Il sottile equilibrio della ragione

Page 1

NASCE A SAN DONÀ DI PIAVE, IN PROVINCIA DI VENEZIA, NEL MAGGIO DEL 1974. DOPO UNA PRIMA GIOVINEZZA NON FACILE, ASSOLTO IL SERVIZIO MILITARE, DECIDE DI TRASFERIRSI DAI NONNI E DI RIPRENDERE GLI STUDI IN CONCOMITANZA CON IL LAVORO. SI TRASFERISCE NEL REGNO UNITO, DOVE VI RIMANE PER QUASI SETTE ANNI. PROPRIO A LONDRA, SU SPINTA DI UNA AMICA ITALIANA CHE PER PRIMA CREDE IN LUI, COMINCIA AD ABBOZZARE IL SUO PRIMO ROMANZO. AL RIENTRO IN ITALIA SVOLGE DIVERSE MANSIONI, CAMBIANDO SPESSO LAVORO, ALLA CONTINUA RICERCA DEL SUO POSTO NEL MONDO, MA È NELLA SCRITTURA CHE TROVA IL SUO ESSERE, LA SUA AUTENTICITÀ.

Giorni e giorni di vagabondaggio esistenziale, la spirale dell’alcol per placare la depressione. La storia di Jean-François Gauthier, trentottenne, editorialista per un importante quotidiano francese, si svolge a Parigi nei primi anni ‘80. Fresco di separazione dalla moglie, incontra una ragazza molto bella e molto misteriosa, Marie che, nonostante conviva con Gérôme, ripete a François di amarlo. La relazione tossica con Marie, fatta di improvvise sparizioni, slanci di passione e giornate cariche di ansia ben presto sostituirà lo stato depressivo del protagonista. Ma nel romanzo Il sottile equilibrio della ragione non tutto è come sembra: la scrittura di Alessandro Baradel, densa di contorni noir, mostrerà una realtà diversa.

ISBN

ALESSANDRO BARADEL IL SOTTILE EQUILIBRIO DELLA RAGIONE

ALESSANDRO BARADEL

978-88-6960-151-4

9 788869 601514

€ 15,00

ALESSANDRO BARADEL

IL SOTTILE EQUILIBRIO DELLA RAGIONE

IL SOTTILE EQUILIBRIO DELLA RAGIONE POCO MALE, FRANÇOIS. AFFRONTEREMO ANCHE QUESTA TEMPESTA. POI, CE NE TORNEREMO NEL NOSTRO COVO DI DISPERAZIONE E DESOLAZIONE. SAREMO NUOVAMENTE SOLI, TU E IO, IL TUO DEMONE, MA ALMENO SAREMO TRANQUILLI E INDISTURBATI IN ATTESA CHE IL DESTINO FACCIA IL SUO CORSO. AL DIAVOLO MARIE! AL DIAVOLO COLINE! AL DIAVOLO TUTTI! TU, FRANÇOIS, NON HAI BISOGNO DI NESSUNO. CHE GLI ALTRI PARLINO PURE! CHE DICANO PURE CHE HAI QUALCHE PROBLEMA. CHI NON NE HA, DEL RESTO? LE PERSONE PARLANO MALE A PRESCINDERE, QUASI CHE OGNUNO CONSIDERI SÉ STESSO UN MODELLO VIRTUOSO IMMUNE DA OGNI GIUDIZIO O CRITICA. RICORDI COME TI GUARDAVANO AL GIORNALE NEGLI ULTIMI TEMPI SOLO PERCHÉ STAVI ATTRAVERSANDO UN BRUTTO MOMENTO? RICORDI IL LORO SGUARDO COMPASSIONEVOLE? IL LORO ATTEGGIAMENTO SUPERBO, ARROGANTE E SUPPONENTE QUASI INCARNASSERO LA PERFEZIONE DELL’ESSERE? AL DIAVOLO ANCHE LORO! MEGLIO SOLI CHE MALE ACCOMPAGNATI, COME SI DICE SEMPRE IN QUESTI CASI. TU, FRANÇOIS, NON HAI BISOGNO DELLA COMMISERAZIONE DELLA GENTE, TE LA SAI CAVARE BENISSIMO DA SOLO.


