Tanti volti nella memoria

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Un medico, i suoi pazienti, i loro vissuti: ricordi che vengono fuori come un fiume in piena e diventano racconti. Varie decine di storie di gente comune, aneddoti e momenti particolari che hanno riguardato anche la vita privata dell’autore. Donato De Michele, per quarant’anni medico di medicina generale a Matera, con una voce schietta e autentica, in Tanti volti nella memoria regala una carrellata di personaggi colti in situazioni e momenti significativi della loro vita – cui solo al medico di famiglia, a volte, è consentito accedere, sempre in punta di piedi – e che hanno lasciato un segno indelebile nella sua memoria.

ISBN

978-88-6960-131-6

9 788869 601316

€ 18,00

DONATO DE MICHELE TANTI VOLTI NELLA MEMORIA

DONATO DE MICHELE, FOGGIANO, MATERANO DI ADOZIONE PER SUA PRECISA SCELTA, CLASSE ‘45. DOPO IL DIPLOMA DI MATURITÀ CLASSICA SI È LAUREATO A SIENA DOVE HA CONSEGUITO ANCHE LA SPECIALIZZAZIONE IN CARDIOLOGIA. A NAPOLI HA CONSEGUITO LA SPECIALIZZAZIONE IN DIETOLOGIA. HA SPOSATO ROSANNA DEL GIUDICE, MATERANA, E HA VISSUTO E VIVE A MATERA DOVE, DAL 1971 AL 2011, HA LAVORATO COME MEDICO DI FAMIGLIA, CARDIOLOGO E DIETOLOGO, DANDO LA PREFERENZA ALL’ATTIVITÀ DI MEDICO DI FAMIGLIA, PERCHÉ GLI HA CONSENTITO DI ACCUMULARE UN ENORME BAGAGLIO DI ESPERIENZE UMANE DIRETTE E INDIRETTE. HA TRE FIGLI: TITTY, ANNALISA E GIUSEPPE.

DONATO DE MICHELE

TANTI VOLTI NELLA MEMORIA RICORDI DI UN MEDICO

TANTI VOLTI NELLA MEMORIA «E ALLORA», MI RISPOSE LACONICAMENTE CON UNO SGUARDO SEVERO, «QUESTO MESTIERE NON FA PER VOI, DOTTO’». MI FECE VERGOGNARE DI ME STESSO. AVEVA AVUTO LA SFRONTATEZZA DI DIRMELO IN FACCIA. QUELLA FRASE MI DIEDE DA RIFLETTERE. CI PENSAI E RIPENSAI: EFFETTIVAMENTE AVEVA RAGIONE. IL MIO PUNTO DI VISTA NON POTEVA ESSERE PIÙ IMPORTANTE DI QUELLO DEL MALATO. QUELLE PAROLE AVEVANO DATO UNA SVOLTA ALLA MIA VITA PROFESSIONALE. IN QUALUNQUE MOMENTO VENISSI CHIAMATO AL TELEFONO, PRENDEVO LA BORSA DA MEDICO E MI PRECIPITAVO A CASA DEL PAZIENTE — FOSSE DI GIORNO, DI NOTTE, DI DOMENICA O NELLE FESTE COMANDATE. MI RAMMENTAVO DI QUELLA FRASE MENTRE LO OSSERVAVO LÌ DISTESO ATTRAVERSO LA PORTA SOCCHIUSA DELLA CAMERA DA LETTO (ORMAI PRIVO DI VITA), QUANDO LA SIGNORA FRANCESCA, LA VEDOVA, ALL’IMPROVVISO SI LANCIÒ DENTRO LA CAMERA, PASSANDOMI DAVANTI.


