progetto realizzato nell’ambito del “Laboratorio avanzato di giornalismo culturale e narrazione transmediale”, con la partecipazione di Giulia Cesolari, Giulia Damiano, Ivana Damiano, Francesca Lombardi, Giulia Mento, Giulia Penta, Guendalina Piselli, Marta Renda. Per informazioni www.altrevelocita.it info@altrevelocita.it
il bando RADAR RADAR è un percorso di formazione, affiancamento e sostegno rivolto a giovani artisti dell’Emilia-Romagna, promosso da Emilia Romagna Teatro Fondazione. Il bando triennale è stato presentato a giugno 2018 ed era rivolto a compagnie e singoli artisti emergenti con età inferiore ai 28 anni e domiciliati in Emilia-Romagna. La giuria “Giovani sguardi”, di circa 35 membri, è stata formata in collaborazione con Avanguardie 20 30, Konsulta di Trasparenze Festival e Teatro dei Venti e gruppi under 28 che si sono costituiti per questa occasione a Cesena, Castelfranco Emilia e Vignola. L’intero percorso è stato monitorato da un gruppo di osservatori under 28 partecipanti al “Laboratorio avanzato di giornalismo culturale e narrazione transmediale” condotto da Altre Velocità.
prima fase | selezione | ottobre-novembre 2018 Spettacoli selezionati: • Appunti per un trasloco, di Giuseppe Attanasio, Carlo Guasconi, Massimo Scola, Marta Solari, Pablo Solari • Ciao mamma!, di TeatroEbasko (Simone Bevilacqua, Marzia D’Angeli, Martina Giampietri, Domenico Pizzulo • Le notti di Emilia, di Flavia Bakiu, Alessandra Beltrame, Nicolò Collivignarelli, Alice Gera, Nico Guerzoni • Lo stradone, di Lorenzo Carpinelli, Vladimiro De Felice, Iacopo Gardelli • Non era, di TeatroServiDisobbedienti (Federica Amatuccio, Francesca Bertolini, Margherita Kay Budillon, Manuela Davoli, Roberto Durso, Andrea Gianessi, Francesca Nardi) • Radar project, di Cecilia Lorenzetti, Cesare Ehr Nanni, Noemi Pellicciari, Francesco Zannuccoli • Rimini, di Leonardo Bianconi, Luisa Borini, Leo Merati, Giulia Quadrelli, Chiara Sarcona, Mario Scandale, Francesco Tozzi
seconda fase | progettazione | stagione 2018/2019 Gli artisti selezionati alla prima fase hanno trascorso due settimane in residenza a Villa Pini (Bologna) per progettare un primo esito dello spettacolo, compreso tra i 20 e i 30 minuti. I processi di residenza e di progettazione sono stati documentati dagli osservatori di Altre Velocità attraverso interviste video (disponibili su www.altrevelocita.it/speciale-radar) e articoli raccolti in una pubblicazione cartacea. Il 4 luglio 2019, gli artisti hanno presentato il loro lavoro al Teatro Bonci di Cesena. Al termine delle presentazioni, i componenti del gruppo di selezionatori, attraverso una votazione democratica a maggioranza semplice, hanno scelto e annunciato i tre spettacoli ammessi alla fase di laboratorio: • Le notti di Emilia, di Flavia Bakiu, Alessandra Beltrame, Nicolò Collivignarelli, Alice Gera, Nico Guerzoni • Lo stradone, di Lorenzo Carpinelli, Vladimiro De Felice, Iacopo Gardelli • Rimini, di Leonardo Bianconi, Luisa Borini, Leo Merati, Giulia Quadrelli, Chiara Sarcona, Mario Scandale, Francesco Tozzi
terza fase | vincitori | stagioni 2019/2020/2021 Gli artisti selezionati alla seconda fase hanno trascorso altre quattro settimane di residenza al Teatro delle Moline di Bologna, comprensive di tutoraggio tecnico e artistico (Marta Cuscunà per Le notti di Emilia, Lino Guanciale per Lo stradone, Enzo Vetrano per Rimini). Al termine di questo ulteriore periodo di residenza, che ha subito diverse interruzioni a causa della pandemia del Covid-19, gli artisti hanno presentato il 30 aprile 2021 al Teatro Arena del Sole di Bologna uno studio di circa 60 minuti. I tre studi finalisti sono stati valutati tramite video dal gruppo di selezionatori, che ha decretato come vincitore Le notti di Emilia di Flavia Bakiu, Alessandra Beltrame, Nicolò Collivignarelli, Alice Gera, Nico Guerzoni. Lo studio diventerà una produzione ERT nella stagione 2021/2022.
LE NOTTI DI EMILIA spettacolo vincitore del bando Radar
di Flavia Bakiu, Alessandra Beltrame, Nicolò Collivignarelli, Alice Gera, Nicole Guerzoni
scompaginare l’anima notturna della via Emilia di Ivana DAMIANO Quali presenze abitano la notte? Quali storie sotterranee conferiscono corpo e voce a una strada a cui piace cambiare a seconda delle condizioni di luce? Giochi di prestigio, strategie di dissolvenza e di sparizioni sembrano essere accaduti e stare accadendo sulla via Emilia, crocevia di incontri, di scambi, di merci e di passaggi, di cui gli attori Nico Guerzoni, Alice Gera, Flavia Bakiu e Nicolò Collivignarelli hanno tentato di esplorare le molteplicità di senso con il progetto Le notti di Emilia, proposto al bando Radar di Emilia Romagna Teatro. Compiendo quasi una moderna catabasi, portandosi al di là della dimensione accessibile del reale, gli attori hanno intrapreso una serie di attraversamenti notturni, operando come volon-
tari al fianco dell’associazione ViaLibera, impegnata nell’assistenza sociale e sanitaria in strada. L’incontro con quelle narrazioni incarnate, con quei corpi capaci di esercitare potere perfomativo sulla via Emilia capovolgendone la conformazione e le direttrici di significato, ha sollecitato i quattro attori a tentare di scompaginare il comune immaginario della prostituzione, ricucire lo strappo perbenista che smaterializza la legittimità di quei corpi, ripristinare le connessioni tra soggettività considerate fantasmiche e la cornice urbana in cui esse si muovono. Assieme a tracce di storie scomparse emerge la sostanza ossimorica del rapporto tra ombra e luce del mattino che, invece di illuminare, sottrae spessore a quei corpi che determinano l’anima notturna della stra-
da. Così tutto appare sovvertito: il buio permette di guardare, di (re-)esistere; il bagliore della luce acceca e mangia i contorni delle vite. Ed è proprio nella soglia di questo cambio di prospettiva che hanno agito gli attori, interrogando le proprie resistenze, decostruendo gli stereotipi ereditati, prediligendo come approccio di ricerca il corpo in movimento anziché il corpo narrato. Rifuggendo la pretesa di oggettivare la prostituzione e di realizzare personaggi circoscritti e fedeli alle biografie incontrate, la compagnia ha preferito restituire un ritratto meticciato di dettagli, il più affrescato e ampio possibile, sospendendo il giudizio e rimestando le acque che bagnano mondi differenti a cui sono riconducibili occhi e prospettive stratificate e anche drammatiche. Dalla condizione di tratta vissuta dalle prostitute provenienti dall’Est Europa, dalla Nigeria e dal Marocco, alla scelta della strada di transessuali e di travestiti: questo comparto multiforme e corale viene accolto in maniera caleidoscopica, declinato in scena attraverso una struttura drammaturgica perfomativa-coreografica che si sviluppa per quadri giustapposti in un susseguirsi di immagini, figure, movimenti e suoni rappresentanti l’anima notturna della via Emilia. In scena, momenti corali composti da gestualità reiterate e respiri affannati si alternano a parentesi solitarie in cui prendono forma racconti quotidiani di madri, mogli, lavoratrici, compagne. Ad accompagnare la paratattica narrazione ci sono delle incursioni video a fondo palco, in un gioco continuo tra ironia (come nel caso della proiezione del famoso e irriverente videogioco Gta), realtà (registrazioni originali dalla via Emilia) e soggettive live, ovvero riprese dal vivo mediante una telecamera sul palco che raccoglie i dettagli dei corpi, delle movenze e dei costumi, una sorta di una lente d’ingrandimento su dettagli che, aumentati, acquistano un valore simbolico capace di astrarsi dalle storie particolari per donare linfa vitale a una narrazione universale. Dichiarata infatti l’impossibilità etica di raccontare autenticamente l’essenza di queste storie, Le notti di Emilia si muove convulsamente sull’orizzonte dell’interdetto, dell’incompletezza suggestiva, della sospensione ibrida in cui tutti sono, interpretano e si confondono negli elementi scenici. Pur trascendendo il dato reale, si tenta di amplificare quello emotivo, umano, spesso censurato nella trattazione della prostituzione. A restituire il complesso contrasto fra
componenti apparentemente inconciliabili sono le incursioni musicali con cui il gruppo ha giocato: i brani scelti paiono generare cortocircuiti capaci di stordire lo spettatore e stemperare con sorpresa delicatezza le atmosfere più cupe, fino a sublimare l’atto sessuale col cliente. Le interazioni con i pochi oggetti di scena, inoltre, recuperano a tratti la dolcezza del tempo infantile, quasi a collocare quei corpi notturni come prosecuzione della stessa via Emilia. La cornice della strada si pone così come arena di gioco in cui forzare le visioni dei corpi desiderati e sfidati dalla voracità schiacciante degli occhi dei clienti. La struttura compositiva de Le notti di Emilia restituisce così temporalità confuse, compenetrate e polisemantiche come pure i giochi di sguardi e di prospettive, in cui tutto oscilla tra fantasia (erotica e non) e realtà, tra reticenza e spettacolarizzazione, tra chi guarda e chi è catturato da un sguardo. I punti di vista che abitano lo spettacolo si moltiplicano come cerchi concentrici, permettendo agli spettatori di ricomporre la scena attraverso più angolazioni possibili. L’ossessione dello sguardo moltiplicato si concretizza attraverso quell’intervento discreto a bordo scena, della camera che fa rimbalzare gli sguardi allineati dei clienti, dei papponi, degli spettatori-voyeur, di chi si avvicina famelicamente al dettaglio di quelle esperienze. I diversi linguaggi, da quello perfomativo a quello cinematografico, si intersecano per restituire il caos di quelle vite che in Le notti di Emilia si lasciano afferrare di sfuggita nell’eterno ritorno di una notte.
