i narratori
ennio michele tarantola
ANTEFATTO Fra i tanti, possiedo il difetto di conservare carte e oggetti, anche di un tempo lontano, finché non sento di potermene separare a cuor leggero. Le carte di una vita di lavoro trascorsa nell’università le ho conservate quasi tutte. Così, quando ho trovato il coraggio di intraprendere la stesura di questo libro, mi sono accorto che molto era già stato scritto e che la mia sarebbe stata in gran parte un’opera di taglia, scarta, cuci e incolla. Non era cosa di poco conto. Avrei risparmiato tempo e fatica e ne avrei anche tratto motivo di tranquillità. Se a qualcuno fossero risultate poco convenienti le mie affermazioni e fosse venuto l’uzzolo, o il ghiribizzo, di contestarle, mi sarebbe stato possibile servirlo di barba e di capelli. Sentivo da tempo una certa spinta emotiva. Il lavoro dei bibliotecari è incensato dai più ma, vista la sua apparente banalità, poco conosciuto e ancor meno raccontato. Chissà? Forse alcuni aspetti della loro storia e della loro vita nelle università romane potevano essere di qualche interesse. Il filtro della mia del tutto singolare esperienza poteva servire allo scopo. Seguendone la traccia, il racconto si poteva sviluppare lungo un percorso autobiografico. Io avevo fatto della riservatezza un mio modus vivendi. Sarei stato capace per una volta di mettermi a nudo? Quello delle biblioteche delle università è un mondo con caratteristiche proprie ma parecchie delle situazioni che avevo vissuto potevano costituire motivo di riflessione anche per i “non bibliotecari” e per l’intera comunità universitaria. La storia poteva perciò essere resa digeribile anche al di là dei miei cento probabili lettori, quanti erano stati negli anni i miei collaboratori. I ruoli potevano essere assunti da personaggi fantastici e io potevo affidarmi a un linguaggio scherzoso e fluttuante, per quanto possibile, fra l’ironia e l’autoironia. Cercare di dire e di non dire, di non farmi prendere e di non prendermi troppo sul serio. 7
Confortato da queste possibilità, arrivava infine il tempo di dare inizio all’opera. Man mano che questa andava avanti mi accorgevo, quasi incredulo, che il tentativo cercava di affermare una propria autonomia e di divenire una sorta di riflessione sulla mia stessa vita, un gioco della verità che non lasciava più spazio alla fantasia. Mi ritrovavo perciò quasi impotente a intervenire. Pian piano, per virtù propria, le parole andavano collocandosi nelle loro caselle e finivano per trovare la piena corrispondenza con i fatti, così come erano realmente accaduti. Le carte sulla tavola s’erano ribaltate. Inventare i personaggi sarebbe stato come snaturarli, portargli via l’anima. Io non potevo ormai affidarmi a una realtà romanzesca e non mi restava altra scelta se non riferire le situazioni e gli avvenimenti alle persone che li avevano realmente vissuti. Potevo solo cambiare alcuni nomi, per prudenza o per rispetto. Quelli dei responsabili istituzionali e dei dirigenti però no. Non era possibile separare la loro immagine dal ruolo di cui erano investiti e dovevo chiamarli per quelli che erano. Gli atti ufficiali delle Università La Sapienza e Roma Tre e la documentazione in mio possesso mi assicuravano comunque un ampio riscontro di quanto andavo narrando. Da essi potevo trarre il senso di sicurezza sufficiente per farmi proseguire nel mio sforzo. Per diversi altri aspetti avrei potuto fare affidamento solo sulla mia memoria e su quella di alcuni colleghi. Non mi restava che andare avanti. Se poi il mio lavoro fosse maturato al punto da trovare un editore tanto aperto o temerario da pubblicarlo, non avrei nascosto la mia mano e sarei stato pronto ad assumere la piena responsabilità dei miei eventuali errori e delle mie omissioni, come del resto ho sempre cercato di fare.
