Matera. Dai sassi ai borghi

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CAPITOLO I

RICOSTRUIRE E COSTRUIRE. GLI ANNI DELLA RICOSTRUZIONE IN ITALIA E IL PIANO INA-CASA

“Quando si parla di ricostruzione il pensiero di molti va istintivamente al significato reale e primo della parola, cioè al ricostruire ciò che è stato distrutto. Per questo la parola ricostruzione è sbagliata e occorrerebbe parlare di nuova costruzione […]. Premesso quindi che la nuova costruzione del Paese è essenzialmente un problema di ordine morale e politico, il problema della costruzione di nuovi organismi edili e urbanistici dell’Italia distrutta dalla guerra non è che l’aspetto sociale ed economico di quello stesso problema”.1 La storia dell’architettura italiana del dopoguerra si fonde totalmente con la storia generale della società. Una società indubbiamente sconvolta in cui domina l’urgenza di una rapida guarigione. È forte il bisogno da una parte di superare il ventennio fascista e la tragica realtà del conflitto, dall’altra di non dimenticare ma di ripartire proprio dalle macerie umane e materiali per scrivere una nuova pagina di storia nazionale. Cesare Pavese auspicava così a un ritorno all’uomo e alla sua dignità: “sentiamo tutti di vivere in un tempo in cui bisogna riportare le parole alla solida e nuda nettezza di quando l’uomo le creava per servirsene”2. Praticamente in tutti i settori espressivi si assiste a un autentico bagno nella realtà: dal neorealismo cinematografico al realismo letterario e filosofico, alle tendenze pittoriche sia astratte che realiste al funzionalismo psicologico in architettura, che di lì a poco si sarebbe teorizzato. In contemporanea a livello internazionale con la crisi dei CIAM si consuma una sorta di ripiegamento dalle istanze teoriche del Movimento Moderno. Alle griglie geometriche e alla unificazione tipologica fa seguito un impianto planimetrico articolato, tipologie e aggregazioni variate, forte espressività figurativa, tecniche e dettagli costruttivi artigianali, uso di materiali tradizionali. Tanto che all’ultimo CIAM, a Otterlo nel 1959, tutti gli italiani presenti vennero duramente criticati e accusati di tradimento. Tra i membri del gruppo c’erano: Ignazio Gardella con la Casa alle Zattere,Vico Magistretti con il Country Club, Ernesto Rogers (Bbpr) con la Torre Velasca, Giancarlo De Carlo con una casa a Spine Bianche. Furono proprio questi ultimi due a essere maggiormente condannati. I rimproveri erano per il ritorno ai cornicioni e ai tetti a falde, ai ta-

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gli verticali nelle aperture di facciata, all’uso di materiali tradizionali, per la rinuncia al progresso tecnologico e per la ricerca di forme chiuse in contraddizione con l’impegno di favorire la formazione di una società aperta. Le divergenze che si erano manifestate nel convegno vennero da Peter Smithson riassunte in tre fondamentali posizioni: la prima quella dei neutrali che continuavano a lavorare correttamente nel solco dei vecchi CIAM e non rivelavano atteggiamenti aggressivi verso la situazione attuale; la seconda quella dei realisti italiani indirizzati alla ricerca di un linguaggio contemporaneo attraverso la rielaborazione di espressioni tradizionali; la terza quella degli appartenenti al Team X 3 rivolta all’identificazione dei più autentici contenuti del nostro tempo per farne scaturire un linguaggio architettonico del tutto nuovo. Facevano parte di questo gruppo: Bakema, Woods, gli Smithson, Erskine, Van Eyck, Candilis, De Carlo... Dato che non esistevano affinità o interessi comuni che potessero far convergere in futuro le tre posizioni verso un unico obiettivo, era necessario sciogliere subito i CIAM. Ora, ritornando all’emergenza della ricostruzione in Italia, bisogna sottolineare che questa fu caratterizzata da una robusta fase di crescita edilizia residenziale dentro, ma soprattutto intorno alle città, che coinvolse urbanistica e architettura. La casa divenne il principale e quasi esclusivo oggetto di impegno e attenzione, mentre l’espansione urbana periferica divenne il principale problema di pianificazione. Il lancio del piano Ina-Casa (1949-1963) ha rappresentato oltre che una soluzione concreta ai problemi della ricostruzione, un contributo di qualità al dibattito architettonico internazionale. Il 24 febbraio del 1949 il Parlamento italiano approva il progetto di legge proposto dal ministro del Lavoro e della previdenza sociale Amintore Fanfani, Provvedimenti per incrementare l’occupazione operaia, agevolando la costruzione di case per lavoratori, e dà avvio all’attuazione del piano Ina-Casa. Pochi anni sono trascorsi dalla fine del secondo conflitto mondiale e con quel piano si vuole soprattutto affrontare il problema della disoccupazione, attraverso lo sviluppo del settore edilizio, riconosciuto come strumento in grado di promuovere la rinascita dell’Italia del dopoguerra. I quattordici anni di attività del piano non hanno rappresentato solo una fase significativa della politica economica, ma anche una delle più importanti, consistenti e diffuse esperienze italiane di realizzazione di edilizia sociale. A migliaia di famiglie le numerose case costruite, alloggi sani e moderni posti entro nuovi nuclei urbani o quartieri, diedero la possibilità di migliorare le proprie condizioni abitative. Professionalità di alto livello si trovarono così a svolgere il tema del quartiere e della


sua progettazione edilizio-urbanistica. È sicuramente il più massiccio e articolato piano di intervento pubblico diretto nel settore abitativo, nonostante il carattere dirigistico e centralistico della gestione che portava a scavalcare gli enti locali, le loro decisioni e gli eventuali piani. Considerando che per risolvere la situazione abitativa occorrevano oltre quattro milioni e mezzo di nuovi vani a cui erano da aggiungere più di due milioni di vani da ricostruire, è ovvio che la questione abitativa divenne il tema più appassionante e dibattuto nei primi anni della ricostruzione anche per la sua diretta correlazione con scelte di carattere sociale e politico. Tutto questo considerando che il Paese si avviò a una ricostruzione non pianificata, tanto che anche quando nel 1948 si dovettero formulare le richieste per ottenere gli aiuti americani del piano Marshall non fu presentato un organico programma di sviluppo. Mancava pertanto una politica urbanistica nazionale e il problema della casa risultava così dissociato dalla città. Fu in occasione del primo Congresso nazionale per la ricostruzione edilizia, tenutosi a Milano nel Castello Sforzesco il 14-16 dicembre 1945, che si affrontò il nodo principale relativo all’indirizzo politico-economico da dare al Paese. Qui si scontrarono i fautori di una scelta di tipo liberistico e i sostenitori di un processo di pianificazione; i primi si dichiararono contrari a un intervento diretto dello Stato nel settore urbanistico ed edilizio perché incapace di un’azione rapida ed energica come quella richiesta dall’urgenza della ricostruzione. E sostenendo che l’iniziativa individuale era l’unica forza potenziale in grado di risolvere i gravi problemi, chiesero una serie di provvedimenti urgenti perché questa forza potesse esprimersi pienamente. I secondi, invece, sostennero che il settore della casa, bene di cui tutti avevano bisogno, non poteva essere affidato alle mani di chi agiva nel piano della speculazione. Inoltre essi erano convinti che la casa non poteva essere dissociata dalla città e lo Stato di conseguenza doveva provvedere alla preparazione di un piano organico di ricostruzione con l’apporto della scienza urbanistica. In realtà, anche se lo Stato interverrà in maniera invadente a dirigere lo sviluppo dell’edilizia popolare limitando l’iniziativa privata, in Italia si rinuncia a impostare la ricostruzione urbanistica secondo un preciso programma. Questo disagio si presenterà anche nei vari P.R.G. che man mano verranno elaborati e approvati e che finiranno per assumere il ruolo di legittimazione amministrativa delle autorizzazioni edilizie quasi garantendo un libero gioco speculativo. Un prontuario consono alle esigenze immediate del tempo era rappresentato dal Manuale dell’architetto redatto nel 1946 da Ridolfi, Fiorentino, Zevi, Calcaprina, Cardelli. Si cercava di indicare le modalità più

