Officina Italia

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Questa è la vicenda della Fiat, da Valletta a Marchionne. Una storia narrata mentre ancora si sente l’eco dei passi di quei Quarantamila che in realtà quarantamila davvero non furono mai. E questi fatti, Fabio Sebastiani riascolta per capire oggi e domani cosa accadrà in una multinazionale che dell’Italia non avrà che un pallido ricordo, e che sopravvive sbriciolando i diritti di operaie e operai. Con “Officina Italia”, Sebastiani fa informazione e controinformazione necessarie. In controluce le intenzioni dell’ad Marchionne: l’uomo della finanza che la famiglia Agnelli, oberata dai debiti, vuole al posto giusto al momento giusto. Contro quel che resta della classe operaia, contro i diritti degli operai e a rimpinguare di interessi le casse delle banche americane ed europee. Fra cronaca sindacale, passaggi economici e presa diretta da chi in fabbrica ha lavorato. Uno di quei racconti che spiegano la realtà.

Fabio Sebastiani, nato a Roma nel 1960, è laureato in filosofia. Giornalista, lavora a Liberazione come caposervizio del settore Lavoro per il quale si occupa di questioni sindacali; ha collaborato con diverse riviste, fra le quali Reportage e Left. Ha scritto anche una raccolta di racconti e canzoni per bambini. Nel 2008, un suo racconto è stato premiato in un concorso indetto dall’Arci. Collabora, inoltre, con lo spazio telematico www.controlacrisi.org. È tra i fondatori della cooperativa editoriale “Liberaroma”. A ottobre uscirà un suo testo di aforismi presso la casa editrice Zona.

ISBN 978-88-96171-50-9

9 788896 171509

€ 14,00


Prefazione

La crisi nel nostro Paese è utilizzata, in questa fase, per smantellare i diritti delle persone. Nel nome della globalizzazione e della concorrenza mondiale si sta attuando il progetto di cambiare le relazioni industriali, rompendo l’equilibrio tra gli interessi di chi lavora e quelli di chi fa impresa, in favore degli imprenditori. L’idea è quella di cancellare il diritto delle persone a contrattare la propria condizione di lavoro collettivamente. Il caso Fiat è esemplare. L’Azienda ha usato la scusa di rendere gli stabilimenti più produttivi per imporre le proprie condizioni. Né per Pomigliano, né per Mirafiori è stato possibile condurre una trattativa. Per lo stabilimento campano, il management si è presentato con un testo. Alle nostre obiezioni e richieste di modifica ci siamo sentiti rispondere che si trattava di un prendere o lasciare. E la maggior capacità produttiva non c’entrava niente. Come Fiom abbiamo avanzato delle proposte alternative che permettevano di produrre anche più veicoli di quelli richiesti, ma senza peggiorare le condizioni di chi lavora e senza ledere il diritto di sciopero, il Contratto e le leggi in materia di sicurezza sul lavoro. Non abbiamo ottenuto nessuna risposta. L’intesa, su richiesta della Fiat, è stata sottoposta a un referendum che noi abbiamo ritenuto illegittimo sia perché toccava dei diritti indisponibili, sia perché si trattava di un ricatto. Se, infatti, ti dicono che o voti sì oppure l’Azienda chiude non sei esattamente libero di decidere. In quel momento è successo un fatto inaspettato: la Fiat non ha ottenuto il plebiscito che era convinta di avere grazie al coraggio e alla dignità dei lavoratori di Pomigliano. Così è venuta fuori l’ipotesi della NewCo. 5


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A Mirafiori poi, sempre nella totale assenza di una trattativa che mediasse tra gli interessi di produttività dell’impresa e le condizioni di lavoro, la Fiat è andata oltre. Ha spiegato che quell’intesa sostituisce il Contratto nazionale e ha annunciato la sua intenzione di non aderire più a Confindustria, in modo da non applicare l’accordo del ‘93 e istituire le rappresentanze sindacali aziendali, nominate dai sindacati territoriali, al posto dei rappresentanti eletti dai lavoratori. Inoltre, visto che le norme diventano parte integrante del contratto individuale, sono previste sanzioni per i dipendenti e i sindacati che non ottemperano a ciò che l’intesa prevede. Quell’accordo, che la maggior parte degli operai di Mirafiori ha respinto, è stato esteso anche a Pomigliano. In fabbrica sono riconosciuti solo i sindacati che hanno firmato l’accordo e, in caso ci siano problemi in produzione, si riunisce una commissione che valuta la situazione. Poi, se entro 20 giorni non si trova un’intesa, decide l’azienda. Si tratta di un cambiamento senza precedenti nella storia delle relazioni industriali. Si sposta la capacità di decisione solo sull’impresa che ha mano libera. E il sindacato, o è d’accordo o è fuori. Non è solo il tentativo di far fuori la Fiom dalle fabbriche, ma di cancellare il diritto di chi lavora a contrattare collettivamente la sua condizione e di scegliere chi lo rappresenta. In questo quadro, il sindacato diventa corporativo e rinuncia alla sua natura confederale. Il tentativo di mettere fuori la Fiom si scontra con il ricorso presentato al tribunale di Torino. La scelta della Fiom di ricorrere contro la Fiat è stata determinata dall’impossibilità di trovare una soluzione sindacale, visto l’atteggiamento dell’Azienda. Siamo convinti che la costituzione delle NewCo rappresenti una palese violazione delle norme sul trasferimento d’azienda e che abbia un fine antisindacale. Se verrà accolto, diciamo già da ora a Fiat di tornare al tavolo per migliorare la produttività degli stabilimenti e fare gli investimenti, per ora solo annunciati, senza violare le leggi, i contratti e la Costituzione italiana. La competizione, secondo il modello Marchionne, non si fa sulla qualità dei prodotti, sulla sfida di ripensare in termini ecosostenibili alla mobilità delle persone, ma sulla qualità delle condizioni di lavoro, sulla competizione tra lavoratori di aziende diverse. E pensare che questa idea rimanga confinata ai cancelli della Fiat è un’utopia. 6


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Tutto questo patrimonio di idee e di proposte su un diverso modello di sviluppo è stato, e continuerà a essere, al centro dell’attività e delle iniziative della Fiom, a partire da quella del 16 ottobre 2010. È in atto un salto di paradigma nell’intera società. Limitare la discussione al solo ambito sindacale non aiuta né il sindacato né la società. Da una parte c’è la globalizzazione, dall’altra gli strumenti, e i comportamenti, con i quali la si affronta. Il ricatto del posto di lavoro sembra essere diventato il punto imprescindibile, e unico, da cui partire nella individuazione delle cosiddette ricette economiche per uscire dalla crisi. L’Italia rischia di scivolare in un modello che a grandi passi la fanno uscire dalla posizione che ha occupato fino a oggi nell’ambito dei paesi occidentali. L’Italia rischia di distruggere quella “civiltà del lavoro” che aveva costruito, a partire dalla Costituzione della Repubblica italiana, grazie alle lotte del movimento operaio. Non è vero che la “competizione al ribasso” premia il singolo perché se oggi la potrà spuntare su un “concorrente” che offre il suo lavoro a un costo superiore domani troverà qualcuno in grado di offrire le sue braccia più convenientemente. La Fiat, e il settore metalmeccanico, ha sempre rappresentato l’avanguardia dell’offensiva padronale nei confronti del mondo del lavoro. In questo, Sergio Marchionne è il continuatore di una tradizione ben consolidata. Mai, però, il confine raggiunto era stato così avanzato, spingendosi fino al punto, per noi di non ritorno, di espellere il sindacato fuori dal luogo di lavoro. Se questo esempio fosse seguito sarebbe un disastro non solo per le organizzazioni sindacali. Verrebbe a mancare uno dei due poli di una dialettica profonda alla base della dinamica sociale, economica e politica della società, in Italia come in tutto il resto del mondo. Pensare di “fare da soli” è una pura follia. Un lavoro senza rappresentanza costituirebbe un problema in più per l’intera collettività e non un “problema in meno” per l’imprenditore e il sistema produttivo. Se si compirà il disegno della Fiat, ciò che ancora si chiamerà sindacato non sarà più tale perché non avrà alcuna possibilità di difendere né il singolo nell’ambito del collettivo o, se volete, della classe, e meno che mai il collettivo stesso. Se il singolo lavoratore 7