I

Mi chiamo Jean-François Gauthier, ho 38 anni e faccio l’editorialista per un importante quotidiano francese. Mi sto mettendo a scrivere questo diario, se così lo si può definire, per descrivere un fatto di cui, a oggi, riesco ancora a spiegarmi. È il 27 luglio del 1982. Dall’anno scorso, la Francia ha il suo primo presidente socialista: François Mitterand. All’Assemblea Nazionale e in Senato si sta discutendo sull’abolizione della pena di morte, che sarebbe un fatto storico. In Italia, il pontefice Giovanni Paolo II è stato ferito con un’arma da fuoco a seguito di un attentato. Dalle indagini è emerso che si è trattato di un atto terroristico imputato ai Lupi Grigi, un gruppo terroristico turco di estrema destra. Questi, perlopiù, sono i principali avvenimenti di quest’epoca destinata, a mio parere, a grandi e radicali cambiamenti per il nostro Paese. Cosa ci riserverà il futuro, lo staremo a vedere. Tuttavia, questi eventi di grandissima rilevanza, ai miei occhi sono poca cosa rispetto all’esperienza che mi sono trovato a vivere. Più ci penso e più mi sembra di essere andato completamente fuori di senno, di essere diventato matto. Mi trovo in un vicolo cieco, senza una via d’uscita. Per giorni e giorni, a conclusione di quella incredibile avventura, ci meditai sopra. Più ci pensavo e più mi sentivo preda di un allucinato delirio. Quando poi, allo stremo delle forze, in bilico tra la pazzia e la morte (avendo pensato al suicidio) decisi di rivolgermi a uno psichiatra, mi sentii ancora più affranto e demoralizzato di prima. Oltre all’incontrollato flusso di pensieri che stavano destabilizzando tutta la mia esistenza, mi trovai a subire anche l’imbarazzante 5


e pietosa commiserazione manifestatami dal professionista che, a torto o a ragione, non volle accreditare quanto gli raccontai, bollando tutta la narrazione come il frutto di una trasfigurazione della realtà. Si limitò a dirmi che mi trovavo sull’orlo di una crisi di nervi a seguito di un eccessivo accumulo di stress, causato soprattutto dal divorzio con mia moglie e dal troppo lavoro. «Rimanere svegli a scrivere per quasi tutta la notte non è salutare, né serve a distrarsi dai problemi quotidiani» fu la sua conclusione. Prima di rivolgermi a uno specialista della mente, comunque, ci avevo riflettuto a lungo; non tanto perché non creda in questa venerabile scienza, quanto per il fatto che la vicenda di cui avrei dovuto narrare la storia e gli sviluppi aveva dell’inverosimile. Paradossalmente, io stesso ero il primo a non crederci, figuriamoci raccontarlo a uno sconosciuto. Motivo per cui, se proprio volevo prendere quella strada, avevo bisogno di parlarne con qualcuno che in qualche modo fosse, sì, un esperto in materia, ma che allo stesso tempo avesse anche una maggiore apertura mentale verso un certo tipo di esperienze. Per essere sicuro di scegliere la persona giusta, quella che faceva al caso mio, decisi di rivolgermi a uno junghiano. L’esito, purtroppo, ma questo in qualche modo me l’aspettavo, fu quello accennato poc’anzi: non produsse alcun risultato se non quello di peggiorare la situazione. Se prima avevo un barlume di speranza circa la mia sanità mentale, a seguito di quelle infruttuose sedute fui definitivamente convinto della mia pazzia, come del resto, talvolta, si è portati a credere in certi frangenti della propria vita. Dopo giorni e giorni di vagabondaggio esistenziale, in cui mi gettai nell’alcol per soffocare quel richiamo alla follia che come una eco nefasta tambureggiava senza sosta nella mia testa, mi decisi di farla finita. Non ne potevo più! Ero disperato, esausto, frastornato, in preda a un costante stato di delirio. Come per un malato in metastasi, l’alcol aveva sostituito la morfina nell’alleviare i mali dell’anima, ma per sradicare il seme della pazzia che si era instillato nella mia testa non vi era rimedio. Ero stato vittima di un non so quale scherzo del destino che, come la più tremenda delle verità, mi aveva privato di quella sobrietà e coerenza mentali che ci permettono di vivere serenamente il quotidiano. Non avevo altra soluzione che porre fine a questa mia alienata e disperata condizione. 6