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idonee per far fronte alle emergenze del dopoguerra, e queste venivano individuate nel valore intrinseco della tradizione italiana che doveva diventare una tradizione operante e nel rifiuto della tecnologia. Fu una lingua parlata solo in periferia, fuori dalla città. Per gli architetti della ricostruzione la città rimase un’aspirazione. “L’italiano della ricostruzione si è espresso come una lingua parlata ai margini. I dialetti di tale lingua però hanno comunicato per un tempo molto breve sulla base di un progetto comune sebbene perseguito in modi diversi. Lo rivelano la castigatezza, il generale rigore, la cura nella povertà con cui vennero costruiti soprattutto i quartieri”.4 Anche l’architettura organica di Bruno Zevi finì per rappresentare una vera alternativa concettuale, poiché mise in discussione la metafora tecnologica della macchina da abitare, il determinismo funzionale, il rapporto con l’ambiente, la poetica compositiva del purismo volumetrico. Divenne di fatto una struttura alternativa all’insegnamento accademico della Facoltà. L’incipit del manifesto dell’APAO (1945) così suona: “L’architettura organica è un’attività sociale, tecnica e artistica, diretta a creare l’ambiente per una nuova civiltà democratica”. Il tutto in favore di una architettura a scala umana con l’ammissione di Aalto nell’olimpo dei maestri insieme alla stella Wright. Certo la caduta del regime fascista aveva indubbiamente favorito un cambiamento di rotta. Si passò dall’immagine eroica dell’impero all’esperienza quotidiana, dalla retorica monumentalista a un fraseggiare sommesso, dall’épos resistenziale alla quotidianità democristiana. “La conseguenza è il neorealismo in architettura: quello freddo e razionale fondato sulla lingua del Movimento Moderno a Milano; quello caldo ed espressivo, alla ricerca di un esperanto dialettale, a Roma; e tutte le varianti basate sull’affermarsi, con gli anni ’50, di poli alternativi... Ed ecco i meccanismi della prima ricostruzione post-bellica: i pochi P.R.G. di prima generazione (nel ’55 solo 39 di cui appena 23 approvati) tra cui fanno spicco la Siena di Piccinato e l’Assisi di Astengo, l’avanguardia dell’INU di Adriano Olivetti, le suggestioni anglosassoni e scandinave delle new towns e della neighbourhood unit, e, infine i quartieri Ina-Casa: né piccoli né grandi, né alti né bassi, né campagna né città, né razionali né organici, né architettura né urbanistica, né QT8 né Tiburtino. L’unica costante riconoscibile è l’ideologia del quartiere... Una volta accettata per i fifty la consueta cifra di reinterpretazione della storia architettonica nazionale e quindi di revisione del Movimento Moderno, la vicenda più esemplare diventa quella di Ridolfi, specie per il suo porsi come antitesi dell’utopia lecorbuseriana. Poi è il turno di Quaroni spinto dalla ineluttabilità di un non-poterfare-che-così. Quindi c’è l’impegno per la tradizione e il neo-liberty di


Gabetti e Isola, per i quali il luogo e la storia non sono separabili. Arriva Gardella, il più fecondo interprete di un’architettura come esplorazione del luogo e ascolto della memoria. Segue il realistico e disincantato engagement dei Bpr e della loro antigraziosa Velasca. Poi, in rapida successione, il razionalismo truccato da brutalismo di Viganò, quello depurato di ogni dogmatismo di Libera, e quello strutturale e antiretorico di Morandi e Nervi. Chiude Ponti con la sua sapiente miscela di modernità e classicismo, di internazionalismo e genius loci”.5 L’enorme diversità di correnti architettoniche in Italia è la conseguenza di una diversità culturale e urbana e di differenti posizioni politiche. Certamente impellente risultò il bisogno di definire la propria identità culturale, e la tradizione moderna costituì comunque il termine di confronto. Le idee predominanti in un contesto di notevoli contraddizioni furono principalmente: la coscienza del valore rilevante dei settori popolari, protagonisti della resistenza al fascismo, e la difesa della città come espressione della società libera e patrimonio della società culturale. Una delle prime espressioni della diversità italiana è rappresentata da due monumenti che portano a un primo confronto tra Milano e Roma. Da una parte abbiamo il Monumento ai caduti nei campi di concentramento, realizzato nel 1946 a Milano dai Bbpr. È un impalpabile reticolo metallico, montato su di un dolorante basamento cruciforme in pietra che sancisce la riabilitazione morale del lessico razionalista anni Trenta, quasi una storicizzazione di eventi ed errori passati ma in continuità con essi. Il punto di una situazione da cui ripartire con nuovi impulsi morali. Dall’altra parte invece il Monumento ai martiri delle Fosse Ardeatine a Roma di Fiorentino, Perugini, Aprile, Calcaprina, Cardelli, del 1944-47, è un impenetrabile masso sospeso, una pietra messa sopra a un passato tutto da dimenticare. Un punto e a capo che recupera il gusto per un’architettura stereometrica, massiva, materica, emozionale. Milano e Roma, continuità e rottura, razionalismo ed espressionismo, vecchia e nuova generazione ma una medesima esigenza revisionista. Anche per quanto riguarda l’argomento centrale di studio di questo periodo, la casa moderna, la casa per tutti, si concretizzarono due linee di ricerca: una espressa dall’ambiente milanese rotante intorno a Casabella-Continuità di E. N. Rogers, a carattere prevalentemente tipologico e legata alle esperienze centro europee sulle abitazioni razionali; l’altra espressa dall’ambiente romano e dalle forze coagulatesi intorno a Metron 6 e all’APAO, più orientata verso i problemi tecnico-costruttivi e la dimensione domestica della casa, influenzata dal vento di revisione dei

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principi del Movimento Moderno che spirava dai paesi anglosassoni e scandinavi. La prima produce Il problema sociale, costruttivo ed economico dell’abitazione 7 di Diotallevi e Marescotti (1948), la seconda il già citato Manuale dell’architetto 8 (1946). È come oscillare tra una decisa volontà di continuare le idee del Movimento Moderno, attualizzandole nella realtà dell’architettura italiana, e un bagno rigeneratore in un’architettura neorealistica e neopopolare per codificare l’esperienza costruttiva artigianale e difendere un tipo di sapere autoctono. Ricorda Zevi: “La scuola romana è una scuola di straccioni, fatta da straccioni ma gli stracci hanno una vivacità cromatica che la scuola milanese esangue non ha. Ortodossia moderna era quella dei milanesi? Sono stati i primi a tradire”.9 In realtà la differenza di percorsi delle due grandi città si manifestò come tale già negli anni Quaranta, quando alla maggiore diffusione del razionalismo a Milano fece riscontro l’egemonia del monumentalismo a Roma, territorio controllato dal gruppo di Piacentini. Si trattava prima di tutto di una diversità di struttura socio-economica: l’ambiente milanese permetteva operazioni più spregiudicate e svincolate dalla politica di corridoio del Sindacato Nazionale Architetti Fascisti, grazie non solo allo sviluppo industriale ma soprattutto a una committenza privata costituita da una borghesia imprenditoriale agguerrita e competitiva. A Roma invece mancava oltre che una borghesia vera e propria, un mercato edilizio pronto ad accogliere le innovazioni tecnologiche dell’architettura moderna. A ciò dobbiamo aggiungere la contiguità con i centri decisionali del potere politico e la natura pubblica della committenza. Anche se i giovani milanesi sono tra i più attivi nel dibattito del rinnovamento architettonico, a Roma operano personalità dal forte impegno quali Ridolfi, Quaroni, rientrato da una lunga prigionia in India, Piccinato e Zevi, leader del rinnovamento in chiave organica. Quest’ultimo, impegnato a definire le caratteristiche della sua architettura, affermava che “il carattere distintivo del nostro movimento rispetto a quello razionalista è di essere funzionale anche sul terreno della psicologia [...] stretti tra la coterie intellettuale dei razionalisti e un dilagante positivismo volgare, gli architetti organici tentano di fondere i valori della nostra tradizione con le moderne istanze sociali, ricomponendo la dicotomia tra cultura e vita che da un secolo separa gli artisti dal popolo e proponendo una terza via aperta, problematica, libera, umana. Ci riusciremo? È inutile fare profezie. Questa è la nostra strada, la nostra battaglia per una cultura integrata, per un’architettura integrata, e perciò per una vita migliore. Per dirla con Vittorini, una cultura che serva alla vita, e non solo a consolare”.10