«La prostituzione, un universo curioso e denso di tragedie» di Vittoria MAJORANA e Marta RENDA Via delle Moline, un grigio pomeriggio di fine ottobre, un piccolo teatro per pochi spettatori. Entriamo in fila e ci sediamo distanziate indossando la mascherina. La sala è buia, sul palco una sedia, due attori, uno schermo luminoso sullo sfondo. Il resto della compagnia osserva: parlano, discutono, riflettono collettivamente, provano e riprovano la scena… Dopo una breve pausa caffè invertiamo i ruoli: noi sul palco, loro sulle poltrone. Inizia così la nostra chiacchierata con Alice Gera, Nico Guerzoni, Flavia Bankiu e Nicolò Collivignarelli attorno al progetto Le notti di Emilia e alla ripresa delle residenze del bando Radar dopo la lunga interruzione dovuta alla pandemia.
elementi che potevano essere messi in sequenza e diventare le nostre partiture fisiche. Inoltre, in questa seconda fase uno spazio importante lo hanno acquisito i contributi video di Alessandra Beltrami: nello spettacolo sono infatti previsti sia video registrati e montati precedentemente, sia riprese in diretta riprodotte in monocanale sullo schermo in scena. Queste ultime in particolare costituiscono dei veri e propri quadri viventi che contribuiscono a restituire lo spettro delle sensazioni che vogliamo trasmettere. Colori accesi, brillantini, paillettes, videogiochi, corpi spogliati, bocche, labbra: tutto questo materiale viene utilizzato per meglio raffigurare l’affresco così ricco di sfumature che vogliamo rappresentare».
Come si è sviluppato il lavoro di creazione dello spettacolo Le notti di Emilia, dalla prima fase del bando Radar a oggi? Alice: «Una volta scelta la prostituzione sulla Via Emilia come tema per il progetto, per conoscere dal vivo questo mondo e incontrare personalmente chi lo abita abbiamo deciso di contattare ViaLibera, un’associazione apolitica e aconfessionale che si occupa di portare assistenza e supporto alle ragazze in strada. Impegnandoci a collaborare con loro oltre il temine del nostro progetto, abbiamo iniziato ad accompagnare altre volontarie nelle uscite notturne: questo è stato il materiale di partenza e il nostro primo contatto diretto con la prostituzione sulla Via Emilia. A Villa Pini, all’inizio della prima residenza, abbiamo lavorato molto sulle improvvisazioni, dalle quali sono nate delle vere e proprie immagini, basate perlopiù su ciò che ci aveva colpito dell’esperienza vissuta in strada da volontari». Nicolò: «Nella prima restituzione, per esempio, per rappresentare la scena di una prostituta che attira un cliente ballando avevamo preso ispirazione dalla danza della seduzione degli Uccelli del Paradiso. In generale lavorare sulle movenze degli animali ci ha permesso di trasformare gesti che possono sembrare banali in vere e proprie piccole coreografie. Claudia Russo, che è il nostro occhio esterno, ci ha aiutato a individuare degli
Come raccontare un universo complesso come quello della prostituzione e come ancorarlo al territorio bolognese, alla Via Emilia? Flavia: «È difficile narrare uno scenario così vario e ricco di elementi. Di solito quando si parla del mondo della prostituzione si scivola sempre nel drammatico, nel pietismo. Poi quando entri a contatto con le ragazze scopri che, pur essendo un universo denso di tragedie, è anche un luogo curioso, colorato, fatto di normalità e di tante diverse sfaccettature. Abbiamo lavorato molto sulle immagini nel tentativo di restituire questi aspetti così diversificati, senza per forza doverli raccontare. Vogliamo regalarli, lanciarli al pubblico. Lo spettacolo vorrebbe essere una sorta di affresco di questo mondo, senza nessun tipo di giudizio». Alice: «Tutti questi mondi accadono sulla Via Emilia. Ti ritrovi lì, in un posto preciso: è una via commerciale e storica. Nello spettacolo si sente la voce della presidente dell’associazione ViaLibera, Aurelia, la quale - nel descrivere i cambiamenti che la Via Emilia ha comportato nella società soprattutto a livello economico - afferma che non esiste un solo centimetro dell’Emilia-Romagna che non sia sfruttato al meglio. Si parla dunque di mercato e di commercio, e all’interno di questo rientrano anche le ragazze. Si può comprare anche quella intimità lì. È qualcosa che tuttora ci fa pensare molto».
Il coronavirus e il lockdown hanno influenzato il vostro lavoro? È cambiato anche l’approccio alla materia? Flavia: «Sì, in diversi modi. Oltre al rallentamento dei lavori, abbiamo dovuto ripensare diverse scene che prevedevano il contatto fisico. In più abbiamo notato come questa situazione pandemica abbia spostato la prostituzione dalla strada alle case o sul web. Nelle nostre ultime uscite abbiamo incontrato molte meno ragazze e anche il mondo della clientela è cambiato rispetto all’inizio». Nicolò: «Nello spettacolo abbiamo infatti deciso di raccontare sia la realtà delle web-community dove gli uomini si incontrano per scambiarsi informazioni sulle prostitute, sia l’immaginario che essi costruiscono intorno a queste donne usando immagini e percezioni sempre diverse: oggetti, figure angeliche o materne, meretrici specializzate in una certa tecnica, macchine da prestazioni più o meno economiche». C’è un intento politico nel vostro lavoro? Alice: «Non vogliamo fare teatro sociale, anche se potremmo aprire un enorme dibattito sul fatto che il teatro è sempre sociale e politico.
Abbiamo fatto una ricerca per conoscere ciò di cui vogliamo parlare, ma il materiale che prendiamo lo trattiamo in maniera artistica. Esiste questa realtà, noi non ne sapevamo nulla ma ci si è spalancata davanti ed è quella che vogliamo condividere. Sono sensazioni, colori, fatti per noi inaspettati. Non vogliamo dare nessun giudizio né sulle ragazze, né sui clienti né sui protettori. Questo è ciò che abbiamo visto e vorremmo restituirlo così. Del resto le stesse ragazze non sanno che stiamo lavorando a questo progetto, soltanto l’associazione ne è al corrente. Noi le abbiamo conosciute in veste di volontari: quando eravamo lì abbiamo svolto un ruolo preciso e loro erano sul posto di lavoro. Parlare di questo progetto in strada era un rischio ed è ancora una situazione delicata. Cerchiamo di avere il massimo rispetto dei racconti che ci hanno regalato spontaneamente in strada durante i nostri incontri. Tuttavia, ogni volta che proponiamo qualcosa sulla scena ci chiediamo: se venisse una di loro, questa azione andrebbe bene? Quale diritto abbiamo di mostrarla? Fino a dove possiamo spingerci con la rappresentazione?».
Emilia. Note a margine
di Giulia CESOLARI, Ivana DAMIANO e Marta RENDA «Caro Luciano, io credo che bisogna chiedersi cosa è luce e cosa è ombra, per non lasciare le cose da sole nella loro disgrazia»
- Gianni Celati, Condizioni di luce sulla via Emilia
Per non lasciare le cose da sole nella loro disgrazia, bisogna osservarle con l’occhio dell’aquila e non della iena. Cos’è la “disfazione” della luce se non una miopia dell’occhio che guarda da troppo vicino? Come mettersi il collirio da soli: avvicinare troppo un corpo esterno alle ciglia fa chiudere l’occhio. È fisiologico. Davanti all’immobilità di cui parla Menini, il dipintore d'insegne di Gianni Celati, c'è una vita che scorre sdraiata senza che nessuno possa saperlo. A tratti può rivelarcisi alle 5:30 del matti-
no, mentre si mangia una pizza nodosa sotto un lampione in Zona Roveri a Bologna; a tratti ci si rivela fissando il sole in pieno inverno, in un bus che sa di altre vite o di cose perdute. Certe cose e certe albe vanno lasciate là dove le si vedono, senza volerle salvare dalla propria apparente fissità. Ci sono serate in cui ci si confondono gli occhi, le braccia, le parole e se fissiamo troppo le luci bianche e rosa inafferrabili della Via Emilia, all'alba in macchina, ci diciamo «attenzione, qua rischiamo di bruciarci», Icari infelici. Bologna è la cosa più atroce che ci siamo fatti capitare, tenerezza ferma al distributore di benzina che sorride, cammina avanti e indietro e ci fissa; creatura e titano. Cammina: avanti, indietro. Resiste a se stessa. Rimane.
Qual è il tuo rapporto con la strada? cittadini
La bella stagione è un problema. Le prostitute sono davanti agli occhi di tutti, indecorose e inspiegabili ai bambini. Se devono esistere che almeno non siano visibili. Una cena al ristorante non può essere compromessa.
prostitute
La strada è il mio posto di lavoro, il mio ufficio. Non siamo libere. Siamo persone che subiscono una tratta. Siamo controllate dai nostri fidanzati, papponi, dalle nostre maman. Non siamo libere ma ci guadagnamo qualcosa da vivere. Ci chiamiamo sister ma non siamo sorelle. Non di sangue almeno. Siamo sorelle di disgrazia.
volontari delle unità di strada
La strada è il luogo dell'incontro con le ragazze, il punto di contatto tra i nostri mondi. È il modo per arrivare a loro e per fornire assistenza con la consegna di un numero di telefono per esigenze sanitarie, preservativi, lubrificanti.
i clienti (che poi sono cittadini)
È il luogo del perverso, del piacere, dell'illecito, del feticistico, dell'angelico.
ragazzi (anch'essi cittadini nonché futuri possibili clienti)
A volte quando torniamo in macchina ubriachi dalla discoteca e vediamo le puttane per strada ci divertiamo ad abbassare il finestrino e a lanciare loro addosso sacchetti di merda e piscio.