INTRODUZIONE Quando mi misi in pensione alla fine del 2011, dopo qualche settimana di totale inattività mi resi conto che i miei pensieri andavano spesso ai tanti avvenimenti legati al passato lavorativo e privato. Mi ritrovavo spesso a pensare con nostalgia alle tante persone che avevano affollato il mio mondo, a come potevano essere finite dal punto di vista umano certe storie che si erano presentate alla mia diretta osservazione e altre che spesso gli stessi protagonisti mi raccontavano per rendermi più comprensibili alcuni comportamenti all’interno delle loro famiglie, al fine di poter meglio inquadrare le situazioni personali che stavano vivendo ed eventualmente intervenire più accuratamente nella loro gestione. Insomma, ero diventato una specie di confessore, man mano checol tempo il rapporto professionale si trasformava naturalmente in una relazione più umana e personale. D’altronde, era questo il tipo di lavoro che avevo scelto allorquando una disposizione sanitaria iniqua costrinse il medico a decidere se lavorare solo come medico ospedaliero o solo come medico di famiglia, la cui dizione più precisa era medico di base. Era il naturale corollario degli studi umanistici che avevo fatto da ragazzo e che mi facevano prediligere il contatto umano. Aggiungo, per meglio sottolineare questa mia propensione, che, nonostante le mie specializzazioni in cardiologia e dietologia, le mie letture preferite riguardavano argomenti di psicologia. Poiché, quindi, dopo il pensionamento, la mia mente aveva preso piacere a ricostruire gli avvenimenti del passato, prima che il tempo li cestinasse definitivamente nel dimenticatoio, cominciai a scrivere tutto quello che ricordavo sulle persone che avevo visto più frequentemente, mettendo, negli abbozzi iniziali del libro, le loro generalità e invece succes3


sivamente, quando decisi di dare una forma letteraria a questa raccolta di aneddoti, trasformando così le persone in personaggi, decisi di chiamarli genericamente “l’uomo”, “la signora”, “l’anziano signore”, così, in completo anonimato, eliminando del tutto i riferimenti anagrafici e modificando gli avvenimenti narrati, in modo da rendere non identificabili e irriconoscibili i personaggi raccontati. Ogni storia avrebbe potuto costituire materiale letterario per un futuro eventuale romanzo, e potrebbe ancora esserlo. In fondo, cos’è la letteratura se non la trasposizione scritta del proprio libro interiore fatto di personaggi e avvenimenti realmente vissuti? C’è una famosa, commovente canzone cantata da Gabriella Ferri (i cantautori di ogni tempo hanno un tocco delicato nel raccontare i sentimenti, con l'aiuto delle note musicali, che li avvicina di buon diritto ai grandi poeti classici), la quale recita così: «Ognuno è un cantastorie, tante facce nella memoria, tanto di tutto tanto di niente, le parole di tanta gente; tanto buio tanto calore, tanta noia tanto amore, tante sciocchezze tante passioni, tanto silenzio tante canzoni». E poi termina: «Anche tu così presente, così importante nella mia mente, anche tu diventerai un ritornello che nessuno canta più». Una piccola poesia, un’aria toccante sulla nostalgia che pervade l’esistenza delle anime più sensibili e sul destino doloroso che attende i tanti personaggi che hanno affollato la vita di ciascuno di noi, alla fine della nostra parabola terrena. Spetta allo scrittore o al poeta il compito – o almeno il tentativo – di renderli immortali. Tornando agli appunti che stavo mettendo insieme in maniera frenetica, non pensavo minimamente di farne un libro, volevo solo salvare quella parte di me che aveva avuto la fortuna di osservare, registrare, fotografare una realtà, o meglio frammenti di una realtà vera, autentica, non una mistificazione di essa fatta di ripensamenti, ritrattazioni, una mera realtà di circostanza, ricca di omissioni significative e ampie sforbiciate. Erano pezzi di vita autentica che Freud sarebbe riuscito a portare alla luce con grande fatica accanto al suo lettino da visita, ma che nel mio caso erano frutto di una spontaneità e di una sincerità incontrovertibili, di una confessione diretta non rimaneggiata. Quello che venne fuori quando assemblai tutti quei racconti brevi, aneddoti, contenenti pensieri, stati d’animo, frasi cariche di un particolare significato umano, flash mnemonici che erano rimasti 4


scolpiti nella mia mente, era la storia dell’uomo, l’uomo con tutte le sue sfaccettature e la sua complessità, l’uomo con i suoi difetti e le sue fragilità, le sue contraddizioni, la sua tristezza profonda, il suo amaro sentimento di insoddisfazione, di noia, di condanna; l’uomo con le sue mezze verità, le sue verità nascoste, le sue mille ipocrisie cui lo costringe la società; l’uomo schiacciato dalle mille sofferenze, scontento di sé e del mondo; l’uomo di fronte alla realtà limitatrice e meschina in cui si dibatte la sua esistenza. In fondo al tunnel, la luce degli aneddoti sui nipotini sono come un bicchiere d’acqua fresca in un caldo e afoso pomeriggio d’estate.