Differenze a parte, la cultura architettonica italiana aveva aderito alla ricostruzione postbellica forte dell’unico valore che poteva vantare: la continuità della propria tradizione e la fedeltà alla memoria dei propri padri. Come dire che a causa delle lacerazioni inferte nella memoria e nell’identità delle città d’Italia, il confronto con la storia si imponeva in maniera impellente e a maggior ragione quando si trattava di ricostruire il tessuto di città distrutte dai bombardamenti. Se dovessi decidere ora di scandagliare in modo organico le tendenze principali, per dir così, caratterizzanti il contesto nazionale in questa difficile congiuntura storica, indubbiamente dovrei partire dal neorealismo, più volte apparso in queste pagine. Zevi, ad esempio, lo considera come la via facile all’architettura organica pur tentando di riportare il dibattito sui destini dell’architettura in ambiti non viziati da folclorismi o da cadute populiste. In realtà, una vera tendenza organica non prende piede in Italia11 e il dibattito rimane attivo solo a livello letterario accontentandosi di contribuire, con i propri principi, allo sviluppo di un’altra architettura. “Il cosiddetto neorealismo radicalizza la generale aspirazione all’autenticità, si spinge ben oltre le garbate citazioni ruralistiche degli scandinavi, accentua l’impegno politico del new humanism inglese, mette in discussione i presupposti di una tradizione architettonica moderna connessa al capitalismo industriale. Le prospettive di un diverso assetto della società fanno intravedere all’architettura italiana il traguardo ambizioso di creare l’ambiente per una civiltà democratica”12. Oltre a essere una semplice ideologia che recuperava l’attenzione al problema dell’artigianato, il neorealismo era innanzitutto un imperativo etico, un appello alla comunità tutta, nella sua globalità, affinché si ricercassero gli strumenti per rappresentare la realtà presente. All’esperienza neorealista si riferiscono principalmente le opere di Mario Ridolfi realizzate a Terni e a Roma, la borgata rurale UNRRA-Casas La Martella di Quaroni con Fiorentino, Gorio, Lugli, Valori e Agati a Matera e il quartiere INA-CASA Tiburtino a Roma di Ridolfi e Quaroni insieme ai giovanissimi Aymonino, Chiarini, Fiorentino, Gorio, Lanza, Lenci, Lugli, Melograni, Menichetti, Rinaldi, Valori. Manfredo Tafuri sostiene che questo linguaggio della materia e della realtà popolare è impostato per annullare un passato fatto di adesioni intellettualistiche o opportunistiche agli etimi costruttivisti, internazionalisti o neoclassici. E parla di un rapporto cultura-società basato sugli stati d’animo. “Le architetture di un Ridolfi o di un Quaroni sono tentativi di partecipazione attiva alla vita e allo sviluppo di una determinata classe sociale per un’adesione tutta sentimentale e permeata di slanci affettivi. Invece bisognava sostituire dei metodi rigorosamente e co-

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scientemente individuati agli stati d’animo, dei programmi da tradurre in azione alle enunciazioni pure e semplici, opporre una maturità tecnica e politica alla farsa dell’improvvisazione e del dilettantismo”13. Tuttavia si trattava di stati d’animo motivati da nobili ideali. Erano vari i modelli da cui si cercava ispirazione: dalle costruzioni spontanee si recuperavano le valenze espressive dei materiali poveri, dall’esperienza funzionalista la capacità di sfruttare in modo oculato lo spazio disponibile, dal filone espressionista le deformazioni volumetriche, i profili irregolari e il rifiuto della piacevolezza. A questo possiamo direttamente collegare il progetto presentato al Concorso per la Stazione Termini (1947) dal gruppo Quaroni, Ridolfi, Fiorentino, Cardelli, Caré, Ceradini. Qui l’esaltazione funambolesca della materia reagisce contro ogni intellettualismo o velleità, e rende immediata e comunicativa la rappresentatività dell’edificio nel suo rapporto con la dimensione cittadina. Possiamo leggervi l’immagine di una faticosa liberazione, anzitutto, di una struttura dalla propria matericità, ma anche da canoni tranquillizzanti, da soluzioni. Ritorna la ricerca del grado zero dell’architettura come reazione alla vuota magniloquenza del regime. Il Tiburtino (1949-1953) è il primo quartiere Ina-Casa e assume il ruolo di manifesto del neorealismo architettonico, rispecchiando in toto l’ideologia con cui Arnaldo Foschini gestiva l’ente. Nel secondo fascicoletto dell’INA del 1950, gli obiettivi primari venivano identificati nella salute morale e nel benessere psicologico degli abitanti da perseguirsi attraverso “composizioni urbanistiche varie, mosse, articolate, tali da creare ambienti accoglienti e riposanti, con vedute diverse e dotate di bella vegetazione, dove ciascun edificio abbia la sua distinta fisionomia e ogni uomo ritrovi la sua casa senza fatica, col sentire riflessa in essa la propria personalità”.14 Questa aspirazione alla realtà delle classi popolari si tradusse nella proiezione di una sorta di società idealizzata, che non rispondeva ai bisogni di fatto di una società in movimento e a una necessaria modernizzazione. Quella del Tiburtino possiamo considerarla una piccola vittoria dell’APAO, dato che nell’équipe oltre ai due capigruppo figuravano tutti i giovani più vivi dell’associazione, ma permanevano latenti in essa tutte le contraddizioni della cultura italiana degli anni Cinquanta e tra queste le ben note carenze programmatiche dell’Ina: la mancanza cioè di un qualsiasi inquadramento del nucleo residenziale nel tessuto urbano, la mancanza di un nuovo piano regolatore per la città. “Il quartiere nasce volutamente chiuso alla città formalmente oltre che urbanisticamente, senza rapporti di continuità con essa, ma questo


significava allora anche un giudizio preciso su quella città, su di una città che si considerava di per sé priva di un qualsiasi valore etico, estranea e indifferente ai nuovi valori morali che si intendevano perseguire, su di una città frutto storico di contraddizioni e lotte basate sull’interesse e la speculazione in cui le classi progressiste non potevano riconoscersi. Ed ecco allora che l’isolamento e l’orgogliosa affermazione di un’autonomia ne escono giustificate anche se tale autonomia viene contraddetta dall’accettazione del dialetto come linguaggio popolare, non accorgendosi che se quel dialetto è certo estraneo alla cultura della borghesia, esso suona purtuttavia non come esaltazione di una storia popolare o di una classe in ascesa, bensì come memoria di una classe subalterna, non ancora cosciente del proprio stato di soggezione; in sostanza come folklore, estraneo quindi ad un sano concetto di realismo”.15 E in questa sorta di esorcizzazione della tecnica caddero per ingenuità i migliori fra gli architetti italiani, convinti che un’esperienza di localismo avrebbe definito la strada nazionale al movimento moderno. A distanza di pochi anni gli stessi creatori si troveranno in imbarazzo di fronte a quello che sempre più sembra il risultato di uno stato d’animo. Carlo Aymonino parla di una “accentuazione della ricerca del pittorico con la studiata casualità di molte soluzioni di testata e di copertura, con l’uso di balconi in funzione plastica, col portare la prima rampa di scale al di fuori del fabbricato per accentuare il carattere di costruzioni avvenute spontaneamente in tempi successivi. Sotto la spinta del rinnovato interesse per i materiali tradizionali si giunge all’assurdo di prendere spunti dalla Roma secentesca, di comporre le facciate seguendo un ritmo scenografico - vedi le finestre a ringhierino solo all’ultimo piano, la scaletta esterna che parte improvvisamente dal secondo piano, i balconi a due dei tre piani di una casa, i sottopassaggi e i sopra passaggi, fino all’ossessivo spezzettarsi delle recinzioni. Certo si è evitato che l’inquilino non riconosca la sua casa, ma l’intento psicologico è giunto al paradosso di inventare un racconto dialettale a tavolino, come surrogato di una impossibile invenzione diretta dei protagonisti di quelle abitazioni. È un’opera falsata per eccesso di partecipazione”.16 Appare come un’affermazione di rabbia e di speranza tradotta in mattoni, laterizi, e intonaci di scarsa qualità, in una composizione informale, assoluta, dai tracciati sinuosi e dalla varietà di scorci... e come ogni stato d’animo doveva essere superato. Ancora una volta appare chiara la vera natura del fallimento. Si crede di aver trovato il giusto modo di intervento e finalmente una svolta positiva al processo di recupero può cancellare l’inerzia del vicino passato. La verità è che gli architetti sono stati solo gli strumenti di una

