PARTENDO DALLO STUDIO DI ALCUNE TRA LE PIÙ IMPORTANTI E RECENTI ESPLORAZIONI NELL’AMBITO DELLA SCIENZA DELLA VISIONE E DELLA MENTE, QUESTO LIBRO RIPERCORRE LA TEORIA DEI pittori astrattisti
e in particolare quella di Wassily Kandinsky, secondo la nuova prospettiva della Neuroestetica, e ci dimostra quanto questo pittore abbia in comune con un moderno neuroscienziato nell’averci svelato attraverso i suoi dipinti e i suoi scritti la vera essenza della realtà.
Neuroestetica e arti visive
specializzata in Grafica e Web Design, nel 2019 ha fondato Ad Astra Design, azienda di marketing digitale e ha poi conseguito un Master in Neuromarketing presso il Centro Universitario Internazionale di Milano. Attualmente si occupa di consulenza digitale e cura l’immagine e la comunicazione di aziende e liberi professionisti con particolare attenzione alla psicologia del consumatore.
BARBARA MISSANA
BARBARA MISSANA Storico dell’Arte,
ISBN
€ 33,00
978-88-6960-149-1
9 788869 601491
BARBARA MISSANA
prefazione di Maristella Trombetta L’ESPERIENZA ESTETICA, DA SEMPRE OGGETTO DI STUDIO DELLA PSICOLOGIA COGNITIVA,
Neuroestetica e arti visive RIFLESSIONE SUGLI SCRITTI DI KANDINSKY
è diventata in questi ultimi anni terreno fertile per le indagini sul cervello: le arti visive, in particolare, hanno offerto ai neuroscienziati nuovi spunti per le loro ricerche; viceversa le moderne tecnologie di brain imaging hanno validato alcuni degli assunti delle vecchie teorie estetiche. Questa nuova collana con comitato scientifico diretto da Maristella Trombetta, si propone di scandagliare, sulla base di intuizioni teoriche riscontrabili nella produzione filosofica, pedagogica e letteraria occidentale, i processi che innescano e regolano l’attività immaginativa per comprendere sia le motivazioni che spiegano il perché del piacere dell’immaginare che come questi processi possano essere funzionali a nuove forme di fruizione o apprendimento. I componenti del Comitato scientifico, diretto da Maristella Trombetta, sono: Lorella Bosco, Carlo Fusca, Barbara Missana e Saverio Simi de Burgis.
PREFAZIONE EDUCARE ALLA BELLEZZA MARISTELLA TROMBETTA L’oggetto d’indagine di questa breve prefazione è l’evoluzione del concetto di bellezza nella cultura visuale occidentale e il suo essenziale rapporto con l’intelligenza emotiva. La ricerca prende le mosse dallo spazio proprio dell’arte intesa come strumento essenziale per riconoscere le proprie emozioni attraverso il linguaggio simbolico delle forme e dei colori. Sin dall’antichità, già i Pitagorici, teorizzando il concetto di armonia, offrirono una compiuta dottrina della bellezza. Essa, per loro, rappresentava la sola testimonianza, nella dimensione del visibile e del contingente, del regno del bene, dell’esistenza del valore. La bellezza è la rivelazione dell’ordine, dell’armonia, entro un mondo che è altrimenti assoggettato al caso e all’entropia. È per questo che “stupisce” e suscita “meraviglia”. In questa prospettiva l’artista è colui che, innamorato della bellezza del mondo, sa trasformare l’esperienza della caducità dell’esistenza e del bene andando al di là della necessità riconosciuta dalla ragione. L’artista è così artefice della gioia perché nel produrre e nel cogliere bellezza consente a chi fruisce delle sue opere di percepire una dimensione della libertà che la avvicina al bene. Del resto, le parole arithmos e logos sono sinonimi: per questo i rapporti incommensurabili propri dell’ambito artistico 7
