La pittura di Vincenzo Claps

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...“Scorrendo ... “Esistono, il catalogo messo a punto dalla Magno, emerge con chiarezza il percorso tracciato da Claps fra gli anni Trenta e gli anni Settanta, perseguendo una costante ricerca di rinnovamento linguistico e tematico”...

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pittura Vincenzo Claps

FIORALBA MAGNO

Fioralba Magno, con questo saggio, ha vinto il Premio Speciale Liberalia nella seconda edizione del Premio Letterario “La Città dei Sassi”.

la pittura di Vincenzo Claps

FIORALBA MAGNO

88-86820-67-7

i saggisti


CAPITOLO I LA PITTURA LUCANA TRA OTTOCENTO E INIZI NOVECENTO: IL “LUOGO” COME FONTE DI ISPIRAZIONE La pittura lucana nei suoi tratti moderni e contemporanei si decide in uno spazio di tempo breve. Il suo farsi autonomo, nel senso di autentico legame con l’ambiente e la società, coincide con gli anni che vanno dal 1930 circa a prima della guerra e dalla fine del conflitto ai giorni nostri.16 Durante il secolo Diciannovesimo, infatti, non si può ancora parlare di “pittura lucana”; le condizioni politiche e sociali arretrate, il ritardo dello sviluppo industriale e l’affermazione di una classe piccoloborghese con scarsi interessi culturali determinano un clima di ristagno per ogni tipo di manifestazione artistica e inducono sovente gli artisti più promettenti a lasciare la Basilicata per vivere in realtà ove sia concesso loro di confrontarsi ed emergere.17 La perenne emigrazione degli intellettuali da questa terra diviene una vera e propria “fuga” che non lascia spazio al ritorno e al ricambio culturale fino alla metà del Novecento, quando gli artisti contemporanei decidono di fare arte «in regione per la regione».18 Per l’Ottocento e buona parte del Novecento si può parlare quindi solo di “pittori lucani” i quali scelgono spesso Napoli come terra adottiva, dove possono studiare grazie a borse di studio che talvolta la Provincia di Potenza mette loro a disposizione.19 Pur essendo l’ambiente accademico napoletano ricco di stimoli culturali, tutti i lucani che hanno abbandonato la propria terra, dal fascino antico e misterioso, non sono riusciti a dimenticarla e, con i loro oli e le loro tele, hanno continuato a raccontarla e a celebrarla. Enorme fortuna gode nell’Ottocento insieme al ritratto, la pittura di paesaggio,20 genere guida nell’evoluzione stilistica del secolo Diciannovesimo.21 La maggior parte dei pittori si dedica a un genere di pittura 13


che oscilla tra il vedutismo documentario e topografico di ascendenza vanvitelliana e un paesismo lucano informato al gusto romantico.22 Il primo sintomo di un legame degli artisti lucani con la terra d’origine e con l’ambiente di provenienza è individuabile, dunque, nella scelta del paesaggio lucano quale oggetto di rappresentazione. La consapevolezza che anche questo paesaggio, pur se aspro, solitario, “diverso”, sia degno di essere rappresentato è il primo segno della nascita della “pittura lucana” e l’amore da parte di questi artisti verso questa diversità è da considerarsi un atto di fede e di autentica ispirazione.23 Verso la metà dell’Ottocento si ha un primo accenno a temi strettamente lucani, di carattere storico e fortemente idealizzato, ancora privo di attenzione agli aspetti propriamente naturalistici della realtà regionale; è tuttavia l’inizio di una certa autonomia espressiva. Michelangelo Scardaccione24 (1838-1902), nativo di Sant’Arcangelo, dipinge in quest’epoca la celebre tela in cui la Lucania, rappresentata ‘neoclassicamente’, in veste di dea, riceve dall’arcangelo Gabriele la corona di alloro, mentre con la mano destra indica il busto del patriarca e giurista Mario Pagano da Brienza, giustiziato dai Borboni per i moti liberali del 1799; ancora un soggetto storico-mitologico, quindi, ma in esso è già presente un primo ed evidente legame con la terra d’origine. Il primo significativo passaggio da soggetto storico a realtà vissuta è compiuto da Andrea Petroni25 (1863-1943) di Venosa.26 Egli ritrae non già gli splendori della Campania felice, terra d’adozione, «sibbene le tristezze della Basilicata, terra feconda d’ingegni e di patrioti ma stanca di malaria e gialla di febbre, che ha il triste sorriso dei tisici, tra le spaccature delle montagne, la vegetazione selvaggia, il cielo crucciato ed inclemente».27 Dello stesso autore è l’opera La Basilicata, di matrice simbolista, dipinta sul soffitto dell’ex Ministero dell’Agricoltura dell’Industria e del Commercio di Roma in cui la regione è vista dall’autore come una contadina che indossa una gonna alquanto malandata, essenziale nella forma e nello stile e con in testa un fazzoletto bianco. Nelle mani la “pacchiana” regge dei grappoli di granturco, tipico prodotto di una terra che Andrea Petroni riconosce nella sua realtà storica di terra desolata e ancora economicamente arretrata.28 Con la sua pittura, espressiva ed elegante, l’artista intende rappresentare la immensa e penosa 14


