La città possibile

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Prefazione di Vito Epifania Se prendi un numero di persone superiore a due, ciascuna con la propria esperienza nel petto, il proprio ruolo consolidato, la propria identità; se a ciascuna di queste chiedi di raccontare l’idea di città alla quale pensa da tempo, la sua visione politica, le sue priorità. Se raccogli tutti i contributi in forma di libro, e proponi libro e proposte come cibo per il pubblico. Lasci infine i commenti e le reazioni liberi di andare per la città fisica e per quella immateriale della Rete. Ebbene, questa ricetta non è che “un piccolo esperimento di democrazia partecipata”. Un piccolo esperimento che è un ritorno ai contenuti, al confronto democratico e costruttivo, tramite il quale riguadagnare persino il senso di appartenenza a una comunità. Per provare a individuare i temi e i valori di un percorso comune perché comune è il luogo (fisico e non) che viviamo, e non importa più a un certo punto - o non deve importare - l’eventuale differente appartenenza di partito o l’interesse personale ma esclusivamente il bene collettivo, quello però che c’ostiniamo a chiamare: Bene Comune. Dunque, sfidando l’inevitabile accusa di demagogia e anche d’ingenuità, proprio questo vogliamo fare perché riteniamo sia una grande sconfitta culturale e civile considerare demagogia e ingenuità la ricerca del bene comune e riteniamo anche che per fare questa ricerca quotidiana e incessante non occorra passare attraverso chissà quali artefatti verbali o giuridici o tecnologici, ma semplicemente attraverso la riscoperta del gusto e della disarmante efficacia del confronto dialogico con l’altro. Qui quello che noi facciamo è mettere a disposizione un laboratorio in cui fare l’esercizio di questo confronto. In qualche caso abbiamo dovuto forzare la mano all’inconsapevole autore, prigioniero forse di una certa ‘autoreferenzialità’, costringendolo a un confronto che non immaginava o che se immaginava risolveva come Perfettamente Inutile o Assolutamente Indifferente. Qui, invece, sarà per la costrizione di quei contenuti chiusi tutti insieme dentro un libro, per il fatto stesso di esserci ciascuna proposta si confronta con l’altra senza soluzione di continuità, ciascuna proposta diventa parte di un tutto e tutte le proposte sono affidate esclusivamente alla capacità critica del lettore, dei cittadini.

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Qui, indipendentemente dalla valutazione di ciascuno e di tutti i contributi raccolti affermiamo forte la validità del metodo che è esso stesso “sostanza” perché ci consente di recuperare il senso profondo della democrazia. Non è compito nostro commentare e giudicare i singoli contributi raccolti in queste pagine, né farne sintesi unificatrici: sarebbe un atto di presunzione e forse anche di arroganza. Dobbiamo confessare però che la tentazione è stata ed è forte, perché dalle pagine che seguono un quadro di fondo emerge, emergono sensazioni e vocazioni, vizi e virtù, idee e provocazioni che sollecitano la ricerca di una sintesi, l’esito di un esperimento, che amplificano di volta in volta una dolce nostalgia di quel che vorremmo in questa città per noi e per la nostra vita o, all’estremo opposto, la sorda rabbia per tutto quello che proprio non ci piace. Se questa tentazione però diventasse contagiosa e più di due o tre fra i lettori si sentissero da qui in poi impegnati a ricercare quella sintesi, potremmo già sentirci assolutamente soddisfatti di questa operazione. Se poi a questo si aggiungesse una diffusa consapevolezza dell’imperativo contemporaneo per questa città di una ritrovata identità, di una ritrovata tensione etica, di una ritrovata legalità e di una ritrovata tensione progettuale, sarebbe il massimo perché vorrebbe dire che persino quel malvezzo comune nel modo di pensare e d’agire di ciascuno di noi, così incline a concedersi eccezioni e assoluzioni a tutto dispetto delle proclamate virtù, si starebbe dissolvendo. Perché anche di questo ha bisogno la nostra città, di una coscienza morale fatta di scelte e comportamenti individuali quotidiani tanto banali quanto fondamentali. Partire - evidentemente per ripartire - dalla città, intanto da una città come Esperimento che può essere “esempio” è l’unica possibilità concreta per darsi nuovi scenari vitali che conducano al progresso civile.