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INTRODUZIONE Il mio nome è Ennio Michele. Sono nato il 31 dicembre del 1943, alcuni mesi prima della fine dell’ultima guerra mondiale, in uno sperduto paesino montano dell’Abruzzo chiamato Abbateggio. I miei genitori, nati in Sicilia e portati a Pescara dalla loro professione di insegnanti, vi erano sfollati per porre in salvo i figli dai continui bombardamenti. In quel momento cominciò a tuonare il cannone e mia madre sentenziò che ero destinato a grandi cose. Alla luce dell’allungamento della vita media dell’uomo e se il detto popolare “finché c’è vita, c’è speranza” ha qualche fondamento, un’infinitesima possibilità che quella predizione possa realizzarsi sussiste ancora oggi. Dopo diverse vicissitudini e studi abbastanza regolari, il 1° aprile del 1972 sono approdato all’Università La Sapienza. Avendo avuto qualche precedente esperienza lavorativa e venendo dal privato, coltivavo la ragionevole speranza che il mestiere di bibliotecario mi avrebbe consentito di vivere una vita tranquilla e non avrei mai e poi mai potuto immaginare i guai nei quali mi stavo cacciando. Dal momento che nel cambio venivo a guadagnare molto meno, più di un amico mi aveva detto: - Ma chi te lo fa fare? L’osservazione non era peregrina ma tenendo un poco conto del fatto che la società in cui lavoravo è successivamente fallita e molto considerando il complesso dei miei trentacinque anni di vita nelle biblioteche, posso tranquillamente affermare che, se di un errore si è trattato, sono disposto a rifarlo anche adesso. Chi è causa del suo mal… I diciotto anni trascorsi nella Sapienza mi hanno consentito d’impiantare due nuove biblioteche e di prendere coscienza di quanto andavo facendo. Poi ho considerato quella esperienza conclusa e ho chiesto di essere trasferito a Roma Tre. In questa università ho avuto la possibilità di impiantare/organizzare ben quattro biblioteche. Alla luce del fatto che buona parte dei bibliotecari svolgono l’intero percorso 9
professionale nella stessa o in un numero limitato di biblioteche, normalmente già organizzate da tempo, a mio modo di vedere l’attività creativa connessa a quegli eventi può legittimamente far definire il percorso da me vissuto come del tutto singolare. Da più di due anni sono in pensione. Pur avendo la possibilità di restare al lavoro ancora per diverso tempo, ho ritenuto preferibile concludere la mia esperienza di bibliotecario al culmine della mia carriera, in modo da avere ancora le energie per passare a fare “altro”. Cosa sia questo “altro” forse comincio a capirlo solo adesso. Avevo comunque la certezza che il mio nuovo percorso di vita avrebbe avuto forma e oggetto diversi da quelli che sto per narrare ma non ne sarebbe differito di molto quanto a sostanza. Avevo sentito più di un collega affermare di lavorare solo per lo stipendio. Gli interessi primari rappresentati erano es senzialmente la famiglia, un secondo lavoro, un hobby. Le migliori energie non erano certo da dedicare all’università. Io non ero mai stato capace di accettare questo punto di vista perché non riuscivo a separare i diversi aspetti della mia vita e sentivo il bisogno di portarli a unità. Avrei scoperto nel tempo che quello che andavo perseguendo era, in fondo, un sogno di libertà. Quando ho percepito che quel sogno si era per un istante materializzato, ho preferito andarmene. Dopo l’aspro conflitto che aveva contrassegnato il mio intero corso professionale, restare seduto nella bella e comoda poltrona che mi ero costruita su misura sarebbe stata la più grande delle contraddizioni.
