Il canto delle lumache

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... Nel campo vicino i grilli cantavano e la luna, quando c’era, era già sorta dietro le vigne e s’incamminava alta, e il cielo sopra di noi era così pieno di stelle che senz’altro lì, dove eravamo, era il centro del mondo. Era allora che il Casone ammutoliva e spariva dietro a noi...

Il canto delle lumache

GIOVANNI MORSAN

Giovanni Morsan è nato a Mariano del Friuli, nel 1943; funzionario in pensione, ha iniziato a scrivere negli anni Ottanta. Ha ricevuto diversi premi, per opere in dialetto, fra i quali spicca il “San Simon”, nel 1987, per il romanzo Zovin di lune, mentre nel 1990 ha ricevuto il primo premio al concorso dell’Associazione Teatrale Friulana con Gnove sagre de solstizi.

Il canto delle lumache

GIOVANNI MORSAN

€ 14,00 ISBN 978-88-96171-02-8

i narratori


- Non state sempre lì su quelle scale, maledetti. Nostra madre ci diceva sempre così a noi canaglie quando facevamo troppa confusione. - Perché non andiamo a giocare in cortile? - Zitto tu. - Io vado giù. - Zitto tu che hai ancora la cacca nel sedere. Io volevo sempre andare giù, in cortile, ma nessuno mi seguiva. Là c’era tanto posto per giocare, un grande spiazzo tutto chiuso da una muraglia, tutto libero, a parte un angolo dove c’erano due gelsi striminziti in mezzo a un mucchio di cose vecchie. Il portone era come una bocca, sembrava che da là gli occhi di qualcuno dovessero mangiarti. Fuori del portone c’era la piazza, piena di sassi e di polvere, il bello era però che intorno c’erano i tigli: là c’era da salire fino in cima aprenderei cardellini. E di là della piazza la strada asfaltata, sempre piena di macchine che passavano di corsa e non si fermavano mai: qualcuno del paese là era morto stecchito. E di là della strada asfaltata la chiesa, dove comandavano il parroco, le suore, le baciagabbane e dove andavano i ragazzi che stavano bene: gli “aspiranti” e le “signorine”; là era un altro mondo, a pochi passi dal nostro cortile. Ma là era proibito, anzi, tutto lontano dalle nostre scale era proibito, tutti altri mondi dove poteva capitarti qualcosa di spiacevole. Già la scuola era la “ prigione” e appena suonava il campanello della mezza galoppavamo fuori. Noi eravamo“quelli del Casone” e il “Casone” era dove abitavamo, un vecchio caseggiato di un certo stile, in pratica una grande caserma alta e squadrata; la gente, appena ci vedeva, diceva: – Ecco uno di quelli là, e si sentiva scaldare le mani. Fuori dal nostro Casone, per tutti noi ragazzi, c’erano da prendere scappellotti e calci nel sedere, non c’era altro. E così tutto il nostro mondo erale scale e poi il cortile, la casa nostra – lì si stava solo per 11