Ricordo che una mattina, complice l’ennesima notte insonne, prima che il sole sorgesse, mi trovavo nei pressi di Pont Neuf. Guardavo lo scorrere calmo e placido della Senna, il suo imperturbabile fluire. «Madre cara, dimmi, quanti corpi hai trasportato nel corso dei secoli? Quanti soldati, sventurati, innamorati e dannati hai accompagnato lungo il loro ultimo afflato di vita? Dimmi! A quanti hai offerto un ultimo giaciglio su cui riposare in pace? Di sicuro ne avrai perso il conto e la memoria. Del resto, come ricordarsi delle migliaia, che dico, milioni di anime che, come due affluenti sgorgati dalla disperazione e dalla cattiveria umana, nel tempo hanno tinto le tue limpide acque con il colore del dramma. Le tue sponde determinano il solco dell’amarezza di chi ha abbandonato questa vita, Madre venerata. Sì! Le tue acque, gelide e implacabili, hanno il sapore della tragedia umana ma, alla fine, che colpa ne hai tu che con il tuo moto perpetuo ti limiti a traghettare le sofferenze del mondo? Sono ingiusto. Sono profondamente ingiusto con te. Mia amata Senna, ti prego, accogli un altro figlio tra le tue braccia offrendogli un ultimo gesto d’amore. Lascia che le mie lacrime si mescolino con le tue, che il mio eterno riposo sopraggiunga nell’abbandono del tuo lento scorrere.» Sulla scia di questi pensieri, mi stavo accingendo a gettarmi nel vuoto quando sentii una voce provenire da dietro le mie spalle. Mi voltai e vidi un signore, più o meno sulla settantina, elegantemente vestito che con sguardo bonario attendeva una mia risposta. Mi aveva chiesto delle indicazioni per andare in un dato posto. Non mi aspettavo di incontrare qualcuno sul ponte a quell’ora. Eppure, quel signore era lì, proprio in quel giorno e proprio a quell’ora. Di sicuro, l’uomo si era accorto del gesto che stavo per compiere e quella richiesta, lo sentivo, aveva il solo scopo di trattenermi dal portare a termine il mio intento. Una parte di me, devo essere sincero, gliene fu riconoscente. Mi aveva chiesto la via più breve per arrivare al Musée Delacroix. Dall’accento capii subito che era forestiero. Gliela indicai. Era un bel pezzo di strada da fare a piedi, gli dissi. Inoltre, era ancora troppo presto: il museo apriva al pubblico alle 9.30 o giù di lì. Egli mi rispose che era solito passeggiare di buon’ora ogni mattina. Sapeva che il museo apriva a quell’ora, ma intanto voleva portar7


si nei paraggi e, nell’attesa, fare colazione. Per l’appunto, con altrettanta gentilezza, quasi gli fosse balenata per la testa l’idea proprio in quel momento, mi chiese se potessi essere così gentile da accompagnarlo, se per me, naturalmente, questo non avesse rappresentato un problema. In cambio, sarebbe stato ben felice di offrirmi un buon caffè caldo e un croissant. Sapevo che quello era un pretesto per distogliermi da ciò che stavo per fare, ma il modo delicato e gentile con cui me lo chiese mi pose nella condizione di non poter rifiutare. Così, gli dissi che ne sarei stato onorato. Mentre passeggiavamo mi disse di essere italiano. Si chiamava Gustavo A. R., abitava a Torino e di mestiere faceva il banchiere. Da giovane aveva studiato a Parigi, dove aveva conseguito una seconda laurea dopo quella in Giurisprudenza ottenuta nella sua città natale. Mi disse che con Parigi era stato amore a prima vista, gli era rimasta nel cuore da quel suo primo soggiorno e, ogni qualvolta ne aveva l’occasione, veniva a farsi un giro per godere delle bellezze che questa città offre. Finimmo, così, per parlare dei nostri rispettivi paesi. Ricordo che disse qualcosa che mi rimase impresso e da cui capii di avere di fronte una persona di grande cultura e intelligenza, che peraltro parlava un ottimo francese. Mi disse che l’Italia, da sempre maliziosa e pasticciona, era stata la comare capricciosa della Germania in più di un’occasione, storicamente parlando. Mentre con la Francia, con cui vi è sempre stato un rapporto fatto di invidie e gelosie, considerandosi entrambe due prime donne, vi era un legame alquanto ambiguo: «Mentre di giorno si sputtanano a vicenda, di notte si cercano per scambiarsi licenziose carezze» aveva concluso. Mi fece osservare come in ambito politico, dove avvengono intrallazzi e beghe da osteria, i due Paesi spesso si pestavano i piedi, come con qualsiasi altra realtà nazionale in fin dei conti. Mentre negli ambienti culturali, dove si incontravano persone per bene di alto profilo, gli intellettuali, per intenderci, le cose erano ben diverse. Da secoli vi era una tale sinergia, dalla pittura alla scultura, dalla semplice letteratura alla filosofia, così come dal cinema al teatro, che si poteva dire che Italia e Francia fossero gemelle. Del resto, le persone colte non pongono barriere fra loro, mentre quelle di mode8