desolazione delle terre lucane, abbandonate dai governanti e ignorate dal resto della Penisola.29 Niente potrebbe documentare la realtà della Basilicata meglio e più efficacemente del quadro di Petroni Riposo nella Val D’Agri,30 in cui il fiume serpeggia tra monti e colline inaridite e, su questo sfondo, un uomo spezza un tozzo di pane nero, assorto nei suoi pensieri di malinconia e miseria. In esso si coglie perfettamente tutta la sconfinata tristezza della vallata e tutta l’ inesorabile sterilità della terra.31 La “lucanità”, intesa come totale senso d’appartenenza a questa terra, è caratterizzata innanzitutto da uno stato di infinita rassegnazione e pazienza, come anche dall’ aurea mediocritas e dal modus in rebus oraziano, tipici della mansuetudine lucana, che Orazio ereditò dal padre contadino.32 Gli artisti degli anni immediatamente successivi: Michele Giocoli, Italo Squitieri, Remigio Claps33 e Vincenzo Claps34 faranno finalmente rivivere sulla scena del paesaggio nativo la quotidiana esistenza della comunità: gli uomini e i loro sentimenti, i gesti della fatica35 e della festa.36 Nello stesso periodo, intorno agli anni Venti, alcuni artisti italiani sono di ritorno da Parigi, soggiorno obbligato per chiunque voglia arricchire il proprio linguaggio pittorico37e, dimentichi della lezione di Modì, Picasso e Braque e degli ideali di velocità e movimento esaltati dal Futurismo, arretrano nuovamente verso una visione idillica del paesaggio.38 È proprio su questo rientro dell’avanguardia che opera il fascismo per realizzare la propria celebrazione propagandistica a opera di validi artisti. L’idillio propagandista si sostanzia nella rappresentazione, tra il decorativo e il folclorico, di riti contadini, mietitura, feste del grano, feste dell’uva, ritratti del duce a petto scoperto e con la falce in mano.39 Mentre dilaga questo idillismo di maniera, Giocoli, Squitieri, Remigio e Vincenzo Claps, insieme a pochi altri, resistono al mito della razza e all’esteriore e retorica celebrazione della campagna e rappresentano, con straordinaria ricchezza narrativa, il mondo della Lucania. L’attenzione di questi artisti si concentra soprattutto sull’esistenza reale. Mentre agli inizi del secolo Cézanne avvia la scomposizione degli oggetti per collocarli sul piano plastico, anticipando quanto fu poi fatto da Picasso e Braque, che concepirono l’idea del quadro come forma oggetto, la Lucania ripiega su se stessa, come del resto l’intero Sud.40 Qui infatti la creatività si indirizzerà più verso forme conservative di 15