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politica impegnata a usare l’edilizia in funzione subordinata ai settori trainanti, tenendola ferma a livello preindustriale per lo sviluppo delle piccole imprese e mantenere inalterato il più a lungo possibile un settore della classe operaia non specializzata e fluttuante, ricattabile e non massificabile. È questa la gestione Ina-Casa. E le proposte di innovazione produttiva implicite nella manualistica di Marescotti e nel QT8 non potevano essere funzionali a tali obiettivi; bensì l’esaltazione di una tecnologia povera e legata alle tradizioni regionali, la celebrazione dell’artigianato, del localismo, della manualità così come si configuravano nelle tavole del Manuale di Ridolfi e nelle aspirazioni del Neorealismo. “Non sono più l’arte o l’architettura ad essere levate al rango di risolutrici dei conflitti o delle situazioni politiche, bensì la politica stessa ad essere imposta come conditio sine qua non dell’architettura e dell’urbanistica”.17 Eppure l’esperienza Ina-Casa è stata un momento rilevante della ricostruzione e della storia dell’urbanistica e dell’architettura del Novecento italiano. A ben guardare si disegna, con l’impostazione del piano, un percorso che si snoda dal Nord al Sud d’Italia (con l’unico criterio distributivo vincolante che riserva alle regioni del Sud e delle isole il 40% degli investimenti) e che ha portato in maniera capillare e diffusa alla costruzione di quartieri, nuclei e case in ciascuna regione e provincia di quasi ogni comune italiano. La rilettura del piano Ina, pertanto, può trovare altri significati se collocata su sfondi più generali, come ad esempio quello delineato dal ruolo dell’intervento pubblico nella costruzione dell’urbanistica moderna e della città contemporanea, intervento che ha definito, fra gli altri, il volto di Matera moderna. D’altronde, in perfetto accordo con l’esperienza nel materano, anche nel piano Fanfani un progetto politico, una specifica politica economica e un insieme di progetti urbanistici e architettonici riescono, nonostante varie difficoltà, a essere tra loro solidali e coerenti. Ed è proprio l’urbanistica moderna, a porsi, accanto ad altre aree di riflessione sociale, dal punto di vista del gruppo sociale o dell’individuo meno favorito e a riconoscere come bisogni primari, essenziali, naturali quelli espressi dal gruppo o dal soggetto sociale più disagiato. Ed è attraverso i quartieri pubblici che si compone lo spazio urbano, in un gioco di rapporti tra interno ed esterno, domestico e urbano. Grazie ad Arnaldo Foschini, chiamato a capo della Gestione Ina-Casa con l’incarico di occuparsi degli aspetti architettonici e urbanistici del piano, gli architetti diventano i veri protagonisti di questa fase della ricostruzione italiana. Con grande rapidità settimanalmente si realizzavano 2800 alloggi, permettendo di assegnare ogni sette giorni la casa a circa 560 famiglie italiane.


Un nuovo rapporto tra gli architetti italiani e una clientela di massa e popolare garantiva un carattere di solidarietà e una finalità di tipo morale al piano. “Gli architetti, nella nuova società democratica che emergeva dalle immani distruzioni belliche – afferma Bruno Zevi – sentivano l’urgenza di non agire più alla periferia dell’industria edilizia. Erano alla ricerca di una nuova clientela. Ma dov’era questa clientela? Come si poteva servirla? Era evidente: questa clientela di operai, di contadini, di impiegati non aveva né cultura né possibilità finanziaria di rivolgersi alle classi professionali; voleva una casa, qualunque casa. Erano clienti, sì, ma clienti inafferrabili, anonimi, inarticolati, personaggi in cerca d’autore. Chi potevano essere gli autori? Gli autori dovevano essere gli architetti, i liberi professionisti, questa grande riserva di energia e di competenza [...] La mediazione tra burocrazia e clientela non poteva essere fornita che dagli architetti. Inserire l’anello professionale nella catena dell’industria edilizia era dunque il problema. L’Ina-Casa lo ha risolto”18. Anche il rappresentante degli urbanisti italiani, Adriano Olivetti, rivolge parole di apprezzamento per i primi risultati del piano Fanfani: “quartieri organici autosufficienti si sono iniziati in questi ultimi mesi a Torino, Milano, Roma per merito del piano incremento occupazione operaia. Si tratta di esperienze iniziali di grande interesse. E gli urbanisti non possono non dichiarare il loro compiacimento per la prima attuazione dei loro programmi”.19 L’edilizia popolare, quindi, non era più considerata un prodotto scadente, anzi il migliore che la classe professionale italiana fosse in grado di dare. L’incidenza delle abitazioni Ina-Casa sul totale di quelle realizzate tra il censimento del 1951 e quello del 1961 corrispondeva al 10%, con punte più elevate al Sud. Il generale consenso che il piano Fanfani riscuoteva presso architetti e urbanisti italiani derivava anche dalla speranza che i quartieri InaCasa potessero incidere sui modi dello sviluppo urbano contrastando l’incontrollato e informe processo di crescita urbana, composto da una miriade di singoli episodi edilizi. All’unità quartiere era attribuito un valore generale non solo per il suo essere materiale urbano per la ricostruzione delle città italiane, ma per essere anche, con le sue case, servizi, spazi aperti, qualcosa di più di una parte di città in espansione: esso era unità sociale, ambito di formazione e vita di comunità. “Un nucleo, un quartiere, un’unità residenziale autonoma - sostiene Astengo - sono qualcosa di più, o meglio molto di più, della semplice somma dei singoli addendi: essi sono unità sociali, nelle quali la vita individuale, di famiglia e associata si può svolgere con minori costrizioni, minor peso, più libertà e più ricchezza che non nell’indistinto agglomerato urbano. Ma

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per raggiungere questo occorrono piani urbanistici che non siano semplice tracciato geometrico, ma il risultato dello sviluppo coerente di un pensiero sociale. Gli esempi delle città-giardino inglesi e delle Greenbelt’s americane, dei quartieri svedesi sono concrete dimostrazioni che queste nuove unità sociali non sono pure utopie. Il fatto che le aree siano periferiche o esterne non nuoce, se le nuove unità residenziali hanno carattere veramente autonomo, che anzi queste, sorgendo in zone libere svincolate dalle maglie di preesistenti vecchi piani regolatori, hanno potuto esser caratterizzate con una maggior libertà d’impianto da parte dei progettisti, e inoltre essendo distaccate dal centro abitato, non sono ad immediato contatto con l’anonima edilizia dei sobborghi. La scelta di aree esterne contribuisce al decentramento urbano ed è quindi, come tale, fondamentalmente sana”.20 L’idea di “città satellite” sembra così essersi realizzata anche nel nostro paese. Ma il quartiere sorge in una posizione ambigua e contraddittoria rispetto alla città esistente. Da una parte vuole opporvisi, rappresentare un’alternativa morfologica e sociale, luogo nel quale mostrare e dimostrare un diverso modo di abitare; dall’altra, proponendosi come strumento per orientare lo sviluppo urbano, esso si pone in stretta relazione con la città esistente. Nel suo testo del 1952, La scala del quartiere residenziale, Adalberto Libera, allora responsabile dell’ufficio architettura della Gestione InaCasa, sosteneva l’importanza di differenziare la massa edilizia in settori, in unità abitative poste tra la casa e il quartiere residenziale. L’unità di abitazione doveva essere un corpo edilizio completo e al tempo stesso cellula di un organismo più grande, favorire il buon vicinato e completare l’immagine della città organica. Il piano Ina-Casa, pertanto, cercava di indicare una via per la modernizzazione dell’Italia senza perdere i contatti con la tradizione. I nuovi complessi dovevano necessariamente confrontarsi con il contesto preesistente, con la tradizione dei tipi edilizi, dei colori, dei materiali, il tutto creando ambienti architettonici raccolti e scorci prospettici gradevoli in composizione con il verde e le linee del paesaggio, in una relazione inscindibile tra spazio aperto e spazio costruito. Tutti questi presupposti troveranno, come vedremo in dettaglio più avanti, piena realizzazione a Matera; qui l’edilizia popolare disegnerà un volto nuovo, esemplare e moderno alla città sviluppandosi proprio attraverso quartieri autosufficienti organizzati in unità di vicinato e collocandosi, in questo modo, nel solco della tradizione. Poco importa, ovviamente, che questi non siano quartieri Ina-Casa dal momento che si tratta di interventi ugualmente finanziati da enti pubblici e in linea con i programmi e gli obiettivi del piano suddetto.