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usufruisce, acquistando la sua quota associativa dell’organizzazione sindacale, di qualche servizio vuol dire che non può disporre più di quella forza che sta alla base dello “stare insieme con giustizia”. Tornano alcune costanti nell’offensiva che la Fiat sta portando avanti nei confronti del sindacato e dei lavoratori, il tema della salute e quello del salario. La ripresa delle lotte alla Fiat alla fine degli anni sessanta è nata proprio sulla nocività degli ambienti e l’insostenibilità dei ritmi di lavoro. Oggi come allora, si apre una grande questione che riguarda la vita stessa dei lavoratori e delle lavoratrici. La sentenza Thyssen, sia detto per inciso, ha dimostrato che sull’altare della competizione gli imprenditori sono disposti a sacrificare qualsiasi cosa e a violare qualunque norma. La situazione, ben documentata da “Officina Italia” mette in evidenza come se da una parte il tema della nocività non ha più quegli aspetti drammatici, dall’altra si torna alla cosiddetta “monetizzazione” del rischio fisico e alla esasperazione dei ritmi di lavoro. E nemmeno vale, come sta facendo la Fiat, “mascherare” con l’ergonometria una organizzazione del lavoro che aumenta lo stress e la durezza della prestazione. L’aumento delle malattie muscolo-scheletriche che presto si manifesterà ci parla di un sistema di produzione costruito senza tener conto del lavoro e addirittura contro il lavoro stesso. Del resto, l’azienda ha costruito il suo nuovo sistema in modo unilaterale mettendo i lavoratori e i sindacati stessi di fronte al fatto compiuto. La Fiat sfrutta la prestazione lavorativa “just in time” senza preoccuparsi del futuro della condizione fisica. Ciò è molto vicino alla logica dell’“usa e getta” e della mercificazione della prestazione lavorativa e del lavoratore stesso. Nello schema Fiat, il tema della fatica è direttamente legato al salario. Da una parte l’uscita dal contratto nazionale dei metalmeccanici e, dall’altra, il legame con i parametri aziendali, e cioè con una non meglio identificata produttività, rendono la busta paga una entità molto astratta, sicuramente fuori da quel quadro dei diritti per la cui difesa la Fiom-Cgil si sta battendo da anni. Il rischio è quello di ricadere, in sostanza, in uno schema in cui il costo del lavoro si consolida sempre più come una variabile dipendente direttamente dalla volontà dell’imprenditore. 8


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Ciò che ha riportato il lavoro al centro della discussione è stato lo scatto di dignità dei lavoratori di Pomigliano prima e di Mirafiori poi. A partire dal 16 ottobre passando per le manifestazioni dei movimenti (precari, donne, referendum) la richiesta di una parte sempre più consistente della società civile è una richiesta di partecipazione ai processi decisionali di questo paese. Una richiesta che la Fiom e la Cgil hanno rappresentato con la protesta. È il momento che la politica raccolga le istanze per accorciare la distanza tra i cittadini e i rappresentanti politici. 7 giugno 2011

Maurizio Landini segretario nazionale Fiom Cgil

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Il mercato dell’auto

Considerazioni generali I consumi ristagnano. Il mercato europeo dell’auto, tutto basato sull’acquisto ‘di sostituzione’, dopo quindici anni di incentivi non mostra segni apprezzabili di ripresa. Tanto che le reti di vendita, soprattutto in Italia, stanno facendo dell’usato una componente sempre più importante del loro business. Le uniche aree a segnare incrementi apprezzabili sono quelle dei paesi ‘Bric’. È quello il terreno su cui avverrà il regolamento di conti tra le case automobilistiche sopravvissute a una scrematura che ormai dura da quasi dieci anni. Mentre nel 1970 c’erano 40 produttori indipendenti nel settore automotive, nel 2001 erano 14 e oggi siamo a meno della metà. La fase di concentrazione, però, fanno notare gli esperti, non è ancora terminata. “Nell’area della triade industriale il settore ha perso il 23,96% tra il 1999 e il 2008 – scrive Roberto Romano, economista della Cgil Lombardia – in Europa c’è un calo del 28,98%; nell’America del Nord del meno 38%”.(1) Se si guarda nella recentissima ripresa del settore trainata dalla Cina, ci si rende conto che i competitor tedeschi sono i più apprezzati e ne approfittano di più. Gli americani vengono a ruota, i francesi lo sono in misura minore, mentre Fiat, che non ha una gamma adeguata, non può partecipare significativamente al banchetto: Ferrari e Cinquecento sono le sole carte significative che ha in mano. Gli ultimi dati resi noti dalla European Automobile Manufacturers Association dimostrano che la Fiat è stata, tra le industrie automobilistiche europee, la più penalizzata nel biennio di crisi economica appena passato. Nel 2010, infatti, finiti gli incentivi, in Europa sono state assorbite 13.785 milioni di auto (4,9% in meno rispetto al 2009). E Sergio Marchionne ha lasciato sul terreno circa 210mila 25


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automobili (17% in meno rispetto al 2009). La sua quota nel mercato europeo è scesa dall’8,7 al 7,6 per cento. In Germania, dove le agevolazioni sono terminate l’anno precedente, il calo è stato il più consistente, intorno al 23%, seguito dal mercato italiano con un 9,2%. Anche il mercato francese ha risentito della graduale riduzione degli incentivi con una perdita del 2,2%. In un mercato mondiale che tra il 2008 e il 2009 ha visto scomparire ben dieci milioni di autovetture vendute, dove la Cina ha bruciato i tempi ed è balzata di prepotenza al primo posto tra i produttori, dove un’automobile europea su quattro ormai è prodotta nei paesi dell’Est, la capacità di adattamento ai cambiamenti sempre più repentini sembra essere il vero nodo da sciogliere; ma per farlo occorrono capitali, economie di scala e ‘modelli azzeccati’: tutti fattori di cui la Fiat sembra deficitaria. Il saldo occupazionale tra il 2000 e il 2007, infine, a livello europeo dell’auto è stato negativo di quasi 100.000 occupati, durante una fase tutto sommato positiva, mentre la crisi intervenuta tra il 2008 e 2009, con l’eccesso di capacità produttiva media del 22%, imporrà una riduzione di quasi 600.000 lavoratori a livello europeo, e per l’Italia si stima una perdita d’occupazione prossima a 50.000 lavoratori a politiche invariate. Eppure, sia in Germania che in Francia le aziende automobilistiche tutto sommato reggono. Il dato strutturale, quindi, si riassume nell’eccesso di capacità produttiva. A livello mondiale la capacità produttiva è di 100 milioni di veicoli all’anno mentre la domanda è stata di 60 milioni (sarà forse di 70 nel 2011). C’è un eccesso di capacità non solo in Europa e negli Usa, ma anche in Giappone, Cina e Corea, i cui produttori, però, sono pronti a scalare la classifica delle vendite in Europa. Negli Usa, per esempio, nonostante la crisi abbia tagliato di un milione e mezzo la produzione, la capacità produttiva rimane nettamente superiore alla domanda (+29% nel 2013 contro il 30% del 2006, dati Jd Power). Nello stesso tempo è il mercato della Cina a sostenere alcune case automobilistiche come la Volkswagen. La sfida, quindi, deve essere sostenuta tra i produttori in Europa nella doppia chiave: mercato di sostituzione, quindi una offerta di alto profilo dal punto di vista dell’innovazione di prodotto e prezzi finali concorrenziali con l’agguerrita politica delle tigri asiatiche. “Questo ridimensionamento 26