mangiare quello che c’era, dormire e prendere altri scappellotti – un poco la piazza, che là c’era un buon gelato, e la campagna e i boschi intorno. Allora noi, che abitavamo al centro del paese, il nostro portone si apriva sulla piazza, era come se abitassimo sulla luna. E poi c’era “l’acqua”, ma quello era un posto che non faceva parte del nostro mondo, era al di sopra di tutto, fuori da tutto il resto. - Giochiamo a nasconderci. - Io non gioco. - Attentooo. Quando faceva troppo freddo o pioveva, al Casone c’era da stare quasi tutto il giorno chiusi dentro; allora correvamo su e giù per le scale, per qualche stanza dove non c’era nessuno ad abitare, per le soffitte e giù, nelle cantine vecchie e dappertutto dove si poteva. - O giochi o fili via. Bisognava giocare, perché quando uno diceva così era meglio ubbidirgli, se non giocavi prima di filare avevi già preso la paga. Stavi sotto tu e ti mettevi in un posto con la testa poggiata al muro e quando tutti avevano detto “chich” potevi andare a cercarli. Se trovavi qualcuno e riuscivi a toccare prima di lui dove avevi contato stavi sotto ancora un colpo e dopo si sarebbe visto; quelli grandi neanche li rincorrevi, ti mangiavano le scale, e là erano tutti più grandi di te. Qualche volta, quando il gioco stava per finire, anche tu andavi a nasconderti, finalmente avevi acchiappato uno e conoscevi un posto che là nessuno ti avrebbe trovato. Com’era bello in quel posto quando tutti ti cercavano e tu li facevi diventare matti (mica mi trovano), loro però ti lasciavano là apposta, chissà dove erano andati. Prima o dopo uscivi: – Gente, sono qua, in giro non vedevi neanche un cane. Ma era bello lo stesso, ti stufava solo quando eri già grande e non stavi più sotto. Quando eravamo stanchi di correre e di fare baccano e non avevamo altri giochi da fare andavamo dalle ragazze. Allora con le ragazze non stavamo quasi mai; se noi eravamosopra loro erano giù e se noi eravamo giù loro erano da qualche altra parte. Altra roba anche quelle, forse perché prendevano meno scappellotti di noie calci nel sedere di rado. Solo fuori di lì e del nostro cortile eravamo uguali, anch’esse avevanosopra di se le stigmate che contrassegnavano la gioventù del Casone: gambe secche, abiti che si vedevano le mutande, lingua pronta, denti storti: cavalle insomma, come le chiamavamo noi, e uno le riconosceva subito. Dopo una rapida trattativa scendevamo con le “ca12


valle” tutte le scale, fino in fondo, dove c’erano le cantine col pavimento di terra battuta e piene ancora di botti pel vino ormai infradiciate. Scendevamo giù in silenzio tutti quanti, noi dimenticavamo che le cavalle non prendevano mai calci, loro si dimenticavano che le prendevamo pei capelli. Sentivamo allora, cessato il nostro, il baccano che c’era ancora nel Casone, un baccano che lo avevamo nelle orecchie da sempre. A quello che facevamo noi nessuno faceva caso, i grandi erano su un altro pianeta. - Maria ha i peli. Che peli! Dove! Bisognava correre a vedere. - E cosa vuoi venire tu che hai ancora la cacca nel sedere. Nel Casone si faceva presto però a diventare grandi e a mettere i pantaloni lunghi di uno più grande, e si andava a imparare il mestiere di seggiolaio, come facevano tutti. Quelli che ci andavano incominciavano a prendere meno scappellotti, a darne qualcuno, a bere vino. Ma quel tempo, per chi non era abbastanza grande, era meglio ancora non pensarlo, era piuttosto la sera che bisognava aspettare allora, quando venivano i nostri giochi più belli. Dopo cena il cortile era tutto per noi e rischiarato appena da una lampadina sopra la porta grande, dove la luce si sperdeva esso acquistava una profondità senza fine, e la muraglia e il campanile tutto veniva inghiottito. Dopo esserci divisi in due squadre, incominciavamo a giocare, in quella penombra, a “libero”. Quando uno era toccato da un nemico avrebbe dovuto fermarsi in quell’esatto punto ad aspettare con le braccia larghe che un suo compagno, toccandolo a sua volta, lo liberasse dalla prigione. Io andavo sempre ad acquattarmi sotto la muraglia, dove era tutto buio, e se per caso tutti i miei compagni erano stati presi, solo a quel punto decidevo di saltar fuori per far continuare il gioco. Ma anche di quel gioco, pur bellissimo, ci calava presto la voglia; quella che non ci calava mai a noi maschi era invece la voglia di correre all’infinito, come succedeva quando gli davamo addosso a un fagotto di stracci contro il quale ci accanivamo come indemoniati, neanche stessimo a calciare il sedere di qualcuno che avesse fatto troppo il prepotente. In poco tempo nel cortile alzavamo un polverone, come succedeva nelle cariche del far west e alla fine, quando si diradava, gli stracci erano tutti sparpagliati in giro, distesi per terra, come accadeva agli indiani, tutti fatti secchi dai lunghi fucili e dalle colt. Era a quel punto che a qualcuno dei ragazzi più grandi poteva venirgli in testa di fare un “pech”. 13