A tal proposito occorre ricordare l’importante incontro che si tenne l’11 novembre 1948 tra Fanfani e James David Zellerbach, il responsabile della missione Economic Cooperation Administration (Eca). In giugno De Gasperi aveva firmato l’adesione dell’Italia all’European Recovery Program (Erp), meglio conosciuto come piano Marshall, e l’Eca aveva il compito di attuare la realizzazione di questo piano. Nel corso della riunione, proprio Zellerbach chiese di estendere il piano Fanfani anche ai contadini del Sud, consapevole dell’urgenza di intervenire a favore di una classe, se si vuole, ancora più disagiata di quella operaia. Vedremo poi in che modo e con quali mezzi si riesce ad affrontare una situazione scandalosamente imbarazzante per le dimensioni e la realtà del degrado. I Sassi di Matera rappresentavano, dopotutto, la dimostrazione dell’inesauribile capacità umana di adattarsi alla miseria del mondo e la prova che la contemporaneità dell’inattuale è una probabilità. In altre parole il piano Fanfani si inserisce nei programmi governativi: riforma agraria, provvedimenti per il Mezzogiorno, vari interventi di tipo sociale “per la verità assai frammentari, ma legati a una dimensione ben presente nell’ideologia democratico-cristiana - il solidarismo - che ispirò quei provvedimenti”.21 Il risultato di questa politica di ricostruzione a favore dei poveri è, ripeto, la realizzazione dei quartieri. Questi costituirono quella che è stata definita la “città pubblica” dell’Italia e devono essere considerati un patrimonio tuttora da tutelare. È chiaro, pertanto, che ci muoviamo all’interno di un articolato mumfordismo che ispira notevolmente l’architettura italiana di questi anni 22: insistenza su scelte tipologiche “domestiche”, su altezze moderate, sul quartiere, sul suo carattere introverso, sull’importanza dello spazio aperto, sul regionalismo. Troviamo, in questo stesso periodo, gli stessi elementi e le stesse teorie sullo sfondo di altre due grandi esperienze tra loro per molti versi distanti (ma almeno in un’occasione costrette a collaborare)23: la riforma agraria e l’esperienza olivettiana di Comunità. In questo senso il mumfordismo non è specifico solo dell’Ina-Casa. Il disegno di legge di Fanfani, a ben guardare, presentava delle consonanze con una proposta pubblicata prima della fine della guerra, nel febbraio del 1945, dall’architetto Piero Bottoni con il titolo La casa a chi lavora, soprattutto per quanto riguarda l’idea di costruire case con il contributo degli operai 24. Diversamente, però, Bottoni (che rivendicava la vera paternità del piano) pensava che le case per lavoratori avrebbero dovuto realizzarsi attraverso la costituzione di un Istituto nazionale di assicurazione sociale per la casa a garanzia del diritto al godimento dell’alloggio, ma la casa assegnata sarebbe rimasta “in non proprietà”; in sostanza, ci si voleva riallacciare al tema della casa minima, del-

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la cellula residenziale e della tipizzazione dell’alloggio, tipico del Movimento Moderno. Il suo quartiere sperimentale QT8 (1946-53)25, ad esempio, costituisce davvero una alternativa alla produzione edilizia della ricostruzione. Esso nasce come mostra permanente e sperimentale per la ricerca di nuove tipologie edilizie residenziali, in seno all’VIII Triennale di Milano. È un nuovo quartiere della città di Milano. Qui si mettono in gioco, sottolineati da una dimessa articolazione formale, nuovi modi di progettare attraverso criteri igienici e costruttivi innovativi basati sulla serialità e sulla prefabbricazione. Il passaggio dal QT8 al Tiburtino equivale al passaggio dalla Neue Sachlichkeit dell’architettura milanese all’autobiografia del gruppo romano. Nella terza e definitiva soluzione del QT8 prorompe il grande parco che culmina nella montagna di 100 metri, il Monte Stella, il tutto a rendere unica questa esperienza razionalista italiana. Nonostante la verve polemica e le ragioni di scontro teorico che impediscono a Bottoni di entrare a far parte del gruppo degli esperti della corporazione edilizia per l’attuazione del piano Fanfani, la sua attività professionale per l’Ina-Casa conta una mole notevole di progetti26 con i quali l’architetto milanese cerca di consumare una compromissione del rigore modernista lombardo con l’ambiente romano dell’Apao. L’esperienza dell’Ina-Casa ha pure rappresentato per Bottoni il luogo dove ancora poteva abitare la speranza, dove poter custodire e coltivare la più preziosa eredità del Movimento moderno: il sogno di una casa per tutti, anche se costruita con metodi tradizionali. C’è anche un altro architetto, uno dei protagonisti del dibattito sulla ricostruzione, Gio Ponti, che propone la sua candidatura alla gestione del piano con un articolo apparso sul Corriere della Sera nell’agosto del 1948, intitolato Finestre tutte uguali nelle case del piano Fanfani, preceduto da diversi interventi nella sua rivista Lo Stile. Per Ponti la produzione in serie non equivale a fare case tutte uguali, ma a produrre un miglioramento della qualità dell’architettura attraverso la razionalizzazione del sistema edilizio. A differenza di Bottoni, Ponti è strenuo difensore della casa in proprietà. Uno degli slogan da lui coniati è: “Esatto cioè bello”, in linea con la sua richiesta di una forte presenza dell’industria nella ricostruzione. L’architetto milanese è indubbiamente legato al mondo industriale e per questo insiste su una riconversione tecnologica dell’industria edilizia, tratteggiando, forse col pensiero rivolto alla proposta di Bottoni, una collaborazione fra industrie, imprese di costruzione e grandi enti assicurativi. Contrario allo spreco delle risorse nel costruire, Ponti considera la produzione di elementi in serie e l’industrializzazione del-


le case, l’esatta limitazione economica che concorre a costruire il massimo di abitazioni. Ritornando all’articolo iniziale apparso sul Corriere, Fanfani scrive a Ponti una lettera manifestando il suo interesse per i concetti sulla produzione unificata; in realtà le due posizioni si riveleranno ben presto inconciliabili: Ponti metteva al primo posto la casa, Fanfani l’economia e l’occupazione. La riconversione tecnologica dell’industria edilizia difficilmente poteva coincidere con l’obiettivo della piena occupazione dal momento che dire case prefabbricate equivaleva a dire lavoro solo per pochi. Questo però non escludeva che all’interno dell’Ina si procedesse adottando una serie di “idealtipi”. In altre parole, la regola tecnica tesa a guidare la progettazione degli alloggi veniva espressa figurativamente attraverso una casistica di schemi planimetrici decontestualizzati volti a mostrare possibili soluzioni distributive. Questo repertorio di schemi o idealtipi, appunto, era affidato alla responsabilità dei progettisti, la quale si esplicava nell’adattamento dello schema alla situazione specifica, nella cosiddetta ambientazione.27 Per quanto riguarda la posizione di Ponti, bisogna infine considerare che a Roma, in realtà, le cose erano in gran parte decise: l’uomo chiamato a gestire la parte architettonica del piano era Foschini, il quale non esitò a cercare la collaborazione di Libera, affidandogli la direzione dell’Ufficio progetti, per correggere e selezionare i progetti che da tutta Italia arrivavano sulle scrivanie dell’Ina-Casa. I primi a sollevare dubbi sull’efficacia reale del piano Fanfani furono Marescotti e Diotallevi. Quest’ultimo, chiamato nel 1949 nel Comitato di attuazione dell’Ina-Casa presieduto da Guala, valutò il piano un intervento parziale da inglobare in una prospettiva più ampia che tenesse conto delle opportune relazioni economiche e sociali, le uniche in grado di debellare veramente la disoccupazione. “Il piano Fanfani è un piano di settore, per l’occupazione di manodopera, costruendo case. Non è il piano nazionale per la casa che suscita speranze durante e immediatamente dopo la fine della guerra, auspicato da Diotallevi e Marescotti, da Ponti, proposto in vitro da Bottoni nel QT8”.28 Eppure la macchina del piano inizia a marciare a pieno regime: il coinvolgimento degli architetti è garantito attraverso i concorsi, il primo di questi viene bandito nell’ottobre del 1949. La commissione, composta tra gli altri da Ponti e Samonà, sceglie 191 concorrenti tra cui 157 sono architetti e 34 ingegneri. Nei 157 architetti prescelti troviamo: Albini, Bottoni, De Carlo, Figini e Pollini, Gardella, Marescotti, Peressutti per i Bbpr, Quaroni. Nella lista certo mancano i nomi di Libera, Ridolfi, De Renzi, Muratori, ma solo perché si tratta di architetti già coinvolti nell’esperienza Ina-Casa in quanto molto vicini alla cerchia di Foschi-