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AMICIZIE PERDUTE Ricordo la sua figura imponente mentre scendeva la contrada dell’Onda a Siena, di ritorno dalla mensa degli studenti che quell’anno, il mio primo anno di università, era allocata in cima a quella contrada. Doveva essere il 1964. Si chiamava Lilino ed era di Matera. Chi l’avrebbe mai detto che, dopo la laurea, sarei andato a vivere in quella città! Lilino si accompagnava sempre con Nino, foggiano come me. Stavano sempre insieme e avevano preso in fitto un appartamento a Porta Camollia, lontano dalla contrada dell’Onda. Studiavano Medicina, entrambi erano qualche anno avanti a me. Ricordo la litigata, condita con parole grosse, tra Lilino e un ragazzo napoletano alla mensa di Porta Pispini, forse per motivi di precedenza alla fila della mensa. Erano due colossi. Nonostante la sua balbuzie, Lilino gliene cantò a muso duro e se ne andò, lasciando l’altro incavolato a bestemmiare. Di sera, spesso, noi foggiani, studenti a Siena, ci incontravamo tutti in piazza del Campo, passeggiavamo per via Banchi di sopra e Banchi di sotto e, camminando, ci raccontavamo di tutto, parlando in dialetto foggiano, a volte improvvisando delle gag comiche che divertivano anche gli altri ragazzi del Sud come noi. Poi si andava a bere qualcosa al bar Nannini, dove ci fermavamo a vedere una partita di calcio o un incontro di pugilato in televisione, oppure si andava al cinema a vedere un film con Alberto Sordi o con Franco e Ciccio. Le risate per quelle gag comiche improvvisate in stretto dialetto foggiano non si sono mai più ripetute. Qualche anno dopo, Nino si laureò e Lilino si trasferì in un’altra università, non ricordo perché. In seguito, non l’ho più rivisto. Ci rincontrammo a Matera circa trent’anni dopo. Lui aveva preso casa nel capoluogo, trasferendosi dalla provincia, e aveva scelto me come medico di famiglia. Non si era più laureato, e penso che questo fosse il suo cruccio: non essere riuscito a diventare medico dopo diversi anni di università. Qualche volta, ci siamo visti a cena con le nostre mogli, a casa mia e a casa sua. In quelle occasioni si parlava dei tempi andati, di Siena, dei professori universitari più tosti, e di qualche collega comune, come Gino di Foggia, il quale aveva una corporatura notevole e i capelli pettinati indietro, caratteristica che 7


gli era valso il soprannome di Elvis Presley, cosa di cui non ero mai stato a conoscenza ma di cui Lilino si ricordava bene. E naturalmente l’amico ritrovato voleva che gli parlassi di Nino, della sua carriera ospedaliera. Ma io potevo dirgli ben poco al riguardo, dal momento che avevo perso i contatti con Foggia e quindi con i colleghi che lavoravano in quel nosocomio. Ricordavo perfettamente che Nino era diventato primario del manicomio in via Lucera e che una volta, ne ero sicuro, gli avevo inviato un mio assistito perché lo tenesse sotto controllo, in reparto, e in quell’occasione ci eravamo trattenuti a telefono, raccontandoci le cose più importanti della nostra vita lavorativa e non. Lilino mi raccontò, a malincuore, che aveva ereditato i terreni del padre e che da anni ormai si occupava della conduzione dell’azienda agricola. Si sentiva che era un ripiego e che avrebbe voluto fare altro. Ma i tempi di Siena e dell’amicizia con Nino gli avevano lasciato dei ricordi incancellabili. Per questo diceva che gli dispiaceva che non si fossero più sentiti da allora e che gli avrebbe fatto tanto piacere rincontrare il suo vecchio e caro compagno di studi. Intanto, si ammalò di cuore e fu operato fuori regione. Dopo qualche anno, per giunta, cominciò a smagrire il viso mentre lentamente gli veniva fuori un grosso pancione. Era un tumore intestinale raro ed estremamente invasivo, per il quale fu operato più volte. Ma quella bestiaccia ricresceva sempre in poco tempo. Era diventato penoso andare a fargli visita, ormai si trattava di visite di cortesia: dal punto di vista medico c’era ormai poco da fare. Eppure, il suo pensiero andava sempre a Nino che non s’era fatto più sentire da Foggia. Così, una sera, mi decisi a contattare Nino telefonicamente, cosa che avevo in mente ormai da diverso tempo. Gli raccontai le condizioni di Lilino e lo pregai di telefonargli qualche volta per parlare dei vecchi tempi andati e di dargli la gioia di risentire il vecchio amico prima del grande salto. Nino telefonò e Lilino fu contentissimo di aver ricevuto la tanto attesa telefonata da parte dell’amico dei tempi di Siena, anche perché quest’ultimo gli aveva promesso di andare a trovarlo a Matera. Lilino lo aspettò a lungo con ansia, ma Nino non andò mai a trovarlo. Non se la sentiva, o forse era del tutto svanito l’incanto dei bei tempi, della giovinezza, dell’università. Svanito del tutto. 8