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Capitolo I LA SAPIENZA Sono stato fra i vincitori del primo concorso pubblico per bibliotecari delle università, nel lontano 1972. Giuridicamente, ero uno dei 124 aiuto-bibliotecari di ruolo, gruppo B, categoria di concetto, come allora venivamo identificati. Prima di quel concorso il ruolo non esisteva. Le biblioteche delle università erano tenute in tale e tanta considerazione da essere normalmente affidate a unità del personale amministrativo o a uscieri, quando c’erano, ritenuti più che bastanti per assolvere a quella specifica funzione. La responsabilità restava naturalmente affidata ai docenti stessi. Facevano eccezione le sole biblioteche di facoltà, la cui direzione era conferita ai vincitori di alcuni concorsi per la carriera direttiva. Erano i tempi degli ormai mitici Basciu, Carosi, Del Francia, Mastronardi, Nasti, Torresi, Zuccari, e altri ancora. Avevo presto maturato l’impressione che la presenza dei bibliotecari non fosse ritenuta una priorità e che la percezione che se ne aveva fosse, talvolta, quella di un lusso di cui poter fare a meno. L’avvento dell’autonomia degli atenei doveva darmi la conferma non solo di questa impressione ma anche del fatto che la mentalità accademica persisteva nel considerare i bibliotecari una spesa sulla quale era possibile e conveniente lesinare. I posti originariamente assegnati a Roma erano in numero di 46, poi, per motivi non dichiarati ma comprensibili, aumentati a 70. Questo ampliamento doveva consentirmi di non venire inviato a Perugia, mia seconda scelta di sede, e di restare nella Capitale. La vincita del concorso era stata abbastanza rocambolesca. Lo confesso, non avevo allora alcuna conoscenza di biblioteconomia. Erano 11
tempi in cui la professionalità dei bibliotecari veniva compendiata nella bella calligrafia (le schede cartacee compilate a mano e riunite a libretto, il famoso formato Staderini, erano ancora di largo impiego) e nelle conoscenze umanistiche e il riconoscimento di un ruolo era accordato essenzialmente ai diplomati della Scuola per Archivisti e Bibliotecari della Sapienza o della Biblioteca Vaticana e quindi ai teorici del mestiere. Due giorni prima degli orali avevo rivisitato la vita e le opere di Ugo Foscolo e il caso doveva volere che esse venissero poste al centro della mia interrogazione che, almeno in questo aspetto, sarebbe stata brillante. Visti anche i miei splendidi scritti nel tema di italiano e nella traduzione dal francese, i commissari non avevano probabilmente avuto l’animo di eliminare dalla graduatoria quella che doveva apparire loro una luminosa promessa. All’inezia di non avere mai aperto un testo di biblioteconomia avrei sempre potuto, successivamente, porre rimedio. A mia parziale giustificazione, posso dire che lavoravo già da due anni presso il centro elettronico di una grande società e che avevo affrontato la prova con l’incoscienza e la tranquillità di cui non potevano godere tanti altri concorrenti alla ricerca del loro primo impiego. Terminato in modo abbastanza regolare il Liceo scientifico, mi ero iscritto alla Facoltà di Scienze Politiche che, pensavo, avrebbe potuto consentirmi di lavorare e studiare insieme. Con la fine degli studi secondari era invece iniziato un periodo di instabilità. Per anni non sarei riuscito a leggere un solo libro. Avevo cercato di porvi rimedio andando a lavorare in una fabbrica di automobili di Monaco di Baviera. Era una scelta di rottura con la vita familiare e un’esperienza che avrebbe lasciato la sua impronta sull’intero mio futuro. Fra i tanti immigrati meridionali, con i quali condividevo le baracche di legno, e fra i tanti tedeschi, con i quali operavo alle saldatrici elettriche e alle presse idrauliche, ho imparato a fare a meno delle abituali sicurezze, a superare la lontananza dagli affetti e a sopravvivere in un mondo sconosciuto e vissuto, almeno all’inizio, come profondamente ostile. La profonda solitudine interiore no, quella la conoscevo ormai da lungo tempo. Superata la precarietà della situazione, prese le prime confidenze con la città e con la popolazione, dopo cinque mesi mi trovavo a considerare conclusa quella esperienza e decidevo di tornare a Roma. Di 12
