L'assenso e la negazione

Page 1

L’ASSENSO E LA NEGAZIONE

però, al lettore, la possibilità di farsi una propria opinione su una delle questioni filosofiche più spinose. Il rapporto controverso tra Dio e il male è affrontato in maniera obiettiva, non ci sono risposte nette e assertorie ma, come spiega l’autore, Michele Andrisani, il tutto è attraversato “da una sofferta oscillazione, da un moto inquieto che dice, disdice e ridice, fino a disdire nuovamente il detto”. Dal grido di Giobbe ad Auschwitz, Dio, il male e la fede sono i protagonisti di un’opera che scuote e nello stesso tempo invita a riflettere. Andrisani, docente di Storia e filosofia, ha affrontato con passione una tematica ambivalente, provocatoria anche e soprattutto nel Terzo Millennio quando spesso si pensa che l’uomo abbia tutte le risposte.

ISBN

L’ASSENSO E LA NEGAZIONE

L’ASSENSO E LA NEGAZIONE, CON UN’ACCURATA RICERCA CHE PRENDE SPUNTO DALL’“ASCOLTO” DI TANTI AUTORI CHE SI SONO OCCUPATI DI TEODICEA, tenta di rispondere a questa domanda lasciando sempre,

MICHELE ANDRISANI

Michele Andrisani è nato e vive a Matera. Si è laureato in filosofia con 110 e lode presso l’Università degli studi di Bari con una tesi dal titolo E. Lévinas: l’ebraismo come uscita dall’essere. Presso la stessa Università ha conseguito il Dottorato di ricerca con il Prof. Giuseppe Semerari, con una tesi dal titolo Passività del soggetto e problema dell’alterità: E. Lévinas e M. Heidegger. È stato anche assegnista di ricerca presso la Cattedra di Storia della filosofia morale (Prof. Mario Manfredi). Attualmente è docente di ruolo di Storia e filosofia presso il Liceo classico di Matera. Ha pubblicato vari saggi di filosofia, tra cui: Il grido di Giobbe. Male , esistenza e responsabilità (Palomar, Bari 2001); I disabitanti, in Il viaggio e la dimora a cura di F. Semerari (Progedit, Bari 2003); Uomo e natura: un rapporto difficile, in Argomenti di bioetica (Name Edizioni 2007); Aporie di Eros, in Amore: itinerari di un’idea, a cura di F. Semerari (Skena Editore, Fasano 1996). Ha inoltre pubblicato una raccolta di poesie dal titolo La vita possibile (Palomar, Bari 2010).

IN CHE MODO SI PUÒ CREDERE NEL BENE E NEL SENSO NONOSTANTE E ATTRAVERSO L’EVIDENZA DEL MALE?

L’ASSENSO E LA NEGAZIONE MICHELE ANDRISANI

978-88-6960-066-1

9 788869 600661

€ 25,00

i saggisti


INTRODUZIONE Questo libro insegue faticosamente e forse anche tortuosamente la possibilità di credere in Dio nonostante e attraverso l’evidenza del male che è in esso oggetto d’indagine: indaga la coimplicazione indistricabile e ambivalente tra le due questioni, quella di Dio e quella del male, mostrando che se l’eccesso inintegrabile della sofferenza insensata e ingiustificabile contraddice Dio e la sua creazione, al contempo Dio è l’unica istanza di possibile redenzione e risposta al grido di protesta dell’uomo che la difettività della realtà origina. Se l’enigma del male mi ha costantemente interrogato è perché esso nel suo carattere renitente a ogni funzionalizzazione e significazione può generare la «destituzione di credito nei confronti della promessa inscritta nell’esistere: invitando a pensarla come supremo inganno, ingiusta prevaricazione, illusoria offerta».1 C’è sì nel cuore dell’essere una promessa di bene e di senso, di valore e di felicità ed è vero che «questa promessa va tenuta, anche a fronte del male va tenuta, perché ha una via di uscita»:2 ma la molteplicità e la radicalità delle forme del male nel loro contraddire tale promessa spalancano allo sguardo dell’uomo il mistero contraddittorio dell’esistenza, il suo negare e disattendere, depotenziare e alterare la suddetta promessa di compimento in essa inscritta. Come potremmo lamentare la presenza abusiva del male se essa non fe-