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generale del settore muta le politiche delle imprese: da un lato si manifesta la necessità di produrre vetture di nuova generazione a basso consumo e impatto ambientale per i mercati rigidi dei paesi ricchi; dall’altra, la necessità di realizzare vetture a basso costo per i mercati a ridotto tasso di motorizzazione. Queste due linee di tendenza devono fare i conti con una recessione economica e di compressione dei consumi dei beni durevoli senza precedenti”, scrive Romano.(2) In generale, comunque, il divario tra capacità produttiva e assorbimento potenziale del mercato oltre a imporre una forte pressione competitiva sui margini rimanda tutti a una più netta economia di scala. Con il paradosso che la forte capacità produttiva viene spinta ancora più in avanti perché solo così è possibile competere. Quali sono i vantaggi competitivi con cui Marchionne conta di vendere ogni anno in Europa un milione in più di vetture fabbricate in Italia? Cioè di portare via almeno un milione di vendite annuali a Volkswagen, senza perdere colpi di fronte a Daimler e Kia-Yundai, in piena ascesa, o a Reanult-Nissan e Toyota, molto più solide, per non parlare dello sbarco in Europa dei produttori cinesi? Non è dato saperlo. O meglio, la Fiat parla spesso di maggiore utilizzo degli impianti addossando tutta la responsabilità sulle fragili spalle dei lavoratori. È in questa chiave, del resto, che ha stilato gli accordi di Pomigliano e Mirafiori. Ma la realtà delle cose non sta esattamente come la racconta Marchionne, che stima una “produttività” (auto prodotte per addetto) che è più di un terzo inferiore in Italia rispetto al Brasile, per esempio. La Fiat si dimentica di citare gli impianti fermi e i lunghi periodi di cassa integrazione, le frequenti sconnessioni del just in time. “Se la domanda delle auto Fiat non tira – scrive Lia Fubini, docente dell’Università di Torino – la produzione è bassa, gli impianti sono sottoutilizzati e quindi non si sfruttano appieno le economie di scala, che sono fondamentali nell’automotive”.(3) Vengono al nodo, attraverso questa impostazione, le letture imprenditoriali della produttività, tutte basate sul lato della produzione (senza considerare ovviamente l’incidenza degli investimenti) e non sul lato del mercato dei prezzi correnti. Basta confrontare il dato disaggregato di Melfi, uno degli stabilimenti Fiat in Italia con meno ore di cassa integrazione, per capire come i lavoratori italiani sono al pari dei brasiliani. 27


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Tra i principali competitors, “la Fiat è, indiscutibilmente, la meno attrezzata”, sottolinea ancora Romano. “Utilizzando i dati Mediobanca circa il valore dell’attivo, escludendo i beni immateriali – continua Romano – si palesa la debolezza (strutturale) della società rispetto a tedeschi e giapponesi. L’assenza di una politica capace di agire sui costi fissi e la maggiore attenzione della Fiat sui costi variabili (lavoro in primis), sono un tratto caratteristico della gestione di una società prima della sua ‘privatizzazione-cessione’. In particolare è il crollo del ROE (indice di redditività del capitale proprio) tra il 2008 e il 2009 a impressionare. Tutte le principali società hanno perso ‘redditività’, ma il meno 26% della Fiat è poco più del doppio delle altre società: Toyota meno 2,4%, Volkswagen meno 12,9%, Dalmier meno 12,5%, Honda Motor meno 3,1%”.(4) Anche l’alleanza con Chrysler non è che giovi granché, in quanto la nuova compagnia continuerà a essere comparativamente “piccola” rispetto ai big mondiali e avrà, comunque, come riferimento, se si esclude il Brasile, dove è tallonata dalla Volkswagen, solo mercati di nicchia. La dimensione di impresa e l’economia di scala fa il paio con l’innovazione tecnologica, altro fattore il cui peso in Fiat continua a essere comparativamente scarso. Non a caso è stata proprio la fornitura di tecnologie che ha mosso l’interesse di Obama nella ricerca del partner. Tra quelli disponibili, ovvero pochi, Fiat era l’unica a vantare una soglia minima rispetto a quelli molto bassi in tema di motorizzazione ecocompatibile degli Usa. E questo ha deciso la partita. “Per troppo tempo, la Chrysler si è mossa troppo lentamente e senza guardare al futuro, progettando e costruendo auto meno popolari, meno affidabili e meno efficienti quanto ai consumi dei concorrenti stranieri – disse il presidente degli Usa nell’aprile del 2009. La Fiat ha dimostrato invece di poter costruire quelle macchine con motori puliti e a basso consumo che sono il futuro dell’industria dell’auto e ha già accettato di trasferire miliardi di dollari in tecnologia alla Chrysler per aiutarla a raggiungere lo stesso risultato”. Al di là della coloritura ambientalista, il motivo scatenante è stato senza dubbio il tentativo di evitare il disastro sociale, e politico, di più di un milione di posti di lavoro in fumo se Ford e Chrysler fossero fallite. 28


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Il confronto con l’Europa Il confronto tra i principali paesi-competitors del settore (Germania, Francia e Italia), tra il 2002 e il 2008 per occupazione e produzione, fa emergere alcune caratteristiche interessanti. La produzione in Francia e Italia è crollata, rispettivamente del -29,15% e del -28,87%, mentre la produzione in Germania è salita del 9,23%. Questo trend ha modificato la divisione internazionale (Europa) del lavoro. Infatti, la produzione industriale dell’automotive si è ricomposta: la Germania passa dal 29,93 al 32,50%; la Francia passa dal 20,45% al 14,44%; l’Italia passa dal 7,81% al 5,54%. Dal lato occupazionale tutti i paesi hanno perso posti di lavoro (Francia meno 1,34%, Germania meno 1,44, Italia meno 0,10%, al netto di Termini Imerese), ma il diverso output fa emergere la maggiore competitività-produttività della Germania rispetto all’Italia e alla Francia. Sostanzialmente la Germania e Giappone, in misura minore gli Usa, sono i principali players, con attività e dimensioni che condizionano la ristrutturazione del settore. L’analisi dei brevetti, cioè la tutela legale per le nuove produzioni, è abbastanza eloquente: i brevetti europei (Germania) sono pari al 55%, Giappone 22,8%, Nafta 16,0%. Più in particolare, la Germania è l’unico paese che è riuscito a mantenere l’utilizzo degli impianti sopra alla soglia critica del 79%, cioè la “typical profitability zone”, sia prima della crisi e sia durante la crisi. Approfondendo il confronto tra Germania e Italia, si osservano altre diversità di rilievo. La prima è legata al peso specifico del settore sul manifatturiero. In Germania l’automotive vale l’11,80%, mentre in Italia vale il 3,60%. Relativamente al peso sul Pil in Germania il settore vale il 3,30%, mentre in Italia il 4,60%. Questa differenza è legata alla specializzazione produttiva e alle economie di scala conseguenti. Infatti, in Germania si producono 6.040.582 veicoli, contro i 659.221 dell’Italia. Queste dimensioni, induttivamente, suggeriscono chi sarà il player della riorganizzazione del settore, almeno in Europa. Se i costi fissi sono uno dei principali vincoli, il livello di concentrazione e prossimità della produzione diventano strategici ai fini della competitività. Analizzando le principali società europee, quelle associate all’Acea, la dispersione produttiva (numero di impianti 29


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produttivi), tipica condizione di dis-economie di scala, è maggiore per la Fiat (19,43%), seguita da Volkswagen AG (15,43%), GM Europe (12,57%), Dalmier Ag e Volvo (11,43%), PSA Peugeot Citroen (10,86%) e Renault SA (10,29%). Se analizziamo la solidità finanziaria e il livello quali-quantitativo dell’output del settore, si osserva quanto segue: tanto più la società è player internazionale dal lato dell’attivo e della dimensione produttiva, tanto più concentra la produzione. La 500, la Panda e la Punto negli anni passati erano tra i primi dieci prodotti venduti in Germania e in Francia, adesso non c’è neppure uno dei prodotti Fiat venduti tra i primi dieci.