Ripensare l’organizzazione

produttiva di una città è un lavoro che pretende coesione fra gli agenti della produzione e della distribuzione, fra le forze sociali e le istituzioni, in una grande sinergia strategica.

di Vincenzo Viti Matera sta vivendo una condizione di precarietà e provvisorietà. Precarietà e provvisiorietà sono due modalità omologhe sia per descrivere uno stato d’animo collettivo, il deperimento della passione civile, la perdità di percezione di una missione, cioè di una appartenenza e di un ruolo connessi a una funzione a una strategia o a una ambizione, sia l’effetto d’una crisi reale, di leadership, di potere politico e cioè di capatictà di mettere a frutto convenientemente tutte le risorse istituzionali, materiali e civili di cui si dispone. Si tratta di una situazione non nuova, che deriva sia dalla perdita obiettiva di ragione e di peso politico, che non poco ha ridotto la capacità e la qualità rappresentativa di un comprensorio che insiste sul 40% del circondario regionale e di una città che, per storia, risorse, densità civile è assolutamente unica nel panorama mondiale. Una situazione che è andata aggravandosi man mano che il potere regionale ha assunto le forme di una ristretta enclave con riti obbligati e regole dettate da interessi sempre più ristretamente federati. Man mano che i processi politici si sono ridotti a tecnicilità o a formalismi orientati a cooptare, rassicurare e garantire e i partiti si sono trasformati in macchine celibi per fondare la continuità della specie, era inevitabile che le istituzioni divenissero figure di un obbligato gioco del dominio, ognuna funzoonale a un progetto personale o di gruppi ristretti. Si spiega così il perché di un gioco politico che appare sempre più concrentarsi nel capoluogo di Regione, con una marginalizzazione di tutte le realtà, certo significative, che agiscono al di là del fotilizio in un territorio alieno che si pretende di assoggettare o d’utilizzare attraverso i tanti “negozi” che si consumano nella vicenda politica. Se volessimo utilizzare Clautzerwitz potremmo dire che, mai come da noi, la politica appare come la prosecuzione del mercato con altri mezzi: il che non esclude che le terre consolari possano esprimere talvolta leader e personalità di rilievo; solo che il loro destino è entra-

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re nella città murata e di là amministrare, distribuire e così regolare la moltitudine degli affani, delle pretese e delle ambizioni umane. Ho espresso, con una metafora, quel che mi pare di scorgere nel pallido e inquieto paesaggio regionale per trarne le ragioni delle condizioni di una città che pure dispone di qualità, attitudini e risorse tali da connotarla tra le più vive e potenzialmente fra le più straordinarie realtà storiche, civili e culturali del Paese. La domanda è, a questo punto, come si esce da una condizione di minorità qual è quella che appare navigando fra le allegorie e le miserie della condizione di Matera? Certo, non solo con un programma amministrativo che calibri sogni e desideri a misura di metri (come vuole uno slogan ambizioso e volonaristico della Regione), ma con un progetto che deve essere etico-civile e quindi politico nel senso più alto del termine, financo con una drammatizzazione del politico che appare oggi ineludibile. Non basta opporsi (o dire di volersi opporre) al sacco urbanistico o alle intenzioni di cui si favoleggiia (non inutilmente e finora privatamente) circa l’utilizzazione di alcune valenze interne al centro cittadino (vedi il Mulino Barilla, nonché la sede del Consorzio di bonifica, con appendice del campo sportivo “Franco Salerno”, come sarebbe giusto titolarlo, dedicando pittosto all’epica data del “21 settembre” un altro cimelio storico o istituzionale). Non basta neanche lamentare il progressivo impoverimento della città, collegato alla perdita di istituzioni, servizi e presidi produttivi. Né basta proporsi di ripensare i Sassi in una logica diversa da quella ludica e terziaria nella quale sono oggi confinati, mentre il loro destino era che venissero rivitalizzati immettendovi non solo animazione civile e servizi ma anche e soprattutto grandi funzioni territoriali. Riscattandoli così dalla futilità di puro fondale scenico per collocarli dentro un’autentica catena del valore (con il cinema, la fiction, la produzione d’eventi culturali organizzati in sequenza, con un coordinamento pensato su scala internazionale e con un’organizzazione strumentale, produttiva e istituzionale adeguata alle dimensioni e al respiro dell’impresa). Certo, non basta ripensare alla città a partire dalla sua natura ferita, dal suo orgoglio dimezzato, dalla sua storia ignorata quando non dileggiata. Non basta parlare di “cultura della città, citttà della cultura”, opponendo all’Accademia dei Saperi il vitalismo degli interessi: conflitto nel quale ognuno conserva le sue buone ragioni, preferendo l’una continuare nella contemplazione estetica della sua inequagliabile eccellenza e l’altro coltivare l’istinto di queli spiriti animali che muovono la storia, non sempre civile, dei luoghi. Mentre una città che si rispetti e che sappia porsi l’obiettivo di ricomporre le faglie di frattura storiche, cul-