sto profilo, di cui la politica è piena, innalzano scudi anche contro i coinquilini di uno stesso palazzo, figuriamoci verso le popolazioni che parlano una lingua diversa. Per queste ragioni mi consigliò vivamente di non immischiarmi mai con la politica. Ricordo che passammo l’intera mattinata in un bistrot, tra sigarette e caffè, a chiacchierare di queste cose. Per la prima volta, da parecchio tempo, mi sentii più leggero, spensierato, tali erano gli effetti di quella piacevole compagnia. Ricordo anche, però, che dopo un lungo momento di silenzio mi fece una domanda che mi colse impreparato: mi chiese la ragione del gesto che stavo per compiere quella mattina. Esitai a lungo prima di rispondere. Poi, sentendo che potevo aprire il mio cuore a quel forestiero, che comunque non avrei più rivisto, mi confidai. Tuttavia, prima di iniziare la narrazione della mia incredibile vicenda, preferii mettere le mani avanti dicendogli che, con ogni probabilità, alla fine della mia storia mi avrebbe di sicuro scambiato per un pazzo. Egli mi diede una risposta che in qualche modo mi fece capire di potermi aprire a confidenze che ai più suonerebbero come deliranti fantasie. Mi disse di non preoccuparmi: lui era abituato allo scetticismo della gente, nonostante da anni andasse in giro dicendo che «quello che i nostri occhi vedono, che i nostri sensi percepiscono, è solo un imbroglio della mente. Oltre al nostro miope sguardo, c’è molto, molto di più di quanto la nostra limitata mente possa concepire». Questa sua ultima affermazione mi colpì nel profondo. Così, rinfrancato da quelle incoraggianti parole, iniziai a raccontargli la mia disavventura. Quand’ebbi finito, mi disse che avevo semplicemente vissuto un’esperienza mistica come tante ce ne sono e di cui le persone, spesso, stentano a parlarne. Aggiunse che quanto avevo vissuto era assolutamente normale e che poteva accadere a chiunque. C’erano molti aspetti della vita, della nostra realtà di esseri imperfetti, di cui ancora non sappiamo darci una spiegazione, ma che di fatto esistono. Fenomeni che richiedono un livello di conoscenza superiore rispetto a quello cui siamo giunti noi oggi, realtà che trascendono la nostra primordiale sapienza. Mentre parlava in questi termini, sembrava assolutamente sicuro del fatto suo. Non dava l’impressione di essere un ciarlatano e 9


quel suo sguardo malinconico ai miei occhi rappresentava un’insindacabile garanzia sulla sua buona fede. Fu lui a consigliarmi di mettere per iscritto l’esperienza da me vissuta per fornire ai posteri una chiara testimonianza circa le facoltà trascendentali di cui noi esseri umani, in quanto depositari di una forza mistica e divina, possediamo. Questo mio documento, oltre tutto, sarebbe stato un modo per dare libero sfogo al tormento che mi affliggeva e che era meglio di una qualsiasi seduta con uno strizzacervelli. Da qui la ragione di questo mio scritto che spero possiate comprendere e accettare per quel che è. Nella vita, come il signor Gustavo mi fece comprendere, è vero, ci sono ancora molti aspetti della nostra esistenza che ignoriamo, forse per paura, per timore dell’ignoto, o semplicemente per nostre limitazioni. Fatto sta che ci sono ancora molte cose da sapere e da scoprire. Su una cosa, tutto sommato, il forestiero si sbagliava: la mia non era stata un’esperienza mistica o dir si voglia, l’avevo realmente vissuta. Ritornando all’ora presente, prima di concludere l’introduzione alla mia storia, mi sia concesso di esprimere tutta la mia gratitudine al signor Gustavo che, con grande tempestività, giunse in mio soccorso per salvarmi da quello che sarebbe stato il mio ultimo giorno di vita. Vi basti sapere che quel giorno, in seguito alla lunga chiacchierata fatta al bistrot, passammo assieme uno splendido pomeriggio passeggiando e visitando molte delle bellezze che Parigi offre. Mi chiese se valesse davvero la pena di rinunciare a tanta bellezza a seguito di una esperienza che, se vista sotto il giusto punto di vista, poteva essere considerata un’autentica fortuna, se non addirittura un privilegio. Aveva perfettamente ragione! E se adesso mi appresto a narrarvi la mia avventura con cognizione di causa, nel pieno delle mie facoltà e in totale serenità, è proprio grazie a questo signore a cui vanno tutta la mia stima e la mia gratitudine.