L’assenza della politica in Italia Contrariamente a quanto accade in Germania dove, per esempio, lo Stato regionale è presente nel pacchetto azionario della Volkswagen, a impressionare in Italia è anche l’assenza della politica. Eppure, l’importanza dell’industria dell’auto nell’economia italiana è sottolineata innanzitutto dal peso tributario, visto che oscilla tra il 20% e il 22% delle entrate dello Stato. In termini di occupazione, il sistema auto coinvolge, dalla vendita alla manutenzione circa un milione di persone, mentre nell’autotrasporto vengono impiegati 330mila addetti (dati Eurostat). In secondo luogo, accanto al grande produttore nazionale, si sono sviluppati altri segmenti industriali spesso caratterizzati da elevato contenuto di creatività e innovazione: per esempio, il sistema dei carrozzieri italiani concentrato in Piemonte non ha eguali a livello mondiale, tanto che è punto di riferimento dei maggiori produttori. In terzo luogo, si è affermata una fortissima industria della componentistica, la quale produce in parte per il mercato di primo equipaggiamento e in parte per il mercato dei ricambi. In totale, secondo un calcolo effettuato recentemente dagli analisti dell’Osservatorio sulla componentistica di Torino e dall’Anfia, 100 euro fatturati dalla Fiat ne producono almeno 250 dell’indotto. Quindi, se il fatturato auto (Italia) è di 9 miliardi l’indotto arriva a sviluppare 22,5 miliardi. Se a questa base si aggiunge la quota dei ricavi Fiat derivanti da alcuni settori tipo camion, robot, siderurgia, macchine movimento 30


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terra e il relativo indotto (11 miliardi) arriviamo a 42,5. Ma la Fiat non guarda all’Italia, in cui la sua quota di mercato subisce via via una lenta erosione e la politica si allontana sempre di più. Gli altri concorrenti, intanto, non stanno certo a guardare. In questo periodo di stasi hanno lavorato alacremente per l’innovazione. E quando il vento tornerà a tirare chi avrà la vela più ampia potrà sperare di correre più veloce degli altri. Il gap di Fiat è evidente: questa partita si vince sugli investimenti e sulle economie di scala, due caratteristiche che la Fiat ha perso da tempo. E quindi si trova a competere con davvero poche chance di vittoria (pochi modelli davvero convincenti e dimensione aziendale insufficiente), stretta tra il predominio nippo-tedesco nei segmenti di qualità e l’aggressività crescente degli “emergenti” asiatici a basso costo. Non può neppure contare, come avviene invece per francesi e tedeschi, su una presenza importante del socio pubblico. Preferisce perciò gli stati che regalano stabilimenti, incentivi, soldi e condizioni di lavoro protette (Usa, Serbia, Russia). Da questo punto di vista è ‘la Fiat di sempre’, quindi. Nel pieno dello scontro tra l’azienda e la Fiom, sul finire del 2010, quarantasei economisti hanno scritto una lettera ricordando a Sergio Marchionne alcuni dati di cui non c’è esattamente da vantarsi. “Nel terzo trimestre del 2010 la Fiat guida la classifica di redditività per gli azionisti, con un ritorno sul capitale del 33%. La recente divisione tra Fiat Auto e Fiat Industrial e l’interesse ad acquisire una quota di maggioranza nella Chrysler segnalano che le priorità della Fiat sono sempre più orientate verso la dimensione finanziaria, a cui potrebbe essere sacrificata in futuro la produzione di auto in Italia e la stessa proprietà degli stabilimenti”, si legge nel documento. “A dispetto della retorica dell’impresa capace di ‘stare sul mercato sulle proprie gambe’, va ricordato che la Fiat ha perseguito questa strategia ottenendo a vario titolo, tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Duemila, contributi pubblici dal governo italiano stimati nell’ordine di 500 milioni di euro l’anno”.(5) Giuseppe Berta, storico dell’industria in Italia, parla di un Paese “che un passo dopo l’altro dà l’idea di non saper difendere nè amministrare il proprio patrimonio industriale. Non lo abbiamo mai fatto, a differenza degli altri stati europei”. “Abbiamo dovuto attendere l’allarme su Parmalat – aggiunge – per vedere qualche tardiva resipiscenza. Attenzio31


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ne, però: non è questione di mancato protezionismo, ma piuttosto di una velocità insufficiente della nostra economia”.(6) Latitanza della politica che assume un rilievo maggiore se misurata rispetto ai cittadini-lavoratori. Valga per tutti l’analisi di scenario sottolineata da Guido Viale “Se gli operai delle imprese globali devono trasformarsi in truppe al comando dei rispettivi manager per fare la guerra agli operai di altre imprese e di altri manager globali, come dice Marchionne, questa guerra, in cui i lavoratori perderanno sempre e non vinceranno mai, non si svolgerà solo tra grandi competitor globali, ma anche tra le varie NewCo in cui si risolverà lo ‘spezzatino’ della Fiat”.(7) Uno scenario abbastanza realistico, quindi, che la politica sembra voler ignorare del tutto non considerando che ne va di mezzo la stessa coesione sociale. Il quadro europeo non cambia molto se lo si inquadra a livello comunitario. Manca una politica in grado di incanalare le forti tensioni competitive verso una armonizzazione, soprattutto dal punto di vista occupazionale. Per Jean-Paul Fitossi, economista, docente dell’Istituto di Studi Politici di Parigi, la parola chiave è ‘gestione cooperativa’. “Una gestione cooperativa delle crisi, pensata e portata avanti passo dopo passo – dice – a livello europeo. Non è utopistico: le istituzioni comunitarie, insieme con le dirigenze politiche dei singoli paesi, devono farsi carico della situazione e disporre norme e regole per uno sviluppo più ordinato e rispettoso dei diritti”.(8) Fitoussi scoprendo qui i fili di una ‘gerarchia sacra’ che vede al vertice la finanza speculativa, con il capitale di investimento nettamente subordinato, propone una alleanza tra le classi. Più o meno con la stessa formula proposta da Gustavo Zagrebelsky, la cui analisi parte dall’ambito giuridico. Il dominio della finanza speculativa sull’investimento produttivo l’aveva già scovato Claudio Sabattini in tempi non sospetti, passando però per pericoloso estremista.

Il libro dei sogni Negli ultimi decenni la strategia di crescita del gruppo Fiat ha mirato da un lato a riversare la produzione in alcuni paesi in via di sviluppo, dove era presumibile che il modello di espansione dei consumi di auto potesse replicare quello sperimentato in Italia in precedenza 32


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e dove si riteneva che i maggiori concorrenti mondiali fossero meno interessati a penetrare. Questa strategia è stata preferita all’alternativa di aggredire il mercato europeo, sia perché qui la reazione dei concorrenti sarebbe stata aspra, sia perché, come si è detto, nei mercati occidentali la domanda di auto è quasi esclusivamente di sostituzione. Anche in questo caso, come già nel mercato europeo, la scelta è stata quella di sfuggire il “mondo reale” della concorrenza, nascondendosi in paesi con modelli di sviluppo già noti e collaudati. Fiat, invece di affrontare a viso aperto il nodo della competizione sulla qualità, magari tentando di anticipare i tempi e realizzare alleanze strategiche volte verso nuove tecnologie e nuovi prodotti ha proseguito nel solco del consolidamento, senza accorgersi che intanto il mondo stava cambiando. Nel 2004, dopo qualche anno di drammatica ricerca, più che di una soluzione, comunque di un passaggio che le consentisse di non essere triturata nel processo di concentrazione i nodi vengono al pettine e il consiglio di amministrazione del gruppo, che rischia di essere trascinato nel fallimento della divisione automotive, a giugno decide per Sergio Marchionne, anche perché a maggio muore Umberto Agnelli e la famiglia non ha nessuno in grado di sostituirlo. Nel 2004 la perdita netta del Gruppo Fiat era di 1,6 miliardi di euro (due milioni di euro al giorno) e le azioni erano quotate intorno ai 4 euro (oggi sono intorno a 7). Marchionne, che era entrato nel consiglio di amministrazione nel 2003 sulla spinta dell’esposizione dell’azienda verso gli istituti finanziari, è subito accompagnato da questa aurea di salvatore della patria, che lo assiste tuttora. Il suo marchio di fabbrica è legato proprio al mondo della finanza, e cementato da una fitta rete di rapporti internazionali. A ricordarlo è Giorgio Giugiaro che lo definisce “un grande uomo di finanza non di prodotto”. “L’auto è un prodotto che si deve vendere e deve conquistare – aggiunge Giugiaro, che oggi lavora con i tedeschi della Volkswagen – non è un gioco di finanza è il gioco di fare prodotti competitivi”. Insomma, non è un uomo con le mani sporche di grasso. E lo si vede innanzitutto dalla sua ‘retribuzione’: alla voce compensi, l’amministratore delegato della Fiat incassa 3,473 milioni di euro. Ma Sergio, l’italo-canadese, e svizzero per ‘adozione fiscale’, sembra l’uomo dei tempi globali a cui associa un alto grado di versatilità cul33