turali e sociali che la caratterizzano dovrebbe essere posta nella condizione di vivere la cultura come dimensione diffusa. Come abito civile, come segno di iidentità e qualità che la renda riconoscibile e diversa. Tutto ciò non basta, pur se è straordinariamente utile. È utile che il complesso delle risorse culturali e scienfitiche si costituisca in un grande parco a tema orientato a massimizzare il loro spettro interdisciplinare e la loro attitudine a fertilizzare un territorio speciale (si pensi all’Università negata, e a quella possibile). Così come è utile ripensare la struttura produttiva di una città che ha da tempo metabolizzato la fuoriuscita dal ciclo della chimica della Valle del Basento, si è ormai acconcita a perdere la tradizione della pasta, dopo aver perso quella dei laterizi, che vede compromessa la funzione della Paip, dove pure è nata la vera borghesia del lavoro: funzione messa in qualche modo fuori campo dal cambiamento di natura di Matera e dalla sua progressiva perdita di valore produttivo. Una città che assiste oggi all’obsolescenza della produzione del mobile imbottito e del suo precario indotto. Ripensare l’organizzazione produttiva di una città è un lavoro straordinario che pretende piena coesione fra gli agenti della produzione e della distribuzione, fra le forze sociali e le istituzioni in una grande sinergia strategica. Si tratta di non disperdere il grande capitale professionale e civile accumulato negli anni, d’immetterlo in circuti evoluti, finalizzare i cicli della formazione professionale verso modelli nei quali competenze sedimentate e risorse professionali non vengano disperse ma aiuate a evolvere verso nuovi livelli e verso nuove forme di impiego: un processo che stimoli gli investimenti e non attenda che essi per induzione artificiale vengano da noi. Come si vede, è necessaria una modalità di utilizzo complementare degli strumenti: celerità amministrativa e trasparenza delle procedure, moduli di formazione innovativi, tempestività nell’apprestamento nelle cosiddette condizioni di contesto. Tutte “condizioni” che possono davvero significare quella civiltà dell’accoglienza e della promozione che nell’industria, nel turismo, nel terziario avanzato può dare frutti rilevanti e segnalare la qualità di un ambiente. È la Matera da bere che finora è mancata e che è possibile costruire con la forza di cui solo un’impresa ardita e impossibile potrebbe disporre: pena il ritorno, peraltro già percepibile, a quella accumulazione primitiva del “mattone” che sembra essere il bene - rifugio di una comunità depressa e rassegnata. Una visione moderna e avanzata non potrebbe né dovrebbe temere di misurarsi con gli interessi, sapendo che la Politica ha la missione di mediarli con il bene non riproducibile della città: poiché la città è un bene irripetibile, la città è per sempre.

