La biblioteca medica di Domenico Ridola

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La Biblioteca medica di Domenico Ridola

Se - nella primaria accezione del termine - biblioteca significa “raccolta di libri per uso di studio”,1 la biblioteca di un privato può diventare lo specchio fedele degli interessi, dei gusti, delle curiosità che egli va accumulando nel tempo. Trasmessa alla posterità, si offre alla narrazione di una intera vita intellettuale; la proietta sullo schermo della cultura dell’epoca sua; talvolta la disvela nelle pieghe più riposte. Se poi il privato si chiama Domenico Ridola - personaggio dalle varie sfaccettature, eppure consacrato nei fatti e nel ricordo soltanto da una di esse - la fortuna di aver salvato e raccolto la sua biblioteca crea l’occasione per ricomporne in pienezza la personalità e - nel nostro caso - per affacciarsi su un periodo storico lungo quanto la sua lunghissima vita. Ridola muore l’11 giugno 1932, novantunenne, circondato dalla notorietà delle sue scoperte archeologiche e dalla gloria del Museo da lui fondato, che gli meritarono stima di studioso a livello internazionale e titolo e dignità di Senatore nel Regno d’Italia. Da allora gli onori e la fama di archeologo eclissarono nella memoria storica la sua vera professione. Poichè Ridola era stato prima di tutto e sempre un medico: figura di prestigio nella medicina materana (e non solo materana) a lui contemporanea per la rigorosa preparazione, per la vastità e il cosmopolitismo delle conoscenze, per l’inesauribile desiderio di aggiornamento. Soltanto da pochi anni le perseveranti ricerche di Mauro Padula hanno gettato la prima luce su questo autentico cono d’ombra, con la ricostruzione cronologica delle tappe di Ridola medico e con la registrazione degli scritti scientifici.2 Oggi la ricognizione sistematica e la catalogazione del Fondo dedicato alla medicina e di altri lasciti della famiglia presso la Biblioteca Provinciale di Matera - sostenute da documenti dell’Epistolario accessibile presso l’Archivio di Stato di Matera - consentono di illuminare finalmente, a tutto tondo, questo lato meno noto del personaggio, aprendoci alle sue frequentazioni e alle sue scelte culturali. Ridola ebbe la ventura di formarsi e di operare in un arco di tempo particolarmente denso di eventi per la scienza medica in Italia e in Europa: ma ebbe anche l’intelligenza di stabilire presto contatti con le fonti più vive del sapere medico e - soprattutto - di mantenerli, quando deciderà di non allontanarsi più dalla periferica Matera.

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La ricchezza e la qualità dei testi che egli - quasi a testimonianza di questo atteggiamento - ha lasciato e l’ampiezza della loro datazione, sono tali da permettere oggi a noi di accompagnarlo con i suoi libri lungo le strade che portano la medicina di metà Ottocento verso il secolo nuovo. Ridola - ventenne - si iscrive all’Università di Napoli verso la fine del 1861,3 proprio nel mezzo della “rivoluzione culturale”, voluta per primo da Francesco De Sanctis in parallelo con i rivolgimenti politici e sociali che tengono a battesimo il neonato Regno d’Italia4. Dopo alcuni decenni di stagnazione delle idee - effetto nefasto della frammentarietà statale e delle barriere fisiche e politiche che avevano segmentato la Penisola - quella “rivoluzione” voleva essere uno sforzo salutare per allinearsi all’Europa. Le Facoltà di Medicina italiane erano fossilizzate da vecchie diatribe che neanche i famosi Congressi degli Scienziati (1839-1847) - primo tentativo di riunificazione fra uomini colti - riusciranno a chiudere.5 E divennero giustamente uno dei bersagli sui quali il nuovo Stato agì con provvedimenti legislativi,6 ma soprattutto con interventi diretti, come la chiamata di scienziati stranieri e il recupero di studiosi esiliati dai passati regimi.7 In particolare, la Facoltà medica di Napoli - pilastro di quell’Università che il meridionale De Sanctis sognava “prima Università di Europa” 8 - diventa il laboratorio delle nuove strategie fin dal settembre 1860, non appena egli va a occupare il dicastero della Pubblica Istruzione nel secondo Governo dittatoriale di Garibaldi.9 In un paio d’anni un giro vorticoso di uomini, di cattedre, di piani di studio e l’apertura dei corsi “a tutta la gioventù meridionale” rompono i diaframmi e le rigidità dell’Istituzione universitaria napoletana.10 Il giovane Ridola si trova al nodo dell’onda riformatrice, contrastata subito e a lungo dai custodi delle tradizioni. Ciò genera senza dubbio un’atmosfera culturale quanto mai elettrizzante e stimolante. Tuttavia per un giovane studente non dev’essere facile orientarsi dinanzi a un corpo docente nel quale coabitano anime diverse;11 neppure col sostegno dell’insegnamento privato e del libero insegnamento negli Ospedali che Napoli continuava a offrire a complemento dei corsi universitari.12 Ma Ridola non si perde d’animo. Anzi, a quanto emerge dalle carte, non tarda ad adottare una sua strategia, cominciando col munirsi di due strumenti tattici significativi, per quanto non proprio usuali: l’apprendimento della stenografia e lo studio delle lingue straniere.