UNA VISITA IMPORTUNA Era una sera d’inverno. Ricevetti una telefonata. Una voce femminile chiese del medico, c’era bisogno di una visita urgente a casa sua. Le chiesi se si trattava di un mio assistito, rispose di no aggiungendo se questo fosse un problema per me. Le chiesi l’indirizzo, mi rispose e io commentai che l’abitazione si trovava in un rione che frequentavo raramente. «Senta» le proposi «per non perdere tempo con le indicazioni e i numeri civici poco visibili di sera, potremmo vederci di fronte alla chiesa che sta vicino al Brancaccio?» Rispose che andava bene. L’appuntamento era dopo dieci o quindici minuti, il tempo materiale per arrivare. Il luogo dell’appuntamento era dall’altra parte della città, la parte nord, sicché dovetti fare una vera corsa per arrivare in tempo. Quando giunsi sul posto stabilito, vicino alla chiesa, c’era buio. Una macchina era parcheggiata sotto l’unico lampione acceso e una signora fuori della macchina guardava verso la mia auto che stava sopraggiungendo. Mi accostai verso il marciapiede e mi fermai dietro la sua auto. La signora lanciò un’altra occhiata verso di me ed entrò nel suo mezzo. Partì immediatamente, evidentemente non c’era tempo da perdere, forse ero addirittura in ritardo. Comunque, seguii l’auto della signora che andava spedita. Raggiungemmo una strada per me nuova. La signora si fermò davanti a un alto cancello di ferro che si aprì immediatamente, lo superò e io la seguii. Entrammo in un cortile abbastanza ampio. La signora scese dall’auto e si diresse verso un portone correndo. Io fermai la mia auto, presi il più velocemente possibile la mia borsa da medico e mi precipitai verso il portone nel quale era appena entrata la signora. Ma il portone si chiuse e io non feci in tempo a entrare. Rimasi un po’ infastidito di questo contrattempo e restai in attesa di qualcuno che venisse ad aprirlo, ma nessuno si decideva a scendere. Dopo un po’, cominciai a chiedermi che cosa stesse succedendo. Ritornai verso la mia auto, mi appoggiai con la schiena contro uno sportello, la borsa tra le mani, e mi misi in paziente attesa. Dopo una manciata di secondi, uscì dal palazzo la signora di prima accompagnata da un uomo. 9