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Tuttavia tutto quello che emerge dalla lettura dei bisogni e delle speranze: una città che adegui e rispetti i piani urbanistici, dandosi un vero piano strutturale, che sappia leggere dentro la sua composizione sociale (aggiornando le analisi sul campo di cui già dispone), che rinnovi la sua macchina comunale per adeguarla ai tempi del digitale, del satellitare e della ‘multimedialità’, insomma tutto quello che emerge dall’interpretazione dei segni dei tempi non potrebbe essere aggredito e affrontato eludendo in nodo politico di cui un territorio che non ha un’autentica rappresentanza cui confidare un disegno di rinascita e di lotta per cui conferire la forza dell’autonomia, della libertà e di una elevata dignità civile. Si tratta della questione che precede e determina qualsiasi ipotesi a venire e che condiziona natura e storia di una “città sospesa” quasi come la Zenobia di Italio Calvino ne “Le Città invisibili”. Allegoria metaforica di una città anfibia, una terra di mezzo fra meraviglia e banalità, fra ardimento e viltà, fra eccellenza e mediocrità. Ecco perché le elezioni amministrative, chiunque le vinca, saranno un banco di prova terribile per quanti vogliano ridare senso a una storia che ha bisogno di tornare a essere grande e rispettata. Prima che sia davvero troppo tardi.

Vincenzo Viti è laureato in giurisprudenza. Già direttore dell’Ufficio studi del Consorzio per l’Area industriale Val Basento. È stato consigliere comunale di Matera dal ’69 al ’74; consigliere e assessore regionale alle Attività Produttive dal ’75 all’83; deputato al Parlamento per tre legislature fino al ’94: tutte vissute nella commissione Cultura della Camera. Firmatario di numerose iniziative di legge, fra le quali la 771 per i Sassi di Matera, approvata nell’87 e quella istitutiva della Soprintendenza scolastica della Basilicata e il provvedimento di modifica del Piano triennale dell’Università con il quale veniva istituito a Matera il corso di laurea in Ingegneria delle risorse e dell’ambiente. Dal 1988 al 2001 è stato consigliere del ministro delle Comunicazioni quale responsabile delle Politiche e Strategie della Comunicazione. È stato amministratore dell’Istituto di Previdenza delle Poste Italiane. Ha diretto con Enrico Manca il bimestrale di cultura politica “Innovazioni”. Attualmente è consigliere per la Cultura del presidente del Senato.


Rendere

più vivibili i palazzi nei quartieri, creando intorno alle piazze luoghi d’incontro e di scambio culturale, zone verdi e aree di gioco per i bambini, piccoli negozi e botteghe artigiane.

di Bernadette Scalcione, Francesco Riccardi, Leo Rubino L’opportunità di descrivere e parlare della città che vorremmo, induce inevitabilmente a partire da considerazioni ben più ampie. Non si può non tenere conto in primo luogo, seppure in maniera semplificata, di alcune riflessioni in merito alla società e ai massimi sistemi che ne determinano l’attuale modello di sviluppo. Occorre riflettere sui profondi cambiamenti che la società ha subito nell’arco di pochi decenni, innescati dall’avvento dell’era industriale, che attraverso la logica del capitalismo hanno modificato i rapporti di potere tra le classi sociali, in maniera rapida sino ai giorni nostri, in cui “l’interesse e il potere” hanno assunto un’identità propria, distaccandosi e sostituendo anche i soggetti che li esercitavano. L’alienazione dell’uomo in virtù del “potere” ha fagocitato tutto e tutti. La logica dell’”interesse” e la sua assunzione a unico valore supremo, hanno modificato ad ogni livello il rapporto tra uomini e cose, assoggettando i primi a quest’ultimi, considerati alla stregua di merce o prodotti, da condizionare a uso e consumo del potere stesso. L’esercizio del “potere” (economico-politico) sin qui svolto ad affermare la supremazia degli uomini su gli uomini (a vantaggio seppure dei pochi) è sfuggito di mano, perdendo il controllo e innescando così un fenomeno del tutto nuovo nell’ambito della storia umana. L’uomo, in maniera perversa e autodistruttiva, è riuscito a concretizzare un concetto che è diventato sistema a scala mondiale, cosa che neanche le grandi religioni monoteistiche nel corso d’interi millenni, sono riuscite a fare. Una logica, un sistema, non più identificabile con gli uomini se non in termini di vera e propria schiavitù. La ‘radicalizzazione’ e la diffusione di tale sistema a costo di qualsiasi sacrificio, anche umano, ha alterato e modificato ogni relazione inerente all’uomo stesso, allo spazio e alle sue attività, a ogni livello e categoria, trovando nella politica il mezzo utile alla sua legittimazione. Tali cambiamenti riguardano ovviamente anche l’ambiente in cui vi-