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Con la stenografia (di cui elabora un metodo personale) riesce a fissare all’istante le lezioni impartitegli a viva voce, documentandosi di prima mano e giorno per giorno sullo “stato dell’arte” nella Facoltà. Con la conoscenza delle lingue (presto padroneggia il tedesco e il francese e legge correntemente l’inglese) può permettersi di attingere senza intermediari e con tempestività alle opere originali straniere, sulle quali si andava costruendo la medicina post-unitaria.13 Ma fa di più. Con l’intento evidente di approfondimento storiografico, estende i suoi interessi ai testi fondamentali, dai quali nei primi decenni del secolo era scaturito il dibattito scientifico attuale. Nello stesso tempo non disdegna di accostare le teorie e le pratiche fiancheggiatrici della medicina (l’omeopatia, il magnetismo animale, la fisiognomica), alcune ancora recenti altre abbastanza diffuse, comunque in odore di eresia nel mondo accademico. Tutto questo si concentra nel breve periodo universitario (dal 1861, anno di iscrizione, al 1865, anno di laurea): che perciò diventa per noi essenziale al fine di capire l’assetto professionale che si sta dando il futuro medico e di decifrare il carattere dell’uomo. Sfogliando i libri studiati e raccolti in quei pochi anni (si contano 130 volumi, dei quali 29 in tedesco, 30 in francese, 12 in inglese e 30 di autori stranieri in traduzione italiana) c’è quanto basta per penetrare nei capisaldi della scienza medica di allora. Ma, prima di tutto, affiora già lo studioso che - pur ligio e diligentissimo negli adempimenti scolastici14 - decide di dotarsi di un apparato critico autonomo e non vuole sacrificare all’“imprimatur” accademico il desiderio di conoscenza; e c’è già l’uomo colto che - tramite le letture - cerca di allargare la latitudine del suo mondo. Secondo Angelo Camillo De Meis (1817-1891) - al quale si deve l’Idea generale dello sviluppo della scienza medica in Italia nella prima metà del secolo15 - si possono riconoscere in quel cinquantennio tre periodi o momenti, che coincidono curiosamente con altrettante localizzazioni geografiche dovute al “politico smembramento della Penisola”: un periodo da lui chiamato dinamico-astratto, diffuso in Italia settentrionale; un periodo organico che prende piede in Italia centrale, ma con una robusta ramificazione nel Sud; un periodo dinamico-speculativo, tutto meridionale.16 Assumendo questa Idea come falsariga di comodo per costruire una sintesi, d’altronde indispensabile in vicende culturali quanto mai articolate e complesse,

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il periodo dinamico-astratto si può riconoscere nell’opera di Giovanni Rasori (1766-1837). Egli, sul finire del ‘700, importa a Pavia il sistema dello scozzese John Brown (1737-1788), peraltro già largamente accettato nel resto d’Europa. Per Brown il principio della vita è l’“eccitabilità” che, attivata da stimoli di provenienza ambientale interna o esterna, si estrinseca negli organismi viventi sotto la forma dinamica dell’“eccitamento”. La salute dipende dal rapporto equilibrato fra stimolo e grado di “eccitabilità”. Una caduta del primo (“astenia”) o un suo esaurimento per eccesso (“iperstenia”) sono sinonimi di malattia. Con questa impostazione si infrangevano gli schemi tradizionali: la diagnosi astraeva dai sintomi, si riduceva a un processo unitario, assorbito dalla teoria.17 E poichè, secondo Brown, prevalevano le “astenie”, la terapia poteva ridursi alla somministrazione di stimolanti farmacologici e fisici. Rasori, operando nel clima esaltante della Repubblica Cisalpina, elevò il brownismo a ideologia e ne fece il vessillo del giacobinismo scientifico.18 Tuttavia provvide a differenziarsi, privilegiando quale causa morbosa primaria l’“iperstenia” e, di conseguenza, quale chiave di cura, la “controstimolazione”, regolata dal medico col salasso, i purganti e gli emetici. Questa distinzione e il concetto originale di “controstimolo”, uniti all’appariscente semplicità sulla quale si fondavano le fortune del brownismo, fecero del Rasori (e dei suoi molti epigoni, a cominciare da Giacomo Tommasini a Bologna) una icona della medicina nel Settentrione e uno dei pochi medici italiani di notorietà europea in quello scorcio di secolo. Ciononostante a Napoli il brownismo e il rasorismo non trovarono molti sostenitori: soprattutto il primo ebbe più che altro “l’effetto di un forte ma breve temporale”19. Lo stesso Vincenzo Lanza (1784-1860) - il grande rappresentante della Scuola napoletana fra ‘700 e ‘800 - in un primo momento fervente assertore del rasorismo, ne divenne poco dopo un critico severo.20 Sta di fatto che il giovane Ridola non li conosce negli originali. Accosta Brown in una sinossi italiana del 1802, ma più verosimilmente li scopre nelle discussioni che continueranno ad alimentare molti testi degli anni successivi: per esempio, nella ponderosa Introduzione al classico Trattato di Terapeutica di Trousseau e Pidoux del 1863.21 Tracce ben più consistenti lasciano nella sua preparazione le vicende ricollegabili in qualche modo al momento organico di De Meis.