«Se po' morì affogata pe' 40.000 lire?» si domandava Cabiria mentre, sulla musica di Nino Rota, danzava e spalancava il mondo con uno sguardo. È una prostituta, «una che fa la vita», urlano i ragazzini della periferia romana. Come la Cabiria di Fellini, anche Emilia, la Via Emilia, è una capace di cogliere dei fiori colorati per se stessa e accompagnare tale gesto con un cadeau d'amore per il proprio ballo solitario. Malgrado la vita, i titani della Via Emilia resistono e danzano un mambo di lotta, a ricordare che no, non se po' mai morì affogati pe' 40.000 lire. Quante rose, quante bocche quante bocche di rosa, quante rose imboccate. La strada è un prato nero d’asfalto, di carne i fiori che lo abitano. L’arteria dell’Emilia pulsa tutte le notti, battito dopo battito. Corpi che battono il ritmo del marciapiede per freddo, per noia, per spegnere una sigaretta, per una danza d’accoppiamento. Altri corpi battono il terreno, a caccia. Battono i nodi di membra per coglierne i frutti. Chi possiede chi, nel buio, nelle stelle interrotte dai lam-
pioni, nell’asfalto crepato. Chi possiede chi? Chi ha i soldi, il corpo, l’illusione? Tutto si scambia, tutto veste di forme di sogno, di sonno, di fame. Chi cercate quaggiù? La via, la verità, la vita. Che poi, “quaggiù” geograficamente cos’è? Quali sono le coordinate per raggiungere questo buco nero, questo magma infuocato al centro della Terra? Quaggiù la città è capovolta, squaderna occasioni di perdizione. Si spoglia della luce modesta che bagna le strade principali, rivelandosi selvaggio underground metropolitano dove fameliche si fanno le viscere della terra, dei desideri repressi. Quaggiù i rettilinei tangenziali, sinuosi serpenti a sonagli, attraversano la notte e ne fanno teatro del possibile stregonesco, dove le contraddizioni si abbracciano e convivono impunemente. Quaggiù, dove l’assoggettamento si annida anche negli angoli più esposti, la libertà d’espressione rivendicata si fa pratica emancipata. Presenze notturne aleggiano clandestine e plasmano lo spazio pubblico, rimescolano i sogni e le seduzioni inconfessabili di una città dormiente, di braci ignorate. Quaggiù assomiglia al fondo liquoroso della bottiglia in cantina, al pantano dalle acque torbide e infestate, a voluttuose voci di sirene reiette, custodi di macerie che appartengono agli abitanti della superficie. Quaggiù è un coro di corpi poliedrici e sfuggenti che parlano d’altro, transitivi e predicativi. Quaggiù è il molo di traghettatrici che con un guizzo marino restituiscono il riflesso rigettato della città che quotidianamente attraversiamo, una metropoli-ade che raccoglie solitudine, ossessione erotica, immobilità arida e senza tempo. Quaggiù è la via d’accesso impervia che collega la città “reale” alla propria parte inconscia. In mezzo sta la Via Emilia: un luogo di attraversamento, di tutela e di scambio, di chiari e di scuri, di una vitalità permanente anche quando esausta. Forse, per compenetrare luce e ombra, basterebbe davvero osservare le cose per quello che sono. C'è una lacrima nera che sembra un diamante, sul viso di Cabiria. Un pendente come a voler dire «mi sono entrati pezzi di vita nell'occhio ma ci vedo ancora». C'è una lacrima nera anche sul viso di Emilia: somma di tutti i colori che uno sguardo aperto sull'alba può collezionare il margine della strada è refrattario, il cuore è un margine refrattario. Finiscono così, Le notti di Emilia. Col sorriso, proprio come quelle di Cabiria: con una sigaretta in bocca, voglia di ballare un mambo solitario e mangiare un buon sugo col piatto nel letto.
RIMINI
di Leonardo Bianconi, Luisa Borini, Leo Merati, Giulia Quadrelli, Chiara Sarcona, Mario Scandale, Francesco Tozzi spettacolo finalista al bando Radar
alla fine c’è sempre qualcuno che applaude di Alex GIUZIO Il fratino è un piccolo uccello che nidifica lungo le zone costiere e depone le uova direttamente sulla sabbia. La sua specie è in via di estinzione a causa dell’antropizzazione delle spiagge: l’invadente presenza dell’uomo, la pulizia meccanica degli arenili e la progressiva riduzione dei litorali non urbanizzati stanno provocando la scomparsa di questi piccoli volatili. Eppure lo scorso anno, durante il duro lockdown che ci ha costretti tutti chiusi in casa per quasi due mesi, i pochi fratini superstiti in Italia hanno notato – s’immagina con una certa incredulità – chilometri e chilometri di spiagge deserte, che li hanno spinti a tornare a nidificare sulle spiagge romagnole. Avvistati dagli ambientalisti appena usciti di casa, i nidi di fratino sono stati prontamente
transennati per proteggerli dall’invasione dei turisti nel frattempo riversatisi in riviera, bramosi di tornare a fare il bagno e prendere il sole dopo tante settimane di costrizioni. E così, nell’estate 2020 a Rimini si poteva ammirare un esemplare di questo piccolo volatile fermo a covare sulla sabbia, protetto da un gabbiotto di metallo e circondato a pochi metri di distanza da centinaia di corpi stesi immobili sui lettini unti di crema solare. Davanti a questa immagine proiettata durante Rimini, spettacolo finalista al bando Radar di Emilia Romagna Teatro (con Leonardo Bianconi, Luisa Borini, Leo Merati, Giulia Quadrelli e Chiara Sarcona, regia di Mario Scandale, aiuto-drammaturgia di Francesco Tozzi), la prima
cosa che viene da pensare è che quando la realtà di un luogo riesce a superare la fantasia, diventa molto difficile rappresentarlo attraverso la finzione teatrale. Soprattutto se questo luogo è appunto la città di Rimini, metropoli balneare ricca di fascino e di contraddizioni, dove possono convivere giovani alla ricerca di sballo e famiglie desiderose di tranquillità, ombrelloni ordinati come filari di viti e masse di persone danzanti e drogate in discoteca; dove non si dorme mai e la vacanza sembra un’unica lunga giornata. Eppure Rimini ci prova con ambizione, prendendo spunto dall’omonimo romanzo di Pier Vittorio Tondelli – l’unico riuscito a restituire una narrazione poetica dignitosa di questo marasma – e allo stesso tempo andando oltre come occorreva fare, poiché ciò che lo scrittore di Correggio ha figurato della riviera romagnola è nel frattempo tristemente diventato storia. Lo spettacolo inizia con l’espediente di un regista (Leo Merati) che il 1° giugno 2019 parte da Bologna con la sua auto per raggiungere Rimini con l’intento di raccontarne l’essenza, i suoi universi più o meno nascosti e la sua evoluzione da città distrutta durante la seconda guerra mondiale a capitale internazionale del turismo: lo farà intervistando chi questa città la vive e la anima, restituendocene cartoline e racconti e sempre restando in disparte, seduto alla scrivania in un angolo della scena, senza farsi travolgere dalle tentazioni frivole che continuamente gli vengono proposte. «Rimini è la città con il numero più elevato di palestre per abitanti», dice il regista, e «non è mai stata conosciuta per esportare merci, bensì per importare persone». In questa località, proprio qui e non altrove, milioni di turisti si riversano per praticare l’aquagym, la baby dance, l’aperitivo, le notti in discoteca, la tintarella. Nel frattempo gli attori sul palco ci disegnano le immagini della città: saltellano sulla sabbia che scotta, stanno stesi per ore con buffe smorfie sui ruvidi lettini, ballano in riva al mare componendo coreografie che evocano le foto aeree di Olivo Barberi in Adriatic sea (staged) dancing people, passano le giornate tra i locali notturni come il Prince e i parchi di divertimento come Italia in miniatura o Fiabilandia. Poco importa se sono fuori città, perché Rimini è in realtà solo il simbolo di un’intera riviera lunga cento chilometri senza interruzioni, una megalopoli sul mare dove «il divertimento è una cosa seria», un valore da consumare. «Qui devi solo pagare il
biglietto, a renderti unico ci pensiamo noi», dice il vitellone romagnolo (Leonardo Bianconi); per questo «bisogna sempre stare allegri, anche quando soffia la burrasca» afferma la proprietaria del Bagno La Praia (Giulia Quadrelli): una finzione insomma, in cui i turisti stanno al gioco accontentandosi del mare maleodorante e brodoso compensato dai servizi come la cassaforte attaccata all’ombrellone o la cabina-nursery per cambiare il pannolino ai bebé. D’altronde è per questo che i forestieri tornano qui ogni anno: «Li abbiamo visti nascere, crescere e invecchiare, facciamo parte della loro vita», dice la bagnina romagnola con orgoglio, mentre in sottofondo passano canzoni folkloristiche come Rimini Rimini Rimini di Raoul Casadei o Spiagge di Fiorello. Oltre questa superficie si nascondono però tanti lati oscuri: dal sottotesto emerge che il reale intento con cui i titolari di alberghi, pensioni, campeggi e stabilimenti balneari accolgono e coccolano quasi ossessivamente i loro ospiti non è il piacere di svolgere un servizio bensì quello di guadagnare più soldi possibili. È solo per questo che la titolare dell’Hotel Luna festeggia i compleanni di tutti i suoi ospiti, che «non li lasciamo mai soli, questi poveri clienti». Ancora, ci sono la vanità e l’ossessione per i selfie che hanno incancrenito la nostra società (rappresentate da Chiara Sarcona nei panni di una vocalist all’ossessiva ricerca di followers: «È come stare in vetrina, sei sempre su un piedistallo»), gli incidenti mortali del sabato sera e l’eccesso di droghe sintetiche (raccontato dal vitellone impersonato da Bianconi, corteggiatore e animatore di serate di perdizione), lo sfruttamento dei lavoratori (Luisa Borini, dipendente stagionale che inizialmente sembra felice e divertita dei ritmi frenetici a cui è sottoposta, ma poi con voce tremante fa emergere la stanchezza e la rassegnazione a essere sottopagata e privata del giorno libero: «Devi accettarlo, se vuoi lavorare qui»). Tutto ciò va a comporre uno scenario surreale, quasi irrappresentabile: «Rimini è come una cartolina, facile da fotografare ma difficile da raccontare», afferma rassegnato il regista incompreso dagli altri personaggi, la figura più tondelliana dello spettacolo: lui non si vuole divertire mentre gli altri sullo sfondo ballano, vuole raccontare la poesia rappresentata dai personaggi con cui dialoga mentre gli altri sono ignari e disinteressati a tutto ciò che va oltre la superficie.