10


II

La vicenda che sto per narrarvi risale a circa due anni fa. Mi ero da poco separato da Coline, mia moglie. Ero terribilmente irritato con lei perché mi aveva fatto passare il peggior Natale della mia vita facendomi recapitare, giusto prima delle feste, la richiesta di divorzio dal suo avvocato. Che dire? La tempistica di tale richiesta, ne sono certo, non l’aveva scelta a caso. Era stata ovvia la sua volontà di farmela pagare rovinandomi il periodo più bello dell’anno. Ma, a essere onesti, era quello che mi meritavo. Ero stato io la causa della separazione e il motivo è tra quelli più comuni: scoprì il mio tradimento con una collega del giornale. Quel giorno Coline doveva essere in viaggio verso Nantes per fare un sopralluogo a dei lavori che stava seguendo per la costruzione di un piccolo centro commerciale; lei è architetto. Il destino volle che proprio quel giorno il suo titolare la chiamasse chiedendole di portargli un plastico a cui stava lavorando poiché voleva mostrarlo a un compiacente amministratore della capitale. Coline, nella fretta di uscire, si dimenticò parte dei progetti del centro di Nantes, cosa del tutto comprensibile: era entusiasta perché il suo plastico sarebbe stato sottoposto al vaglio di un influente burocrate. Quando rientrò per prendere parte della documentazione dimenticata, dopo che ebbe portato il plastico in ufficio al suo capo, trovò strano che in casa si sentisse un così forte odore di fumo, come di chi sta di fatto fumando proprio in quel preciso momento. Così, a passo felpato, si diresse verso lo studio fino a quando ci scovò. Fortuna volle, se di fortuna si può parlare, che non ci sorprese mentre stava11


mo facendo sesso. Anzi, ci beccò proprio nel momento in cui stavamo lavorando. Io e Christine stavamo indagando su un giro di corruzione che coinvolgeva alcuni funzionari pubblici. Ci trovavamo in salotto, che forma un tutt’uno con lo studio, a vagliare foto e testimonianze compromettenti, ma il fatto increscioso, e che non lasciava spazio a dubbi, era che eravamo entrambi nudi. Vi lascio immaginare quale fu la sua reazione. Il mio errore più grande fu quello di aver considerato il nostro matrimonio come qualcosa di scontato, di consolidato, e che non ci saremmo mai separati. E invece, le cose andarono diversamente. Solo quando non la vidi più girare per casa a piedi scalzi con addosso una delle mie camicie realizzai quello che avevo perso: un amore che difficilmente potrò mai ritrovare in un’altra donna. Coline è unica, la persona più importante della mia vita, l’essere più incantevole che un uomo possa desiderare, e io l’avevo persa come solo un idiota sa fare. Eravamo insieme dai tempi del liceo, in perfetta simbiosi, la coppia modello dell’amore ideale. Il nostro era stato uno di quei rari incontri che spesso si trovano solo nei film o nei romanzi, una rara comunione che rasentava la perfezione. Cercai in tutti i modi di farmi perdonare, ma lei non è persona da ritornare sui propri passi. Una volta presa una decisione, per quanto travagliata e difficile, rimane fedele alla scelta fatta. Tutti i miei tentativi furono vani, non voleva più saperne di me. Per farmi capire che non avevo più nessuna speranza, forse anche perché stanca e oppressa dai miei continui tentativi di riavvicinamento, mi fece giungere la richiesta di divorzio. Al culmine della disperazione, non volendo accettare quel violento cambiamento nella mia vita, cominciai a bere. Inizialmente lo feci per aiutarmi nel sonno, da tempo non riuscivo più a riposare serenamente. Poi, mi lasciai prendere la mano. Non passava serata in cui non rientrassi a casa completamente sbronzo. Ma quello che all’inizio rappresentò un piccolo aiuto, un supporto nell’affrontare le difficili giornate, ben presto si trasformò in un problema. Dormivo poco e male. Al lavoro ero irascibile, di pessimo umore, mi scontravo con tutti. A un certo punto, avendo chiaro il quadro della situazione e stanco del mio atteggiamento, il direttore del giornale mi convocò nel suo ufficio e mi impose un periodo di aspettativa, consigliandomi di fare qualcosa per rimettermi in sesto. 12