«Chi è lei?» mi fece costui. «Come, chi sono», risposi con un briciolo di irritazione «sono un medico, la signora mi ha chiamato per una visita urgente e ci siamo dati appuntamento davanti alla chiesa vicina alla casa di riposo. Quando sono arrivato, ho visto la signora che mi ha guardato e si è infilata subito in macchina. Io l’ho seguita, ed eccomi qui per la visita». «Guardi che noi non abbiamo chiamato nessun medico» fece l’uomo. Io rimasi di ghiaccio. «Ma come è possibile» risposi «ho visto la signora che mi ha guardato appena sono arrivato sul posto, ed è entrata nella sua auto come se non ci fosse tempo da perdere con i convenevoli. E io l’ho seguita». Loro due continuavano a guardarmi in silenzio, come se stessero decidendo se credermi o no. Mi resi conto che mi ero messo in una situazione che andava chiarita, prima che si arrivasse al peggio. Con una notevole presenza di spirito, tesi la mano alla signora. «Permettetemi di presentarmi» dissi, e feci il mio nome. «E io sono la dottoressa Tal dei Tali (non ricordo più i nomi), lavoro in ospedale» e mi accennò il reparto in cui prestava servizio. «Non è possibile» dissi abbozzando un sorriso «questa è da raccontare in giro. Chiedo scusa, ma si tratta chiaramente di un malinteso. Per fortuna, siamo colleghi e ci possiamo capire. Praticamente, non è lei la persona che mi ha chiamato». «Questo è poco ma sicuro!» fece lei. «E allora» aggiunsi, convinto di essermela cavata a buon mercato, «mi conviene ritornare sul luogo dell’appuntamento dove certamente mi starà aspettando la persona che mi ha chiamato a telefono». Chiesi di nuovo scusa per l’increscioso episodio, mi girai sui tacchi e raggiunsi la mia Mini Innocenti in preda a una forte rabbia e a un’indescrivibile vergogna.

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IL PREDATORE PREDATO Era anziano, piccolo e magro, e sembrava ancora più basso perché aveva sempre le gambe in semiflessione quando era in piedi a causa di un’artrosi delle ginocchia. Aveva la passione della caccia: ogni domenica, quando era la stagione, andava per i boschi con degli amici, fucile e cartucciera. Quel lunedì mattina, venne da me con un’aria disperata. «Proprio a me doveva capitare!», ripeteva scrollando la testa e guardando il pavimento. «Che cosa è successo di tanto grave?», gli chiesi con un sorriso, come per cercare di minimizzare il problema. Era chiaro che aveva voglia di parlarne per sfogarsi e liberarsi di un peso. «Ogni domenica», iniziò il racconto, «vado a caccia con gli amici. Uno di loro viene sempre in compagnia della moglie. Tutte le volte, questa qui resta indietro con uno di noi, si appartano e fanno le loro cosine, senza che il marito si accorga di niente. L’ultima volta, si è appartata con me. Ma io sono anziano, non sono più cose per me. E non volevo appartarmi con lei. Ma continuava a insistere, a insistere! E infatti, io non ci sono riuscito, niente, niente e niente. Non mi poteva lasciare in pace? Glielo avevo detto! E invece mi ha costretto a fare questa figuraccia! Proprio a me doveva capitare!» L’uomo era disperato, quasi piangeva dalla rabbia.

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FULVIA COUPÈ 1300 Fu la prima cosa che comprai quando cominciai a lavorare: qualcosa come tre milioni e duecentomila delle vecchie lire. Il rivenditore mi chiese un acconto. Gli dissi che potevo firmargli solo dieci cambiali da trecentomila ciascuna. Mi rispose che era la prima volta che incontrava un medico squattrinato. Potevo permettermi di pagare quelle cambiali mensilmente perché, quando fui assunto in ospedale, mi diedero due incarichi: uno fisso al Pronto Soccorso e uno temporaneo, straordinario, alla Banca del sangue, dove i medici si erano da poco dimessi tutti insieme per protesta in seguito a una denuncia nei loro confronti da parte di un cittadino. Questi incarichi mi tenevano impegnato quasi tutta la giornata in ospedale e a fatica trovavo il tempo da dedicare all’ambulatorio di Medicina Generale a casa. Ricordo la fila che noi medici facevamo nel salone dell’ospedale per riscuotere gli stipendi tutti i mesi e gli straordinari ogni tre o quattro mesi. In occasione degli straordinari, mi davano dei mucchietti di banconote che io arrotolavo e infilavo a forza nelle tasche del camice, non essendomi mai dotato, sconsideratamente, di un sacchetto o una borsa da utilizzare per l’occasione. Tutto questo sotto gli sguardi impressionati dei colleghi presenti, i quali facevano un silenzio di tomba intorno a me, mentre io arrossivo come un pomodoro. Sì, una borsa mi avrebbe tolto dall’imbarazzo, ma all’epoca non avevo idee così raffinate. Sì, finalmente avevo iniziato a lavorare, finalmente avevo dei quattrini da spendere. La prima cosa che pensai di comprare fu l’auto dei miei sogni: la Fulvia coupé. Colore bronzo metallizzato, sedili rosso amaranto in finta pelle, cruscotto in legno di radica con strumenti grandi e circolari, prima marcia in basso a sinistra, doppio carburatore che aumentava la potenza sulle lunghe distanze o in salita. Quando viaggiavo specie in autostrada e venivo superato da un’auto targata MT, il conducente mi salutava facendo strombettare il clacson. Non erano molti ad avere quell’auto a Matera. Tutto questo mi inorgogliva e mi rendeva felice. Ricordo due episodi che si verificarono all’uscita dall’ospedale, dopo essermi messo alla guida della Fulvia per andare a pranzare a 12


