Capitolo 1 Poetica
Un pensare sartriano Nulla di ciò che accade all’uomo può essere detto inumano e l’uomo è sempre responsabile di quello che accade e di quello che fa: se non si sottrae alla guerra, con la diserzione o il suicidio, quella guerra è la sua guerra, liberamente scelta, anche se per mollezza o debolezza davanti all’opinione pubblica (parafrasando un pensiero sartriano). Bellezza si interrogò con ossessione sulla sua sorte riconoscendo a “Qualcuno” la responsabilità di aver deciso per lui una sorte contraria. Perché, dunque? Un atto di debolezza o di autocommiserazione così diffuso, così proprio dell’uomo? Bellezza sapeva comunque, sartrianamente, che “l’inferno sono gli altri”, che l’“avversario-il Male” è consustanziale e ontologico alla condizione umana, all’uomo tecnologico in modo particolare. Eppure non poteva mancare di pensare o di parlare di Dio (lo si dirà più volte nel corso di questo libro), sia pure nelle versioni del Cristo o del Budda di Siddharta. E forse anche per questa ragione, una ragione sartriana, il suo amore finiva sempre nello scacco e nella sconfitta.1 Sartriano, ancora, quel sentirsi “avventizio” di Bellezza nella realtà del mondo? La risposta può essere affermativa se solo pensiamo quanto dal poeta sia stata sentita senza senso e gratuita l’esistenza dell’uomo, quanto decisamente contingente e apparente la fenomenologia dell’esistente. Si intende allora perché può dirsi “leopardiano” il sentire del poeta romano, perché leopardiana quella consapevolezza del vuoto, del Nulla cosmico, nel quale tutto è risucchiato, perché l’esclusione di un Essere necessario (aristotelico), di una metafisica teleologica, dalla storia della Vita universa.
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- Altro tema sul quale si tornerà diffusamente nella “lettura” diacronica delle opere. In “Turbamento”, in una nota a pag. 135, Bellezza scriverà: “Ho bisogno di realtà, di verità, e in primis sapere se Dio c’è…”. 11
Si spiega perché il poeta diceva di sé “Io sono l’Innominato”2, mentre guardava con lucida consapevolezza passare ad uno ad uno i suoi giorni e li vedeva naufragare in un mare cristallino che non bastava a dare senso al Passato e al Presente. Era scacco, quindi, anche quel tentativo del poeta - tentativo di ogni uomo - di farsi Dio, l’Innominato-Innominabile, perché tutto, comunque, avviene nell’ombra opaca e insondabile del Mistero. E sartriano, infine, sembra quella opposizione-negazione di Bellezza al mondo della plastica suicida, al mondo che tutto consuma e divora condannando l’uomo alla solitudine totale, all’alienazione, alla fenomenologia della serialità che non unisce, che non aggrega, a un mondo che manomette, uccide, sradica la vecchia strada panoramica di Grecia Grande per consentire al “Traffico Perenne” il suo folle rituale e mentre nessuno piange, nessuno si dispera. L’atomismo esistenziale, la solitudine tragica dell’uomo contemporaneo, annullato e sommerso nelle folle formicolanti e anonime delle metropoli, era specularmente rappresentata dalla vita sessuale, omosessuale, di Bellezza, una sessualità vissuta, per ammissione dello stesso poeta, in condizioni di frustrazione avvilente, di degrado sterile e infelice.3
La sua diversità Nulla, benché Dario fosse un intellettuale sensibile e multiforme, di quella eleganza e cordialità e coralità che dovette caratterizzare il tiaso delle comunità di Lesbo ove la musica e la danza, il culto rituale di Afrodite e le Muse creavano atmosfere magiche e favorivano rapporti d’amore. Nulla della grazia, della raffinatezza e del buon gusto di quelle fanciulle lidie o lesbie o di quegli amasi giovanetti che allietavano le morbide coltrici degli aristocratici di Mitilene o di Atene e, più tardi, di Roma o di Alessandria. Il mondo quotidiano di Bellezza non fu certo aristocratico: i giovanetti “amati” dal poeta passavano come meteore, erano certamente, di per se stessi, destinati a passare, a sparire riassorbiti nei sudici ambienti della prostituzione e dei marchettari. A differenza degli amori lesbi o di Alceo o di Catullo che persistevano tenaci nella dimensione della memoria, sempre rassicurante e, 2 3