Pier Angelo Sequeri, L’esperienza religiosa e lo scandalo del male, in AA.VV., L’esperienza religiosa oggi, Vita e Pensiero, Milano 1986, p. 143. 2 Pier Angelo Sequeri - Enrico Garlaschelli, L’umano patire, Editrice Berti, Piacenza 2009, p. 41.

5


risse quella originaria luce di Bene che come memoria, attesa e speranza attraversa tutta la nostra esistenza? Ma se si dà un’anteriorità ontologica e assiologica del Bene, perché la sua debolezza e relativa impotenza, perché la Verità e il Giusto, il Senso e la Felicità sono in esilio dal mondo fattuale ed è invece il non dover essere del male a imporre il suo imperio? Ambivalenza anfibologica e contraddittoria della realtà, che ha sempre determinato in me una vibrante consonanza con la definizione leopardiana della realtà come «arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale».3 Come in Leopardi, la vita produce in me uno stupore angosciato, una meraviglia incantata in cui il moto di gratitudine è affiancato e sovrastato dallo sgomento di fronte alla scia di dolore e iniquità, vanità e fallimento che l’avventura cosmica e storica genera e ospita dentro di sé. E il tutto è “arcano” perché non è dato intravvedere un senso giustificativo all’interno del tessuto opaco e doloroso delle cose. Ma perché c’è il grido umano se è destinato a perdersi nel nulla e nessuno lo raccoglie, perché questa pervicace antica domanda di senso e di risarcimento se la realtà ultima delle cose è chiusa a ogni corrispondenza? Perché c’è la sete se non c’è l’acqua? Questo libro allora custodisce il grido di Giobbe con ostinata fedeltà: e lo difende sia da tutti quegli avvocati di Dio che ne sono scandalizzati e zelantemente prendono le parti della presunta bella armonia del mondo che esso offenderebbe, sia da coloro che non hanno il coraggio e la forza di elevarlo e senza amore e pathos sono assuefatti al cattivo esistente e in esso acccomodati. Solo chi ha a cuore le cose e la vita - come appunto Giobbe - non accetta che si corrompano e falliscano e chiede con accanimento perché questo avvenga. Ciò che per me ha di più bello il Libro di Giobbe è che il Dio coprotagonista di esso, per quanto alla fine forse addirittura autoritariamente lo riconduca nei ranghi, in ultima analisi «non si offen-

Giacomo Leopardi, Cantico del Gallo silvestre, in Operette Morali, Rizzoli Milano 1976. 3