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ni. Alla fine del settennio, attraverso altri numerosi concorsi, il numero degli architetti impegnati nella progettazione di case Ina salirà dai 157 iniziali a ben 665. Ecco come Paolo Nicoloso commenta questi dati: “La figura dell’architetto è nata per rispondere ad un’istanza ideologica, per dare alla nazione il suo stile. Il fascismo ha avvalorato la figura dell’architetto per sostenere la propria politica del consenso. Allo stile della nazione, si è sostituito lo stile del fascismo. Ora, nel dopoguerra, la riproposizione di questo “pubblico servizio” avviene abbracciando non più le ideologie nazionaliste e del fascismo, ma quelle del sociale. Gli architetti, dopo aver disegnato gli archi e le colonne delle costosissime quinte scenografiche dell’E42, mettono a disposizione le loro conoscenze tecnico-artistiche per costruire le economiche case dei lavoratori. A Foschini il compito di pilotare questo passaggio, dimostrando chiaramente l’adattabilità dell’architetto a indossare nuovi panni. Dopo l’esperienza dell’Ina-Casa gli architetti non avranno più occasione per riproporsi così esplicitamente e così in massa come protagonisti nella storia della nazione. Le nuove occasioni saranno più frammentarie e decentrate. In questo senso, l’esperienza dell’Ina-Casa segna la conclusione di un ciclo storico iniziato mezzo secolo prima. Con il piano Fanfani si chiude il periodo eroico della professione dell’architetto”.29 Certo, ancora oggi, osservando la periferia moderna italiana, è possibile distinguere parti morfologicamente compiute, esito di processi che hanno sperimentato la multidisciplinarità degli apporti. Fra queste parti si distinguono molti quartieri di edilizia economica e popolare realizzati dall’Ina-Casa e non solo, dove gli insediamenti annunciano fieri la loro “personalità” urbanistica. Delicato e complicato rimaneva, tuttavia, il rapporto del nuovo quartiere con il complesso urbano, in particolare con le vie di comunicazione e i servizi collettivi della città a causa della carenza di piani regolatori urbanistici, di un’adeguata legislazione sulle aree e di strumenti amministrativi atti a garantire un appropriato uso dei terreni fabbricabili, limiti questi che rendevano i quartieri compiuti episodi urbani e nient’altro. Sta di fatto che in Italia l’idea di quartiere come struttura unitaria e organica, con rapporti rigorosi tra numero di abitanti e servizi offerti (è il concetto di standard urbanistico) pensata in vista di una condizione moderna dell’abitare, non esisteva. Il cantiere Ina-Casa, proprio a causa della sua programmatica arretratezza, conseguenza, come abbiamo già detto, di un modo di costruire case a bassa meccanizzazione e ad alto impiego di manodopera, di fatto inibendo ogni velleità di innovazione tecnologica, a parte la generica indicazione di favorire la tipizzazione degli elementi costruttivi, diventa sicuramente una delle più importanti fucine del Neorealismo, condividendone in primo luogo il rispetto per la tradizione e rimanendo legata


a un’ottica sociologica e descrittiva. Questo comportava l’adozione di un modello costruttivo diverso, antitetico quasi al generico modello internazionale dell’edificio moderno basato sullo scheletro portante e sulla smaterializzazione della parete. Nonostante differenze anche vistose tra ambiti geografici e tra le prime opere e le successive, la costruzione Ina-Casa tende ad assumere un carattere sostanzialmente omogeneo: è una costruzione di natura essenzialmente muraria, sebbene sottoposta a un processo di sofisticato affinamento, legato al largo impiego di elementi in cemento armato. Ed è proprio questa ibridazione tra costruzione muraria e cemento armato che induce a leggere il Neorealismo dell’Ina-Casa come il più anacronistico dei modernismi italiani, considerazione implicita nei giudizi negativi emessi dalla storiografia militante nel Movimento Moderno30 nei confronti dell’architettura italiana degli anni Cinquanta, di cui questa esperienza rappresenta un campione significativo. Ma basterebbe soltanto abbandonare ogni analisi storica legata al mito del Movimento Moderno come progresso, perché i modernismi storici e tardivi della vicenda italiana, a lungo considerati come visioni imperfette o transitorie verso il moderno, emergano come autonome e compiute espressioni architettoniche, diventando, come nel caso dei quartieri materani (testimonianza concreta dell’efficacia di questa politica di sostegno), veri modelli per un intervento urbanistico felice. In questo modo emergerebbe in piena luce l’obiettivo trainante di tutta questa esperienza: dare corpo a linguaggi e soluzioni che siano il prodotto di un pensiero umanistico di impronta socialdemocratica, attento alla rappresentazione concreta dei diritti dei cittadini, alla qualità del risiedere, alle buone pratiche costruttive, alla cura degli spazi collettivi, alla dotazione dei servizi di quartiere. Ma non sempre i risultati soddisfano la nobiltà degli intenti. Le definizione della composizione urbanistica rimane, come sappiamo, fragile soprattutto se si considerano le poche chances che i quartieri hanno di non presentarsi come spazi di segregazione, data la loro localizzazione a qualche distanza dal limite della città e i ritardi nella dotazione di tutti i servizi necessari alla vita di una comunità autosufficiente. Inoltre, in questi casi sorprende l’alto grado di riconoscibilità e omogeneità che li accomuna. Le cose vanno meglio quando gli insediamenti sono di dimensione contenuta, si localizzano entro lo spazio urbanizzato e si confrontano con le città metropolitane, come a Milano.31 In tutti questi casi i progetti introducono variazioni nel tessuto continuo della città, sperimentano soluzioni che si inseriscono nella ricerca internazionale e il dialogo si fa fitto e interessante. Sono anche i quartieri che meglio sembrano sfidare il tempo, con capacità di rinnovare le proprie prestazioni e di contribuire alla crescita della qualità dello spazio civile e sociale. A Matera,