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turale e professionale (filosofo, commercialista, avvocato) è passato sì per la finanza, ma si è occupato anche di imballaggi, poi di alluminio, di chimica, di biotecnologia, di servizi. Il cosiddetto rilancio della Fiat viene inizialmente impostato su sei assi, tutti abbastanza innovativi per la tradizione dell’azienda: chiusura di alcuni siti (Termini Imerese), finanza (agendo sull’indebitamento di circa 10 miliardi e con assicurazioni sul debito che nel 2009 viaggiavano su livelli doppi e tripli rispetto a quelli delle altre case automobilistiche europee), joint venture a geometria variabile (Renault, Guangzhou Automobile Group, Sollers e Tata), globalizzazione delle forniture e delocalizzazione delle produzioni, consolidamento sui mercati del Nord America e del Brasile, anche attraverso la rete di vendita di Chrysler, sempre più in competizione reciproca. L’ultimo asse arriva con il progredire della crisi economica, la fine degli incentivi e la perdita di sempre più ampie quote di mercato: alzo zero contro i diritti dei lavoratori e contro le rappresentanze sindacali. Una scelta che coincide nei tempi storici, con lo spinoff, e la relativa quotazione in borsa, di Fiat auto e Fiat industrial. Fatturato e margini operativi, però, continuano a essere il tallone di Achille dell’automotive. In attesa che ai progettisti Fiat venga qualche idea brillante sui nuovi modelli, la cui uscita è seriamente compromessa dal progressivo taglio degli investimenti (i famosi 20 miliardi si restringono sempre di più), Sergio Marchionne lavora ai fianchi i mercati azionari, spendendo a piene mani la sua immagine, e sperando nella buona stella della ripresa del mercato principalmente negli Stati Uniti, in Sud America e Russia, e poi, ma molto più in là, in Europa. In Cina i problemi continuano perché la ricerca dei partners è difficile e piena di incognite. In India, invece, si moltiplicano. Risultato, a fronte di un target di 660mila unità annue (20102014), senza i veicoli commerciali tra Russia, India e Cina, le unità vendute nel 2010 sono state meno di 50mila. Lo spin-off, la separazione tra il settore auto e quello dei camion e dei mezzi movimento terra, intanto, qualche risultato lo dà. Entrambe le società quotate distintamente in borsa hanno offerto incrementi apprezzabili già nella prima settimana di scambi (2011) a pochi giorni dall’accordo separato su Mirafiori. Il loro patrimonio complessivo è cresciuto dai 18,9 miliardi della vecchia Fiat a 21 mi34


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liardi. A questo dovrebbe seguire la collocazione in borsa della Ferrari, probabilmente presso la piazza di Hong Kong, dove riuscirebbe a spuntare un prezzo più vantaggioso. Per Marchionne, questi numeri del patrimonio sono oro che pesa il doppio perché il suo obiettivo rimane quello di arrivare alla presa totale di Chrysler entro il 2011. E nella trattativa con le banche che dovranno rifinanziare il debito verso i governi di Usa e Canada, avranno un ruolo centrale. La ‘separazione consensuale’, poi, gli consente di far sparire 2 miliardi (da 4,4 a 2,4) dal bilancio del gruppo Fiat del 2010, ripartendo per di più tale debito in modo preponderante sulle spalle di Fiat Industrial (1,9 miliardi) contro gli appena 500 milioni di Fiat Spa. Operazione che, inutile dirlo, sta appesantendo le ali del titolo in borsa. Le previsioni sugli andamenti del mercato per Fiat auto sono tutte di segno molto positivo ovviamente. Nel 2014, le immatricolazioni in Europa vengono valutate a 2,2 milioni di veicoli, con un aumento del 42% rispetto al 2009 e, per l’Italia, sebbene in una performance più bassa della media europea, ma comunque nell’ordine del 28% di aumento rispetto al 2009, fino a due milioni e mezzo di auto. Tutto molto aleatorio, così come l’obiettivo del fatturato Chrysler di un miliardo e mezzo nei mercati extra-Nafta. L’obiettivo della produzione e vendita di 6 milioni di auto nel 2014 da parte del gruppo, appare, a detta di molti osservatori, di realizzazione molto difficile, così come sembra poco credibile che in Italia si riusciranno mai a produrre 1,4 milioni di vetture, di cui 280.000 Panda a Pomigliano: anche se Marchionne fosse in buona fede nelle sue promesse, le condizioni del mercato non sembrano poterlo permettere. Quindi il gioco appare, per alcuni versi, falsato alla radice. Un milione e mezzo di auto, si badi bene, destinate all’esportazione (300mila in Usa) e quindi, a giudicare dal profilo dei mercati destinatari, a prezzi fortemente concorrenziali. I modelli? Sempre i soliti.

I veri punti di forza Nel disegno di Marchionne, dunque, il ramo più importante del gruppo Fiat continua a rimanere quello brasiliano, dove la Fiat è tra i produttori il numero uno, precedendo, di poco, Volkswagen e General Motors. Lì il mercato, secondo Fiat, potrebbe raggiungere i 4,3 35


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milioni di unità nel 2014. Il suo valore è assolutamente strategico. “Il suo contributo ai risultati del Gruppo continuerà a essere vitale”, si legge nel piano varato nell’aprile del 2010. Lo stesso tipo di crescita è attesa nel resto dell’America Latina, dove la domanda totale potrebbe raggiungere i 2,8 milioni di unità annue. Non a caso, per la fabbrica di Betim alla periferia di Belo Horizonte, che è una delle più grandi fabbriche automobilistiche del mondo, la Fiat ha stanziato investimenti che consentiranno un aumento della capacità produttiva fino a un milione di unità. Un’altra fabbrica sarà costruita nello stato di Pernambuco per 200 mila unità. Con un milione e duecento mila auto, il doppio di quelle costruite nel 2010 in Italia, Fiat consolida il suo primato sul mercato brasiliano. Se i due terzi del piano produttivo sono affidati alla Chrysler, con la quale Fiat intende sia aumentare il numero complessivo di vetture prodotte sia aumentare il numero di vetture ricavate da una singola piattaforma, e al ramo brasiliano della Fiat, all’Europa non può che spettare un ruolo di supporto con diverse variabili. La Polonia consoliderà la sua posizione con una produzione di 600.000 unità a Tychy. Il “progetto Serbia”, per il quale esiste un accordo col governo serbo che conferisce i due terzi della proprietà a Fiat e un terzo allo Stato, prevede a regime la produzione di 200.000 unità negli stabilimenti ristrutturati della vecchia Zastava. Altre 100.000 unità sono in produzione a Bursa in Turchia. Ciò che rimane del grande progetto globale Chrysler-Fiat potrà essere distribuito fra gli stabilimenti italiani, a seconda delle circostanze e delle convenienze. Parlando dei “veri punti di forza” non si può non fare un passaggio sulle relazioni politiche che la Fiat, e Sergio Marchionne, ha mantenuto negli anni e che oggi si stanno traducendo in “corsie preferenziali” nella ricerca di nuovi mercati e nella difese delle posizioni già conquistate. Come dimostra la vicenda americana, il mantenimento di una ‘partnership’ dello Stato rimane fondamentale. “L’ultima svolta di Marchionne consiste nel far diventare la Fiat Auto – scrive Massimo Mucchetti in un articolo del 29 giugno 2010 comparso sul Corriere della Sera, “Sotto il maglione un po’ di guai” – un campione plurinazionale con capitali forniti dagli Stati che verranno rimborsati se tutto va bene o saranno convertiti in azioni (è già capitato con le banche) se servirà”. Stesso discorso per quanto riguarda il “polo Est”, ovvero la Russia “e dintorni”. 36