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viamo, e in particolar modo le città. Le città che non sono più funzionali all’uomo, ma all’esercizio e alla gestione dello stesso potere. Creando così, un’incongruente disgregazione, in contrapposizione al bisogno primordiale dell’uomo di vivere in comunità. Le città, omologatesi nelle esigenze e nella loro struttura, sono l’immagine e il frutto della materializzazione del sistema, che prende corpo attraverso una fitta rete di sovrastrutture e falsi bisogni, divorando velocemente interi spazi, non solo fisici.Vive ormai di linfa propria nutrendosi di materia umana e rigurgitando in cambio sempre nuove esigenze da soddisfare, per autoalimentarsi.

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Il sistema è nelle città, nelle piazze, sui manifesti, per le strade, tra gli scaffali degli ipermercati, il sistema ci veste ci nutre ci fa lavorare, divertire, ma soprattutto ci educa, ci omologa a tal punto che appare difficile parlare fuori dal coro. Privati della capacità di fare, progettare e determinare la nostra vita dalla logica del “produrre e consumare”, pensare o parlare di un ritorno a una vita naturale, di pace, di aggregazione, di condivisione, d’onestà, di giustizia e d’integrazione tra i popoli, in nome e nel rispetto di ogni cultura, c’appare visionario, fuori della realtà, una minaccia al nostro status. Il sistema si è impossessato delle nostre menti, si sviluppa, s’adatta e si regola di volta in volta, subdolamente. Ci controlla in maniera capillare nel modo e nella misura in cui, uno contro l’altro, tendiamo a soddisfare i nostri bisogni con la prevaricazione, con la corruzione, l’indifferenza, con ogni mezzo atto a conquistare o mantenere la nostra fetta d’apparente benessere. Ciò che legava gli uomini alla natura non fa più paura, completamente in preda alla mania di onnipotenza e allo sfrenato tecnicismo, il sistema ha disegnato le città che non sono più il luogo degli uomini, ma della gente che lavora, i quartieri, le case non sono più lo spazio della condivisione dell’educazione dei figli: quando ve ne sono, il compito d’educarli è lasciato al sistema, sin da piccolissimi. Si può immaginare un’inversione di tendenza? Si possono immaginare delle città diverse, proiettandosi in una società diversa? Ci sembra di essere arrivati a un punto di non ritorno, eppure l’opportunità di un’inversione di tendenza può partire dal riconsiderare la città guardando proprio ai nostri centri storici, che per quanto qualcuno provi a farli diventare un bene di consumo, mal si adattano alla logica consumistica, tanto da creare non pochi problemi a più di un’amministrazione comunale, a meno che di farne grandi musei inanimati.


I centri storici non sono solo un patrimonio dal punto di vista artistico architettonico da salvaguardare, ma rappresentano la memoria di luoghi ricchi di vicende umane dove la necessità, il saper fare era messo in rete, creava relazioni e non disgregazione. Occorrerebbe apprendere da quella stessa memoria, guardando la storia, la nostra storia, non nell’ottica di un ritorno al passato, ma considerando gli errori commessi, e recuperare quanto di sano l’uomo aveva costruito in milioni di anni di evoluzione, e ha bruciato in tappe spesso troppo affrettate, senza valutare gli effetti nefasti che certi cambiamenti avrebbero portato. Oggi non c’è più spazio per continuare a commettere errori, in molti casi i cambiamenti sono già irreversibili; occorre trovare dei rimedi, senza ricadere in quelle trappole che l’uomo ha creato per se stesso, osannando un tipo di sviluppo incontrollato e distorto, affidando la sua stessa vita a un sistema che non è più utile alla sua specie, ma alla sua estinzione. Una di quelle trappole è sicuramente quella che potremmo definire “la logica della pezza”, ovvero trovare piccoli rimedi e soluzioni ai problemi senza considerare l’effetto complessivo che certe azioni possono avere, continuiamo a rammendare un sacco che nel frattempo non ha più spazio per le “pezze”, e potrebbe rompersi del tutto. Occorre quindi intervenire in maniera radicale sulle questioni, guardando alla globalità delle conseguenze e scegliendo in maniera da creare un effetto positivo nel totale, non solo nel piccolo ambito che ci riguarda. Ripartire dai centri storici significa proprio riconsiderare una parte della storia perduta, recuperarla, non solo in termini architettonici e culturali, ma soprattutto vitali, ovvero investire nei rapporti umani, di lavoro, di scambio e di relazioni tra individui, cercando per quanto possibile di adattarli alla realtà attuale delle cose, e magari proiettandoli anche in chiave innovativa, senza distruggerne gli elementi essenziali e soprattutto senza “vendere” il loro valore storico e culturale. Questo perchè certi luoghi conservano una visione più sana della vita e dei rapporti tra le persone, una dimensione più umana, nella concezione degli spazi e quindi del loro utilizzo, abitativo e lavorativo, nella produzione e nello scambio di merci e saperi. Nella nostra epoca i luoghi principali di scambio delle merci non sono più le botteghe, i mercati, le fiere, in cui avviene l’incontro tra le persone, in cui un’attività essenziale della vita, che è il reperimento dei beni materiali per soddisfare i propri bisogni, s’arricchisce del contatto con gli altri, di quel rapporto umano legato al bisogno di incontrarsi e comunicare, attraverso emozioni e sensazioni, per trovare