rappresentazione, sia per una forma di fuga dalle esortazioni propagandistiche di regime, sia per il ruolo pressoché statico cui il Sud Italia è relegato a causa di un tessuto sociale ancora prevalentemente basato su strutture feudali. 41 Remigio Claps (Avigliano 1911 - Potenza 1985), pur appartenendo a una famiglia alto-borghese, risulta attento alle tematiche della cultura contadina,42 mostrando un profondo attaccamento alla sua terra; lo stesso attaccamento che il padre, giurista di chiara fama, trasfuse nei suoi racconti aviglianesi.43 Nelle sue tele il paesaggio è reso in maniera essenziale, con una tavolozza cromatica morbida e calda nei toni, tale da suscitare un’atmosfera elegiaca e sottilmente romantica.44 Alcuni sostengono però che, a causa delle sue origini e della sua formazione accademica, dominato come fu dalle visioni paesaggistiche della scuola toscana e napoletana, egli non sia riuscito a cogliere la specificità geografico-storica dell’ambiente nativo.45 Soprattutto a Giocoli, Squitieri e Vincenzo Claps, formatisi in pieno Fascismo, va il merito di aver tagliato con gli influssi di scuola napoletana ed essersi messi in rigoroso, anche se forse inconscio, antagonismo rispetto all’iconografia araldica del ventennio, opponendosi al mito della razza attraverso la rappresentazione di gente e cose della propria terra.46 La pittura di Giocoli47 (Potenza 1904-1987), appartenente per estrazione di nascita alla media borghesia agraria, si dispone in volumi scarni ed essenziali con una gamma cromatica povera e passaggi di mezzi toni dal grigio al nero.48 Il suo linguaggio pittorico è autorevolmente definito «naturalistico, debitore della pittura ottocentesca “di macchia”»49 ma con risvolti cromatici «non privi tuttavia di accensioni inattese».50 Negli anni Trenta abbandona la pittura di scuola napoletana e si lega all’ambiente contadino che lo circonda51 e interessanti sono le sue raffigurazioni di «processioni di donne velate e le nature morte in cui predominano i gialli cadmio di girasoli maturi».52 Una Lucania di sapore arcaico è quella che propone Italo Squitieri (1907-1994), anch’egli di origini borghesi, che, nei suoi continui viaggi, ha continuato a cantare la sua terra per le strade del mondo.53 La sua produzione gravita intorno alla natura, colta in tutte le sue espressioni, quale principale strumento di decodificazione del reale; i boschi, i contadini sono una costante semantica dei suoi quadri.54 L’immagine più ricorrente nelle sue opere è quella delle donne in abito tradizionale 16


lucano, «avvolte nei loro scialli antichi e strette nelle gonne affusolate e lunghe, spesso recanti i colori del lutto»,55 e che, nella loro «secchezza geometrizzante» ricordano l’esempio di Sironi.56 Vincenzo Claps (1913-1975), di modesta famiglia artigiana, volge la sua attenzione a personaggi umili, marginali, mostrando particolare sensibilità al dramma sociale della sua gente. Egli costituisce l’eccezione più significativa alla tendenza tipica dei suoi contemporanei, a un’oscillazione continua tra temi e motivi della pittura di genere napoletana e temi e motivi lucani, indirizzandosi verso una più consapevole e piena riconquista della “lucanità”. Caratterizzato da una solida e compatta materia, da una precisa e modernissima definizione spaziale, questi coglie, attraverso la lezione di Felice Carena e l’influenza della cultura pittorica centro-italiana, gli spunti migliori della pittura degli anni Trenta, legata insieme al concetto di “ritorno all’ordine”e alla rilettura della pittura antica italiana: dalla «semplicità dei Primitivi alla spazialità pierfrancescana».57 Predilige un’estensione tonale del colore, una pittura velata nelle tinte e austera nell’impostazione formale.58 Alcuni tra gli artisti citati, come lo stesso Vincenzo Claps, frequentano Licei Artistici e Accademie di Belle Arti in importanti città italiane, dove apprendono stili e tecniche pittoriche da valenti maestri dell’epoca e, nel fare ritorno alla propria terra, scoprono nell’amabile natura e nei costumi degli abitanti fonti insostituibili di ispirazione.59 Questi artisti sono soprattutto pittori di storia “con la minuscola”, in altri termini di “condizione”.60 Quando Carlo Levi, piemontese e gobettiano, scopre nel suo confino politico la Lucania, nella questione meridionale individua “la condizione”, ossia l’abisso di classe esistente tra questa e le altre regioni italiane.61 A dividere questa regione dal resto del paese non sono soltanto mali locali come la disfunzione organizzativa o l’isolamento culturale, ma una condizione oggettiva,62 che si identifica con la “questione meridionale” intesa come divario persistente tra regioni sviluppate in senso industriale e regioni ancora ferme a una economia di sussistenza, con tutte le conseguenze che ne derivano a livello non solo economico, ma anche politico, sociale e culturale. La questione meridionale ha caratterizzato gli ultimi decenni dell’Ottocento e i primi del Novecento ed è stata ereditata dal regime fascista senza che il gruppo dirigente abbia affrontato il problema in maniera adeguata. Se il fulcro della propaganda di regime rimane la valo17