sono alogoi, irrazionali. È questo il motivo per cui, restando nell’ambito delle arti figurative, la percezione visiva non può essere ridotta al semplice processo ottico che proietta le immagini sulla retina. Essa implica la comprensione delle immagini e consiste in una presa di coscienza della realtà attraverso l’uso delle emozioni. È nell’apparire che l’opera d’arte esplica la sua massima valenza espressiva tanto che la sua capacità comunicativa può̀ essere misurata dalla modalità̀ percettiva che innesca nel fruitore. L’esperienza percettiva è un’esperienza diretta del “così com’è” che consente al fruitore di riportare lo sguardo sulla realtà in modo differente. Del resto, l’esperienza della bellezza, naturale o artificiale, è immediata. È il concetto in sé di bellezza a essere alquanto elusivo. Infatti, alla domanda che cos’è la bellezza, qual è il suo potere o il suo mistero generalmente si risponde che la bellezza è nell’occhio di chi guarda ma, questa non è una risposta esaustiva anzi apre a una serie di problematiche: da quelle legate alla sfera psicologica a quelle relative a questioni più tecniche (una delle domande che ci verrebbero immediatamente come conseguenza dell’affermazione precedente è perché delle cose sono bellissime per alcuni occhi e lasciano assolutamente indifferenti altri?). La questione del bello e della sua percezione indagata nella modernità ha condotto a definizioni di cui ancor oggi viviamo il retaggio e la fascinazione. Una di queste è la definizione di bello come utile o funzionale alla quale si è pervenuti cercando una modalità che la potesse oggettivare. Se ci soffermiamo, in particolare, sul concetto di funzione che ha avuto una ricaduta notevole nella ridefinizione 8
del concetto di bello (pensiamo alla democratizzazione della fruizione estetica tramite il design) dobbiamo affermare che questo concetto non è poi così oggettivo (per esempio io scelgo un determinato scrittoio non solo perché è un supporto che mi consente di praticare comodamente la scrittura – in questo non differirebbe da un qualunque tavolo da cucina. La mia scelta è determinata da altri fattori). Inoltre, la funzionalità non dà una spiegazione adeguata del perché quell’oggetto ci seduce (anche i vetri veneziani sono dei bicchieri ma bere da uno di quei bicchieri significa aderire a un certo stile di vita anche solo per un istante, gustare diversamente e dunque fare un’esperienza estetica nuova). Se è pur vero che non possiamo ridurre il nostro concetto di bellezza alla semplice forma, è anche vero che la riflessione sull’idea di funzione c’induce a considerare che ci sono ben altri elementi importanti che determinano la nostra esperienza della bellezza. Elementi che non possono essere categorizzati poiché la nostra capacità di cogliere la bellezza dipende dal nostro modus vivendi, dall’idea che abbiamo di noi stessi. L’incontro con il mondo artistico diviene dunque un’occasione straordinaria per favorire e orientare il processo di costruzione dell’identità personale. Davanti alle opere d’arte, e pensando noi stessi e la nostra vita in dialogo costante con le figure e le metafore che gli artisti ci offrono, teniamo sveglia e, per così dire, alleniamo la nostra sensibilità da due punti di vista: l’uno legato all’uso dei sensi, l’altro alla sfera affettiva, scoprendoci esseri sensibili, emozionandoci. Grazie alle emozioni e all’esperienza sensibile che induce questi sentimenti noi conosciamo, ci apriamo al mondo. Di fronte a 9
un’opera d’arte ciascuno di noi ha un’esperienza estetica del tutto soggettiva poiché i sentimenti, i ricordi, il piacere percepito attengono a componenti relative alla storia personale dell’individuo nei suoi aspetti genetici e culturali. Per Kandinsky la catena dell’emotività unisce in modo continuo artista e spettatore secondo uno schema ben preciso “artistaemozione-percezione-emozione”. Questo accade poiché la rappresentazione dell’artista è espressiva, una rappresentazione che suscita, come dicevamo, emozioni empatiche. Per questo motivo, educare alla bellezza è un compito complesso ma necessario che non riguarda soltanto il trasferimento di nozioni relative all’individuazione di un discrimine di ordine formale (riconoscere e distinguere ciò che è bello da ciò che non lo è) ma riguarda il processo che consente di conoscere e riconoscere sé stessi nelle potenzialità migliori e di usare la nostra intelligenza emotiva in maniera consapevole perché, richiamando il titolo di un bel libro di Marta Nussbaum, le emozioni sono criterio valutativo e cognitivo fondamentale nell’esistenza di tutti noi.