- “L’Avversario-Congedo”, Il Nuovo Specchio-Mondadori, pag. 82. - Quello del sesso, come si vedrà, è il tema centrale di tutta l’opera di Bellezza. 12
per così dire, eternizzante, quelli di Dario sfiorivano e vanivano “come per acqua cupa cosa grave”. E questo perché Bellezza ebbe una strana corrispondenza con il suo corpo, uno strano rapporto, conflittuale certamente e carico di tensioni, di sensi di colpa seguiti da improvvisi trasalimenti e migrazioni nelle zone del sesso più coinvolgenti e deliranti. Bellezza si è sempre sentito “ospite” del suo corpo. Si trovava, per così dire, dimidiato, separato, in un rapporto dialettico con quella parte di sé fatto di sensi e di sesso, di gesti e di moti. Il suo corpo, come fantoccio afflosciante su di sé, cascante per gravità verso il basso, oggetto di amore e di odio, lo ospitava, viaggiava con “l’ospite Dario” verso “lo sterminato abisso” in cui sempre più sprofondava per fermarsi un giorno, vecchio ed insano, sulla soglia del Mai: “Penso alla vita trasparente e severa di mattina alzando le ossa nel cuore crepato dall’ansia; e potrei morire disgregato, addormentarmi precipitare nel vuoto della Peste, continuando a macerare i giorni passivo ospite di un corpo. Finora ho vissuto, bene o male, non importa, né mi rassegna l’eventualità livida di non chiudere la porta al vento del domani. Ma forse la vita attenta ad una incolume saggezza, invece che crescere verso uno sterminato abisso in cui sempre più sprofonda lucente solitudine non si placa. Sarò vecchio e insano fino alla soglia del Mai”.4
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- In “Proclama sul fascino”, Mondadori Ed., pag. 30, 1996. 13
Ma l’ospite di cui parla il poeta potrebbe individuarsi in una presenza spirituale, un’alterità dal corpo materiale, che immateriale “vive” male e soffre nel corpo come in una prigione? E’ l’anima (immortale)? Non è facile dirlo, ma dietro il velame dell’ambiguità semantica propria del parlare in versi, potremmo individuare probabilmente quella somma di facoltà che chiamiamo “spirito”. Nelle parole del poeta, peraltro, accennata con pudore spesso ricercato, quasi in un sussurro, si rinviene la nostalgia di un passato non remoto: e la nostalgia è sentimento del vivere, la sua genesi è nel vissuto sentimentale o almeno nell’emozione di ascendenza epicurea, se è vero che il piacere e il dolore, in ultima analisi, furono norme di condotta poetica per un uomo ai margini della logica corrente. E quando Dario chiama “carcasse di ingenuità” l’addio ai cuori e agli amori, benvenuti e adorati, tradisce subito dopo la sua anima insoddisfatta paventando la minaccia del vuoto che oggi incombe sui cuori e sugli amori. Non è solo contraddizione o antinomia di un poeta in stato di scissione interiore: è qualcosa di più, che investe le ragioni dell’esistenza. “Addio cuori, addio amori foste i benvenuti, gli adorati ascoltati meno per non intrecciare meschine figure, o suicidi. Così si scriveva una volta: carcasse di ingenuità per volare alto, sacrificare al nemico, infinito. Oggi tutto ha perso senso senza tregua minaccia anche voi amori, anche voi cuori”.5 Si tratta, come si vede, dell’eterno dolersi col tempo che tramonta, col sole che, compiuto il viaggio, dopo lo zenit declina e s’avanza la Notte con le tenebre e l’uomo, solo, avverte tutto intero, non senza un brivido, il Mistero dell’essere. Sentimenti antichi, si dirà, che già furono dei poeti dell’immaginazione e che cantarono la diversità sessuale, ma nel nostro, come già accennato, nulla di antico nel rapporto omosessuale con i giovanetti di piazza Navona: l’omosessualità arcaica
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- In “Proclama sul fascino”, op. cit., pag. 33. 14
era vissuta all’interno di una dimensione “pedagogica” che poneva in comunicazione il maestro con l’allievo: Bellezza non volle mai chiamarsi maestro. L’essere maestro, o il considerarsi tale, presuppone il possesso e l’esercizio di certezze, di verità radicate, e presuppone la comunicazione con chi si attende una catechesi, un percorso da fare insieme o una resurrezione; e presuppone nel maestro una metanoia per il vissuto, una speranza di immortalità metafisica che Bellezza si ostinò a negare fino alla fine.