rizzazione delle campagne e delle zone rurali, la politica industriale ha in effetti ampliato ancor di più il divario esistente tra queste due realtà contrapposte.63 La povertà economica e l’assurdità della vita in questa terra sono tali da indurre un economista agrario del tempo a definirle in termini di “pazzia”: «È tutto il centro (…) occidentale della regione (…) un territorio tormentato, desolato, di nude argille, che smottano, franano, vanno a mare. È il regno quasi incontrastato del grano e della più dura fatica contadina.(…) In queste zone, che sono tanto frequenti in tante regioni del Mediterraneo e della Sicilia, quella che c’è non si può chiamare agricoltura, ma pazzia.(…) Ci sarebbe tutto da rifare, tutto da riordinare, perché è assurdo vivere come lì si vive, è assurdo coltivare il grano come lo si coltiva; è assurdo trattare la terra come la si tratta, è assurdo tutto».64 Se la “condizione” è “condizione e basta” in Giocoli, Squitieri e Vincenzo Claps, essa diventa autentica “condizione contadina” in Levi.65 Nel suo confino politico nei paesi lucani di Aliano e Grassano, tra gli anni 1935 e ‘36, Levi è ispirato dai volti umani e dal paesaggio lucano, che traspone sulla tela in un linguaggio formale a metà strada tra Neoimpressionismo ed Espressionismo.66 Dai suoi dipinti emergono il dramma umano e la condizione sociale della gente del Sud, in una dimensione di denuncia verso uno Stato troppo lontano, ma anche di esaltazione dei valori umani insiti nella cultura locale.67 Quest’uomo, che il fascismo ha condannato al confino, dominerà la letteratura del secondo dopoguerra e la cultura lucana in genere, proprio mentre si scopre la funzione politica e civile dell’intellettuale e mentre più sentita è la necessità di misurarsi con i problemi effettivi della società e della vita, in contrapposizione a ogni forma di fuga o evasione dalla realtà.68 La classe intellettuale ha spesso considerato Levi una sorta di “anno zero” del panorama artistico locale,69 per il ruolo centrale che questi ha avuto nella cultura lucana del secondo Dopoguerra. In realtà non è corretto interpretare la continuità dei temi contadini come “levismi di ritorno” dal momento che Giocoli, Squitieri e Vincenzo Claps hanno dipinto il mondo contadino e la classe emarginata ancor prima di Levi.70 È stata inoltre autorevolmente e ulteriormente specificata la 18