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1. ARTE E SCIENZA: STORIA DI UNA RELAZIONE POSSIBILE Scienziati e artisti da sempre condividono il bene della creatività. Attraverso l’intuizione e l’analisi portano a termine i propri progetti e ne ammirano la bellezza. Da qui la capacità di elaborare pensiero astratto e rappresentazioni complesse del mondo. Einstein definisce questa capacità come “molla scatenante” del processo creativo. Nel 1959 l’inglese Charles Percy Snow denunciava una rottura tra “le due culture”, quella scientifica e quella umanistica e sosteneva con forza l’idea che bisognasse tentare di recuperarla. In molti reagirono a questa provocazione, in particolare Primo Levi che sottolineò che tale “schisi” tra scienza e arte fosse completamente innaturale, giacché una tale separazione non la conoscevano né Dante, né Galileo e neppure tanti altri artisti e studiosi della storia. Oggi più che mai le neuroscienze e l’Arte si stanno misurando con la provocazione di Snow. Anche gli scienziati, infatti, usano da sempre criteri estetici per stabilire la validità della propria opera. Ma quanta scienza c’è in un quadro? Quanta intuizione? E in quale modo scienza, intuizione, percezione, realizzano una straordinaria cooperazione? È certo, alla luce di recenti studi interdisciplinari, che contrariamente alla superata teoria della frattura tra “le due culture”, esse si compenetrano nel complesso ingranaggio percezione sensoriale-cervello e introducono alla conseguente rilevanza neurobiologica nella frui19
zione e nella realizzazione dell’opera d’arte. Né Dante, né Galileo, né Michelangelo, né Leonardo, né Goethe, si preoccuparono della pregiudiziale antinomia, bensì furono incantati essi stessi ai limiti dell’inconoscibile. L’arte è quindi un modo di comunicare la scienza. Da questa sorprendente affermazione, si può concepire come intorno all’esperienza della visione estetica, possa essere sviluppato uno studio sistematico tra scienziati e artisti che confermi le premesse prospettate nell’incipit.
1.1 LE RECENTI SCOPERTE
Negli ultimi decenni, grazie allo sviluppo tecnologico e alle ultime scoperte sul cervello visivo, anche il settore artistico è stato oggetto d’indagini interdisciplinari caratterizzate dalla collaborazione attiva tra filosofi, fisici, ingegneri, medici etc. Sono, in particolare, le neuroscienze che oggi si propongono di aprire nuovi orizzonti verso la comprensione dell’esperienza estetica e di quella creativa. È impossibile pensare all’arte in modo del tutto autonomo dalla scienza giacché entrambe le discipline non solo sono espressione della creatività umana, ma hanno un’origine comune: partono dall’osservazione. Come scrive Richard Gregory nel suo testo Occhio e Cervello. La psicologia del vedere del 1998, nel corso dei millenni arte e scienza si sono separate, tuttavia l’una dipende dall’altra, «entrambe si trasmettono e ne ottengono una reciproca ispirazione». Il connubio Scienza-Estetica-Storia dell’arte si concretizza nella nuova frontiera di studi della neuroestetica, la 20
nuova teoria estetica con imprinting biologistico basata sulla concezione che le funzioni e le finalità dell’arte siano una sorta di estensione di quelle del cervello. L’arte è espressione della mente umana e in quanto tale deve sottostare alle leggi del cervello visivo sia per quanto riguarda la creazione che per il giudizio. Se è vero che Scienza ed Estetica sono due discipline molto divergenti per l’oggetto della loro ricerca, è però pensabile che dal loro confronto possano essere dedotte le leggi e le regole dei meccanismi percettivi dell’uomo e dunque le modalità dell’atto creativo. Del resto il termine “Estetica” etimologicamente deriva dal vocabolo αίσθησις, “sensazione” che ha a sua volta origine nel verbo αíσθανομαι, che significa “percepire attraverso la mediazione del senso”; ciò significa che nasce non dalla Filosofia, ma dalla Scienza stessa, dalla conoscenza che riguarda l’uso dei sensi. Per sua natura si fonda perciò su dati percettivo-visivi ma prende forma nella continua ricerca interiore delle costanti che riconoscono il bello e lo generalizzano in strutture essenziali e universali. «Proprio come l’arte il cervello cerca ciò che è costante ed essenziale»1 e, come ha precisato Lamberto Maffei – che con Adriana Fiorentini in Italia ha condotto i primi studi sul cervello visivo – le neuroscienze «non offrono soluzioni, ma pongono le basi per formulare ipotesi (…) per colmare il fossato tra conoscenze scientifiche e arti visive».2 Semir Zeki, La visione dall’interno, Arte e cervello, Bollati Boringhieri Torino 2003, pag. 280. 2 Chiara Cappelletto, Neuroestetica, L’arte del cervello, Editori Laterza, Milano 2012, pag. 9. 1