Il regista però nel finale ammette che il suo tentativo di restituirci tutto il materiale raccolto durante il suo soggiorno è fallito, incarnando così l’impossibilità di interpretare la riviera romagnola. Una dichiarazione esplicita che potrebbe apparire come un’auto-giustificazione per proteggersi dal proprio fiasco, ma forse è proprio questo l’unico modo per attraversare una realtà così complessa senza avere la pretesa di capirla: rappresentarla senza analizzarla. Raccontare la riviera romagnola significa infatti raccontare un pezzo d’Italia, quello dei costumi della società, del turismo di massa e del divertimento in quanto valore superficiale ma dominante. E il fatto che a compiere questa scelta tematica sia una compagnia di trentenni è significativo dell’attrazione quasi perturbante che ancora oggi proviene dalla riviera, mutata dai tempi di Tondelli ma ancora inalterata nelle sue contraddizioni. Di Tondelli, peraltro, durante lo spettacolo si leggono alcuni suggestivi brani («Rimini è una galassia dove convivono euforia e solitudi-
ne») e con Tondelli soprattutto si fa un riuscito parallelismo nel finale dello spettacolo, quando l’apocalisse che caratterizza la fine dell’omonimo romanzo, con la città a fuoco e fiamme a causa della schizofrenica paura dell’imminente fine del mondo diffusa da un santone, viene traslata nella pandemia del Covid-19 che ha realmente messo in discussione il modello turistico romagnolo. Il regista dello spettacolo torna infatti a Rimini a settembre 2020, ascoltando la bagnina dire che «sembra incredibile, ma anche questa estate è passata», sconvolta dalla pandemia e desiderosa per la prima volta nella sua vita di vendere lo stabilimento balneare. Eppure Rimini sopravviverà anche a questo: perché l’immagine che ci resta di questa città, evocata sul finale dal regista, è quella di «una canzone in playback fuori sync, al termine della quale c’è sempre comunque qualcuno che applaude».
dalle spiagge incantate all’apocalisse di un’Italia in miniatura di Giulia MENTO
Rimini non è il romanzo più bello di Pier Vittorio Tondelli e nemmeno il più conosciuto, ma è stato l’ispirazione di Leonardo Bianconi, Luisa Borini, Leo Merati, Giulia Quadrelli, Chiara Sarcona, Mario Scandale e Francesco Tozzi per costruire il loro spettacolo concorrente al progetto Radar, che porta lo stesso nome del romanzo. «La parola Rimini in quasi tutti fa risuonare qualcosa: dire Rimini e dire Pavia non è la stessa cosa» ci ricorda Giulia, attrice del gruppo. Per tanti italiani Rimini rappresenta il mare, le discoteche, i primi amori sulla spiaggia, le balere, il parco dei divertimenti di Fiabilandia. Chiunque almeno una volta avrà visto quelle lunghe distese di ombrelloni nelle immense spiagge romagnole,
avrà sentito il loro accento inconfondibile, avrà sognato di essere immerso nella movida estiva. Insomma, Rimini si può definire un’Italia in miniatura, nome di un altro parco tematico presente nella città romagnola. Un contenitore che nella stagione estiva si riempie di famiglie e turisti provenienti da tutto il mondo, feste in spiaggia, serate danzanti, eventi e notti di sballo, per poi riposarsi d’inverno, la stagione preferita dei ragazzi residenti intervistati dagli attori. Una città che attira e fa parlare di sé, pronta ad adattarsi e reinventarsi, distante dalla Rimini raccontata da Tondelli nel romanzo. «Del libro di Tondelli nel progetto dello spettacolo è rimasto lo spirito» dice Francesco, assistente alla drammaturgia, «ossia questo reportage creativo che ha fatto sulla riviera con il pretesto di raccontare delle storie che si incrociano». Viene eliminato il giallo del romanzo,
viene eliminato quel senso di fiction, ma rimangono i personaggi fortemente caratterizzati dagli attori, con le loro storie sotto i riflettori. C’è Giulia che interpreta la bagnina Marzia, alle prese con i suoi affari e le sue vicende; Chiara che è la bella influencer, malata di selfie e di social; Luisa la ragazza proveniente dal centro Italia che da cinque anni lavora a Rimini per la stagione estiva; e Leonardo che interpreta l’uomo della notte, imprenditore, festaiolo e discotecaro, che anima il gruppo e ci racconta l’evoluzione della città attraverso le droghe. Personaggi che appartengono alla realtà vissuta dagli attori nelle loro numerose incursioni nella città di Rimini per raccogliere interviste e materiali tra il 2018 e il 2021, anni di costruzione ed evoluzione del progetto (come specificato nel sottotitolo dello spettacolo), segnati anche dalla pandemia del Covid-19. Racconta Francesco: «È stato strano tornare a Rimini un anno dopo il primo lockdown e vedere quanto era forte il luogo stesso, nel guidarti a tornare continuamente per aggiornare il materiale raccolto. Un po’ come il film Synecdoche, New York, dove c’è il regista che per riprodurre la realtà nella maniera più esatta possibile ci passa tutta la vita. Anche noi abbiamo provato a cercare una conclusione in questa realtà gigantesca, che chissà quando è iniziata e chissà quando finirà». È in questo periodo di chiusura forzata e di riflessione che è venuta sempre più a galla l’idea dell’apocalisse, immaginaria nell'opera tondelliana ma tremendamente reale e sentita nell’attualità: un’idea onnipresente nello spettacolo, che fa capolino piano piano per poi irrompere violentemente nel finale. A tenere le fila di questa enorme realtà portata in scena dagli attori è Leo Merati, voce interna ed esterna dello spettacolo, che potremmo paragonare al Marco Bauer del romanzo di Tondelli. Le sue immagini, girate nel parco tematico Italia in miniatura, a Fiabilandia e in altre diverse zone della città di Rimini, accompagnano e avvolgono buona parte dello spettacolo. E se all’inizio vediamo spiagge piene di famiglie e ragazzi a prendere il sole sui lettini, mano a mano la musica e la voglia di fare festa si sgretolano fino a spezzare definitivamente il trenino, lasciando gli attori come dei pesci fuor d’acqua o, per richiamare uno dei suoi video, come un fratino imprigionato dentro una gabbia a covare le sue uova in mezzo a una spiaggia piena di turisti. «Considerando che la nostra domanda di apertura della primissima bozza di progetto chiedeva
“Chi sono i superstiti dell’apocalisse di Vittorio Tondelli?”, è stata una stranissima coincidenza che il lavoro sia stato spaccato a metà da un’apocalisse reale come quella del Covid-19», racconta sempre Giulia. «Era un evento troppo particolare per ignorarlo, soprattutto in un testo che è un’osservazione di vita. L’apocalisse immaginata da Tondelli è totalmente diversa ed è sicuramente frutto della sua osservazione degli anni ottanta. Noi ci siamo ispirati a questa frase del romanzo, riportata anche da un cartello sulla spiaggia in cui c’è scritto “L’apocalisse vista dal mare. 5000 lire per tutta la notte per vedere la fine del mondo”. Questa idea è dentro a tutto, e il come i nostri personaggi vi reagiscono sono frutto di una rielaborazione di quello che noi abbiamo sentito dagli intervistati tornando all’inizio e alla fine dell’estate scorsa». È così che sotto quella patinatura costituita da vita da sballo, voglia di eterna giovinezza e mondo delle favole in cui è possibile avere qualunque cosa si voglia senza preoccupazioni, emergono tutte le debolezze e le falle dei rapporti umani e dell’economia romagnola. Un’economia (come ci fa ben capire Luisa nell'interpretare la precaria dipendente stagionale) basata sull’accoglienza per sfruttamento, pronta a buttarti via nel momento in cui non risulti più utile per il guadagno. Un sistema in cui volenti o nolenti siamo tutti ingabbiati, turisti e lavoratori, allo stesso modo del fratino che vediamo nelle immagini di Leo Merati. Nell’apocalisse esce violenta la solitudine, sempre presente nella vita dei romagnoli alla fine di ogni stagione estiva, ma che in questo caso pesa ancor di più, presentandosi insieme alla paura che nel futuro nulla sarà più come prima, nell’incertezza del domani che vede perfino vacillare la solida bagnina Marzia. Questa confusione, questo disorientamento vengono spiegati da Leonardo Bianconi nel finale. Accompagnati da un senso di abbacchiamento e di letargo, misto a quel “tenere botta” tipico dei romagnoli, Bianconi si chiede se questa sia stata l’unica apocalisse avvenuta oppure se sia solo l’ultima delle tante precedenti. Riusciranno le persone a reagire, come fecero nel caso della mucillagine dell’89? Siamo sicuri che anche questa volta i personaggi sapranno adattarsi, oppure è veramente arrivato il momento dell’apocalisse auspicata dal santone nel romanzo di Tondelli? A queste domande i nostri personaggi non sanno rispondere, e anche il regista Mario Scandale dice candidamente di non essere in grado di
farlo: «Mi piacerebbe aspettare l’avvenire della prossima estate per vedere come andranno le cose». I nostri attori tornano nel mondo delle fiabe iniziale, sullo sfondo dell’ingresso del parco di Fiabilandia. Ma sulla tenera narrazione di Biancaneve, invece del lieto fine troviamo i personaggi che si eliminano a vicenda a suon di colpi di
mitra. Arriva così l’apocalisse: quella definitiva, destinata a far cadere questa realtà architettata sul nulla nel buio. Buio che cala violento anche sul palcoscenico, e che nonostante le musiche e le numerose parentesi umoristiche in uno spettacolo tecnicamente perfetto, lasciano lo spettatore con molte domande aperte, e con un senso di nostalgia e amarezza in bocca.