Il risultato, però, fu che la depressione prese il sopravvento su quello stato disagiato e finii con l’essere un soggetto inerme, senza voglia di vivere e di combattere. Spendevo gran parte del mio tempo a letto, fissando lo sguardo nel vuoto. Di fianco avevo alcune bottiglie vuote che usavo come portacenere. Bevevo e fumavo. Fumavo e bevevo. Queste erano le poche azioni che accompagnavano lo scorrere vuoto del tempo. Non mi alzavo neppure per aprire le finestre. La mia camera da letto sembrava avvolta in uno stato di nebbia perenne. Sulla moquette erano presenti alcune bruciature di sigaretta, ma non mi importava nulla. L’aria era irrespirabile, soffocante, pesante come un macigno che ti comprime al suolo costringendoti all’immobilità, all’inerzia, all’oblio. Ma che ci potevo fare? Non avevo voglia di alzarmi neppure per andare in bagno, figuriamoci per aprire le finestre. Solo la sera, quando di tanto in tanto uscivo per andare a mangiare qualcosa, le spalancavo. In quei giorni mi trovavo di fronte all’inesplicabile esistenza dell’essere. I miei pensieri erano costellati da punti interrogativi ai quali non sapevo e non desideravo dare una risposta; non mi importava. Eppure essi comparivano ripetutamente nella mia testa, di sorpresa, di soppiatto, da ogni direzione, da ogni angolo buio della coscienza, avvicendandosi e intersecandosi in modo illogico e confuso, tracciando delle linee parallele o girando in modo vorticoso, scomparendo per poi ripresentarsi più indelebili di prima. Ogni tanto sentivo qualcuno bussare alla mia porta, era la follia che voleva entrare per rapirmi, per rapire quell’ultimo barlume di consapevolezza che mi rimaneva. Allora, a quel punto aprivo le finestre, prendevo un po’ d’aria, aspettavo che lei se ne andasse e poi uscivo. Un tardo pomeriggio mi trovavo in un piccolo locale della periferia. Quel giorno, essendo il tempo splendido, avevo deciso di farmi un giro cercando di vincere la mia inerzia. Il locale era poco frequentato. Presentava diversi divisori in legno al suo interno, con delle vetrate opache e finemente decorate nella parte alta, che dividevano gli spazi in più aree per garantire una maggiore riservatezza ai clienti. Ogni area conteneva tre o quattro tavolini. Era quello che cercavo: un posto appartato dove non essere disturbato. 13