6


de per Giobbe. Perché capisce che l’uomo deve lanciare a qualcuno la sua disperazione nella speranza che qualcuno la raccolga».4 Il grido di Giobbe – quel Giobbe che è il più «antico esistente della nostra tradizione occidentale», se esistere vuol dire resistere, essere di fronte e opporsi, “invocando ragioni” senza sottomettersi inermemente nemmeno di fronte a Dio5 – viene analizzato e sviluppato come pungolo verso quei credenti e quegli atei che definirei acquietati, in cui l’interrogazione critica, l’inquietudine spirituale e una esistenziale tristezza sembrano assopiti o quantomeno non spingersi mai oltre una determinata soglia. Vengono allora in questo libro “aggrediti” da un lato una fede troppo poco pensante e astuta nell’aggirare o neutralizzare domande sofferte e destablizzanti – una fede quindi troppo poco dubitante e interrogante, scandalizzata di ogni possibile incredulità – dall’altro quell’ateismo oggi dominante che non nega Dio né lo contesta e lo bestemmia, né gli si rivolta contro, ma semplicemente ne rimuove la ricerca. Come acutamente osservato da M. Heidegger è questa l’età della duplice assenza di Dio, nel senso che l’eclissi di Dio non viene più percepita e quindi nemmeno lamentata e sofferta. Perché questo ateismo di indifferenza e di rimozione? L’ipotesi che sostengo è che esso sia spiritualmente sordo o quantomeno tiepido nei riguardi di un’esigenza che mi pare costitutiva della condizione umana, quella di invocare un Senso ultimo della totalità dell’esistenza e, correlativamente, una redenzione del male- colpa- sofferenza inscritti in essa. Se per me la questione Dio è quella più rilevante, è perché solo sulla base di un fondamento divino dell’esistenza è veramente e non arbitrariamente possibile credere in una sensatezza, bontà e affidabilità della realtà. Mi sono allora sempre apparse rilevanti le domande che il nichilista etico provocatoriamente ci rivolge, quasi invitandoci a essere lucidamente consapevoli delle drammatiche conseguenze di ogni negazione di Dio: perché una ignota voce eti-

4 5

Pier Angelo Sequeri - Enrico Garlaschelli, L’umano patire, op.cit., p. 41. Maria Zambrano, L’uomo e il Divino, Edizioni del Lavoro, Roma 2001, p. 19.

7


ca, labile perdente e continuamente calpestata dalla storia umana, voce di cui non so l’origine e che forse non è altro che una convenzione frutto della paura umana e del suo bisogno di autoconservazione, dovrebbe trovare ascolto nella nostra coscienza e indurci a contribuire con sofferta generosità alla costruzione di un edificio che non ha senso ed è destinato al crollo finale? Perché lavorare a favore della Realtà, se l’esistenza non è buona e credibile, promettente e redimibile? Perché la realtà va amata? La sua eccedenza di non senso e di male non rendono legittimi atteggiamenti meno affermativi e oblativi? Sulla scia di tali provocazioni decisivo mi è sempre apparso il seguente interrogativo: «come è possibile predicare agli uomini la bontà e l’amore senza fornire loro al tempo stesso una interpretazione del mondo che giustifichi tale bontà e tale amore?»6 Non è forse allora debole un appello morale al Bene senza Dio, cioè senza la possibilità di credere nella sensatezza e affidabilità ultime della realtà? È evidente infatti che lo slancio dell’esistenza e la stessa adesione alla vita imploderebbero o quantomeno si affievolirebbero qualora «potessimo sospettare che il mondo fosse ermeticamente chiuso o sfociasse nell’Inumano (o nell’infra-umano)»: immediatamente infatti il «virus fulminante della Noia, della Paura, e dello Scoraggiamento»7 prenderebbe il sopravvento. Il dato del male – in questo libro indagato e “scagliato” contro tutte quelle teologie affermative e trionfaliste che vorrebbero disinnescarne il potenziale erosivo – è ciò che rende la mia fede nel Divino e nel primato del Bene debole e oscillante, eretica e agonica, irrisolta e sospesa tra l’assenso e la negazione, tra il sì e il no alla realtà, non tuttavia adagiata in una grigia e neutrale zona di mezzo quanto ospitante il conflitto degli opposti. Tra gli aggettivi caratterizzanti ciò che la fede è per me ho usato anche quello di “eretica” che sta a indicare il carattere non orto-

6 Pierre Teilhard De Chardin, cit. in Vito Mancuso, Dio e il suo destino, Garzanti, Torino 2015, pp. 384-385. 7 Pierre Teilhard De Chardin, L’ambiente Divino, Queriniana, Brescia 2009, p. 32.