essere tristi a Rimini è come 1 essere brutti a Parigi di Giulia PENTA
Alla geografia letteraria della riviera romagnola ci aveva già pensato un gigante come Pier Vittorio Tondelli con l’antologia Riccione e la riviera vent’anni dopo (1985-2005), dove il paesaggio balneare del fuori stagione è paragonato a «una discoteca vuota, poco prima che inizi la serata»2. L’immaginario della riviera è prima di tutto architettura, un panorama futuribile ed estremo. Qui, molto più che altrove, le città sono simulacri. Sempre Tondelli scriveva «ma il paesaggio è così artificiale, poiché l’impressione è che qui non solo abbiano portato la sabbia, ma addirittura ingabbiato il mare e il cielo in certe prospettive pop da cartolina illustrata»3. Rimini per grandi e piccini, Rimini afrodisiaca, Rimini come Hollywood, come Sodoma e Gomorra – che fosse aspirazione o realtà, poco importa. Altra faccenda è invece che cosa credeva di fare Pierino Brunelli, l’imperatore della Magnaromagna, andando di porta in porta, o meglio di albergo in albergo, per vendere CAF-MUS: un concime organico di nostra propria produzione. Chi viene dalla megalopoli rivierasca conoscerà questo mito(mane) degli anni ‘90 dal sapore fascista. Doppelganger mussoliniano, possedeva un suo canale privato, la “tv imperiale universale”, e volantini ora digitalizzati in prezioso materiale d’archivio, come uno in cui capeggia “Satana si è manifestato a Mercatino Conca”. Aveva ragione Moravia a fare lo snob tenendosi alla larga da questi lidi così politicamente invisi e a preferire le acque di Capri, o una bellezza
c’è, in questa Cinecittà idroterapica? Terra anarchica e socialista fin dai tempi del Risorgimento, la Romagna è una cartografia di rovine frutto delle contraddizioni politiche che l’hanno trasformata. Sì, perché la riviera non è sempre stata costellata da hotel, pensioni e spiagge del cuore. Durante il Ventennio oltre duecentoquaranta colonie marine fungevano da riformatori minorili, sponsorizzati alle famiglie dalla Federazione dei Fasci come una sorta di “summer camp” della FederTerme. Oggi molte di queste colonie somigliano più a relitti delle terre emerse, altre sono al centro di progetti di rigenerazione urbana, come l’ex Colonia Bolognese, dal 2015 in mano all’associazione culturale Il Palloncino Rosso. Mentre Rimini veniva attraversata dalla linea gotica, «italiani patiti della necrofilia sfilano in auto davanti a Villa Mussolini, santificano [...] l’uomo che si cambiava nella cabina circondata da carabinieri [...] e faceva il bagno sorvegliato dalla moglie orgogliosa di avere un marito con le braccia sporche di rossetto»4. L’ascesa del nazismo poi portò molte famiglie della borghesia tedesca in villeggiatura sull’Adriatico: lo racconta Giorgio Falco nel suo romanzo La gemella H (Einaudi 2014) dove i componenti della famiglia Hinner, originari della cittadina immaginaria di Bockburg, si muovono sulla via Emilia passando per Rimini, Riccione, Cesenatico, Cervia per approdare a Milano Marittima dove «la natura è docile, addomes-ticata al godimento privato, all’utilizzo guidato da uomini per altri uomini, [...] villini liberty [...] a volte
trasformati in castelletti neogotici con torrette dànno al luogo intero una sensazione infantile [...]: è la fruizione della bellezza su misura: abbiamo bisogno di questo»5. Nonostante il turismo della Ricostruzione si dicesse volenteroso, per chi aveva vissuto la guerra l’accento tedesco tra gli ombrelloni doveva fare lo stesso effetto di certi déjà-vu dove il paesaggio che si ha di fronte stride contro quello della memoria. Ma la bellezza di questa Storia sta tutta qui: «Finire il dopoguerra con il mare, i bomboloni dell’inizio di giornata, discutere di soldi sotto l’ombrellone, le onde sono fatte apposta per noi, i corpi abbandonati al sole, immobili»6. Se negli anni ’50 il modello era quello americano della West Coast, del divertimentificio alla Las Vegas, la generazione degli anni ’80 già constatava che il mito dolceamaro della provincia felliniana non esisteva più: «Per noi esiste solo la metropoli balneare, Los Angeles di cartapesta tirata su a forza di cambiali, estesa da Gabicce fino a Cesenatico e Cervia!»7. Dopo Tondelli nessuna descrizione di Rimini ha resistito al passare degli anni – prendete il romanzo Bassa marea di Enrico Franceschini, uscito nel 2019 per Rizzoli: ogni capitolo ha una sua music track, un omaggio alla scrittura tondelliana che sa piuttosto di offerta votiva. Impossibile raccontare Rimini dopo Tondelli? Eppure. I libri più recenti che scelgono come set per le loro storie la riviera adriatica rivalutano il fuori stagione, o sono noir o guide organizzate per punti o sono scritti in maniera impressionistica. Questo perché lo scenario riminese è un perfetto non-luogo, un gigantesco mindfulness coloring book dove ambientare le proprie traversie senza correre il rischio di diventare scrittori di romanzi psicologici. Un po’ come l’applicazione della foglia d’oro sullo sfondo dei dipinti medievali. Si scrive perché la riviera si rivela a posteriori, bisogna darle tempo, il tempo che la pioggia ci mette a ridurre in poltiglia gli annunci pubblicitari e la spiaggia in un deserto scuro. Non tutte le coste lasciano spazio al grottesco, a farlo sono solo le spiagge destinate alla società del benessere che quasi ci invita a immortalare questi tripudi dell’acquagym. Se siete interessati al tema ma non vi ci siete mai addentrati, procuratevi il numero di “Bellissimo Zine” dedicato a Ostia, una fanzine nata nel 2019 dall’idea dei fotografi Paolo Zerbini e Ivan Ruberto che «vuole trovare il fascino in ciò che non è affatto esclusivo, ma non per questo meno attraente». L’obiettivo è comunque sempre a metà tra l’indagine socio-antropologica e la satira. Non mancano i progetti che invece accarezzano la poesia degli anni ‘70/‘80 delle estati adriatiche, come la serie di fotografie scattate da Claude Nori, ora raccolte
nell’album Un’estate con te edito da Postcart. Tornando al romanzo, fa parlare di sé Fedeltà (Premio Strega Giovani 2019) del riminese Marco Missiroli, che alla fine di quest’anno diventerà serie tv. Missiroli sceglie di far muovere i suoi personaggi tra Milano e Rimini, vasi comunicanti che sul finire degli anni ‘60 fecero incontrare anche Dino Buzzati e Federico Fellini. Il sogno era quello di ricavare una pellicola da un racconto di Buzzati che Fellini lesse nel 1938 su “Omnibus” con il titolo Lo strano viaggio di Domenico Molo (poi Il sacrilegio). Il sogno di Fellini rimase tale, quello di Missiroli è passato nelle mani di Netflix. Ancora, sulla scia dell’immaginario felliniano c’è la quadrilogia noir edita da Solferino di Gino Vignali9, milanese d’origine e riminese per scelta (solito ritornello), che però si smarca dal mito della stagione unica e restituisce all’immaginario anche quella autunnale di quando i turisti ritornano alle loro vite cittadine lasciando alle proprie spalle un paesaggio da sanificare. Meno recente, del 2001, un altro giallo ambientato a Rimini è Laura da Rimini (Einaudi) di Carlo Lucarelli: qui a fare da chiacchiericcio di sottofondo non è solo la riviera, ma IL Meeting. Insomma, alla riviera non è congeniale la forma romanzo nella sua accezione moderna. Si disgrega, sfugge dalle dita come un pugno di sabbia troppo stretto. In riviera la narrativa ha bisogno di limiti, di punti ciechi, di misteri irrisolti e di una badilata di autoironia. Il luogo dove più ci sembra di assistere a un perpetuo display senza remore, dove il giorno si alterna alla notte senza zone d’ombra intermedie, brulica invece di contraddizioni e nascondimenti. È nei posti di villeggiatura che le persone si rivelano per quello che sono: in vacanza le persone hanno la guardia abbassata, nella loro nudità si sentono a casa propria, si sentono al sicuro, la pelle non rivela lo status. Della riviera si può dire tutto e niente. Dall’immaginario degli anni ’80, con le sue luci e i club che la rendevano la capitale della notte, alle ultime produzioni di una Netflix goes local (Summertime, Sotto il sole di Riccione, L’incredibile storia dell’Isola delle Rose, SanPa), Rimini, la California della piccola-media borghesia italiana, è cambiata senza però riuscire a togliere la polvere dai simboli che la raccontavano. Quando tutto perisce, la firma Vanzina riesce a sfuggire a questo assoluto universale. Ma di questi film ci rimarrà forse poco, perché i colori artificiali di queste produzioni Netflix sono sempre uguali, così che non si distingue una serie ambientata nel 2019 da una nel 1968. Sembra che in riviera possano vivere solo gli antipodi, i teenagers in preda ai caldi spiriti o i vecchi che “slumano” da lontano, come scriveva Tondelli.
Alle spiagge disseminate di corpi proteiformi che ricordano certi dipinti di Bosch fa da contraltare la storia delle colline da cui il mare è solo un orizzonte. Fino agli anni ‘90 la storia delle discoteche della riviera è stata una storia di cultura, di scambi oltreoceano dove la gente arrivava da tutta Italia per sentire in anteprima le ultime release inglesi e americane. Un volantino dell’allora Baia degli Angeli di Gabicce annuncia «la musica che sentirai anche nelle altre discoteche (fra 12 mesi)»10. Perché prima della scena house, i dj illuminati dell’underground e della new wave importavano qui capolavori per cui le serate in discoteca diventavano scambio culturale, scoperta e ricerca. Adesso invece che anche l’impero del Cocoricò è caduto, ci si è ridotti ad accettare locali che scimmiottano il modello discoteca e si adattano al turismo del fine settimana, unendo cibo e musica (da sottofondo) e organizzando serate in spiaggia che non hanno nulla del concept del clubbing. La parabola della club culture romagnola è tutta racchiusa nella recente capitolazione del Cocoricò, che invece di accettare la propria morte ha deciso di automuseificarsi in MUDI (MUseo DIscocratico), il primo museo mai realizzato in Italia all’interno di un club, peraltro cercando sostegno attraverso una piattaforma di crowdfunding. Insomma, anche la Piramide ha finito per cedere all’ultima frontiera chiacchieratissima del mercato artistico online, gli NFTs. Persino quella che era stata la staffetta del post punk e del rock negli anni dello Slego di Viserba, una volta raggiunte le sale del Velvet Club sui colli riminesi, nel 2016 si è trasformata in un fascio di spine senza rose – da storica venue d’avanguardia a birrificio, il Baldoria Brewpub. Alcuni dicono che la riviera è rimasta sempre uguale, e che sono i turisti a essere cambiati. Altri affermano con un sorriso compiaciuto che, a parte il mare, c’è tutto. I romagnoli hanno battuto terreni vergini per riuscire a vivere di turismo con un mare che non sa generare invidie. Qui le città sono avamposti balneari che sfruttano e si rallegrano del proprio paradosso. Il buon cibo non manca, e se volete un elenco di eventi a metà tra la sagra e la fiaba, date una scorsa a
Baràca! di Cristiano Cavina. Del resto l’Italia è un paese che profuma di sugo al pomodoro, di minestroni e di abbracci morbidi di mamme bellissime. Occhieggia come le prostitute di cui non si può fare a meno di parlare quando si racconta delle località balneari dell’Adriatico – qui il turismo sessuale è quasi folklore, i ragazzini sghignazzano e gli adulti non spiegano, cambiano strada per poi forse ritornarci. Sono le ventiquattro e io e Laura passeggiamo sul lungomare di Rimini. Salutiamo puttane austriache in body luccicanti e negre grasse e fiorate dalle labbra giganti e il culo enorme che battono in gruppo ridendo. Qualche pappa controlla il traffico rintanato in supercar con non so quante valvole. I turisti rivieraschi guardano schifati questo mercato tutto sesso in offerta tre per due, mentre file di macchine piene di maschi affamati di sporche maniere aspettano il loro turno11. Anche nei libri ambientati qui, sono quasi sempre di donne i corpi a essere riportati a riva con la mareggiata. Stefano Tura ha pubblicato quest’anno il suo primo romanzo, un thriller ambientato nella Rimini degli anni ‘90 che racconta di un killer di cubiste – s’intitola Il killer delle ballerine. Lèvati rana un giorno, guardiana dei relitti, con un soffio del piccolo petto freddo, rifà il deserto12. Diverse volte mi sono chiesta perché qualcuno abbia coniato la frase “vita da spiaggia” e non “vita da montagna”, “vita da campagna”, vita da. Forse perché nelle località balneari l’immaginario lo fanno la metratura delle spiagge, i centimetri che dividono il lettino del tedesco da quello del milanese e tutti quei lost in translation che stanno nel mezzo. Una volta arrivati a casa le conchiglie che si raccolgono a riva non ci piacciono più. Ecco, quando si nasce in riviera o ci si è affezionati, funziona un po’ allo stesso modo.