Mi piazzai nell’angolo opposto all’ingresso, volevo starmene tranquillo e mangiare in solitudine. Fatta l’ordinazione, mi misi a leggere il giornale. Mentre aspettavo, entrò una giovane coppia. Erano poco più che ventenni, entrambi molto magri: un metro e ottanta lui, di poco più bassa lei. Il ragazzo aveva un bel casco di capelli biondo scuro, tutti scompigliati, viso smunto, sguardo severo, ma nel complesso un bel giovane. La ragazza, invece, aveva dei lunghi capelli castano chiaro, lisci, che le scendevano liberamente lungo la schiena. A differenza del suo compagno, lei sembrava essere una persona più allegra, gioviale. Non sembrava il tipo di ragazza che perdeva il suo tempo nel truccarsi e, di fatto, non ne aveva bisogno tanto delicato e levigato era il suo bel viso. Erano entrambi vestiti in modo semplice. A ben vedere, sembravano due studenti. Si misero a sedere nell’angolo opposto al mio, in un altro separè, ma in un tavolo dove li potevo vedere chiaramente. Ciononostante, non si resero neppure conto della mia presenza. Meglio così, pensai. Si trovavano nell’età della spensieratezza, ma parlavano poco. Si limitavano a guardarsi negli occhi per interminabili momenti, in silenzio. Ma quella che mostrava maggiore tenacia in quel meraviglioso gioco, comunque, era lei. Di tanto in tanto lo accarezzava, poi lo baciava sulla guancia, lo abbracciava. Lui, a dispetto dello sguardo serio, le accarezzava la testa, le sistemava i capelli dietro l’orecchio, le aggiustava la frangia sulla fronte, con estrema delicatezza, con molto tatto. Insomma, quello che ci si può aspettare di vedere in una giovane coppia. A quella vista mi assalì un profondo senso di malinconia. Maledii la mia idea di avventurarmi in un posto diverso rispetto a quello abituale. Non fossi entrato lì, non avrei assistito a quelle scene che evocavano in me solo tristi ricordi e che, come una fredda lama, si ritorcevano dentro a una ferita ancora sanguinante. Arrivò la mia cena. Fu in quel momento che i due si accorsero della mia presenza. Ci guardammo negli occhi per un istante, ma nessuno fece un cenno di saluto. Distolsi lo sguardo per primo e, come se nulla fosse, cominciai a mangiare continuando a leggere il giornale mentre loro fecero ritorno alle proprie vicendevoli attenzioni. 14


Ogni tanto, seppur in modo involontario, gettavo lo sguardo al loro tavolo. I due giovani continuavano indisturbati in silenziose confessioni d’amore per le quali, al romanticismo delle parole, avevano preferito la poesia dei gesti. A quanto pareva la mia presenza non li metteva a disagio, né tantomeno ne frenava le effusioni. Passata all’incirca un’ora da quando si erano seduti, mentre stavo bevendo il caffè, cominciarono a litigare. Lei gesticolava molto, sembrava davvero arrabbiata. Lo strattonava per la camicia, lo prendeva per i polsi. Lui, invece, più calmo, quasi apatico, ascoltava senza degnarla di uno sguardo. Pareva quasi non gliene importasse nulla di quello che lei gli stesse dicendo o di come lo trattava. Si limitava a guardare dentro al bicchiere vuoto e ad alzare le spalle. Seppur palesemente arrabbiata, la ragazza gli parlava cercando di moderare il tono della voce per non far sentire le sue lamentele a chicchessia. Ordinai un brandy al barista e mi misi a leggere la pagina dello sport cercando di ignorare quello che stava accadendo dall’altra parte della sala. Quel loro bisticciare, per quanto deprecabile possa essere confessarlo, mi aveva messo l’animo in pace. La vista di quegli scambi amorosi era per me un supplizio, un tormento troppo grande da sopportare. Ora che avevano terminato con quei motteggi amorosi per dare spazio alla rabbia, per chissà quale futile motivo, per aggiunta, ero più sereno. Dovevo ancora accettare la mia nuova condizione di divorziato e tutto quello che mi accadeva intorno, che in qualche modo avesse a che fare con l’amore, mi infastidiva. Un giorno, quando tutto sarebbe passato, anch’io mi sarei ritrovato al posto di quei due giovani innamorati e, a quel punto, tutto il male del mondo sarebbe finito. Bastava solo avere pazienza e lasciare che il tempo facesse il suo corso ma, per il momento, nel pieno rispetto del mio stato d’animo, non volevo saperne di vedere o ascoltare stucchevoli manifestazioni d’amore. Mentre stavo esprimendo queste considerazioni mentali, fingendo al contempo di leggere il giornale, una giovane voce femminile mi chiese se poteva accomodarsi al mio tavolo. Era lei, la ragazza! Naturalmente, acconsentii. Forse, al culmine del litigio, stanca ed esasperata, aveva abbandonato il suo innamorato per trovare rifugio al mio tavolo. Il suo intento di ingelosire il fidanzato con un 15