8


dosso del mio cristianesimo, sicuramente contaminato da un certo ebraismo contemporaneo verso cui ho un debito fondamentale: l’immagine di un Dio Signore della natura e della storia e Provvidenza regolatrice che è dentro gli eventi e in essi si manifesta, l’idea che tutto il male-sofferenza sia inscritto in un misterioso progetto provvidenziale, la tesi che il peccato originale adamitico e in generale la colpevole libertà umana siano sufficienti a esplicare l’origine del male, infine la lettura della morte di Cristo come espiazione della colpa umana e la stessa fede che il mondo sia stato salvato-redento irreversibilmente da Cristo e dalla sua morte-resurrezione, sono alcuni dei principali punti di divergenza che mi separano dal cristianesimo “ortodosso”. Cerco di delineare – senza alcuna pretesa di originalità – una concezione di Dio per così dire più debole, meno sovranista-dirigista, più “evoluzionista e processuale”, forse soprattutto una concezione più drammatica che rende questo Dio “dipendente” non solo dalla libertà umana ma dal volto oscuro e fragile che necessariamente inerisce alla creazione. L’assenso di cui parla il titolo del libro è la possibilità-auspicio di accettare e perdonare proprio tale volto doloroso della creazione, che si riflette tra l’altro nella miseria della condizione umana, senza però dimenticare e anzi portando rispetto per coloro che faticano ad approvare il dato della vita. Se la mia fede intermittente non sa né se Dio è né quale sia la sua natura ultima, mi è comunque sempre sembrata persuasiva l’immagine biblica di Dio come voce silenziosa, come spirito che soffia, come brezza leggera: tale voce la riconosco dentro di me come ciò che agostinianamente è più intimo a me di quanto non lo sia io a me stesso, ma non riesco a pensare che questo Dio “senza Essere”,8 un Dio “etereo” e “ de-provvidenzializzato” possa essere il principio sovrano che guida provvidenzialmente il mondo. Ma soprattutto – ciò che per me più conta – non mi è per

L’idea di un Dio al di là e senza essere, inoggettivabile traccia senza manifestazione, puro enigma e scompiglio, passato irriducibile a ogni presente e quindi Ni-ente ma non puro nulla, un Dio che viene all’idea come Voce profetica e scompigliante che pungola il soggetto a percepire la sofferenza dell’Altro e la sua responsabilità per essa, attraversa tutto il pensiero di Emmanuel Lévinas. 8

9


nulla facile credere che questo Dio privo di potenza affermativa possa salvare e redimere il mondo, assicurare “nuovi cieli e nuova terra” e “asciugare le lacrime”. La mia fede in un Dio che è “solo” voce etica interiore e soffio spirituale” risulta allora insufficiente a fronte dell’imperiosa esigenza che il mondo sia redento e della ostinata postulazione che il non senso e il nulla, il fallimento e l’iniquità non siano l’ultima parola della realtà. Una postulazione che trovo limpidamente riflessa nelle seguenti parole di M. Horkheimer: «L’idea che le preghiere dei perseguitati che si trovano in grandissima distretta, quelle degli innocenti che devono morire senza che venga fatta chiarezza sulla loro causa, che le speranze ultime rivolte a un’istanza sovraumana vadano a vuoto, e che la notte che non è illuminata da alcuna luce umana non sia penetrata nemmeno da una divina, è mostruosa».9 Alla luce del brano del grande filosofo francofortese, direi che la questione Dio è legata tragicamente al dilemma della percezione della creazione come fallita oppure incompiuta: se Dio non è, il mondo può essere letto sotto la prospettiva del fallimento, in virtù del male che è già accaduto in modo irrimediabile, senza che il grido delle vittime possa trovare accoglienza e riscatto; altrimenti – se Dio è – è possibile ipotizzare che la creazione sia solo incompiuta come ciò che “geme nel parto” e attende una enigmatica redenzione, le cui modalità sono per me francamente inimmaginabili. Sto definendo la mia fede come oscillante e intermittente, ma in realtà è evidente che l’inquietudine, la notte oscura e l’incredulità appartengono alla fede in quanto tale, come testimoniano queste parole di un grande teologo gesuita: «perché lo Spirito, quando ha trovato Dio conserva ancora o scopre sempre il sentimento di non averlo trovato? Perché questo peso d’assenza, anche nella presenza più intima? Perché questa invincibile oscurità di Colui che è solamente luce? Perché questo ostacolo insormontabile, questa distanza insuperabile davanti a Colui che penetra tutto? Perché