La lirica e l’estetica Questa, presumo, la ragione per cui le sue liriche, se grondano di “amore” per le “cose”, l’esistente, non si ritrovano mai sul registro del didascalico, non assumono quasi mai il tono oracolare, pedagogico, o sentenzioso. Si ha semmai l’impressione di una continua invettiva contro qualcuno o qualcosa, un urlo che si fa parola acerba e aspra, insolenza e provocazione. Quanto di oscuro e di ermetico è nella sua sintassi è dovuto al frangersi della parola, della logica formale. Si tratta quasi sempre di “rime petrose”, grondanti ostilità e polemica. E’ difficile perciò parlare di “lirica” nei componimenti di Bellezza, almeno secondo le definizioni canoniche che della lirica si danno. E forse non conta nemmeno tentare inquadramenti diversi: poeta civile? Poeta d’amore? Arguzia e satira nei suoi versi? Appare tuttavia evidente che si tratta quasi sempre di brevi, rapidi teoremi argomentativi dominati dalla Ragione, peregrinazioni nel Pensiero, rese con evidenza icastica, con sequenze di lessemi apparentemente liberi da legami logici e sintattici. Si tratta di “schegge”, di simboli grafici e fonetici quasi sempre assunti senza volontà musicale: nessun tributo da parte di Bellezza al “melos” dei poeti, nessuna melopea nel suo orizzonte estetico. Un’eccezione: un epicedio per due donne morte e di cui si dirà; questo certamente perché dominante nell’ispirazione di Bellezza fu il tema della Morte e del disfacimento di ogni cosa, il tema del nulla e del vuoto, del tempo onnivoro e impietoso. Non c’è spazio per il pathos o per la commozione: sono, questi, sentimenti o affezioni dell’anima che sorgono dov’è legame, dov’è relazione affettiva, dove il presente è nutrito di amore in attesa del futuro e si è presenti alla Speranza, alla Pietà solidale: il mondo di Dario fu invece (per scelta o per condanna?) pulviscolo atmosferico o radioattivo, insieme di particelle cieche e sorde liberate dalla deflagrazione 15
irresistibile dell’Uomo che, privato di se stesso, è meteora impazzita nella solitudine oscura degli spazi astrali. Anche per questo, forse, si avverte nelle riflessioni di Dario come un’aura angusta, come un ripiegarsi di continuo sul tradimento del sesso e non si profilano orizzonti tematici più ampi e aperti. Non era, naturalmente, povertà culturale o provincialismo di sapere; si trattò però di ossessioni e fantasmi poetici che si imposero e monopolizzarono la comunicazione del poeta.
Varchi e uscite Come tutti i prigionieri, anche Bellezza cercò dei varchi, cercò vie di uscita. E sembrò additare e ritrovare la “salvezza” ne: “lo sguardo esitante di un bambino festante al suo cane adorato”.6 Nella regressione all’infanzia dallo sguardo esitante, dunque, e nella fedeltà di un’amicizia silenziosa che accompagna l’uomo nelle sue solitarie peregrinazioni, una possibilità di fuga. Era bisogno di innocenza in un mondo dal quale sono banditi ormai lo stupore e il silenzio, la purezza e il candore. Il mondo e la vita stessa del poeta e di ogni uomo sono come soffitte ingombre di oggetti polverosi, ove ristagna il Tempo e tutto ha sentore di Morte. Il sociale, quella regione chiassosa ed estroversa della comunicazione di massa, rituale e vuota, ove si muovono verticalmente, senza “clinamen” che li aggreghi in forme composite e organiche, atomi parlanti ma afoni e non udenti, non fu amata dal poeta al quale era più congeniale, in verità, il “vivi nascosto” epicureo. E la frequentazione di simposi offerti dall’alta Borghesia, dai “ricchi” che guardano il poeta mangiare con simpatia o commiserazione, “erano elemosine bandite dalla mensa della fretta”. Ma questa era una verità appena percepita e avvertita da una gioventù che si nutriva d’inconsapevolezza e si perdeva baldanzosa, si smarriva, e presto, incredula, si sarebbe trovata di fronte al pianto di un futuro senza futuro. Nelle parole del poeta, ora tremulo, ora gridato, l’avvertimento della morte, ma prima di congedarsi dal mondo paludato della critica letteraria e del Giudizio,
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- Op. cit., pag. 42. 16