- Beccalo, beccalo. E cominciava la caccia. Il poveretto che era stato acciuffato gridava e scalciava, lui non voleva essere fatto pech. - Vi ammazzo tutti. Ma bisognava perdere ogni speranza, non c’era altro, non c’era nessuna possibilità di salvezza e tanto più più uno si ribellava e piangeva, tanto più il gioco era bello. Allora in poco tempo ti toglievano le braghe e le mutande, poi, i quattro aguzzini, afferrate le tue gambe e le tue braccia, come un cristo ribelle in croce ti portavano di corsa verso le ragazze. Noi gridavamo e sghignazzavamo, le cavalle strillavano e facevano finta di essere scandalizzate, il pech gridava come un vitello e si dimenava come un’anguilla, fino quando si stancava che allora si afflosciava e si metteva a piangere; lì finiva il gioco, e tu che fino a quel punto avevi riso diventavi serio di colpo: domani come niente pigliavano te. Dopo tanta allegria salivamo le scale sfiniti e con poca voglia di parlare; ognuno dimenticava gli altri e pensava a sé. Noi, io e quei miei fratelli che erano a giocare con me, dovevamo salire più in alto di tutti; pian piano il gruppo si assottigliava e restavamo soli a salire l’ultimo pezzo di scale. Prima di oltrepassare la nostra porta ci fermavamo sul pianerottolo ad ascoltare: dappertutto sentivamo sbattere e correre e poi strilli bestemmie e pianti. Quella tempesta passava presto e poi tornava un poca di calma, la confusione normale che in confronto al terremoto di prima era una pace. In casa nostra lassù era come ogni volta, nostra madre faceva qualche lavoro, la marmaglia più piccola faceva baccano, nostro padre era già a dormire o era ancora al bar. Arrivati noi facevamo ancora più confusione per spartirci la poca acqua rimasta nei secchi; ma dopo quella operazione, lavati i piedi, stavamo tranquilli e correvamo subito a dormire. A letto si stava poco a prendere sonno e a svegliarsi al mattino in un lampo. Eravamo due per ogni letto, uno da capo e uno da piedi, in un’unica stanza, maschi e femmine. Nostro padre e nostra madre dormivano da soli in un’altra stanza: là ci sarebbe potuto stare comodamente anche uno dei nostri letti, ma nostro padre nella sua camera non voleva disturbi. Si stava presto nel Casone a imparare cosa fosse l’amore e come si faceva; uno che era là sapeva già molte cose prima ancora che gliele insegnassero i ragazzi più grandi. Quando tardavamo a prendere sonno 14


sentivamo tutti i rumori e le parole che venivano dalla stanza accanto, divisa dalla nostra da una parete di legno; a volte sentivamo scricchiolare per un bel pezzo, e già allora io sapevo come potesse essere quello l’attimo in cui qualcun altro avrebbe incominciato il viaggio per venire poi anche lui a stare nella nostra famiglia; una famiglia già sul punto di scoppiare la nostra, come accadeva quando si aggiungeva un posto a tavola per il Barone, anche se per certe cose, il fatto che delle volte ci fosse pure lui nel giro, era per la mia famiglia una fortuna. - Signora mia, ma a chi somiglia questo qua? Io non sapevo a chi dovevo assomigliare, se non si capiva a chi dovevo assomigliare sicuramente ero qualcosa di male e quando il Barone diceva così abbassavo sempre la testa. - Andiamo a prendere il gelato giovanotto. - Stia attento che gli mangia una pinta quello lì signor Barone. Una pinta? E cos’era una pinta, chissà quante ne avrei mangiate fossi stato io il padrone di quel bar. Quando il Barone mi portava a mangiare il gelato era una giornata speciale; in quelle occasioni, oltre alla mangiata speciale, potevo uscire dal cortile senza paura e se incontravo gli aspiranti li guardavo negli occhi con aria di sfida. Quelli ce l’avevano sempre con noi, coi più piccoli del Casone, per qualcosa che gli avevano fatto i nostri fratelli più grandi. Il Barone, nel bar di Gisela, ordinava un gelato “da venti” e Gisela che era una brava donna di cuore lo calcava nel cartoccio più che poteva, e prendeva su forme stracolme perché sapeva che “tu” del “Casone” giungevi fin lì poche volte. E il Barone, che in certe cose era veramente un barone, ordinava a Gisela di riempire anche un bicchiere di cartone – to’ giovanotto, mi diceva – portalo ai tuoi compagni, subito dopo si dimenticava di me e incominciava a bere pei fatti suoi. Intanto il gelato che a te sarebbe spettato si accumulava nelle pinte di Gisela, pinte su pinte. Le cavalle ormai, se gli tiravi i capelli, non ti beccavano quasi più e nessuno ti scacciava via perché eri troppo piccolo, anche se grande ancora non eri. Per diventare grande ti mancava però una cosa che dovevi assolutamente fare, una cosa che appena fatta ti avrebbe invecchiato di colpo e ti avrebbe procurato immediato rispetto. Ma andare a fare la pipì sul muro del campanile non era facile, ci voleva davvero molta fortuna e anche molto coraggio; ma era proprio per questo, nel caso l’impresa fosse riuscita, che uno diventava subito più grande e nessuno mai più l’avrebbe fatto pech. 15