Max Horkheimer, cit. in Holm Tetens, Pensare Dio, Morcelliana Brescia 2017 p. 25. 9

10


questo muro, questo vuoto spalancato? Perché questo tradimento di tutte le cose che subito dopo averci mostrato Dio di nuovo ce lo nascondono?»10 Non posso porre fine a questa introduzione senza dichiarare la mia particolare gratitudine per le figure di E. Lévinas e E Hillesum. L’invito del filosofo ebreo a «sopportare Auschwitz senza rinnegare Dio» – ma con la continua consapevolezza che ciò che si può forse chiedere a se stessi ha oggettivamente in sé il rischio «dell’offesa di contraddire la disperazione di quelli che andavano verso la morte» e che ardua è la possibilità di vivere la fede in Dio all’interno di una «religione senza promessa» – 11 ha una oggettiva consonanza con quell’etica della resistenza e del perdono presente in questo lavoro, in virtù della quale è possibile non rinnegare il nostro credito nell’affidabilità della realtà e l’impegno responsabile ad alimentare quelle scintille di Luce e di Bene che enigmaticamente sono in essa presenti. La mia fede in Dio nonostante che è fede in tali scintille e non ha più per oggetto Dio come “Interferente” ma come “Immensità”, cioè non Dio come potere direttivo, ma come deposito di una energia sovrannaturale che può alimentare in modo fecondo la vita umana oltre la prigionia del finito: quanto spesso sia flebile e insufficiente tale energia è ciò che questo libro dolorosamente lamenta. La gratitudine invece verso E. Hillesum è legata a quei tre aspetti fondamentali della sua avventura esistenziale nell’inferno dei campi di prigionia che potrebbero ancora positivamente interrogarci: la possibilità di percepire con intatta gratitudine la bellezza e il mistero aperto della vita anche nel buio dell’orrore e dell’insensatezza; quella di perdonare i carnefici e l’intero carattere offensivo e avversante della realtà; e infine l’invito a convertire la giusta protesta contro Dio e la tentazione della rivolta in un gesto di premura e di responsabilità, volto a ospitare chi è scacciato e in esilio e mendi-

Henri de Lubac, cit. in Carlo Maria Martini, Le cattedre dei non credenti, Bompiani Milano 2015, pp. 32-33. 11 E. Lévinas, cit. in Alessandro Paris, Trauma e sostituzione, Aracne Editrice, Roma 2012, p. 92. 10