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parole e gesti utili alla propria vita e alla sinergia tra la nostra e quella degli altri. Ipermercati e grandi centri commerciali hanno annullato questo tipo di rapporti, spostando l’incontro a favore degli oggetti, dei prodotti, dei prezzi, delle offerte e delle super-occasioni, a favore di un mercato che offre spesso prodotti inutili, a volte dannosi, speculando su quel bisogno di comprare considerato come antistress, indotto dalla pubblicità, e tra mille persone spesso non si parla con nessuno, in luoghi super affollati dove si può avvertire una pesante sensazione di solitudine. La stessa solitudine che si può provare imbottigliati in una coda d’automobili, tra tante persone che fremono per fare pochi metri di strada, respirando veleni e pronti per scattare e guadagnare pochi centimetri, disposti a scaricare spesso tutta la rabbia che hanno dentro contro qualcun’altro, per difendere quei pochi centimetri conquistati. La stessa solitudine che si prova nei condomini di palazzi enormi in quartieri tristi e privi di vita, dove le mura riverberano spesso solo l’audio di un televisore che sta comunicando quello che bisogna comprare, dove le mura diventano barricate, per difendersi da un vicino ostile, che un giorno o l’altro, potrebbe anche, preso da un eccesso di quello stesso stress, attentare alla vita di chi vive accanto a casa sua! Tutto questo è molto lontano da un modello di città funzionale a soddisfare i bisogni delle persone, perchè è molto lontano dalla natura vera delle persone. Purtroppo i centri storici sono solo piccola parte delle città, quella piccola parte che si presta meglio a un ripensamento del modo di vivere, da cui si dovrebbe ripartire con l’obiettivo di riparare anche dove il danno sembra ormai irreversibile. Non si possono buttare giù i palazzi nei quartieri, si può forse cercare di renderli più vivibili, creando intorno alle piazze luoghi d’incontro e di scambio culturale, zone verdi e aree di gioco per i bambini, non altri centri commerciali con all’interno grosse catene multinazionali di distribuzione, ma piccoli negozi e botteghe artigiane dove il lavoro possa ritrovare una dignità attraverso il contatto tra le persone, dove l’intelligenza e la manualità sono messe al servizio della comunità, in un meccanismo di produzione e scambio di merci che portano con se un valore non solo monetario ma anche sociale. Nei nuovi quartieri è indispensabile riconsiderare completamente il concetto di spazio per le strutture abitative, abbandonando definitivamente quella logica spesso affaristica e speculativa, per la quale bisogna ammassare cemento per creare palazzi enormi pensando di otti-