1. Intervista a Marco Missiroli, 26 febbraio 2021, https://youtu.be/-5G7tWm5TVI 2. Pier Vittorio Tondelli, Un weekend postmoderno. Cronache dagli anni Ottanta, Bompiani, Milano, 2015, pag. 94 3. Pier Vittorio Tondelli, Riccione e la riviera vent’anni dopo (1985-2005), Guaraldi editore, 2005, pag. 11 4. Giorgio Falco, La gemella H, Einaudi, Torino, 2014, pag. 191 5. ibid., pag. 193 6. ibid., pag. 199 7. Pier Vittorio Tondelli, Riccione e la riviera vent’anni dopo, Guaraldi editore, 2005, pag. 11 9. in ordine di pubblicazione: La chiave di tutto, Ci vuole orecchio, La notte rosa, Come la grandine 10. Pierfrancesco Pacoda, Riviera club culture. La scena dance nella metropoli balneare d’Europa, NdA press, Rimini, 2012 11. Isabella Santacroce, Fluo. Storie di giovani a Riccione, Feltrinelli, Milano, 1999, pag. 71 12. Versi tratti da Tomba bianca, in Furore delle cose di Rosita Copioli (Guanda, Milano, 1988)
LO STRADONE di Lorenzo Carpinelli, Vladimiro De Felice, Iacopo Gardelli // spettacolo finalista al bando Radar
Tagliare il cordone. La Via Emilia che si fa madre di Giulia DAMIANO Come dev’essere per un punto lasciarsi attraversare da una linea retta? E se questa linea è una strada, (a) che punto è la città? Uno spiedino che passa per tutti i centri, un nastro trasportatore: questo è Lo Stradone. A quasi due anni dall’inizio del loro progetto per il bando Radar, Lorenzo Carpinelli e Iacopo Gardelli possono finalmente mostrare la loro rielaborazione della Via Emilia. L’idea del progetto ha visto cambi e crisi attorno a un punto cardine: una via madre che abbraccia, indirizza e un po’ soffoca. Il rapporto tra madre e figlio, in parallelo con quello tra paesaggio e personaggio, diviene un dialogo tra l’essere e il dover essere, tra la dolcezza del lasciarsi trasportare, la responsabilità di scegliere ma anche la necessità di potersi perdere ad un certo punto, di poter ammettere deviazioni.
Fulcro storico per lo scambio commerciale e culturale, oggi la Via Emilia è «una periferia di quasi 300 km piena di capannoni», afferma Iacopo, autore del testo de Lo Stradone. Un po’ lo specchio di una decadenza più generale, più nazionale. Nazione che non sa prendersi cura di ciò che ha, di ciò che è, sotto una bandiera che non sa «fare da mamma a tutti», dirà Lorenzo in scena, in una digressione sulla bandiera italiana in riferimento a quando, il 7 gennaio 1797 a Reggio, il tricolore divenne ufficialmente bandiera nazionale. Del vessillo se ne osserva però anche il bagaglio storico e potenziale: quante storie ha visto e fatto nascere? “Stradone” è il nomignolo che gli abitanti della zona (almeno gli emiliani) danno alla Via Emi-
lia; da qui Iacopo e Lorenzo – che da ravennati l’hanno sempre vista da fuori – si sono lasciati un po’ adottare nel chiamarla con un soprannome. L’accrescitivo le assegna un valore affettivo che va oltre la percorribilità della strada in sé; la percezione è quella di un calore domestico che abbraccia e non molla la presa. Lo spettacolo in questione promette di non fare riferimento all’attuale situazione pandemica, essendo nato molto prima; tuttavia una riconsiderazione sulla mobilità e sul viaggio, ad oggi sorge spontanea. Più in generale, inoltre, il riferimento a una strada (specie se a questa), sul piano poetico difficilmente può limitarsi alla sua semplice percorrenza fisica, strumentale: entra in gioco la valenza emotiva, il viaggio come flusso di coscienza. La pandemia, poi, ha palesato la questione della mobilità come privilegio anche a chi privilegiato ci è nato perché ha occupazione, risorse, diritto di spostarsi in quanto cittadino, residente di un certo luogo. Automaticamente si annulla la libertà di andare a zonzo senza una meta valida. In questo momento, dunque, pensare all’Ulisse sarebbe pensarlo con o senza autocertificazione? Le strade cominciano adesso a ripopolarsi, e così la Via Emilia e il nostro immaginario. Ora più che mai viene da accrescere la strada a Stradone per il valore aggiunto che le si dà potendo ricominciare a fruirne con (seppure ancora timida e incerta) libertà. Sono solo alla fermata, forse voglio rotolare Senza freni e mani in tasca fino qua Voglio rimanere a galla, voglio masticar la gomma Dentro al sacco mille fiori di città E ritrovare nel silenzio Che interrompe il cielo e ricolora i tuoni E quel pensiero dal sapor del cioccolato Mi riporterà fin qua Io vorrei rubarti l’anima Ma la tua anima ancor questo non lo sa E accarezzar l’arcobaleno fino all’alba E immaginare un’altra età - Extraliscio, Alla fermata
Al tempo stesso a essere tracciata è anche la vita del protagonista. Il monologo, intimo com’è, non può che essere inevitabilmente un po’ autobiografico. Il solo personaggio in scena (ri)percorre la sua vita e il rapporto con la madre su quella linea retta che è la Via Emilia: può la strada es-
sere soltanto una, ma con tante tappe? Fermarsi in ognuna di esse, trattenendone il trattenibile, percorrerla tutta cercando il mare come fanno i fiumi: anche una retta può essere un bivio. Anche su di una retta – da punto di essa – è legittimo sentirsi smarriti o volersi perdere? «Ce ne vuole per perdersi su una linea retta, bisogna proprio staccare la testa. Eppure. Io mi voglio perdere, mamma». In scena secchielli disposti in fila su una linea che diventa visibile quando il protagonista, con movenze da bambino, la traccia con della sabbia facendo versi con la bocca e rivolgendosi allo specchio dietro di lui. I “versi” non sono che le sigle delle città attraversate dalla Via Emilia – come uno spiedino, per l’appunto. Con il “gioco delle città” la madre si assicura che il figlio si tenga abbastanza impegnato durante il lungo tragitto che li separa dal mare. «Quando arriviamo, ma’?». E lei: «A momenti, a momenti». Che poi una volta arrivati, finita la strada, lui ha quasi paura, quasi gli manca. Passano gli anni. Questa volta a parlare è lo studente universitario a Bologna che discute al telefono con una madre un po’ apprensiva e scettica sullo spaesamento del figlio nei confronti della facoltà di giurisprudenza e l’interesse, invece, per un corso di lettere. «Bologna grassa, commestibile, domestica. Come un salotto». A volte quasi soffoca. «Dieci minuti di cammino e sei già fuori dall’utero». Tutto a Bologna sembra caricarsi di un senso civico, comune, politico. «Anche il privato è politico, una strada è politica». Tra i grandi nomi che la strada ha partorito, a ogni città il proprio vate: così a Parma Bernardo Bertolucci, a San Mauro Giovanni Pascoli, a Santarcangelo Tonino Guerra, a Rimini Federico Fellini. Arrivano i trent’anni, si comincia a prendere in considerazione l’appellativo di “adulto”. La madre accompagna il figlio a un colloquio di lavoro a Rimini, seppur appaia un po’ contrariata, anche se stavolta è lui a guidare. Alle interferenze della radio si alternano quelle tra i due. Lo capiamo da quanto progressivamente la voce di Lorenzo si alza nel rispondere alla madre: «Sempre dritta lei, sempre rigida». Al posto del passeggero o al volante che sia, la
strada è sempre lei. «Cos’è la filosofia dell’accontentarsi?» Vorrebbe essere protagonista della sua vita, delle sue scelte. «Voglio staccare il cordone!» E allora: «Scendi dalla macchina (Em)ma’!». La voce di Mastroianni si sovrappone e si fa la sua. Appare uno spezzone de La dolce vita. La relazione amorosa e morbosa tra Marcello ed Emma pare quasi materna. «Questo non è amore è abbrutimento! Scendi dalla macchina!» Lui prende la (Em)mamma di forza e la lascia lì. In verità nella scena seguente sappiamo che Marcello torna indietro a prenderla, ma questa parte ne Lo Stradone non la troviamo. Il litigio rimane irrisolto, il loro legame sospeso. Quel che ci è dato vedere è lo specchio che si pone all’e-
stremità della strada e Lorenzo che le si avvicina a braccia aperte come in bilico su una fune, calpestando i castelli di sabbia che lo dividono da lei. Sullo schermo una scala sul mare. E più si sale e più lui si avvicina. «Ti guardo e vedo me stesso, come devo essere». Quello in scena è un monologo, ma la dinamica alla quale si assiste seguendo lo spettacolo è simile a quel che si fa parlando davanti allo specchio: parlare con sé, parlare con un altro e intanto ascoltarsi, sentirsi, capirsi. Un monologo che sviscera qualcosa di più. La relazione tra paesaggio e personaggio, lo scambio tra madre e figlio. La strada di una vita, la vita di una strada, è questa qua.
«La Via Emilia? È come un lungo spiedino» di Ilaria CECCHINATO e Damiano PELLEGRINO Lunedì 12 aprile 2021 incontriamo Iacopo Gardelli e Lorenzo Carpinelli, duo ravennate che lavora insieme dal 2015, per farci raccontare lo stato dei lavori dello spettacolo Lo Stradone, fra i selezionati alla seconda fase del progetto Radar di Emilia Romagna Teatro. Ascoltando le loro parole comprendiamo che il terreno sul quale la loro opera ha preso forma si è del tutto frastagliato in una costante trasformazione: una ricerca, la loro, in grado di incassare i mesi febbrili di vuoto della pandemia, cedere a rielaborazioni del testo e ripensamenti degli oggetti tematici da portare sulla scena e aprirsi a continue suggestioni letterarie e visive. Come a dire che i mesi di stop si sono rivelati complici e benigni al duo artistico per limare, rifinire l’idea iniziale con inattesi cambi di passo
e aperture verso immaginari altri per iniettare al lavoro nuova linfa. Al protagonista del germe originario del progetto presentato nel 2019 sul palco del Teatro Bonci di Cesena – un fattorino operante in una delle più grandi sedi di stoccaggio nei centri di smistamento di Amazon vicino a Piacenza – si è sostituito un ragazzo quasi trentenne che, in viaggio lungo la via Emilia per andare a un provino, si lascia andare a un libero flusso di coscienza, fra elementi autobiografici e finzione. Che cosa è accaduto dopo la presentazione aperta del lavoro di quindici minuti a Cesena? Nel corso di quest’anno e mezzo a quali mutamenti, indirettamente e forse forzatamente, è andato incontro il vostro lavoro?