Bellezza volle quasi gridare ai “critici ostili” che aveva amato e perdonava, la sua diversità: quelli sessuali non erano peccati per cui chiedere perdono, “né oscuri reati da prigione, da lager, da manicomio”! Sapeva d’essersi dato la morte, di averla cercata nel torbido, ma ecco, ancora, una rivolta, ancora uno scatto: voleva farsi Poeta Assoluto e dava il via a degli “Appunti per un romanzo in versi”, ultimo viaggio nella Memoria (le “Ricordanze” leopardiane?) per “raccontare” le peripezie/idiote di una nevrosi arrivata/alla meta, o scongiuro a metà/senza approdi metafisici/o calamità teologiche”.7 L’uomo non voleva morire e tentava ancora la via della parola poetica per ripercorrere, velocemente, momenti vissuti e fare il punto: note o schegge di anagrafica puntualità (“ho una casa a Roma ed una a Rocca Imperiale sfrenatamente libertina”) si susseguono quasi a voler fermare, in sequenze filmiche, gestualità domestica, ossessioni oniriche, idee di sopravvivenza. Ed ecco chiara e desolante l’ammissione d’essere “maledetto”, come il suo Rimbaud, ma capace ancora di sentire la suggestione del canto mentre palpitava nel tramonto il sole di dicembre inoltrato. Gli “Appunti” rivelavano insomma la sensibilità tutta di un uomo dominato dalla vita, ma travolto dai fatti, un uomo che “borghese” comunque e cittadino, avrebbe amato cantare in un poema in versi la “giovane campagna in compagnia”. Ora, alle soglie dell’Ade o del Nulla, si attardava a ricordare la “tarantella giuliva” che, fanciullo, ascoltava a Vicolo del Moro, mentre il Natale veniva ormai senza più sacralità. Si dirà che tutto questo appartiene alla topica della poesia della Memoria, quando, affinati i sensi recettivi, e fattosi breve “il corso della speranza”, in presenza della Morte che alita parole tremende, il passato riemerge e commuove. E’ vero, ma in Bellezza sorprende il controllo razionale, ironico e duro, dell’emozione: non amava “abbandonarsi”, come si è detto, e al sentimento reagiva con un verbalismo furioso, tagliente e livido. Aveva scelto il mestiere di Poeta, ma, diceva, meglio sarebbe stato scegliere il mestiere di vivere: “in questa Italietta di merda e cenere” non contava scrivere per immagini ed essere sacerdoti della Memoria e della Fantasia: meglio se avesse fatto la puttana. Reso perciò nulla dalla Scrittura, vagolava con le sue “angosce mattutine e serali”, svuotato, mentre a casa sua la facevano da padroni i tre gatti amati e 7
- Op. cit., pagg. 49-50. 17
dispettosi. E desolato rimpiangeva la quotidianità (ossessione ricorrente, come vedremo), rimpiangeva la musica delle semplici cose, ora che privato del futuro si trovava al terminale. Il rimpianto di una “normalità” che non gli toccò di vivere era l’eco lacerante della nostalgia di “un paese contadino” dov’era vissuto ragazzo imberbe, dove nulla lo prefigurava desolatamente solo e malato, malato di morte, malato terminale. Bellezza fu quindi una coscienza dimidiata, lacerata e divisa, che aspirava alla Santità, quella laica della Poesia, perché, diceva, possedeva i talenti per “scrivere una nuova Commedia, in endecasillabi/sciolti invece che terzine”. Ma sul mercato non c’era richiesta e scriverla, la nuova Commedia, non avrebbe prodotto comunque la salvezza dell’anima sua. Ridotto a “perfetto casalingo”, a “fornicare con pentole e fornelli”, a osservare la vita passare davanti alla stufa di ghisa, incapace ormai di abbandonarsi al flusso del tempo, mentre fuori febbraio cominciava primavera, il poeta sognava di partire per la Sicilia, terra solare, meridionale (“non cercan morendo il Sole gli occhi dell’uom?…”), terra di canto e di energie primitive, ove sperava di scongiurare eventi. Nel suo Romanzo in versi avrebbe cantato - era questo il suo progetto - quattro stagioni, avrebbe “registrato poetando”. Dava inizio al suo lavoro a Natale, in pieno inverno; non avrebbe raccontato le restanti stagioni, non sarebbe pervenuto a capire “il vero significato della vita” perché ogni mattina si aggirava ormai con Signora Morte, ed era “terribile” renderle omaggio ogni mattina, calmarla nei suoi strepiti indiscreti. Moriva in ospedale, verso le diciannove del 31 marzo 1996 all’età di 52 anni, circondato e consolato dall’affetto della sorella e di alcuni suoi amici, ma forse sentendosi comunque solo con la Morte: non si è soli in questo “deserto” che chiamiamo Terra?
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