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infatti, sono proprio i tre quartieri cittadini a emergere non solo per la bellezza e l’efficacia del loro disegno urbanistico, ma soprattutto perché rappresentano le uniche isole felici all’interno di un panorama desolante di cemento armato; possiamo davvero considerarli un esperimento riuscito, a differenza delle due borgate rurali che, per non aver assolto ai bisogni umani e lavorativi delle comunità, hanno dovuto affrontare anche periodi di totale abbandono. Un altro dei tanti limiti che hanno inficiato la piena riuscita del programma risiede nella totale esclusione dei futuri abitanti da ogni ruolo. Manca una guida autorevole in grado di incanalare la grande energia e vitalità dei nuovi protagonisti in opere concrete. I progetti si sviluppano in un dialogo tra i promotori e i progettisti, con i Comuni in posizione di rilievo su una parte soltanto delle decisioni: la scelta della localizzazione. Ora riflettere su tutta quest’esperienza, significa indubbiamente collocare “i quartieri in una prospettiva che consenta di interpretarli come documenti di una fondamentale stagione culturale, come parti di città dotate di caratteri propri e, infine, come laboratori nei quali rinnovare continuamente la qualità del risiedere”.32 Uno dei primi quartieri progettati e realizzati dall’Ina-Casa è la il quartiere Valco San Paolo (1949-52) a Roma, di De Renzi su progetto urbanistico di Muratori. Caratterizzato da una limitata dimensione e una elevata densità abitativa, potremmo considerarlo una versione più asciutta del repertorio del Tiburtino, nonostante risenta ancora di una rigidità planimetrico-compositiva di chiara matrice razionalista. Nell’immediata periferia, poi, sorge un altro quartiere, il Tuscolano (19501960), l’intervento più consistente dell’Ina-Casa a Roma33 realizzato dai due architetti precedenti insieme a Libera, a cui si deve l’“unità di abitazione orizzontale” nell’area sud: a un tessuto continuo fatto di cellule a un solo piano, si contrappone un blocco a ballatoi che ricorda gli studi di Pagano per la “città orizzontale”. La varietà dei tipi edilizi palesa la volontà di ricreare la complessità del tessuto urbano consolidato ma l’unità di Libera, chiusa nel proprio rigore teorico e geometrico, richiama, nella sua vis polemica, il quartiere di Villa Bernabò Brea a Genova di Daneri (1950-51). Il complesso genovese introduce, all’interno di una morfologia aperta, ipotesi produttive come la prefabbricazione in cemento armato, i pilotis che staccano i blocchi dal suolo, la strada pensile interposta ai piani. Queste esperienze, tollerate come ospiti isolati all’interno del primo settennio Ina-Casa, prendono le distanze dal linguaggio populista in nome di una continuità con il rigorismo italiano anteguerra incompatibile con gli obiettivi del programma34. Accanto a queste opere dobbiamo ricordare anche le versioni più essenziali di quello che si potrebbe definire “neorealismo milanese”. Al


principio degli anni Cinquanta, le iniziative dell’Ina-Casa costituirono a Milano i capisaldi per una vera crescita urbana. In questo quadro, il quartiere Ina-Casa Harrar in via Dessié a Milano (1951-1955) realizzato da Figini, Pollini, Ponti e Bottoni, è stato considerato come un caso particolare. Progettato come nuovo quartiere urbano, anziché come quartiere satellite, con la sua presenza ha contribuito, a conferma di quanto abbiamo sostenuto precedentemente, a dare struttura alla crescita della città in questo settore. L’impianto urbanistico prevede un disegno planimetrico “a turbina”, organizzato dalla ripetizione di figure geometriche elementari; le ampie aree a parco sono poste al centro del quartiere dove sono localizzate le principali attrezzature collettive. Le vie di grande traffico sono allontanate dagli spazi di vita, dove sono previsti esclusivamente percorsi riservati ai pedoni. Sebbene in questo caso il linguaggio sia caratterizzato dal rigore geometrico, l’invenzione del dettaglio (e cioè la risoluzione dei problemi più minuti della costruzione artigianale) resta centrale. Un altro importante quartiere, di carattere più apertamente “neorealista”, è invece ubicato a 15 km a nord di Milano, a Cesate35 (1951-57), opera di Albini, Albricci, Gardella e dei Bbpr. Qui lo studio accurato dei rapporti tra il nuovo nucleo residenziale e l’esistente paese di Cesate, ha indotto a ottenere una notevole varietà di spazi attraverso l’articolazione di due soli tipi edilizi: case a schiera su due piani, aggregate in modo da favorire i rapporti di vicinato, e le case plurifamiliari a quattro piani affacciate su spazi alberati. A dimostrazione che la volontà di abbandonare lo spazio instabile dell’edilizia razionalista accompagna la maturazione del progetto InaCasa anche nel secondo settennio, citiamo il quartiere di via Cavedone a Bologna36 (1957-60) progettato da Gorio con Benevolo, Carini, Calzolai. Si caratterizza per la ripetizione dello stesso tipo edilizio: edifici a corte rosso mattone allineati lungo le vie, dei quali si intravede il vuoto centrale. Le corti, tuttavia, riescono a essere diverse tra loro attraverso lievi rotazioni o variazioni di dimensione. Si ritorna a un concetto di città dove la strada murata e accogliente si propone come elemento strutturante del paesaggio urbano, in un tessuto compatto che rimanda alla morfologia della città storica. I collegamenti interni sono concepiti esclusivamente tramite percorsi pedonali e le corti, che costituiscono luoghi di incontri e socializzazione, rimandano all’idea delle unità di vicinato. Tra l’altro, anche qui, l’esplicita volontà di lasciare il mondo dell’automobile e del traffico fuori dal complesso abitativo richiama l’impegno difeso dagli Smithson per mantenere distinti i due percorsi: quello pedonale e quello automobilistico. Sulle pagine di Urbanistica, Giovanni Astengo nel 1951 tenta il primo bilancio sistematico dell’esperienza Ina-Casa. L’ultimo tra i casi esem-

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plari proposti è l’unità residenziale Falchera, costruita a Torino (1950-56) secondo un progetto da lui stesso coordinato insieme a Renacco, Sottsass, Passanti e altri. Il quartiere sorge a nord del centro torinese, in un contesto pienamente rurale. È una vera unità satellite autosufficiente. La tipologia edilizia prescelta è la casa in linea a tre piani, che si aggrega con andamento spezzato e si ripete, a formare un sistema di grandi edifici articolati disposti attorno a grandi spazi verdi. Gli edifici si raggruppano in nuclei, ognuno dotato di asilo nido e negozi di prima necessità. Al centro del quartiere poi si trovano i restanti servizi. Spostandoci, adesso, nel contesto spesso eterogeneo e frammentato delle parti urbane e dei tessuti che costituiscono la terraferma veneziana, il quartiere Ina-Casa di San Marco a Mestre (1951-61) appare chiaramente riconoscibile come uno dei maggiori interventi di edilizia residenziale pubblica del Novecento. Realizzato da Piccinato e Samonà, il quartiere satellite si situa tra il centro di Mestre e il margine lagunare, costruendo un’appendice urbana in direzione di Venezia. Elemento caratterizzante è l’attenzione allo spazio aperto, inteso come spazio di relazione, la cui progettazione in rapporto con gli edifici residenziali è fondamento della coerenza formale e della coesione sociale dell’unità di vicinato. La struttura del quartiere può pertanto essere vista come il frutto del relazionarsi di due assiomi: “il quartiere è un fatto sociale” e “la città è un organismo”. Il coinvolgimento nel piano Ina-Casa è l’evento sicuramente più significativo per l’avvio della carriera professionale di De Carlo: quando nel 1950 inizia a lavorare alacremente agli incarichi Ina è laureato in architettura da neanche un anno. Dal punto di vista documentario, purtroppo la situazione non è delle migliori. I disegni dei progetti per l’InaCasa, come del resto tutti i disegni della produzione dello studio fino alla metà e oltre degli anni Sessanta sono stati distrutti dallo stesso De Carlo. Solo uno dei lavori per l’Ina, il quartiere di Sesto San Giovanni a Milano (1950-51), è stato fatto oggetto di parziale trattamento di favore. Qui l’architetto lavora con le soluzioni date per il tipo edilizio della casa collettiva distribuita a ballatoio e della casa unifamiliare aggregata a schiera. Il disegno dell’impianto generale dell’intervento tradisce, comunque, un chiaro riferimento ai canoni urbanistici del razionalismo, tanto da indurci a considerare il quartiere vero capolinea di un percorso nel solco del Moderno. Il passaggio da questa prima a una seconda fase di realizzazioni Ina-Casa37, equivale a una svolta verso soluzioni innovative sul piano linguistico e morfologico, fino all’individuazione di soluzioni che escono dagli schemi tipologici canonici per individuare nuove forme di organizzazione dello spazio e di distribuzione degli alloggi liberamente atipiche. La casa Ina a Baveno, (Novara, 1951-53) insieme al concorso