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Dei tanti ponti di Belgrado quello che senza dubbio tutti gli imprenditori del mondo vorrebbero attraversare porta in Russia, dritto verso un mercato di quasi 200 milioni di consumatori. Ad annullare la distanza e le difficoltà logistiche c’è il fatto che l’attraversamento non prevede balzello e garantisce rapporti commerciali con un’area molto interessante. A fare da tramite c’è la Serbia, appunto, grazie a un accordo di libero scambio con la Federazione russa. Fiat è l’avanguardia di un piccolo esercito di delocalizzatori italiani che muove un giro di affari di 2 miliardi di euro l’anno, destinato a crescere in maniera esponenziale una volta che l’investimento Fiat entrerà nel pieno regime produttivo. La Siepa (agenzia serba per gli investimenti) ha previsto addirittura che Fiat sarà un volano che porterà 30mila posti di lavoro tra diretti e indiretti nel settore auto, occupati in aziende di componentistica che non lavoreranno solo per Fiat. Per il momento, però, sono solo lacrime e sangue. L’attrattività della Serbia è fatta di tanti elementi: salari bassi, mediamente intorno ai 350 euro, piano di incentivi fiscali e finanziari che è valso al paese il primo posto nella classifica della Banca mondiale in materia di riforme economiche per attrarre investimenti stranieri, terreni forniti gratis a chi stabilisce nuovi impianti produttivi e i contributi del governo a fondo perduto per ogni lavoratore assunto a tempo indeterminato (dai 2mila ai 10mila euro, a seconda della portata dell’investimento – minimo un milione di euro – e del numero di impiegati – minimo tra 10 e 50), esenzione dalle tasse per dieci anni se si investe in capitale fisso almeno 7,5 milioni di euro e si impiegano oltre 100 addetti a tempo indeterminato. C’è di più ed è il suo posizionamento geopolitico, come porta, storica, tra oriente e occidente. L’accordo di libero scambio tra la Federazione russa e la Serbia assicura un trattamento favorevole per la merce oggetto dell’interscambio. Per non pagare oneri doganali ovviamente sono previste delle condizioni. E cioè: il paese d’origine della merce deve essere la Serbia, è obbligatorio l’acquisto e la fornitura diretti e infine la fornitura deve essere accompagnata dal certificato di origine. La musica del ‘mercato assistito’ è internazionale. Non cambia se ci si sposta dagli Usa alla Russia: nel 2010 lo Stato ex-sovietico ha stanziato 20 miliardi di rubli (700 milioni di dollari circa) per gli 37


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acquisti centralizzati statali di autovetture, sarà potenziato il programma di crediti sovvenzionati da utilizzare per l’acquisto di auto (nei primi nove mesi del 2009 questo programma ha propiziato la vendita di 40mila vetture). Altri dieci miliardi di rubli di fondi pubblici saranno stanziati per finanziare il programma di rottamazione di vetture vecchie, che non potrà non stimolare la domanda. E in più ci sono in ballo le cosiddette “zone speciali”. Per la Fiat si parla di Lipetsk, un distretto industriale a sud di Mosca, sviluppatosi all’ombra della Indesit. Per ottenere tutto questo, però, la Fiat deve produrre almeno 300mila veicoli l’anno, pressappoco come lo stabilimento di Melfi. Attualmente in Russia circolano circa 18,5 milioni di auto prodotte prima del 1999. Di queste, nel 2010 il piano statale di incentivazione dovrebbe indurre a rottamarne non più di 200mila. Alla base della ritrovata crescita del mercato ci sono una maggiore stabilità, l’apprezzamento del rublo, l’aumento del l’ammontare del credito bancario erogato per l’acquisto di automobili e la contestuale diminuzione dei tassi d’interesse. Anche se Fiat ha avuto qualche problema con Sollers, finita nelle mani di Ford, il presidio a Putin è lontano dalla smobilitazione. Il mercato russo è dato in strepitosa crescita al pari di Cina e India. Ma la Fiat deve fare presto perché entro il 2020, con l’entrata della Russia nel Wto le barriere doganali saranno uguali per tutti. E allora per Sergio Marchionne si riproporrà il nodo della concorrenza a pari condizioni.

Fiat Americana Nell’aprile del 1910, la Fiat, nell’ottica di aumentare la propria quota di mercato negli Usa, avviò la produzione di automobili, precisamente a Poughkeepsie, nello Stato di New York. Le automobili costruite lì erano identiche a quelle prodotte a Torino, ma questo consentì alla Fiat di evitare il pagamento del dazio del 45%, imposto a tutte le automobili d’importazione. In quel periodo, negli Stati Uniti, possedere una Fiat era addirittura un motivo di vanto: infatti, per acquistare una Fiat servivano almeno 3.500 dollari, quando, per intenderci, per una Ford T ne bastavano meno di mille. Una 35 HP a quattro cilindri con albero di trasmissione (una raffinatezza rispet38


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to alla catena) costava dai 4.500 ai 5.500 dollari, una cifra enorme (più o meno equivalente a quella necessaria oggi per una Bentley), giustificata da contenuti di ‘assoluta eccellenza’, come teneva a specificare la pubblicità dell’epoca.(9) Dopo un secolo, quindi, la Fiat torna negli Usa. È lì che la maggioranza degli analisti prevede la prima manifestazione del disgelo del mercato dell’auto, mentre in Europa la situazione continuerà a stagnare ancora per un lungo periodo. È stato lo stesso Sergio Marchionne a confermare che la Fiat punta a raddoppiare il suo fatturato nel 2014, al termine del piano attuale, a circa 64 miliardi di euro, con la possibilità di superare 100 miliardi grazie all’effetto dell’integrazione con Chrysler, che nel mentre in Usa sta riconquistando piccole quote di mercato ma solo grazie a sconti e incentivi. Il raddoppio delle vendite di Chrysler è la pedina fondamentale del piano Fiat. Passare da circa 700mila auto vendute a un milione e 600mila vuol dire per la Fiat conquistare l’ultimo miglio, che le darà la maggioranza. Ma il puzzle è fatto anche di altre tessere. Nel 2010 la Chrysler ha prodotto all’incirca un milione di auto (e veicoli leggeri) mentre a metà di questo decennio ne aveva prodotte più di due milioni. Se è stato un matrimonio, tra Fiat e Chrysler è di quelli maturi, da terza età, quando occorre più che altro sorreggersi l’un l’altro. Una delle parole chiave dell’unione è ‘risparmio’, attraverso uno studio attento delle sinergie, a cominciare dalle ‘piattaforme produttive’. Risparmio è una parola utile soprattutto a navigare nei tempestosi mercati delle borse internazionali, e dei mercati del credito, piuttosto che a definire un convincente piano strategico imprenditoriale e industriale. Basta una lettura anche superficiale degli obiettivi formulati da Sergio Marchionne per rendersene conto. Innanzi tutto il raggiungimento di un’adeguata massa critica. “FGA e Chrysler insieme saranno in grado – si legge – di produrre 6 milioni di veicoli entro il 2014, che rappresentano un livello critico per essere un player competitivo globale nel settore automobilistico”. Il secondo elemento chiave è relativo “alla condivisione di risorse e impegni”. Soprattutto per quanto riguarda l’allocazione del capitale, lo sfruttamento il potenziale della rete distributiva, il know-how tecnologico sull’intera gamma di prodotti. L’integrazione offrirà anche 39