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In questi ultimi decenni sono stati raccolti così tanti dati sul cervello che è stato possibile avanzare un discorso concreto sull’arte visiva in termini biologici partendo dall’esperienza percettiva. Sciolti alcuni dubbi e svelati altrettanti misteri sull’uomo, si è arrivati a domandarsi il perché la stessa opera d’arte possa piacere e coinvolgere tante persone allo stesso modo. Poiché, infatti, il linguaggio dell’arte e il senso estetico non bastano per fondare una teoria valida e profonda e poiché l’intenso e biologico legame tra attività del cervello e fatto artistico rientra quindi nell’organizzazione neurologica del cervello – le cui aree, deputate alla visione sono più numerose e complesse di quanto fino a ora fosse dato sapere – è apparso utile tentare una “neurologia” dell’estetica. Superata l’idea dell’occhio come “macchina fotografica” e organo della mera registrazione passiva del mondo, è stato approfondito lo studio delle aree del cervello deputate alla visione interpretando quest’ultima come un processo attivo di analisi dei dati sensibili e creazione dell’immagine. Il neuropatologo svedese Salomon Eberhard Henschen dell’università di Uppsala ha per primo intuito agli inizi del secolo scorso che la retina è connessa anziché all’intera corteccia cerebrale a una specifica zona detta “corteccia visiva primaria” o V1 deputata alla visione.3 Recenti studi hanno però individuato altre zone deputate alla visione che circondano l’area V1, assegnando loro le sigle V2, V3, V4, V5 etc.
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Stanley Finger, Origins of neuroscience: a history of explorations into brain functions, Oxford University Press 2001, pag. 91.
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Henschen quindi credeva che ci fosse un “occhio nel cervello” parlando dell’area suddetta come “retina corticale”, collocata nella parte posteriore del cervello, che divenne la zona più studiata e che indusse molti a considerare che la visione avvenga solo grazie a tale area. Tutta la materia grigia circostante era definita con vaghezza “corteccia associativa”, mentre oggi sappiamo che essa contiene tante altre aree deputate alla visione. Già Platone e Aristotele avevano intuito che ogni impressione visiva andava confrontata con le altre immagazzinate in precedenza, che avevano impressionato la mente e i primi neurologi appoggiavano tale tesi Specializzazione funzionale della corteccia visiva.
V5 V3 V2 LOBO TEMPORALE
V1
LOBO FRONTALE LOBO PARIETALE
V4
LOBO OCCIPITALE
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credendo che quindi la funzione della corteccia associativa fosse appunto quella di memorizzare le impressioni giunte dalla retina alla corteccia primaria. Oggi invece si è superata tale teoria e si è scoperto che il cervello tratta le diverse caratteristiche di una scena visiva in quelle tante aree associate secondo uno schema ben organizzato e specializzato. La via ottica collega la vista alla corteccia visiva primaria V1 in cui le cellule che ricevono i segnali di colore, luminosità, movimento, forma etc., li smistano nelle aree specializzate intorno alla corteccia attraverso una zona intermedia V2. Secondo la teoria della specializzazione funzionale non esiste un solo cervello visivo ma più aree afferenti a una principale (V1). Le cellule neurali reagiscono in modo differente agli attributi dell’immagine visiva e così ogni area elabora autonomamente le informazioni in modo sincronico: la zona V4 il colore, la V5 il movimento, il giro fusiforme il riconoscimento dei volti e così via; attributi differenti della scena visiva sono quindi gestiti da differenti zone della corteccia secondo un’organizzazione che rispecchia un primo momento di elaborazione della conoscenza del mondo. Per verificare quanto detto, i neurologi hanno osservato le variazioni del flusso di sangue nel cervello: poiché le cellule in attività aumentano la frequenza di scarica elettrica dando luogo a una maggiore richiesta di sangue ossigenato, hanno riscontrato che tendenzialmente, quando un uomo osserva un quadro policromo, il cambiamento di flusso sanguigno avviene nelle zone V1 e V4. Allo stesso modo, se si osserva un quadro di quadretti bianchi e neri in movimento in direzioni differenti, il cambiamento di flusso avviene 24