differenza che sussiste tra la produzione artistica dei pittori lucani e Carlo Levi: «La stessa differenza che passa tra un occhio impressionista, che carica (…) (la) pennellata di un movimento in eccesso, quasi fosse un’azione drammatica sulla tela, e lo sguardo fermo di chi immobilizza il reale e lo giudica definitivamente. Illuminato e illuminista Levi, pronto a cogliere la deformazione per attitudine politica, e all’opposto solido e realistico Giocoli, religioso e categoriale Claps».71 La “pittura contadina” di Levi nasce da una cultura letteraria di origine laica e risorgimentale, e questa mediazione ha certamente un carattere originale e irripetibile.72 La pittura lucana, caratterizzata da un significativo e graduale passaggio, a partire dall’Ottocento, dalla mitologia alla “Storia” e dalla “Storia” alla “storia”, intesa quale “condizione”, si è esplicitata in una crescente attenzione al quotidiano e, proprio quando comincia a riflettere sulla storia come “condizione”, essa comincia ad assumere connotati propri, ancor prima che si esplichi il magistero di Levi, al quale andrà poi il merito tutto particolare di aver portato la “condizione” all’attenzione del movimento democratico nazionale.73 Il paesaggio, il paese e il mondo contadino sono dunque i tre nuclei problematici intorno ai quali la pittura lucana in genere si è sviluppata a partire dagli anni Trenta.74 La matrice comune è il realismo sentito come legge morale e come soluzione all’impossibilità di una qualunque evasione dalla realtà; il tema dominante è l’uomo, protagonista del grande dramma della natura; uomo e natura che diventano quindi gradualmente soggetti attivi della storia sociale del Mezzogiorno.75 A tali riferimenti contenutistici corrispondono scelte artistiche diverse sotto l’influenza della scuola napoletana prima e del Neorealismo poi.76 Quest’ultimo movimento, in particolare, si sviluppa soprattutto negli anni Quaranta e Cinquanta , in concomitanza con la resistenza al nazi-fascismo e con la lotta partigiana. «Il fervido clima culturale lucano del secondo dopoguerra vede infatti l’esordio di numerosi artisti sensibili agli ideali democratici e antifascisti e partecipi del linguaggio neorealista».77 Si sviluppa pertanto la concezione secondo cui gli intel19


lettuali devono assumersi delle responsabilità storiche e farsi portavoce dei bisogni del popolo. Si forma in questi anni nella regione un nucleo di artisti, poeti e uomini di cultura uniti dall’attenzione alle problematiche sociali della terra lucana e del Mezzogiorno in genere.78 Nonostante questi appartengano spesso a famiglie benestanti o talvolta di prestigiosi professionisti, volgono la propria attenzione a personaggi umili e, fin dalle prime esperienze, testimoniano un forte legame a una terra e a una “condizione”. La terra, nel nostro caso, è una Lucania non più arcaica, ma non ancora moderna, lacerata da profonde contraddizioni e oppressa da persistenti squilibri; la Lucania «dura e amara dei paesi addormentati, delle campagne deserte, dell’emigrazione e del sottosviluppo».79 Tuttavia non si tratta più del mondo immobile, precedente alla fine della guerra e descritto nel Cristo si è fermato ad Eboli, ma di quel mondo contadino che nella sua prima fase di liberazione viene definito da Rocco Scotellaro, che di quel mondo fu poeta e vate, come “l’uva puttanella”; sterile, ma dolce abbastanza per servire con l’altra uva a formare il mosto.80 Il Mezzogiorno appare infatti estremamente cambiato, prende finalmente coscienza di sé e, attraverso il movimento contadino, si veste di un valore rivoluzionario, capace di fondare una nuova cultura che trova finalmente espressione nella lingua ufficiale dell’arte.81 Scotellaro riconosce che «è fatto giorno, siamo entrati in gioco anche noi, con i panni, le scarpe, le facce che avevamo». 82 Levi, a questo proposito, ricorda una pagina significativa della biografia del bandito Carmine Crocco, da questi dettata negli anni di prigionia. Crocco, camminando nelle sale del palazzo del principe Colonna, si ferma dinanzi a una grande tela raffigurante il principe in battaglia e riflette su ciò che differenzia il principe condottiero da sé e dai propri seguaci affermando che, mentre il principe era stato ricordato e dipinto, nessuno invece avrebbe mai ricordato e celebrato le sue gesta, 83 perché gesta di “povera plebaglia”.84 Il bandito della terra contadina è pienamente consapevole che l’arte, al pari di ogni mezzo di trasmissione e celebrazione della memoria storica, è in mano ai potenti. Levi sostiene che la “povera plebaglia” ha finalmente trovato una propria forma di espressione nella lotta politica e nella presa di coscienza di se stessa non più come classe sottomessa, ma come classe 20