quel periodo mi è rimasto il ricordo indelebile di un incontro ravvicinato con un lampione, illuminato ma invisibile alle cinque del mattino per le mie lenti, appannate dal fiato che l’inverno bavarese gelava fin dalla sua fonte. Nel corso degli anni successivi, avrei avuto altre esperienze lavorative: nei ristoranti di Londra, che mi avevano mantenuto per alcuni mesi; presso la sede dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare all’interno dell’Università di Roma dove, nel corso di lunghe notti insonni, avevo rilevato le coordinate delle tracce delle particelle atomiche evidenziate nelle camere a bolle. Questa collaborazione con i fisici doveva costituire la mia prima, seppur saltuaria, esperienza di lavoro in ambito accademico. Quando finalmente si era aperta una prospettiva concreta di assunzione presso l’I.N.F.N., avevo già avuto la ventura di superare una prova di idoneità presso il Centro elettronico della Sogene e di esservi assunto a tempo indeterminato. Era il 1970. Per sei anni ero stato alla ricerca di un lavoro che potesse darmi tranquillità per il futuro e lo avrei abbandonato due anni dopo per cominciare la mia carriera di bibliotecario. I miei genitori, entrambi insegnanti, avevano insistito molto perché lasciassi il privato per il pubblico impiego. - Avrai modo di lamentarti tutta la vita per i soldi - mi ripeteva mio padre - saranno sempre pochi ma li vedrai arrivare regolarmente il 27 di ogni mese e questa tranquillità non ha prezzo. Avrei scoperto nel tempo quanto fondamento avessero queste parole ma anche quale prezzo sarei stato io a pagare per la mia tranquillità. Per farla breve, quando nel mese di marzo del 1972 firmavo il contratto di assunzione presso La Sapienza, avevo già alle spalle una complessa esperienza di lavoro e, soprattutto, una mentalità molto più aperta di quella della maggior parte dei vincitori del mio stesso concorso, freschi di laurea e al loro primo impiego. Questa esperienza avrebbe rivelato nel tempo tutta la sua importanza. Larga parte dei colleghi si erano diplomati presso la Scuola per archivisti e bibliotecari della Sapienza e vi continuavano ancora i propri studi di biblioteconomia. La loro preparazione teorica era perciò incomparabilmente superiore alla mia e il gap, che sin da allora avvertivo chiaramente, non sarei mai riuscito a colmarlo. Dovevamo trascorrere 13
quasi un mese presso l’ufficio del personale in attesa della specifica destinazione e questo tempo si sarebbe rivelato utile per fare la reciproca conoscenza e per far sentire ciascuno di noi parte di un gruppo. Insieme, avremmo portato una ventata di rinnovamento nell’aria stagnante delle biblioteche della Sapienza. Una prima avvisaglia di una certa mia “specificità” dovevo averla proprio in quella circostanza. Il funzionario incaricato di decidere le diverse destinazioni mi chiese se fossi disponibile ad andare presso l’Istituto di Botanica e io, data la triste nomea che di quel luogo si era nel frattempo diffusa, gli risposi di no. Cercato invano un altro volontario, mi ripeté la richiesta e io risposi ancora decisamente di no, che non volevo andarci e che non ci sarei andato. A meno che, certo, non stesse diventando concreta la minaccia di un rifiuto della mia assunzione che ormai s’andava apertamente delineando. Alzò allora la voce: - Siete stati tutti raccomandati. Non avete il diritto di lamentarvi o di protestare! Poi, preso atto della mia determinazione, nel silenzio generale scelse Pierfelice, con il quale ero stato messo in ballottaggio. Nonostante i nostri rapporti siano stati amichevoli per tanti anni, non credo che Pierfelice me l’abbia mai perdonata. Come la maggior parte dei colleghi, avrei potuto avere anch’io qualche santo in