mizzare i costi e guadagnare volumi nelle altezze, senza rendersi conto di sottrarre lo stesso spazio al respiro delle persone e al bisogno d’armonia nelle forme del paesaggio che circonda le case. Quel paesaggio che poi scivola verso le campagne, luoghi ormai considerati di sola produzione delle merci alimentari, o magari di scarico per rifiuti, o potenzialmente di futura lottizzazione urbana e industriale. Ma le campagne sono il luogo del nostro rapporto più profondo e ancestrale con la natura, che non è un’entità separata da noi, addirittura controllabile e modificabile in ogni sua parte. Siamo noi parte di un organismo molto più grande, in ogni dimensione, e ogni azione rivolta contro l’equilibrio che c’è tra le parti si ripercuote su ognuna di esse, e quindi anche su di noi. Non possiamo continuare a produrre rifiuti, spesso da oggetti inutili, che hanno già inquinato prima ancora di arrivare sul mercato, e continuano a farlo anche quando escono da quel circuito, attraverso una logica che spesso conviene solo a chi li produce, e poi a chi li smaltisce, soprattutto se a muovere i fili sono gli stessi soggetti, come spesso accade. E noi ci ritroviamo burattini nel teatro della stupidità! Occorre quindi guardare alle aree rurali in termini di totale salvaguardia, partendo dall’intervento sul problema dei rifiuti ovvero differenziando, compostando e riciclando tutto quello che è possibile, e promuovendo il consumo di prodotti per cui sia prevista, già in fase di creazione, la possibilità del riutilizzo e del riclico. Salvaguardia che deve comprendere sicuramente le aree di interesse naturalistico, che possono costituire anche fonte di lavoro e di guadagno per un tipo di turismo ambientale consapevole e responsabile, oltre che rappresentare una sponda al problema delle emissioni nocive in atmosfera. Salvaguardia per le aree della produzione agricola. Dopo decenni di miope sfruttamento produttivista intensivo, con l’alterazione degli ecosistemi e l’inquinamento di terre e acque a causa dell’uso di sostanze dannose e di tecniche distruttive, ci ritroviamo ancora una volta nello stesso “teatro”, con gli stessi burattinai che muovono i fili per produrre cibo avvelenato che genera malattie e medicine appropriate che curano solo in parte quelle malattie, in una spirale perversa che è funzionale solo a un interesse economico. La terra dovrebbe ritornare a vivere nei suoi equilibri naturali, attraverso i sistemi e le tecniche dell’agricoltura naturale, biologica e biodinamica, per rispettarla come organismo vivente, per proteggere la sua salute, che è essenziale per la nostra salute, e quindi per la nostra vita. Considerando poi che le campagne hanno subito il forte attacco e la conquista da parte del sistema agro-industriale anche a causa del loro

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spopolamento, occorrerebbe ripensare alla possibilità di abitarle e di viverle, non solo in termini agrituristici, ma favorendo la creazione di nuclei abitativi che altrove hanno già grande diffusione, chiamati “ecovillaggi”, dove al desiderio di chi li abita di vivere un rapporto diretto e profondo con la natura s’unisce la possibilità di mettere in pratica una serie di sistemi legati al risparmio idrico ed energetico, al trattamento di scarichi e rifiuti, al rispetto quindi della natura e di tutti gli esseri che la costituiscono. Dovrebbe essere poi naturale cercare tutte le forme possibili d’integrazione e interazione tra le varie parti del territorio, dai centri storici alle periferie, alle campagne, attraverso l’incontro e lo scambio tra luoghi e persone, tra lavoro e saperi, prodotti e mercati, tra beni materiali e sentimenti!

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Vogliamo una città laboratorio di idee e di progetti che si faccia promotrice di queste logiche! Vogliamo un’Amministrazione in grado di ascoltare, interagire, progettare un futuro diverso! Vogliamo una democrazia partecipata, una città dove l’integrazione e il rispetto siano un fondamento, vogliamo pari opportunità per tutti. “Le città devono trasformarsi in laboratori di cultura di pace. Esse devono sorpassare la corazza delle sovranità statali, che ancora sono segnate dall’arcaico antagonismo tra città e stato, per restaurare la solidarietà in una dimensione planetaria. Le città sono chiamate a questa grande, pacifica rivoluzione”. (E. Balducci, fatta propria dall’Assemblea nazionale Enti Locali per la Pace, Assisi 21/05/1994) Da questa affermazione sono partiti alcuni Comuni e Province italiane per costituirsi in coordinamento, per creare maggiori canali di comunicazione, di confronto e collaborazione; per moltiplicare l’impegno dei singoli attraverso un progetto comune. L’obiettivo principale resta quello di partire dalla propria città, dal proprio paese per poi collegarsi alle altre realtà, per far crescere così, l’attenzione, la sensibilità per un impegno che coinvolga tutti i gruppi, le scuole, le associazioni, i cittadini, versa la costruzione comune d’una stabile e concreta cultura di pace. Con delibera di Consiglio Comunale, a Maggio 2003 è stata autorizzata l’apposizione del nuovo logo “Matera città della pace e dei diritti umani”. Un buon punto di partenza per una città come Matera con grandi potenzialità, per arricchirsi e arricchire la società rispetto a tematiche sociali e ai valori della pace della solidarietà e del volontariato.