casa. Una volta, una mia assistita che abitava vicino casa e che era appena uscita da una visita di controllo neurologica all’ospedale, mi chiese un passaggio. Non mi piaceva come persona e meno che mai quel giorno perché aveva uno sguardo strano. Strada facendo, mi raccontò che i familiari erano tutti contro di lei e volevano mandarla dallo psichiatra. Adesso, visto che ero il suo medico di famiglia, dovevo essere io a convincerli che non aveva bisogno dello psichiatra, e non sarebbe uscita dalla macchina finché non avessi parlato con loro e non li avessi convinti che l’idea dello psichiatra era fuori luogo. Di fronte a quel suo atteggiamento risoluto, anche se facilmente comprensibile, mi sentii come un ostaggio nelle sue mani, per giunta nella mia auto. All’improvviso, avvertii una irritazione profonda. Scesi dall’auto, ritornai al Pronto Soccorso dal quale ero appena uscito e avvertii del fatto i colleghi del nuovo turno, i quali parlarono con la Psichiatria. Tornai dalla signora nella mia auto e ripresi a parlarle facendole delle false promesse, finché gli infermieri della Psichiatria si avvicinarono all’auto e con molto tatto e lunghi discorsi appropriati, riuscirono a far uscire la signora dalla macchina e a portarla in reparto. Finalmente, potei riappropriarmi della mia auto e ritornare a casa. In un’altra occasione, sempre uscendo dall’ospedale, un signore con una valigia in mano mi chiese se potevo accompagnarlo alla stazione dei pullman perché doveva partire entro pochi minuti e rischiava di perdere il pullman. Non riuscii a dire di no. Devo precisare che la sera prima avevo portato l’auto al lavaggio e lì mi avevano lucidato anche i sedili con una cera speciale. Il passeggero, a un certo punto, mi pregò di andare più in fretta, il pullman sarebbe partito tra qualche minuto; e io feci del mio meglio, accelerando anche nelle curve. A dire il vero, ero un po’ contrariato per questo passaggio richiestomi all’improvviso nonché dalla pretesa di andare più veloce, manco fossi un tassista; sicché, alle sue domande di circostanza rispondevo a monosillabi senza rivolgergli lo sguardo. Insomma, ero seccato per l’intrusione di questa persona che in qualche modo, chissà, poteva anche graffiarmi i sedili con la sua valigia o sporcarmi la macchina appena lavata. Alla fine, giungemmo alla stazione. «Siamo arrivati, dotto'» mi disse, «ecco là il pullman, appena in tempo, grazie, grazie». 13


Mentre il passeggero si prodigava nei ringraziamenti di circostanza, mi voltai finalmente verso di lui. La scena che mi si presentò era a dir poco comica. Certamente a causa dei sedili resi scivolosi dalla cera spalmata la sera precedente, ma anche a causa delle brusche manovre da me impresse all’auto nelle curve, il soggetto era scivolato sotto il cruscotto, con la valigia tirata sul petto, e naturalmente aveva qualche difficoltà a tirarsi su e mettersi seduto per poter uscire dall’auto. A quel punto, fui io a dover uscire dall’auto, gli aprii lo sportello e lo aiutai a uscire. Mi fece un po’ pena vederlo in quella posizione aggrovigliata da contorsionista, me ne sentii in parte responsabile, e mi pentii di averlo trattato con modi poco garbati. Dopo quegli episodi, non credo di aver mai più dato un passaggio a qualcun altro in auto.

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