che rivendica la propria autonomia e, insieme, l’arte dei “propri autori”. I nuovi artisti interpretano i valori del popolo perché con questo si identificano e, come Levi stesso afferma, «non solo vanno verso il popolo, ma sono (essi stessi) il popolo».85 In questo contesto esordiscono Maria Padula86, Mauro Masi87, Francesco Ranaldi 88, Giuseppe Antonello Leone89 e si formano artisti più giovani come Rocco Falciano,90 Luigi Guerricchio,91 Gerardo Corrado92 e Antonio Masini.93 Molti di essi sono tra i protagonisti negli anni Cinquanta dell’emigrazione intellettuale lucana verso le più grandi città d’Italia.94 Hanno tutti in comune una matrice realistica di partenza, che si estrinseca però in modalità differenti. Questa diversificazione iconica ricalca il diversificarsi delle esperienze individuali degli artisti in questione, fino a giungere, per alcuni di essi, ai confini dell’onirico e del visionario come ultima forma di sopravvivenza e di denuncia.95 Questi artisti, ponendo la propria attenzione sulla nuova problematica dello scontro tra società agro-pastorale e società industriale, testimoniano la graduale inevitabile scomparsa-sconfitta del mondo contadino a opera della civiltà industriale. Nel 1957, presso la Galleria del Ponte a Napoli, viene organizzata la mostra Pittori lucani che, pur mettendo a confronto artisti di varie generazioni, giunge a evidenziare un ideale filo di continuità che lega questi tra loro e che deriva dal comune senso di appartenenza alla propria terra.96 È inutile infatti cercare nell’arte lucana correnti, movimenti o scuole; la storia di questa va ricostruita osservando il rapporto di ciascun artista col proprio ambiente e la propria società di appartenenza.97 Una tradizione pittorica lucana o una scuola pittorica in senso proprio non è storicamente rintracciabile,98 tuttavia, molti tra i numerosi pittori lucani possono essere considerati partecipi di una concezione unitaria data dalla comune fonte di ispirazione. La pittura nasce in questo caso particolare, più che in ogni altro, da fatti sociali e culturali, da una matrice morale e culturale più che estetica. Questa forma di affermazione della propria autonomia antropologica ed esistenziale non ha escluso, tuttavia, la possibilità di un contatto fra l’arte lucana e la moderna cultura figurativa nel mondo,99 sebbene sia da sottolineare il ritardo con il quale sono giunte le novità in questa terra. 21


Se il realismo sociale di Guttuso, Migneco e Sassu, di fine anni Trenta, è giunto in Lucania solo un ventennio più tardi, lo stesso è da osservarsi riguardo alla pittura Informale che, sviluppatasi altrove nell’immediato dopoguerra con, fra gli altri, Burri, Fontana e Capogrossi, in Lucania è praticata solo a partire dagli anni Settanta.100 Nel 1980 gli artisti Nino Tricarico e Gerardo Corrado si fanno promotori e curatori del primo rilevante tentativo di storicizzazione dell’arte lucana, proponendo, presso la fondazione Corrente di Milano, la mostra Cinquant’anni di pittura in Basilicata, in cui sono esposte opere di Vincenzo e Remigio Claps, Gerardo Corrado, Rocco Falciano, Michele Giocoli, Luigi Guerricchio e Mauro Masi.101 Il significato dell’evento è quello di attirare l’attenzione verso questa regione, così duramente colpita dal terremoto del 1980 e di contribuire a ricordare che in questa terra esiste tutto un patrimonio culturale da preservare e da salvare.102 Levi, in una lettera del Maggio 1957 utilizzata come introduzione al catalogo della succitata mostra napoletana alla galleria Del Ponte, evidenziando ciò che accomuna le opere di tutti i partecipanti, scrive: “Si può sperare di trovare (…) qualcosa di comune tra i pittori di questa terra e non soltanto il fatto che essi vi siano nati o vissuti. (…) Se (…) un qualche modo profondo dell’espressione, malgrado le differenze di formazione, di esperienza, valore, stile, potesse scoprirsi comune, almeno ad alcuni di questi artisti, se cioè il rapporto di questi pittori con la loro terra si ritrovasse essere un rapporto reale, legato alla sua storia e alla sua esistenza, ciò credo sarebbe cosa di non priva importanza”. 103 Le considerazioni finora svolte permettono pertanto di affermare che nel legame indissolubile che unisce gli artisti lucani alla propria terra, legame da più parti riconosciuto e apprezzato, risiede ciò che di quest’arte rappresenta un fondamentale elemento di originalità e unicità. La pittura lucana è solo al principio di un «viaggio intorno a se stessa e al mondo, ma finora non ha mai alienato la sua umanità d’origine, il paese che si porta dentro».104