Questa premessa dovrebbe portare da subito alla realizzazione di un centro d’informazione ed educazione alla pace e ai diritti umani gestito da associazioni di volontariato e destinato a luogo d’incontro per chi sentisse il bisogno di sviluppare conoscenze e saperi rispetto alle diverse realtà che caratterizzano il mondo. Sentirsi più vicini e coinvolti alla “diversità” etnica presente sul nostro territorio, solidarizzare con i concittadini provenienti dai diversi paesi del mondo. Capire cosa significa essere immigrato ed entrare a far parte del tessuto sociale di Matera, comprendere le loro problematiche e fondersi in queste, cercare d’aiutare dando il proprio contributo, sentirsi coinvolti nel piacere e nel “dovere sociale della solidarietà”, dell’umanità e della fratellanza. Grandi parole, che fanno grande l’uomo se applicate nella quotidianità di azioni propense al dialogo e all’ascolto, e quindi alla partecipazione attiva. La costruzione di un intercultura concepita come: “sviluppo di abilità di pensiero, che può contribuire al cambiamento di atteggiamenti e di comportamenti per correggere giudizi stereotipati e preconcetti” (Lynch 1993) L’interculturalità che comporta l’arricchimento reciproco è un ambito su cui è doveroso investire per comprendere altri mondi sconosciuti per riconoscere e riconoscersi nella “diversità”, per scoprire quanto questa ci unisce. Occorre l’individuazione di luoghi e spazi associativi che possano favorire l’autorganizzazione dei cittadini sviluppando politiche di stimolo verso gli enti e le istituzioni; partecipare attivamente per la crescita del benessere delle persone attraverso attività di promozione culturale diffusa, operando tramite tutte le forme artistiche ed espressive per la creazione e la fruizione culturale; attraverso luoghi di aggregazione per stimolare la condivisione dei saperi: la creatività. Occorre inoltre emanciparsi all’innovazione dei consumi attraverso la conoscenza del consumo critico, il risparmio etico, il software libero, il turismo responsabile, la cooperazione sociale. Nell’era della globalizzazione del “libero” mercato, è indispensabile che i consumatori riscoprano il potere socio-economico di cui dispongono e lo utilizzino in senso critico e costruttivo per fare scelte consapevoli, osservando attentamente alcuni criteri basilari su cui basare le proprie scelte. Bisognerebbe tener conto quindi del rispetto dei lavoratori e dei minori promuovendo l’acquisto di prodotti che non provengono dallo sfruttamento del lavoro, ricercando la trasparenza degli scambi at-

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traverso nuove modalità di relazione fra la società e il mondo economico e finanziario fondato sul recupero della responsabilità etico-sociale. Parliamo di scelte etiche e responsabili che amministrazioni, enti e consumatori attenti stanno portando avanti in Italia già da anni, proposte e progetti possibili da realizzare, perchè già ampiamente sperimentati. “La libertà non è star sopra un albero non è neanche aver un’opinione la libertà non è uno spazio libero LIBERTÁ È PARTECIPAZIONE” (Giorgio Gaber)

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Bernadette Scalcione è socia dell’Associazione Loe per la Cooperazione e la Solidarietà, socia del Gruppo di Acquisto Solidale di Matera e presta servizio di volontariato presso la Bottega del Mondo del Commercio Equo e Solidale. Francesco Riccardi è contadino, socio dell’Associazione Loe per la Cooperazione e la Solidarietà e del Gruppo di Acquisto Solidale di Matera. Leo Rubino è artigiano del cuoio e socio del Gruppo di Acquisto Solidale di Matera.


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