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significative sinergie nell’area degli acquisti, che è la cosa che più interessa a Fiat, attraverso un aumento del potere contrattuale “e raggiungere nel 2014 un ammontare annuo di acquisti di materiali diretto stimato in 60 miliardi di euro”. Nel 2012 la Fiat lancerà sul mercato americano la 500 elettrica, prendendo 10mila dollari ogni auto prodotta e venduta lì. Inoltre, sempre negli Stati Uniti il Lingotto ha in ballo un prestito da 3 miliardi di dollari legato alla ricerca sulle tecnologie a basso impatto ambientale con il Department of Energy, il ministero dell’Energia Usa. Metano e auto ibrida sono i due filoni che la Fiat potrebbe sviluppare. Il terzo step dell’acquisizione del pacchetto azionario in cambio della tecnologia per automobili meno inquinanti previsto dall’accordo con Chrysler è stato raggiunto con un’auto ecologica in grado di percorrere 40 miglia con un gallone di benzina. Intanto, però, gli altri costruttori stanno investendo miliardi di tasca propria in prodotti maggiormente ecocompatibili. Il caso più eclatante riguarda Renault, che ha investito 4 miliardi di euro per sviluppare la sua gamma di auto elettriche. Marchionne tuttavia rimane scettico e ribatte: “La scelta di Renault deriva anche dall’ampia disponibilità in Francia di energia elettrica prodotta da centrali nucleari, che non c’è né in Italia né in America” (vedi più avanti paragrafo sulla mobilità sostenibile). L’operazione Chrysler risulta molto appetibile per Fiat soprattutto se si tiene conto della rete di vendita, che tornerà utile anche per lo sbarco del marchio Alfa Romeo, previsto sempre per il 2012. Marchionne, comunque, vuole darsi una possibilità con l’Alfa Romeo, sicuro che gli americani apprezzeranno il prestigioso marchio. È per questo che ha dichiarato di volersela tenere. Ma la scalata a Chrysler ha la priorità su tutto e comporterà molti sacrifici se le banche non si faranno convincere dalle ‘magnifiche sorti e progressive’ di Fabbrica Italia. E visto che è già da tempo sotto le mire di Volkswagen, che in questo modo integrerebbe alla grande la sua gamma nei segmenti superiori, la sua vendita non è esclusa del tutto. Del resto, il rilancio di Alfa Romeo, per quanto favorito da una rete di vendita che ha già manifestato un dichiarato interesse, è costoso: per portare la produzione a 500mila unità come prevedono i piani, occorrono almeno 2 miliardi. La Giulia e la fu40


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tura offerta di gamma alta richiedono, a testa, investimenti per almeno 800 milioni. La veloce scalata di Fiat in Chrysler tanto da anticipare di almeno sei mesi il raggiungimento del 51% ha sfruttato i modesti incrementi nelle vendite dell’azienda Usa sul mercato americano. Il debito di più di sette miliardi, però, rimane. Sergio Marchionne l’ha solo rifinanziato a condizioni più favorevoli rivolgendosi a un nutrito pool di banche. E per immettere maggiore fiducia nel mercato borsistico si spinge anche a dichiarare “ulteriori call option”, compresa una un’opzione per acquistare le quote detenute dal Tesoro americano (l’8,6%) esercitabile per 12 mesi a partire dal rimborso sui debiti e un’altra opzione per rilevare fino al 40% della quota detenuta dal trust Veba ed esercitabile dal primo luglio 2012 fino al 31 dicembre 2016 per un ammontare pari all’8% nell’arco di sei mesi. Mirabilia della finanza internazionale. Uaw, il sindacato americano dell’auto, detiene a oggi il 68% delle azioni ordinarie Chrysler. Quando tentò la stessa operazione con Gm alla fine riuscì a incassare 2,9 miliardi di dollari di plusvalenze. Del resto, ha messo sul piatto salari dimezzati per i nuovi assunti, tagli a pensioni e assistenza sanitaria, impegno vincolante a non fare una sola ora di sciopero fino al 2014. “Questo sindacato-azionista considera impresentabile per i suoi iscritti un progetto strategico – scrive Federico Rampini – che conceda ai metalmeccanici italiani garanzie e rigidità abbandonate qui negli Usa. La via delle NewCo, l’addio al contratto nazionale, sono strappi traumatici alla luce della cultura sindacale italiana, della storia del nostro movimento operaio, della nostra tradizione politica. Ma ormai la Fiat Auto è in gran parte una storia americana, le cui regole si decidono lì”.(10) Per Aris Accornero siamo in presenza di un déjà vu, come tanti altri fotogrammi di questa vicenda. “È un ritorno agli anni Cinquanta”, dice il sociologo, passato per le purghe vallettiane proprio in quel periodo. “Oggi è come mezzo secolo fa – aggiunge – è l’America che decide le traiettorie delle relazioni industriali”. Tuttavia, ci sono due fatti sostanziali, messi in evidenza dai diversi commentatori, sull’“emigrazione” di Fiat verso l’altra sponda dell’Atlantico: le condizioni poste da Obama a Marchionne per avere i sette miliardi di prestiti (come sottolinea Giuseppe Berta, la Repubblica, 29 di41


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cembre 2011), il ‘nuovo corso’ della famiglia Agnelli, che non sembra per niente propensa a ingaggiare una battaglia per la ‘torinesità’ del Lingotto, anzi. (11) Gli Agnelli non sfornano più dirigenti da anni ormai. Quindi, tanto vale tirare a campare e lasciare che Torino vada incontro da sola al suo destino.

Riconversione e mobilità sostenibile Quando si parla di automotive si tende a dimenticare con una certa superficialità di allargare il discorso sulla mobilità, come se il prodotto-auto non c’entrasse nulla con tutto ciò che riguarda il trasporto di cose e persone. Si tratta di un vero e proprio paradosso che rivela la schizofrenia del cosiddetto mondo degli esperti, piegato alle esigenze dei maggiori produttori del settore quando si tratta di contribuire alla formazione dell’opinione pubblica. In Italia, in modo particolare, caso quasi unico nel mondo, il dominio incontrastato del monopolio Fiat non ha fatto mai nemmeno venire il sospetto che quattro ruote potessero voler dire mobilità più in generale, e mobilità sostenibile. Eppure, se inquadrato dal punto di vista tecnologico, il settore della mobilità mostra delle forti continuità, soprattutto per quanto riguarda l’aspetto della motorizzazione. Non è un mistero per nessuno che la stessa Fiat fino a qualche anno fa aveva le mani in pasta nei vettori del trasporto ferroviario, per esempio. Poi, per le esigenze legate al risanamento vendette tutto ai francesi. Nel tempo, questa sorta di chiusura mentale ha di fatto introdotto una grande anomalia che ha portato al peso eccessivo del trasporto privato rispetto a quello pubblico (35 milioni di auto con un tasso di motorizzazione di 2 auto ogni tre abitanti e un tasso di utilizzo del 65%) e alla mancata apertura di nuovi orizzonti per quello che riguarda il sistema della mobilità a partire dall’intermodalità. Questo vuol dire che oggi Sergio Marchionne può affermare che se l’auto elettrica non rappresenta una sfida importante nel nostro Paese è perché manca il contesto tecnologico e strutturale adeguato. La struttura fortemente monopolistica ha irrigidito la risposta dell’Italia alla crisi, con il risultato che gli errori della stessa Fiat, scarsa di risorse per gli investimenti e colpevole di alcuni dramma42