simile affronto era ovvio, ma mi risolsi ad assecondarla, una piccola malignità che volli concedermi. Mi chiese se potevo offrirle da bere. Guardai per un istante il suo fidanzato, quasi a volergli chiedere se intendeva o meno venirsela a riprendere, ma lui non mi degnò neppure di uno sguardo. Anzi, prese la sua giacca, le sigarette, e se ne andò. Lei lo seguì con lo sguardo finché non guadagnò l’uscita, poi scoppiò a piangere. Le feci portare qualcosa di forte, come da sua richiesta. Bevve l’intero bicchiere tutto d’un fiato, era evidente che voleva lasciarsi alle spalle il prima possibile quell’infelice momento. La lasciai fare senza chiederle o dirle nulla. Aspettai che fosse lei la prima a parlare. Vi fu un lungo silenzio, durante il quale si asciugò le lacrime e mi rubò una sigaretta dal pacchetto. Le porsi l’accendino. Mi osservò bene in volto, forse per la prima volta, e mi fece qualche domanda. Parlammo a lungo di me, ma non disse nulla sul suo conto se non che si chiamava Marie, aveva ventiquattro anni ed era una studentessa di Lettere e filosofia. Alla fine, dopo qualche bicchiere e molte sigarette, finimmo col ridere spensieratamente. Mi disse che mi trovava simpatico e pure molto carino. Ero pienamente consapevole di essere un bell’uomo e di esercitare un certo fascino sulle donne e, forse, alla base di quanto successo con Coline c’era proprio questo. Alla lunga avevo ceduto alle continue lusinghe di una donna con cui passavo molto del mio tempo, la mia collega, che per ovvie ragioni non potevo evitare e che, data la mia straordinaria somiglianza con l’attore Jean Sorel, mi chiamava appunto come lui. Si era fatto buio e il locale stava per chiudere. Marie mi chiese se potevo ospitarla per quella notte, non voleva rientrare a casa. Mi dissi disponibile. Arrivati al mio appartamento le diedi una camicia da notte di Coline e le offrii di dormire nella mia camera da letto, mentre io sarei andato in salotto. Non volle sentire ragioni: avrebbe dormito lei sul divano e così facemmo. Quella sera, complici forse quelle risate che mi feci in compagnia di Marie, completamente rilassato, mi addormentai quasi subito. Nel cuore della notte, però, a un’ora imprecisata, sentii la porta della camera aprirsi lentamente. Un leggero rumore di passi, attenuato dalla moquette si avvicinò al mio letto. Non mi mossi. Sentii le len16


zuola scostarsi e un corpo infilarsi dentro per stendersi al mio fianco. Un braccio delicato mi cinse la vita, mentre una gamba timidamente cercava spazio tra le mie. Un piede freddo cominciò a strofinarsi al mio polpaccio per provocare quel calore che si produce dallo sfregamento di due corpi. Mi girai e chiesi a Marie che cosa stesse facendo. Mi rispose che cercava solo un po’ di compagnia. Consapevole della mia situazione, di quanto mi era accaduto, di quello che avevo perso a causa di un momento di debolezza, non volevo che succedesse la stessa cosa anche a quella ragazza. L’invito che mi stava rivolgendo era chiaro e ne ero lusingato, ma dal canto mio non volevo che quella dolce creatura si trovasse, un giorno, a soffrire per un colpo di testa di una notte. Aveva iniziato a baciarmi le spalle, mentre con una mano mi accarezzava il petto. Le chiesi del suo fidanzato. Come si sarebbe sentito se avesse saputo di quello che gli stava facendo. Lei mi disse di non preoccuparmi, che era tutto a posto. Io insistetti sulla mia linea: «Se in un modo o nell’altro lo venisse a sapere? Ne soffrirebbe...» Al che, fissandomi attraverso quel barlume di luce che filtrava dalla finestra, mi rispose che lui non era il suo fidanzato. Il loro era un rapporto particolare. Erano molto legati, era vero, ma non da considerarsi una coppia nel senso stretto del termine. Almeno, non fino a quel punto. Il tono con cui lo disse, tuttavia, celava un misto di sentimenti contrastanti. Per quel che mi riguardava, non dissi più nulla. Lei era molto bella e io mi trovavo in un momento di grande vulnerabilità, per non dire di grande necessità. Chiusi gli occhi e mi abbandonai alle delizie dell’amore inconsapevole del dramma a cui sarei presto andato incontro.

17


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.