11


cante dell’ospitalità umana. Aiutare Dio a essere «disseppellito dai nostri cuori»: questa immagine di E. Hillesum mi rinvia ancora una volta alla percezione che Dio è una intermittente luce interiore e non il Sovrano del mondo. La storia e la natura non sono inscritte nella sovranità di un progetto provvidenziale divino: piuttosto Dio è l’Altro dalle forze e dai poteri che strutturano il mondo, ne è la contestazione e l’opposizione. La fede debole ed eretica che attraversa questo lavoro – fede che potrebbe anche essere giudicata come maschera di un sotterraneo ateismo – identifica il Divino con lo spirito del Bene, per cui nulla è da me più distante dell’affermazione hegeliana che Dio non è così impotente da non governare il mondo. Non so da dove venga il Bene e ho una certa perplessità a condividerne l’identità con l’Essere affermata da tutta l’ontoteologia classica. Ho sempre invece avvertito nel cuore dell’esistenza il dato di una inevadibile scissione: da un lato la pesantezza della materia, campo di dominio della forza e della cieca necessità e sede di processi che stritolano e alienano i viventi, e dall’altro – per dirla con l’amata S. Weil – la Grazia del Bene. Perché questa dualità e cos’è tale luce del Bene e donde e quale la sua natura e il suo fondamento? Perché il male se Dio è, ma come e donde il Bene se esso è in ritardo e in esilio e non è il fondamento della realtà? Da dove vengono le scintille di luce che visitano il mondo senza riuscire a sovvertirlo? Secondo la prospettiva che attraversa questo lavoro il Divino si dà – e lo avverto presente nella coscienza per renderla migliore – ma è per così dire in minoranza: contro di Lui-Esso remano varie forze, tra cui la mediocrità e la bassezza della specie umana , la necessità di leggi naturali che nella loro impersonalità non possono secernere tenerezza e amore, il volto fragile e imperfetto della libertà umana, la dimensione di squilibrio e di malattia che inerisce alla specie umana e il non potere, da parte dell’uomo e finanche di Dio, governare in senso positivo il complesso corso della storia. È questa minoranza-dipendenza di Dio che occorre da parte dell’uomo sostenere, perché «forse Egli non è che una fiammella nelle nostre mani e dipende da noi alimentarla e non lasciarla spegnere; forse siamo la punta più avanzata alla quale Egli perviene. Quanti infelici offesi dall’idea della Sua onnipotenza accorrerebbero 12


dal fondo del loro sconforto se si chiedesse loro di venire in aiuto alla debolezza di Dio?»12 Merita infine un cenno la bella e onesta teologia di Charles Darwin, che egli stesso, nella sua umiltà, lamentava come confusa: non riusciva a persuadersi del fatto che il gioco casuale di forze meccaniche potesse esplicare la complessità del mondo, ma nemmeno a credere che un progetto di sapienza e di amore ne fosse il fondamento. Si vedrà che questo lavoro indaga il riflesso anche antropologico di tale darwiniana perplessità: chi è l’uomo? Troppo poco – secondo I. Kant – per essere pensato come creatura di Dio e troppo sublime per essere un prodotto del caos e un accidente irrilevante dell’evoluzione naturale. Il problema di Dio e della sua natura, del bene e del male, dell’affidabilità o dell’insensatezza della realtà si intreccia con quello del mistero della natura umana: è l’uomo credibile e affidabile, c’è nel fondo ultimo della sua natura un nucleo metafisico positivo che permette di sperare in lui e nutrire rispetto per la sua dignità? Oppure – come ha suggerito P. Nozik – si dovrà concludere che la specie umana in particolare dopo Auschwitz non è degna di esistere e la sua apparizione nell’universo costituisce un incidente casuale e una sventura? Fede in Dio e fede nell’uomo sono in qualche modo indissociabili, per cui entrambe le fedi si sostengono reciprocamente oppure cadono assieme.13 Suggerisco inoltre che la suddetta oscillazione e debolezza della fede proposta in questo libro non sia solo qualcosa di “patologico” e relativo alla mia condizione personale, ma abbia qualche connessione con l’essenza costitutiva e ultima della fede in quanto tale, che

12 Marguerite Yourcenar, L’opera al nero, Feltrinelli Milano 2013, p. 160. Il tema della debolezza di Dio e della necessità di condividerla è al centro degli analisi di Brunetto Salvarani, Teologia per tempi incerti, Laterza, Bari Roma 2018. 13 La verosimiglianza di tale tesi è visibile nel fatto che un certo ateismo contemporaneo vede nella naturale mediocrità e “bassezza dell’uomo” una conferma dell’improbabilità della sua origine divina e al contrario la veridicità della sua provenienza da una casuale evoluzione naturale. Si veda su questo punto Andrè Comte-Sponville, Lo spirito dell’ateismo, Ponte alle Grazie, Milano 2007, p. 103.