- Ma lo sai che se ti piglia il Gabbana te lo taglia? - Se mi vede scappo. - Sii, ti dico, quello corre come una lepre. - Se mi prende che mi fa? - Ti lega al batacchio di una campana, come minimo, caro mio. Era facile dire: – Andiamo a fare la pipì sul muro del campanile, ma quando si era là sotto ci si accorgeva che bisognava avere davvero molto coraggio. A star là sotto, il campanile sembrava pendere fino a ribaltarsi da un momento all’altro sopra di te; a star appena un attimo là sotto ti sentivi come inchiodato, annichilito, schiacciato da quella presenza inerte, più che non potesse la possibile presenza di quel boia di sacrestano - Allora ci vai? Ci andavo senz’altro, ma era meglio guardare bene attorno prima. Da qualche parte il Gabbana interrogava, senz’altro sotto il vecchio olmo, in fondo al giardino che era dietro la chiesa; là lui stava seduto su una sedia, attorniato dagli aspiranti, seduti invece su delle panchine disposte a cerchio. - Che cos’è la Grazia Santificante? Il Gabbana, laggiù, sempre interrogava, e tu sentivi le risposte dei tuoi compagni. - Che cos’è la grazia santificante? Sarà un buon fico d’India. - O un’ anguria. - O una buiasse. La “buiasse”, cioè la cacca delle vacche. - Allora ci vai? - Se la fa già in braghe. - Chi io? dipende. - Dipende da cosa, dalla buiasse? te la fai già in braghe. Dopo nel ritornare al Casone una bella truppa ti aspettava sul portone. Com’era andata? Era andata benissimo, la pissata aveva bagnato fin sopra la porta. Chi era andato là, e aveva dato prova del suo coraggio, alla sera magari poteva scegliere lui chi fare pech. E così uno da un giorno all’altro, anzi, meno, da un’occasione all’altra, diventava grande, sempre più grande. Uno cambiava non a pensare ma a fare, e non importava che le cose fossero tante, potevano essere anche poche ma quelle, quelle che non si ripetevano che a ripeterle, dopo, non si guadagnava più niente. Nel Casone uno diventava grande 16