Paradiso ma, al contrario di loro, non avevo chiesto alcun intervento a mio favore e avevo superato il concorso senza nessuna raccomandazione. Mi era perciò venuta una dannata voglia di rispondergli ma la situazione era talmente tesa da sconsigliarmi ogni replica. La mia esperienza di studente universitario mi aveva fatto comprendere che la conoscenza, diretta o indiretta, dei miei esaminatori era per me causa di apprensione e che gli effetti negativi d’una raccomandazione erano decisamente superiori ai vantaggi che ne avrei potuto ricavare. Avevo di conseguenza deciso di fare affidamento sulle mie sole forze. L’aiuto che in seguito mi avrebbe consentito di superare un esame che mi bloccava da tre anni e che rischiava di farmi abbandonare gli studi sarebbe stato del tutto fortuito e non da me richiesto. A questo aspetto concreto s’aggiungeva il più sostanziale rifiuto di dover essere debitore di qualcuno. La consapevolezza di avere conquistato un posto nell’università senza alcun ricorso ad appoggi parentali o di scambio doveva dotarmi da subito della tranquillità di chi sa di poter parlare e agire a testa alta e con buon diritto. 14
Avevo conosciuto La Sapienza da piccolo e le rare volte che vi ero andato l’avevo vissuta come un giardino incantato in cui era bello perdersi durante il gioco. Vi ero tornato da studente prima e da lavoratore saltuario anni dopo. Avevo goduto l’animazione studentesca delle sue mattine di studio e di esami e i suoi silenzi notturni. La Sapienza era un luogo che mi piaceva e dove tornavo sempre volentieri. Poi sono iniziati i nuovi fabbricati, i prefabbricati, gli adeguamenti, gli ampliamenti, le soprelevazioni, gli studi, le aule, i laboratori, le segreterie, i garage, e così via. È stato costruito di tutto e di più, senza una visione unitaria e senza gusto estetico, in modo caotico e sconsiderato. Mai però è stata costruita una nuova biblioteca degna di questo nome. Un piccolo cantiere alla volta, in un orrendo agglutinarsi casuale di costruzioni, si sarebbe annientata, insieme al verde, la sacralità del luogo. Era, La Sapienza, una terra di prodigi. I cattedratici erano mirabilmente capaci di moltiplicare gli istituti, i dipartimenti, i corsi di laurea, le cattedre, gli insegnamenti, gli incarichi, le consulenze, e così via. E poi, chi avrebbe mai avuto un animo tanto insensibile da esulcerare i trepidanti cuori accademici negando, a questi la possibilità di trasmettere ai figli il frutto della loro fatica, a quelli di perpetuarne, se non lo scranno, almeno la nobiltà del titolo? Non aveva forse Orso Mario Corbino creato per Enrico Fermi la cattedra di fisica teorica? Potevano essere tanto da poco da non seguire un sì illustre esempio? Alla conseguente abnorme proliferazione delle cattedre era corrisposta la conseguente abnorme espansione sul territorio cittadino circostante. Per usare le parole del più titolato della dinastia degli Strippoli, il direttore amministrativo di quel tempo, La Sapienza andava sempre più somigliando a una piovra. A ogni sede d’istituto, a ogni nuova cattedra, sarebbe corrisposta una crescente richiesta d’unità bibliotecarie per la gestione del modesto patrimonio librario di cui ciascuna veniva pian piano a dotarsi. Non c’era niente di nuovo sotto il sole. I cattedratici anteponevano gli interessi personali a una visione strategica di lungo periodo e non si rendevano conto, oppure poco o nulla importava loro, di stare dando vita a un sistema caotico e ameboide al quale non sarebbe stato più possibile dare un capo e una coda. Quella che mi accingevo a vivere era, o mi sembrava ormai tale, una sorta di gigantesca palude dove potevano annegare entusiasmi e pro15
fessionalitĂ ma anche dove tutto sarebbe stato possibile. Dal fango pensavo - nascono talvolta i fiori piĂš belli. Per non soccombere, dovevo imparare rapidamente a nuotare in quelle acque stagnanti. Per essere un protagonista, dovevo fare molto di piĂš.
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