nelle zone V1 e V5. Crolla così la vecchia teoria secondo cui esistono solo una zona corticale primaria deputata alla visione e una zona associata deputata alla comprensione. Le aree specializzate non sono tutte connesse con un’unica area sovrana in grado di comprendere i risultati del loro processo elaborativo, bensì ciascuna ha connessioni multiple con le altre e quindi riceve e trasmette segnali. Ciò vuol dire che il cervello confronta sincronicamente più elementi registrati dalla retina. Infatti, un uomo acromatopsico, avente cioè una lesione all’area V4 che non gli consente di percepire e di comprendere il colore, oppure un uomo acinetopsico, privo della capacità di vedere oggetti in movimento, non solo non perde tutte le altre capacità visive, ma è in grado comunque di comprendere qualcosa degli attributi visivi che non può più percepire. Infatti, prima di giungere all’area deputata, lo stimolo visivo passa comunque per l’area V1 e per altre attigue secondo la posizione topografica che deve raggiungere per essere decifrato. Per esempio, l’impulso retinico che riceve il movimento passa per V1, V2 e infine va in V5; perciò chi ha l’area V5 lesionata, può avere intatti i primi due livelli di ricezione e quindi di conseguenza distinguere a livello sommario il movimento. Invece un paziente che abbia compromesso la corteccia primaria V1 è totalmente cieco e non è neanche in grado di comprendere nulla di ciò che osserva perché quell’area è il centro di smistamento dei vari segnali specializzati. Dalla patologia della visione i neuroscienziati sono giunti a comprendere qual è il processo di godimento estetico della realtà. Per esempio, studiando i pazienti affetti da acromatopsia, hanno scoperto che essi non potendo più riconosce25
re i colori, descrivevano un mondo di sfumature di grigio e contemporaneamente non erano in grado nella maggior parte dei casi di percepire o addirittura di immaginare l’aspetto degli oggetti, la loro forma; questo perché di solito colore e forma sono strettamente legati. Esiste allora una rappresentazione ideale per tutti gli attributi visivi del cervello? Esiste un unico senso estetico? L’acromatopsia sembra suggerire una risposta negativa. Esistono molti sensi estetici, ciascuno legato a una determinata area di specializzazione funzionale (V1, V2, V3, V4, V5, V6, ecc…) in modo che una qualsiasi inefficienza comporta solo «la incapacità di apprezzare l’effetto estetico prodotto dall’attributo per il cui trattamento quel sistema è specializzato».4 In realtà questo fatto non stupisce perché già nel gergo filosofico esistono più estetiche, quella del colore, della forma, del paesaggio, a dimostrazione che esistono categorie estetiche distinte. Tutti questi risultati non sono ancora entrati a pieno titolo nelle riflessioni degli storici e dei critici dell’arte; tuttavia la ricerca delle costanti oltre l’ambiguità, l’immaginazione, i limiti fisici e mentali dell’uomo, il non detto, le forze psicologiche, le emozioni, non fa che condurre a una riflessione multidisciplinare fondata sulla consapevolezza che la scienza del mondo che vediamo, riconoscendo all’arte una funzione cognitiva e altrettanto scientifica, ha ammesso che essa sia un prodotto creativo e quindi nobile del cervello.
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Semir Zeki, La visione dall’interno, Arte e cervello, Bollati Boringhieri Torino 2003, pag. 110.
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«Ciò che vediamo può essere assai differente da ciò che conosciamo, o in cui crediamo; e con il progredire della scienza la differenza tra apparenze percepite e realtà accettate diviene sempre più grande.»5 Ci si è spinti molto al d ilà della comune opinione della somiglianza occhio-macchina fotografica poiché non basta a rendere l’idea delle tante funzionalità della visione. Ciò che ha sorpreso è il ruolo fondamentale che il cervello ricopre nell’ambito della visione, lasciando agli occhi il solo ruolo di “formare” (“dar forma”) le immagini. Molti autorevolissimi studiosi nonostante la fondatezza di queste scoperte riguardanti il ruolo del cervello nella visione, continuano a considerare l’atto percettivo come una sorta di finestra aperta sul mondo. Invece la percezione di un’immagine è un qualcosa che va oltre la mera forma formatasi nell’occhio e il suo “valore aggiunto” deriva da un’elaborazione a livello cerebrale. La mente umana è oggi esplorata con strumenti e tecnologie sempre più raffinati tra i quali, prima fra tutti, la risonanza magnetica funzionale (fMRI), con la quale si sono potuti osservare in modo non invasivo gli effetti dell’estetica, dell’amore romantico e tutti i meccanismi neurali che regolano l’immaginazione creativa, rivelando un cervello che vede e che comprende con una “visione dall’interno”.
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Richard Gregory, Occhio e cervello. La psicologia del vedere, Raffaello Cortina Editore, Scienza e Idee, collana diretta da Giulio Giorello, 1998, pag. 2. 27