seguendo le strade che seguivano tutti; quelli che venivano dopo di te, guardavano, imparavano e facevano prima o dopo gli stessi tuoi percorsi. Uno si sperdeva quando era diventato grande che i pantaloni se li legava con lo spago e i fondelli dietro glieli avevano cambiati chissà quante volte. Quando era uomo fatto perdeva d’occhio la riga che lo aveva fatto arrivare fino lì. Davanti a lui si apriva ora una piazza senza sbocchi, all’infuori di quello pel quale era arrivato e anche quello però si richiudeva subito. Anche se era stata piena di pantano, come se la ricordava bene allora la strada che aveva camminato nella sua giovinezza. Nel momento che quella si era richiusa, restava solo sulla piazza, una piazza con alte pareti cementate, poteva provare a camminarla tutta, ma doveva ugualmente accorgersi che non ne sarebbe mai potuto uscire; nasceva allora lì un’altra volta, sapendo di dover restare per sempre nessuno. Per tanta gente era il Casone quest’ultima piazza, un posto dove gli uomini, spesso ubriachi, pissavano sul muro, dove perfino le donne talvolta si permettevano di bestemmiare: tutte libertà dopotutto di chi non aveva niente più da perdere di prezioso. Solo il sesso là dentro era importante, così semplice e buono, e nessuno per quelle faccende si scandalizzava. Del resto nessuno veniva a dirti quello che dovevi fare, o veniva toccato da quello che faceva l’altro. Ninetta nessuno la rimproverava, anche se lei faceva entrare sul tardi dentro il Casone gente di fuori: faceva l’amore con uno di quelli là? Affari suoi, anzi era brava, se, come si diceva, riusciva ogni volta a svuotare il portafoglio di quei fessi. Perfino del Barone la gente non diceva male, uno che per metà era come tutti noi che stavamo là nel suo palazzo e per l’altra non era diverso da quelli di fuori. Nel Casone molti dicevano che non durava, che un giorno o l’altro quello ci mandava via a calci nel sedere e saremmo ritornati tutti nelle baracche. Forse era vero, per il momento però lui era il nostro protettore e ci lasciava stare volentieri sotto il suo tetto a fare baccano da mattina a sera. Noi, i suoi “inquilini” quando lui passava ci tiravamo in parte e lo salutavamo con bel rispetto; altro non ci chiedeva. A quell’uomo occorreva una donna, sentivo dire spesso da mia madre - scelta dal Barone come sua donna delle pulizie - non una qualsiasi, ma quella “giusta”, per metterlo a posto. Spesso nel Casone sentivo dire di quella giusta, che occorreva lei “la giusta” per mettere in ogni famiglia a posto le cose. Era una medicina rara però, nessuno uomo al 17


Casone aveva a fianco una “giusta” che avrebbe potuto metterlo a posto. L’avesse avuta chissà cosa sarebbe potuto diventare, sicuramente sarebbe andato più lontano. Le povere donne del Casone la pensavano invece diversamente: guai se non ci fossero state loro, le giuste, a tenere a freno quegli uomini, se non ci fossero state loro ad aspettarli nel letto per fargli assaporare almeno un po’ di paradiso. Ma si vede che a più di uno quella medicina non bastava se doveva andare ogni sera nel bar a tirarsi su col vino; là era un paradiso migliore; là tanti trovavano la vera “giusta” che li faceva star contenti, e quando dopo entravano nel letto, dormivano subito, ed era meglio così, per non dover pensare più a nulla. Nel Casone non si pensava al domani, a provare a guardare avanti non si vedeva come fosse possibile migliorare. Probabilmente si era arrivati al punto che le cose si erano stabilizzate così e pace; gli impegni allora andavano limitati al minimo, bisognava lavorare solo per tirare avanti e spremersi per un pochi di soldi in più non meritava. Gli uomini e le donne del Casone pensavano a passare bene la giornata che c’era, perché la prossima sarebbe potuta essere peggio, date le malattie che sempre più spesso si sentiva dire. Finita la guerra, sembrava che tutto dovesse cambiare, e giù a far figli tutti quanti: non doveva forse venire un mondo migliore? Ecco là invece, i disgraziati sempre allo stesso posto; se non era bastata una guerra a far cambiare le cose voleva dire che non si poteva proprio smuoverle più. Una guerra persa però; l’avessero vinta, sarebbero saliti anche loro sul carro del Duce e chissà poi fin dove sarebbero potuti arrivare. Colpa della guerra persa: peccato, a qualcuno toccava perdere sempre; come niente era stata persa perché c’erano stati di mezzo loro. E là dentro c’eravamo anche noi, i figli di quelli là, che non avevamo fatto ancora nessuna guerra persa e non bevevamo vino.

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