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tici fallimenti nelle scelte manageriali, si sono trasmessi a tutto il sistema precludendo di fatto la ricerca di alternative. Intanto, si accumulano ritardi su ritardi e la parola riconversione è completamente ignorata dal vocabolario italiano della mobilità. Guido Viale, ne dà un quadro abbastanza sconfortante. “Ci sono delle produzioni in cui la Fiat ha la possibilità di valorizzare il know-how e gli impianti che ha già, perché aveva iniziato a realizzarle già quarant’anni fa. In particolare, ho messo l’accento sugli impianti di cogenerazione micro e di media capacità. Gli impianti di cogenerazione micro sono un’invenzione di un ingegnere della Fiat che quarant’anni fa ha messo a punto un’apparecchiatura che si chiamava ‘Totem’, che era in grado di utilizzare fino al 98% del potenziale energetico dei combustibili fossili, combinando insieme produzione di energia elettrica, riscaldamento e potenzialmente anche raffreddamento e condizionamento. Un tipico impianto che può funzionare per soddisfare le esigenze energetiche di un condominio o di una piccola fabbrica. Questo progetto è stato prima realizzato e poi abbandonato e infine venduto come molti altri progetti di avanguardia. Per esempio il Common Rail, un dispositivo che oggi viene utilizzato da tutti i motori diesel del mondo. La cosa curiosa è che questo progetto è stato ripreso dalla Volkswagen, che sul mercato automobilistico ha una forza infinitamente maggiore della Fiat e un avvenire più solido e che però, per colmare alcuni vuoti produttivi dovuti al ridimensionamento del mercato automobilistico, sta destinando una parte dei suoi impianti a realizzare l’impianto di cogenerazione che la Fiat aveva progettato, per diffonderne nei prossimi anni 100.000 esemplari in Germania. L’altro settore su cui sicuramente gli stabilimenti della Fiat potrebbero essere riconvertiti è quello delle turbine eoliche o marine. L’Italia è il paese che nell’ultimo anno ha accresciuto maggiormente la sua quota di energia eolica, anche se, come abbiamo visto, non sempre in maniera lineare e pulita. Eppure tutte le turbine installate in Italia sono prodotte all’estero. Terzo: gli impianti di cogenerazione di media potenza non sono nient’altro che lo sviluppo dei motori marini, su cui la Fiat aveva un discreto know-how nella sua sezione Grandi motori. Anche questi li importiamo tutti dalla Germania, mentre potremmo produrli in Italia. Non è una conversione generale dell’economia italia43


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na, ma negli stabilimenti in crisi, che non hanno avvenire, bisognerebbe cominciare a pensare a opportunità di produzione che hanno un mercato potenziale o reale. Sicuramente richiedono un diverso sistema di gestione e un management che non è quello attuale della Fiat”.(12) Quanto sia lontano un discorso sulla riconversione dell’industria dell’auto e della mobilità sostenibile lo testimonia anche la politica del sostegno pubblico, che nell’autotrasporto è stato di cinque miliardi di lire mentre al resto sono andate le briciole. Per la produzione dei veicoli sono impiegati 130mila addetti mentre per gli autobus circa 10mila, 15mila nel trasporto ferroviario e tramviario e 13.500 nelle due ruote. “Se si innesta un circolo virtuoso – sostiene Anna Donati – anche la spesa delle famiglie che oggi destinano 90 miliardi ogni anno per l’uso dell’automobile potrà essere riconvertita verso servizi di trasporto alternativo, aumentandone la redditività”.(13) I conti vanno fatti, non solo sul lato del prodotto, ma da un punto di vista sistemico perché solo così si ha la visione reale del valore delle scelte da fare in un’ottica di ‘chi meno inquina meno paga’. In Italia, con un consumo specifico medio attuale di 150 Wh/km e suscettibile di essere migliorato nei prossimi 10-15 anni (-30/40%) per ogni milione di veicoli elettrici (il primo milione fra 10 anni...) che percorresse 15000 km è necessario meno dell’1% dell’energia elettrica attualmente consumata in un anno, quantitativo ampiamente sinergico e alimentabile con le fonti rinnovabili, anche senza incentivi esorbitanti. Secondo un recentissimo sondaggio (Global e-Vehicles Survey, condotta da Deloitte), l’auto elettrica rientra nei propositi di acquisto del 74% degli italiani, specie dei giovani che vivono in città e dei più attenti all’ambiente. La domanda per i veicoli elettrici è molto alta, il 2% del mercato, ovvero 30-35 mila vetture. Al momento di decidere, però, è la prudenza a dominare a causa di reticenze comprensibili relative all’autonomia, alla comodità e al costo di ricarica. Secondo stime dell’Action COST 302 condotte nel passato decennio (COST è l’organismo dell’Unione Europea che si occupa della cooperazione scientifica e tecnica), sarebbe tecnicamente possibile, prescindendo dai costi e dagli altri vincoli posti dal mercato, inserire in Europa occidentale almeno 6 milioni di autovetture elettri44


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che (il 7% del parco totale), e un milione di furgoni elettrici (il 12% del corrispondente parco totale); tali valutazioni assumevano come dati di partenza i veicoli caratterizzati da una percorrenza giornaliera contenuta sistematicamente in 50 km , e la possibilità di accesso a un punto di ricarica. La conclusione di uno studio dell’IVT (Institut fur Angewandte Verkehrs und Tourismusforshung) è che il potenziale teorico di sostituzione di veicoli convenzionali con un veicolo elettrico avente autonomia di 100 km è stimabile nel 25% del parco totale, molto più di quanto valutato dalle analisi del COST 302. Dato che appare in linea di principio del tutto attendibile se si considera che in Europa il 60% dei guidatori percorre meno di 30 chilometri al giorno e più del 90% non supera i 100 chilometri ; e che ogni anno in Europa 400 mila persone acquistano una seconda o terza auto per percorrere sistematicamente meno di 70 chilometri al giorno. Infine, secondo una valutazione di Morgan Stanley, gli investitori stanno sottovalutando il potenziale di crescita del mercato delle auto elettriche. Morgan Stanley osserva che il prezzo del petrolio dovrebbe continuare ad aumentare e che il Governo statunitense sta incrementando i suoi sforzi per sostenere il passaggio dal motore a combustione interna. Morgan Stanley stima che la quota delle auto elettriche raggiungerà nel 2020 circa il 5,5% dell’intero mercato globale e supererà nel 2025 il 15%. Cifre abbastanza compatibili con quanto sostiene Deloitte che parla di un mercato potenziale del 10% tra dieci anni. “Non ci sono dubbi che i veicoli elettrici rappresentino il futuro dell’industria dell’auto”, dice Dave Districar, responsabile produzione di Deloitte UK. “Comunque, anche se si registra un crescente interesse dei consumatori verso questo settore, le attuali offerte del mercato generalmente non rispondono alle loro aspettative in termini di autonomia, tempi di ricarica e prezzi di vendita”.(14) Non è che la mobilità sia un argomento così estraneo ai manager del settore. Secondo un recente sondaggio di Kpmg, condotto su un campione di oltre 200 top manager, il problema principale è la sovracapacità produttiva sia in occidente (Usa, Germania e Giappone) sia in oriente (Cina e India) nei prossimi cinque anni. Da questo deriva la progettazione di nuovi modelli che guardino al tema della mobilità in modo nuovo. Cioè interpretare il “mercato di sostituzio45


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ne” anche sul lato della pianificazione urbana. “In futuro si avranno sempre di più modelli pensati per utilizzi specifici (city car, vetture per i pendolari, fuoristrada, tempo libero) con notevoli impatti per le politiche di marchio delle case automobilistiche”, si legge nel commento al sondaggio. Non ci sarà un’auto diversa per ogni occasione, ovviamente, ma vere e proprie “piattaforme integrate per la mobilità”. E quindi soluzioni per la mobilità che prevedano il veicolo di proprietà ma anche quello in affitto, quello condiviso, un certo tipo di mezzo pubblico, e così via. Alcune aziende come Dailmer, Peugeot e Bmw stanno andando in quella direzione. Senza contare che per la stragrande maggioranza degli intervistati il tema della efficienza energetica resta prioritario, così come quello della sicurezza.

Note Roberto Romano, “Un’industria indebolita da trasformare in fretta”, il manifesto, 28 gennaio 2011. (1)

(2)

idem.

Lia Fubini in “Grosso guaio a Mirafiori”, inserto de il manifesto del 22 novembre 2011. (3)

(4)

ROMANO, art. cit..

(5)

la lettera è consultabile anche su www.sbilanciamoci.info.

(6)

http://fiatchryslerblog.blogspot.com.

Guido VIALE, “Italia fabbrica cacciavite della Fiat”, il manifesto, 10 febbraio 2011. (7)

46

(8)

la Repubblica, 6 gennaio 2011.

(9)

www.quattroruote.it, 15 aprile 2011.

(10)

la Repubblica, 6 dicembre 2010.

(11)

la Repubblica, 24 dicembre 2010.

(12)

intervista a Radio Radicale del 28 luglio 2010.

(13)

il manifesto, “Grosso guaio a Mirafiori”, op. cit..

(14)

http://thecityfix.com.


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