13


E. Stein definiva una luce oscura costretta a ospitare in sé il mistero ultimo delle cose e ad accettare paticamente di non poterlo decifrare e afferrare. Tale fede – forse è questo per me il dato più rilevante – è indissociabile dall’esigenza e dalla nostalgia di un Totalmente Altro, esigenza che spinge a credere in qualcosa di più e di altro dal mondo, non «perché lo si disprezza, ma perché lo si ama e si prendono sul serio le promesse che esso fa senza essere in grado di mantenerle fino in fondo».14 Una brevissima guida adesso per i naviganti lettori del libro. I capitoli 1 e 2 affrontano il tema dello scandalo del male e del grido di Giobbe che lo denuncia: vi si troverà da un lato una difesa di tale grido rispetto a tutti i tentativi di tacitarlo e risolverlo, compreso quello che vorrebbe colpevolizzare Giobbe perché aggredisce Dio e la sua creazione, dall’altro la possibilità che Giobbe conservi la sua protesta anche scagliandola contro Dio, ma senza infine rompere l’Alleanza, che il male scuote ma non annulla. Il capitolo 3 ripercorre in modo libero alcuni snodi fondamentali della teodicea occidentale, nel suo tentativo di mostrare che il dato del male non inficerebbe la possibilità di credere nella giustizia e nell’amore di Dio: tentativo a cui guardo con rispetto, denunciandone alla fine il limite e il fallimento. Il capitolo 4 esplora l’enigma-aporia del male facendo riferimento – dati i limiti del logos filosofico - all’universo religioso miticosimbolico e a quattro modelli interpretativi fondamentali: quello biblico, dualista, tragico e orfico. Viene evidenziata la peculiarità del modello biblico, ma si avanza l’esigenza di una feconda contaminazione tra le diverse prospettive simboliche, in virtù del fatto

Vito Mancuso, Dio e il suo destino, Garzanti 2016 p. 94. Il carattere in ultima analisi promettente della realtà sollecita una sua lettura in termini di Mistero, in contrapposizione a quanti mettono al centro la prospettiva dell’assurdità dell’esistenza, intesa come l’estraneità della totalità dell’universo naturale e storico alla domanda umana di significato. Fondamentale per questa prospettiva è tutta l’opera di Giuseppe Rensi, in particolare Di chi la colpa?, La Scuola di Pitagora Editrice, Napoli 2015 e la introduzione a essa di Marco Fortunato, Dio, il dolore, la morte, la vita giusta, pp. 19-40.

14

14


che non pare pienamente convincente l’accento sulla libertà umana cui la Rivelazione biblica fa ricorso per esplicare l’origine del male. Che sia non falsa ma insufficiente una tribunalizzazione dell’uomo – al fine di difendere e scagionare Dio – e quanto sgomento inoltre dovrebbe suscitare –nei credenti in particolare – la consapevolezza della fragilità e perversità inerenti a quella libertà umana che pure non si può non considerare un valore-dono imprescindibile, è quanto cercano di mostrare i capitoli 5 e 6. Della suddetta fragilità ha in realtà piena consapevolezza tutta la teologia-filosofia cristiana: nel capitolo 7 cerco allora di evidenziare la non persuasività di quel simbolo del peccato originale che invece il cristianesimo ha messo al centro per rendere intelligibile l’inclinazione al male che segna la natura umana. Contestualmente ho evidenziato che una teologia che si sbarazzi del dogma del peccato originale risulterebbe forse più credibile, ma con dei rilevanti prezzi da pagare, tra cui la necessità di “pericolose” innovazioni in campo cristologico. Altrettanto “eretici” sono i cambiamenti di paradigma suggeriti e auspicati dal capitolo 8, che invita a ripensare il concetto di Provvidenza divina, passando da un Dio come sovrano della natura e della storia a un Dio come Provvidenza ispiratrice che non controlla il mondo. Il capitolo 10 esamina se e in che modo è possibile credere dopo Auschwitz in Dio e in quale Dio. Si vedrà, visitando alcune prospettive dell’ebraismo contemporaneo, che è un Dio sempre più debole e depotenziato: potrà essere sufficiente a colmare il bisogno umano di salvezza e di giustificazione dell’onere che l’impegno a favore del Bene comporta? Il capitolo 10 vorrebbe mostrare che se il “vecchio Dio” vacilla, né nuove immagini meno rassicuranti di Dio, né le varie forme di ateismo tragico-religioso, né un ateismo della protesta e della rivolta, né un umanesimo naturalistico che vorrebbe evidenziare l’autosufficienza del finito non bisognoso di alcuna salvezza, risolvono in modo soddisfacente la domanda di significato che il dato del dolore solleva. Se Dio non è, il sospetto di una finale vanità e assurdità del mondo ha un serio fondamento. Inoltre se la sua stessa mancanza non viene più dolorosamente patita, viene liquidato lo stesso scandalo del male. Curioso paradosso: se il male sembra detronizzare Dio, la liquidazione di Dio ha come ultima stazione la rimozione o l’affievolimento della stessa percezione del male e l’affermarsi di un gaio 15