di Matera (1954) per il quartiere Spine Bianche, sono i primi risultati di rilievo in questa direzione. A Baveno le unità abitative, organizzate su un piano, sono aggregate a due a due su blocchi di due piani che, sempre uguali, costituiscono un insieme molto articolato incernierato attorno ai corpi scala. Alla copertura è affidato il compito di tenere assieme il tutto in un’immagine unitaria che rimanda a un’idea di vicinato, idea che troverà una composizione elastica e armonica a Matera. Il secondo settennio Ina-Casa impegna De Carlo decisamente meno del primo38, sia perché nella seconda metà degli anni Cinquanta la sua presenza ad Urbino diventa cosa solida e continuativa, sia perché si ritrova protagonista di primo piano e figura di riferimento in rapporto a eventi di estrema importanza: gli ultimi Ciam e poi il TeamX. A questo punto si può serenamente affermare che per le realizzazioni del piano Ina-Casa39, inteso come “mezzo di graduale modernizzazione della società italiana, in grado di mettere via via in comunicazione l’ambiente delle città con quello ancora dominante delle campagne, il tutto con un’attenzione particolare all’attenuazione dei conflitti”40, il punto di partenza non è la ricerca plastica, per quanto organicamente intesa, ma un’idea sociale. Il panorama nazionale dell’architettura italiana vive in questi anni una fase davvero ricca di fermenti e realizzazioni, e se il movimento di opere e autori analizzato nelle pagine precedenti costituisce l’approccio dominante, è bene ricordare che non è l’unico approccio. Un secondo, come già abbiamo avuto modo di rilevare, concerne l’esplorazione di elementi compositivi dell’architettura moderna, straordinariamente rappresentata non soltanto in area milanese e lombarda, ma anche a Napoli41, tanto che si venne a delineare un asse milanese-napoletano del continuismo razionalista contrapposto all’architettura romana. I progetti elaborati in questo filone di ricerca linguistica e compositiva stanno anch’essi ben dentro, dunque, a un patrimonio culturale con solide radici nazionali. Ma l’area di ricerca alla base delle nuove prove, elaborate soprattutto per alcuni contesti delle regioni settentrionali, si arricchisce e sembra guardare alle grandi esperienze europee, con una predilezione per le suggestioni legate, direttamente o indirettamente, all’opera di Le Corbusier. A Milano, il gruppo culturalmente egemone, in linea con gli obiettivi del razionalismo ante guerra, era l’MSA (Movimento studi per l’architettura), formatosi nel 1944 e comprendente Albini, Belgioioso, Bottoni, Gardella, Rogers. Principalmente nella seconda metà degli anni Cinquanta si afferma una tendenza neoliberty fortemente criticata. Ogni ritorno a periodi anteriori alla rottura difesa dal Movimento Moderno testimoniava un’attitudine reazionaria e deplorevole. Erano considerati esempi anticipatori di

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questa architettura, indice di un clima storicistico pericolosamente evasivo: la Bottega di Erasmo a Torino (1953) di Gabetti e Isola, pietra dello scandalo per l’infittirsi di aggettivazioni che informa le superfici, spezzate e ripiegate, allusive all’architettura borghese dell’Ottocento italiano; la casa alle Zattere (1953-58) a Venezia di Gardella, presentata come commento alla tipologia del palazzo gentilizio lagunare; le Case Torri in viale Etiopia a Roma (1948-54)42 di Ridolfi e Frankl; l’Edificio Girasole di Roma (1947-1950) realizzato da Luigi Moretti43; la Borsa Merci a Pistoia di Michelucci (1947-50), dove l’evidenza della struttura perviene a una fissità albertiana in relazione diretta con le tipologie del Rinascimento toscano; la Torre Velasca a Milano dei Bbpr (1950-58) perfettamente inserita nell’atmosfera storica di Milano pur esprimendosi attraverso l’emblema per eccellenza del Movimento Moderno: il grattacielo in cemento armato. L’opera si pone come chiave tra il passato della città e il suo possibile sviluppo futuro. Tutti questi architetti in realtà non erano colpevoli che di aver preso sul serio l’appello lanciato da Rogers, nei suoi editoriali, sull’importanza del colloquio delle opere con l’ambiente affinché diventassero interpretazione critica delle preesistenze ambientali44. Questo tema contribuì enormemente a rendere originale l’esperienza italiana del periodo. Attraverso la sua attività accademica a Venezia, Samonà, cercò di por fine alla polarizzazione di posizioni nell’architettura italiana grazie all’apporto di docenti provenienti da tutta Italia. Alla facoltà furono chiamati, tra gli altri, Albini, Gardella, Belgioioso, De Carlo, Scarpa, Piccinato, Astengo, Zevi. Ma Venezia è subito isolata dal mondo accademico e costretta a svilupparsi in se stessa. Eppure un disagio in comune angustiava tutto il territorio nazionale: l’avvio di una ricostruzione non pianificata. Alla data del 1955 risultarono approvati solo 23 piani regolatori e due soltanto quelli esemplari, entrambi elaborati nel 1956: il P.R.G. di Siena di Piccinato, Bottoni, Luchini, e il P.R.G. di Assisi di Astengo. Per il piano di Siena, Piccinato riuscì a mantenere il fragile equilibrio tra la conservazione di un patrimonio storico-architettonico straordinario e lo sviluppo della città. Per la prima volta si evitò di ignorare l’esistenza della storia. Anche le aree agricole extraurbane furono salvaguardate e tutelate. Nel piano di Assisi, Astengo considerò gli aspetti architettonico-ambientali e socio-economici quali ineludibile premessa di ogni decisione pianificatoria. Il piano fu inoltre corredato da un censimento dei valori architettonici e urbanistici riferito a tutti gli edifici e spazi aperti. Il primo P.R.G. messo in cantiere comunque fu il cosiddetto piano Ar, elaborato a Milano nel 1945 dal gruppo Architetti Riuniti (Albini,


Bottoni, Bbpr, Gardella, Mucchi, Pucci, Puntelli). Qui si registrò il fenomeno del sovradimensionamento del fabbisogno di alloggi, caratteristica di molti piani. In altre grandi città come Roma e Napoli addirittura si tenevano in piedi i vecchi piani regolatori elaborati prima della guerra. Ad Ivrea, invece, le ideologie socioeconomiche di Olivetti trovarono la loro migliore realizzazione. La stesura definitiva del piano del ’59 occupò un vero team fra cui Figini e Pollini, Gardella, Gabetti, Isola, Quaroni, Ridolfi. Nel panorama culturale dell’urbanistica italiana, l’unica isola felice era rappresentata dall’INU, fondato nel 1930. Nel dopoguerra l’illuminata presidenza di Olivetti e la divulgazione attraverso Urbanistica, organo dell’ente affidato alla direzione di Astengo, resero l’Istituto un centro di elaborazione tecnica tra i più avanzati. È certo comunque che “il boom edilizio degli anni ’50 fu caratterizzato soprattutto da anarchia formale, da mancanza di regole urbanistiche, da disinteresse per le sorti dell’ambiente. In questa intemperie, l’architettura degli architetti illuminati, dei professionisti consapevoli, degli eredi del razionalismo italiano come dei fautori di un’identità nazionale, si sviluppò in un incessante moto ondoso di spinte e controspinte verso un modernismo perennemente inseguito e trattenuto da un’impellente necessità di controllo armonico e di classicità”.45 Proprio in questa confusa e ricca dialettica tra il conoscere e l’agire si inserisce Matera. I primi interventi, la borgata rurale de La Martella, il piano regolatore di Piccinato e il concorso per i nuovi insediamenti da esso previsti, sono contemporanei all’esperienza del primo settennio InaCasa anche se rispetto ai quartieri di questo ente si tentò un intervento complessivo, una ristrutturazione organica di tutto il territorio che potesse servire da paradigma, aggredendo quel nucleo politico-economico del problema sociale che l’Ina-Casa di Foschini aveva accuratamente evitato di affrontare. Il patrocinio di Olivetti, inoltre, fu naturalmente decisivo. Nell’architettura materana degli anni Cinquanta si può percepire, sotto la patina del degrado, una nobiltà di forme e di intenti: la rigorosa semplicità e l’asciutta parsimonia delle architetture di Quaroni, Piccinato, De Carlo, Aymonino, corrispondevano in realtà all’orgogliosa esibizione di una collettiva volontà di riscatto dalla miseria, rappresentavano un atto di fede nella possibilità di contribuire con l’architettura al progresso civile della nazione.

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