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TAVOLA N. 1 La maschera di Beethoven Databile al 1932 olio su tela, cm 45 x 49,5. Potenza, collezione privata Carmela Claps. Iscrizione a pennello-corsivo, in basso a destra: V. Claps. Bibliografia specifica: Pittori lucani, 2002, p. 67, fig. p. 74; scheda OA Soprintendenza per i beni artistici e storici della Basilicata, Matera. Mostre: Retrospettiva del pittore Vincenzo Claps, Potenza,1976. Pittori lucani dell’800 e dei primi del ‘900, Potenza, 2002. Pittori lucani dell’800 e dei primi del ‘900, Torino, 2002.

Il dipinto, di impronta simbolista, è un’originale composizione raffigurante libri, strumenti musicali, una collana tradizionale e la maschera di Beethoven in primo piano. Gli oggetti simboleggiano l’interesse dell’artista per la musica e il suo legame con la terra d’appartenenza. Quest’opera giovanile di Claps appare ancora molto legata alla lezione pittorica appresa in Accademia. 81


TAVOLA N. 2 Manzolillo (il ragazzo della forgia) 1933 olio su tela, cm 116 x 86,5. Firmato e datato. Potenza, Museo Provinciale. Iscrizione a pennello-corsivo, in basso a destra: V. Claps /1933. Bibliografia specifica: Pittori lucani, 2002, p. 67, fig. p. 71; scheda OA Soprintendenza per i beni artistici e storici della Basilicata, Matera. Mostre: Retrospettiva del pittore Vincenzo Claps, Potenza, 1976. Pittori lucani dell’800 e dei primi del ‘900, Potenza, 2002. Pittori lucani dell’800 e dei primi del ‘900, Torino, 2002.

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Il dipinto, intriso di forte realismo, raffigura un giovane minorato psichico assunto dal padre dell’artista come garzone di bottega. Fu realizzato nel periodo in cui Claps studiava a Firenze, durante uno dei soggiorni aviglianesi dell’artista. L’opera, premiata nel 1933 a Firenze con medaglia d’argento al concorso di pittura Hollaender, risente della spazialità e dell’evidenza plastica tipica della corrente Novecento, della ritrattistica classica e delle istanze della pittura dei Primitivi. Il dipinto è allo stesso tempo anticipatore delle tematiche sociali, nel soggetto “provocatorio” che raffigura. Il discreto stato di conservazione dell’opera rese inevitabile un restauro negli anni novanta del Novecento, che fu curato da Emanuele Taddonio e consisté in una pulitura della materia pittorica con soluzione di ammoniaca, alcool, petrolio, e una stesura finale di vernice. L’opera è provvisoriamente conservata nel Museo Provinciale di Potenza dopo essere stata per diversi anni esposta in una sala del Consiglio Provinciale di Potenza, in piazza Mario Pagano, 1.

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TAVOLA N. 3 Natura morta 1936 olio su tela, cm 36,5 x 49. Potenza, collezione privata Carmela Claps Iscrizione a pennello-corsivo, in basso a destra: V. Claps. Mostre: Retrospettiva del pittore Vincenzo Claps, Potenza, 1976. Inedito.

L’opera raffigura una composizione formata da frutta, ceramiche e gioielli tradizionali, probabilmente legati al lavoro artigianale dei Claps. In particolare, la collana tipica è bianca, come in altre nature morte che precedono la scomparsa della sorella dell’artista.

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