Lorenzo: «Sul palco del Teatro Bonci di Cesena raccontavamo la storia di un ragazzo di venticinque anni, l’età che in quel momento avevo io, calato in quel vortice di incertezza per essere entrato nell’età adulta e consapevole di dover compiere determinate scelte successive al percorso universitario e attratto anche da altre spinte e nuove direzioni. Però quel testo a Cesena parlava in maniera fortissima di quegli anni ed il dato biografico scelto era un pretesto: l’idea era quella di imbastire un vero e proprio racconto generazionale. A livello registico volevamo letteralmente mostrare la via Emilia: così sul palco abbiamo proiettato la strada immortalata attraverso gli occhi di una GoPro, e l’atto di percorrerla seguiva a tutti gli effetti il flusso di coscienza del protagonista dentro le sue incomprensioni e incertezze. Dopodiché c’è stato il grande arresto a causa della pandemia e il nostro progetto si è fermato per un anno. Nel corso di tutto questo tempo io e Iacopo siamo cresciuti, entrambi siamo in un punto della vita leggermente diverso da quello di prima. Quindi ci siamo trovati con un materiale che all’epoca funzionava molto bene ma che sentivamo non parlare più, e che ha necessitato dunque di un rimaneggiamento». Iacopo: «È accaduto ciò che può succedere in una relazione che si trascina stancamente. Lorenzo è in scena, mentre io mi occupo della scrittura. Io, per esempio, soffro molto le prove in teatro, mi annoio profondamente. Se le prove sono finalizzate a una restituzione vicina nel tempo mi accendo, ma in un anno di inattività il nostro testo si è paludato e io me ne sono un po’ disamorato. Per quanto riguarda i contenuti, ha detto bene Lorenzo: avevamo paura del teatro politico. Quindi parlare del fattorino, come nell’idea iniziale, ci sembrava che fosse troppo politico in senso degenere, ovvero limitato alla sola denuncia, per cui ci sono da una parte i buoni e dall’altra i cattivi, divisi da un sistema manicheo. E ciò a me annoia molto, specie guardando a quegli spettacoli che divengono una sorta di confessionale in cui la coscienza si sgrava dei suoi peccati. Io credo però che quando si esce dal teatro non ci si debba sentire sollevati: ci si deve anzi sentire peggio di prima. L’idea del fattorino di Amazon iniziale rischiava di cadere in quella denuncia sterile, fine a se stessa. Così, abbiamo pensato di innestare alcuni frammenti della vita di Lorenzo e il racconto è diventato fin troppo autobiografico. Siamo arrivati dunque in
una fase in cui cercare una sintesi». Che cosa intendete nello specifico quando parlate di un lavoro a teatro che può rischiare di prendere le fattezze più di una denuncia, rischiando di trasformare lo spettacolo in un esercizio forse sterile e fine a se stesso? Inserire un personaggio appartenente a un contesto lavorativo controverso e discusso non vuol dire necessariamente caricare l’opera di un peso politico e impegnato, inteso in maniera negativa. Non si sarebbe potuto, comunque, raccontare la storia di un fattorino pur analizzandone l’interiorità e lasciando il suo impiego sullo sfondo? Lorenzo: «Un conto è fare uno spettacolo su una tematica politica e un conto è fare uno spettacolo sulla via Emilia, che poi era la richiesta del bando. Noi a un certo punto provavamo a partire da questa idea del fattorino ma ci scontravamo con il fatto che nel nostro immaginario la via Emilia fin da subito aveva rappresentato un viaggio, un percorso formativo di un personaggio. E allora a quel punto ci rendevamo conto che questo ancoraggio fortemente politico e legato all’ambito del lavoro forse non andava esattamente a combaciare con ciò che doveva fare parlare la via Emilia. Dunque abbiamo superato questa prima ipotesi e ci siamo concentrati più su qualcosa che avesse a che fare con un viaggio di formazione, un percorso che ha un inizio, un compimento e una fine». A quali autori e a quali pagine della letteratura e della poesia avete rivolto l’attenzione per dare vita al vostro lavoro in fase di scrittura? Ci sono delle figure che vi hanno accompagnato, in trasparenza, lungo la strada? Iacopo: «Il nostro testo cercava di legare i momenti del viaggio del protagonista a ogni provincia posta sulla via Emilia. E ogni città provava a mettersi in dialogo con un autore che toccava le nostre corde. Visto che parliamo di un flusso di coscienza, il testo principe come potete immaginare è l’Ulisse di Joyce. Ho cercato di ricreare per alcuni accenni quella lingua, soprattutto nella parte finale del testo. Tra gli altri autori c’è Attilio Bertolucci quando il testo si interseca la città di Parma, mentre quando ci soffermiamo sull’Emilia c’è Antonio Delfini e per la città di Bologna Roberto Roversi, poeta cittadino per eccellenza. Infine si arriva alla Romagna con degli innesti di Dino Campana. Ho cercato però di evitare il gioco citazionista puro. Proprio a questo servi-
vano i testi: non per fare affidamento a dei brani, al pari di una stampella di stile, bensì per cercare di integrare molto meglio l’intero discorso e dare una profondità diversa alla drammaturgia». Lorenzo: «Anche nella fase di rimaneggiamento e affondo in altre direzioni, quelle stesse citazioni o quegli autori sono stati un perno: se inizialmente erano serviti per andare ad affondare in qualcosa, adesso diventano quasi delle piccole pietre alle quali inevitabilmente ci aggrappiamo per riuscire a fare un discorso diverso. E tutto ciò è significativo, perché vuol dire che alcuni autori hanno il potere di resistere al tempo. Un certo tempo è trascorso dall’inizio di questo progetto, e arrivati alla fine ci siamo trovati a voler rimasticare e rimaneggiare il testo, ma da quegli autori scelti sentivamo che c'era ancora del materiale vivo da poter sfruttare per arrivare a una forma del lavoro. Tutto ciò è forse ancora più importante che stare aggrappati, invece, a parte della mia biografia o a cose personali di cui può importare poco allo spettatore». Iacopo: «Mentre scrivevo il testo a me interessava molto la dimensione della leggerezza. Volevo che fosse una scrittura capace di attraversare in modo molto leggero e aereo le città della via Emilia, con uno sguardo quasi epidermico. Faccio un esempio: percorrevamo la strada, vedevo sulla destra la scritta “Poltrone Sofà” e cercavo di inserire questa sigla dentro il testo. Questa tecnica, questa panoramica propriamente in cammino, a me interessava molto perché era una bella sfida da un punto di vista drammaturgico». Percorrere l’intera via Emilia attiva un’operazione di immaginazione, che in qualche modo avete mostrato in scena durante la prima presentazione del lavoro al pubblico. Quali visioni evoca ai vostri occhi questa strada? Iacopo: «In quanto ravennati in realtà noi due la via Emilia la conosciamo per brevi tratti, da Bologna a Imola per esempio. Durante la prima residenza abbiamo deciso di percorrerla per intero, da Piacenza a Rimini in macchina. Volevamo vederla. Dite bene quando fate riferimento a un’operazione di immaginazione che le compagnie sono chiamate a esercitare sulla scena. La via Emilia già di per sé è una strada concorde a far scatenare l’immaginazione. Se si percorre il tragitto per più di due ore o tre, a un certo punto si incomincia a viaggiare con la mente. È una retta lunghissima e monotona che intervalla pieni e vuoti, città e campagne.
La prima volta che l’abbiamo fatta ci venivano già in mente degli spunti di racconto. Un ramo della narrativa italiana viene chiamato “scuola emiliana” e spesso viene tirata in ballo la follia dei padani e il fatto che sono sempre stralunati – pensiamo a scrittori come Cavazzoni, Cornia, Nori e lo stesso Fellini con le sue nebbie e le sue atmosfere sospese. Io credo che un genius loci effettivamente esista in Emilia. Se siamo un po’ tutti stralunati lo dobbiamo anche alla geografia, e la via Emilia a livello di immaginazione ti aiuta. Abbiamo scoperto questa strada chilometro dopo chilometro in macchina, e nel fare questa operazione sulla strada, a me affascinava questo relitto appartenente a un’Italia in espansione che adesso sembra abbandonato. Oggi se tu attraversi la via Emilia ci sono capannoni abbandonati e un grande disagio visibile, e questo la dice lunga anche sulla condizione del nostro paese». Lorenzo: «A me di una strada come la via Emilia affascina molto il fatto che percorsa così com'è, è strutturata con molti intervalli ma non colpisce l’osservatore per un elemento particolare o grandioso o strabiliante. Non si può dire: "Madonna la via Emilia! Che cosa ho visto?". Se riesci a percepire la storia che ha quella strada, da quanto tempo esiste, quante persone l’hanno calcata e quanti autori ci hanno scritto sopra, se riesci ad avvertire tutto ciò che la via Emilia ha generato, allora quel percorso ti dona un senso, un significato particolare. La via Emilia in certi tratti sembra molto anonima, insulsa, ma poi puoi ricordare che da quella strada è passato di tutto, imperatori romani fino a personaggi che hanno preso spunto da questa via per i loro racconti». Iacopo: «Una cosa molto divertente e che non succede spesso per altre vie e le altre strade statali è il fatto che la via Emilia assomiglia a un lungo spiedino, laddove la carne viene infilzata dove risiedono i punti di tutti i centri cittadini. Percorrendola tutta si possono toccare tutte le piazze principali urbane di ogni città. È una cosa incredibile: non ci sono altre strade provinciali che hanno questa caratteristica. Effettivamente questa via Emilia va a creare una megalopoli diffusa e se si è allenati si possono rintracciare le peculiarità che si ripetono in ogni città. Modena assomiglia tanto a Bologna, che a sua volta è simile a Reggio Emilia. Si crea una sorta di geografia comune o estetica condivisa che a noi ravennati affascina molto».