e pacificato nichilismo. L’ultimo capitolo mostra la mia oscillazione tra l’assenso e la negazione, l’essere entrambi contenuti l’uno nell’altra e il pungolo reciproco che l’uno può e deve essere per l’altra. Alla fine, però, sento che l’atteggiamento “migliore” sia quello di “perdonare” la realtà, tutta la realtà e ovviamente anche se stessi: laddove qui perdonare vuol dire continuare a dar credito all’esistenza a dispetto di tutta la sua fragilità negativa. Nel dire questo mi ritornano in mente due brevi frasi – l’una di G. Testori e l’altra di L. Lombardi Vallauri – che qui riporto a conclusione di questa introduzione: «Non sbaglierà, nonostante tutti gli errori, chi avrà voluto bene alla realtà, ossia alla Creazione. Basta amare la realtà, sempre, in tutti i modi anche nel modo precipitoso e approssimativo che è stato il mio. Ma amarla. Per il resto non ci sono precetti.»15 «L’essenziale è il vivere in-amorati. La vita, presa dal lato giusto, lo merita. Lo consente e lo merita.»16 Ed è forse proprio L. Lombardi Vallauri ad aver suggerito di fronte al problema della teodicea una posizione per me particolarmente feconda e condivisibile, che egli stesso sintetizza con le seguenti parole: di fronte al mistero del male e alla sua provocazione per il credente «tendo a pensare che l’atteggiamento più giusto si trovi (sia da cercare) all’intersezione di tre precetti: intransigente realtà intellettuale-rannicchiamento mistico nell’intimità della persuasione che in qualche modo nonostante tutto Dio è Amore-operosità positiva come se Dio dovesse manifestarsi/diventare buono proprio in me».17 Severo rifiuto nei riguardi di tutte le risposte consolatorie che troppo facilmente liquidano le domande e frettolosamente tacitano il grido di Giobbe; fiducia e scommessa riguardo al fatto che il Senso, il Logos e l’Amore possano essere la cifra ultima della realtà; impegno attivo a curare “il giardino del mondo”, senza di cui le prime due dimensioni perderebbero tutta la loro autenticità: è questa la feconda indicazione che orienta la mia esistenza e il mio percorso.

Giovanni Testori, La maestà della vita, Rizzoli, Milano 1998, p. 27. Luigi Lombardi Vallauri, Nera luce, Editrice Le Lettere, Firenze 2001 p. 304. 17 Luigi Lombardi Vallauri, Teodicea e condizione animali, in Terre, Vita e Pensiero, Milano 1989, p. 572. 15

16

16


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.