Come lavorate durante le prove? E dopo il lungo stop causato dalla pandemia, con quali approcci e umori siete ritornati in sala? Lorenzo: «Siamo soliti partire da un grande calderone iniziale in cui riversare visioni registiche, elementi di scena, materiali video, audio, testuali da far stagionare e ricavarne poi i frutti più belli che Iacopo plasma e trasforma per consegnarli a me e alla scena. Siamo molto legati a un tipo di teatro che trova nel testo e nella drammaturgia il suo perno, la sua coerenza e la sua continuità: il mio gioco attoriale è di inserirmi nelle parole di Iacopo e capire come maneggiarle. Per noi è quindi sempre difficile dire di chi è la regia dei nostri spettacoli, perché alcune cose nascono in sede drammaturgica con Iacopo che detta la linea, mentre altre scatursicono dalla scena sulla base di mie intuizioni e alla fine tutto si mescola. Per me i testi di Iacopo diventano una linea guida che mi fa essere me stesso, aprendomi a tantissimi spiragli e orizzonti. Finora, però, non ci era mai capitato di dover rimaneggiare un testo di un anno prima per confezionare uno spettacolo definitivo. E in questo periodo sospeso non abbiamo tenuto una corrispondenza costante con Lo Stradone. In quest’ultimo anno abbiamo assorbito certe cose che sono confluite nella resa finale. Questo periodo ha inciso tanto: la dilatazione del tempo, provocata in parte dalla struttura stessa del bando ma soprattutto dalle contingenze della pandemia, ci ha permesso di vivere e concepire il modo di fare spettacoli in maniera diversa». Per costruire il personaggio della vostra storia siete partiti dal fattorino del deposito di smistamento Amazon per arrivare a una figura mediana, in grado di incrociare la biografia di Lorenzo e il ritratto generazionale. Chi dobbiamo aspettarci ora sulla scena? Qualcuno che si porta addosso i segni di tutto questo tempo trascorso? Iacopo: «Per fare la grappa si parte dalle vinacce, la si mette nell’alambicco e viene fatta bollire. Si prendono poi gli elementi più aerei che vengono condensati e distillati, quelli che infine finiscono nella bottiglia di Barricata, buona dopo i pasti. Ecco, credo stia succedendo la stessa cosa con il nostro testo: stiamo andando verso una pratica drammaturgica e scenica di rarefazione. Siamo partiti dal materiale grezzo del fattorino di Amazon che lavora concretamente e ci racconta la sua dimensione, il suo sfruttamento e la
sua alienazione, per poi passare alla biografia di Lorenzo, cercando di rendere gli elementi della sua vita disponibili e fruibili per tutti. Credo dunque che in quest’ultima fase di lavorazione abbiamo dovuto alzare ancora di più l’asticella per arrivare all’universale, ovvero a costruire una narrazione che parli a tutti. Potrebbe sembrare pretenzioso parlare di un passaggio a dei temi più universali, ma in fondo è il motivo per cui si scrive e si fa teatro. Il personaggio in scena quindi sarà probabilmente un “every man”, cioè l’uomo che parla orizzontalmente a tutti, facendo attenzione alla biografia del protagonista e al suo rapporto con la figura della madre, ma anche a quella di una regione: una sorta di attraversamento sotto forma di tappe di un archetipo di formazione, dalla nascita alla crescita fino alla maturità». Lorenzo: «Per quanto riguarda invece la domanda in merito alla presenza o meno nello spettacolo e nel personaggio dei segni di questi tempi, rispondo che no, non ci sono riferimenti alla pandemia. Il bando Radar, e quindi Lo Stradone, sono nati senza le premesse di questa emergenza. Assumere una ricerca di lavoro, sviluppatasi in un altro tempo, sfruttando riflessioni e sentimenti legati al presente non avrebbe avuto senso per noi, a patto che non si fosse deciso di fare un altro spettacolo, ma non ci sarebbero stati né i tempi né le possibilità. Se il bando fosse uscito nel 2021, è chiaro che il nostro progetto avrebbe avuto altre forme, temi e questioni».
Lunga e diritta era la strada di Francesca LOMBARDI Il viaggio sarebbe durato solo un’ora e mezza, ma Maria non sapeva come riempire il suo tempo, non le andava di ascoltare musica o leggere un libro, riusciva solo a guardare il paesaggio fuori dal finestrino. Dalla borsa di tela strapiena facevano capolino diversi titoli: l’Ulisse di Joyce, Rinata di Susan Sontag, Fuorimondo di Ornela Vorpsi, poesie di Attilio Bertolucci, Antonio Delfini, Roberto Roversi e Dino Campana. Le sembravano così sterili e inutili schiacciati tra la borraccia d’acqua e la bustina verde acido delle medicine. In quel momento tutte quelle parole le procuravano un fastidio epidermico, incapaci com’erano di sfidare la realtà, di curvarla per renderla più sopportabile. La via Emilia è una strada dritta e omogenea, un susseguirsi di campi e industrie, dove lo sguardo viene cullato e rassicurato dal paesaggio sempre uguale: nulla di brutto sembra possibile in quei posti. Maria si stava accorgendo per la prima volta della pace che gli suscitava restare imbambolata a osservare. A ogni fermata gettava un occhio disinteressato alle persone che si susseguivano nei sedili vicini a lei. Una bambina dai capelli biondi e la faccia rossa dalle lacrime implorava la madre di darle un altro pezzo di torta, con gli occhioni lucidi e la voce traballante. Un ragazzo alto e magro provava a mettere in sicurezza la tavola da surf azzurra sullo stretto portavaligie, imprecando sottovoce. Un uomo dai capelli brizzolati in giacca e cravatta discuteva animatamente al telefono, le Airpods che spuntavano dalle orecchie gli donavano un aspetto professionale. Maria prese le cuffie nere dal fondo della borsa, riuscendo miracolosamente a non rovesciarne il contenuto, e inserì il jack metallico nel telefono. Tutto quel trafficare di gente e merci le aveva procurato molto fastidio, aveva bisogno di isolarsi. Io ascolto e non capisco e tutto attorno mi stupisce / La vita, com'è fatta e come uno la gestisce / E i mille modi e i tempi, poi le possibilità / Le scelte, i cambiamenti, il fato, le necessità Più di tre ore prima, quando mancava soltanto mezz’ora al treno, Maria stava ancora finendo di
fare la valigia, lanciando alla rinfusa vestiti e oggetti sul letto e cercando di selezionarli nel minor tempo possibile. Succedeva sempre così quando doveva prendere un treno: si riduceva all’ultimo minuto. Gabriele e Giulia, i suoi amici storici, erano in cucina a bere una birra mentre provavano a sconfiggere un mostro particolarmente resistente sulla Nintendo Switch. Lei li sentiva ridere dall'altra stanza e la voglia di finire la valigia e incamminarsi verso la stazione si allontanava sempre di più. Cosa mi è venuto in mente quando ho deciso di trasferirmi, pensava. Il tempo scorreva inesorabile, a Maria sembrava che avesse accelerato il suo normale flusso, e a vedere i numeri cambiare sullo schermo dell’iPhone la indispettiva ancora di più. Perché non posso metterlo in pausa, pensava, perché scorri così veloce, stronzo. Maria doveva trasferirsi da Bologna a Rimini, attraversare la via Emilia, e la cosa non la entusiasmava per nulla. In macchina con Gabriele e Giulia, guardava fuori dal finestrino per ammirare un’ultima volta i portici e i colori della città che per sei anni era stata il suo luogo felice, la sua seconda casa. Non so come cominciare / Non la vedi, non la tocchi, oggi la malinconia? / Non lasciamo che trabocchi / Vieni, andiamo, andiamo via... Non ti abbraccio perché questo non è un addio, disse Gabriele sul binario mentre Maria saliva sul treno, trascinandosi dietro la pesante valigia. Va bene, hai ragione, è un arrivederci, replicò lei seria. Giulia stava piangendo dietro gli occhiali scuri, Maria se n’era accorta ma aveva deciso di non dire nulla, non voleva metterla in imbarazzo. Le porte del treno si chiusero accompagnate dallo stridulo suono abituale, Maria salutò con la mano gli amici mentre li vedeva scomparire in lontananza. Seduta sui sedili di finta pelle blu del regionale, Maria ripassò a mente le fermate che mancavano per arrivare: Imola, Castelbolognese-Riolo Terme, Solarolo, Lugo, Bagnacavallo, Russi, Godo, Ravenna, Lido Di Classe-Lido Di Savio, Cervia-Milano Marittima, Cesenatico, Gatteo a Mare, Bellaria,
Igea Marina, Rimini. Che palle pensò, cosa me ne frega di questi posti, dove sto andando, cosa sto cercando. Non riusciva a capire come era arrivata a prendere quella decisione, a fare domanda per quel lavoro. Sapeva cosa l’aspettava ma allora, quando aveva compilato con dedizione i campi richiesti dal bando, non aveva capito cosa implicasse davvero il trasferimento. Solo ora che era sul treno comprendeva veramente il significato di quella parola, si sentiva stupida. Accavallò le gambe e strinse le braccia al petto, cercando di comprimere l’ansia che scalpitava nel petto. La mente vagava, dipingendo scenari disastrosi sui rapporti umani che si lasciava alle spalle. Come una splendida utopia / È andata via e non tornerà mai più Da bambina Maria era cresciuta nel tipico ambiente famigliare da classe media: padre operaio, madre impiegata. Le attività della famiglia erano quelle tipiche di chi vive in provincia: gite fuori porta, sagre di paese e tanta televisione. Era quello il filo che legava Maria ai suoi genitori, e tramite la televisione era possibile per lei parlare di tutto, collegando i ragionamenti alle immagini, intessendo fili invisibili tra i colori sgargianti delle giacche dei presentatori e i genitori. Si era sempre sentita diversa, differente da loro. Aveva compreso presto che per riuscire a mantenere aperto il dialogo avrebbe dovuto affinare la sua capacità diplomatica, era suo il compito di ripulire il passaggio e far risplendere il sentiero, renderlo attraversabile. L’università aveva reso il divario tra lei e i genitori ancora più evidente, e soffriva molto per il privilegio che le era stato accordato: quello di studiare, emanciparsi. A suo padre e sua madre non era stato permesso, mentre per lei il sapere comportava una responsabilità: prendersi cura. Aveva aspettato una settimana prima di comunicare alla madre che aveva ottenuto il posto. Sapeva cosa significasse per lei: orgoglio, ma anche consapevolezza che le loro strade si stavano separando ancora di più, che questo ennesimo trasferimento segnava un’ulteriore distanza che avrebbero dovuto imparare a vivere. Un’immagine prese forma nella mente di Maria: la madre che, seduta sulla sua sedia in cucina, diventa sempre più piccola e curva, il volto rugoso, lo sguardo appesantito. Con la pelle a contatto con quel sedile blu, Maria fece un respiro profondo. Succedeva sempre così quando pensava ai suoi genitori. Andrà mai via il senso di colpa? L' immensa pianura sembrava arrivare / Fin dove l'occhio di un uomo poteva guardare / E tutto d' intorno non c'era nessuno / Solo il tetro contorno di torri di fumo Il treno si era fermato a Cervia, il viaggio era quasi finito. Fuori il paesaggio continuava il suo cammino. Maria prese il cellulare dalla tasca e scrisse: sono quasi arrivata.