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John Brown (1737-1788) da: Biblioteca medica browniana, 1802

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La lezione, tutta italiana, sul confronto continuo fra riscontro anatomico “post mortem” e stato clinico in vita, impartita vari decenni prima dal grande Giambattista Morgagni (1682-1771) - che Rasori sembra aver dimenticato e che Ridola attinge tramite discepoli del calibro di Antonio Scarpa (1752-1823)22 - viene invece apprezzata, riletta e aggiornata specialmente Oltralpe. In Francia ispira la medicina anatomo-clinica e trova il portabandiera in René Laënnec (1781-1826). Per il quale il danno anatomico - prodotto dalla lesione dei “tessuti interni”, secondo l’insegnamento del suo maestro Bichat - è suscettibile di pronta osservazione “in vivo” e di diagnosi al letto del malato. Non solo con l’ausilio dell’ispezione, della palpazione e del recente metodo percussorio di L. Auenbrugger (1791), ma anche con l’ascoltazione, potenziata da un semplice, geniale strumento: lo stetoscopio. Egli ne è l’inventore, aprendo alla tecnologia le porte della semeiotica medica,23 e lo pubblicizza nel 1819 col Trattato De l’Auscultation médiate. Ridola ne conosce e conserva la prima edizione italiana del 1833, corredata dalle celeberrime incisioni dello stetoscopio nel prototipo disegnato dall’Autore.24 In Austria, malgrado la robusta corrente anatomistica - rappresentata nella nostra biblioteca dalle grandi tavole anatomiche di C. E. Bock e dalla notissima Topographischen Anatomie di J. Hyrtl 25 - la nuova Scuola Viennese si pone poco dopo sulla stessa linea di Laënnec con Joseph Skoda (1805- 1881). Egli ne riprende e completa la diagnostica,26 accompagnandola, però, con una professione di scetticismo nella terapia così aperta, da scoprire impietosamente il lato debole del metodo anatomo-clinico: l’esiguità e l’incertezza delle risorse terapeutiche disponibili a fronte della migliorata sicurezza nella diagnosi. È chiaro, a questo punto, che la medicina ha bisogno di riprendere a indagare sulle cause. Ripudiata col brownismo ogni soluzione metafisica, si apre la via a un indirizzo teorico- sperimentale che deve trovare ricetto nel laboratorio. È il tempo della medicina fisiologica. Invero a questa si era già riferito François Broussais (1772-1838), contemporaneo e rivale di Laënnec, nel senso di un interesse privilegiato per i guasti funzionali rispetto al danno anatomico. La sua si era rivelata, però, un’ennesima costruzione teorica (l’“iperstenia” rasoriana cedeva il posto all’“infiammazione” come denominatore comune di tutta la patologia). Dalla quale, per di più, erano scaturite indicazioni pratiche a dir poco rovinose, come il ricorso indiscriminato al sanguisugio e al salasso. Al punto da provocare reazioni ostili nel mondo medico, motivo non ultimo del successo dell’omeopatia.27

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Né servì molto la posizione più equilibrata che assunse il suo successore Gabriel Andral (1797-1876).28 La vera medicina fisiologica viene tenuta a battesimo da François Magendie (1783-1855). Egli, nel disprezzo per la teoria, esalta l’esperimento sull’animale e in laboratorio, col quale soltanto la fisiologia diventa autentica scienza naturale del corpo vivente: e lo dimostra in ricerche sulla funzione nervosa rimaste esemplari. Per lui “la medicina... non è che la fisiologia dell’uomo malato”: è attraverso le proiezioni degli esperimenti sulle osservazioni cliniche che si può gettare luce sulla patologia.29 Sono concetti appresi da Ridola nell’edizione napoletana 1829 del Compendio elementare di Fisiologia (sottoposta finanche alle attenzioni della censura borbonica), dei quali troverà conferma nella fisiologia comparata del tedesco F. Tiedemann (1781-1861)30 e nel testo originale del primo Trattato a livello europeo sulla materia, dovuto a F. Longet (1811-1871), che di Magendie fu tardo epigono.31 Un contributo formidabile a questa visione meccanicistica dei processi vitali viene, appunto, dalla Germania con la Scuola di Johann P.Müller (1801-1858), autentica celebrità della fisiologia sperimentale. Se il caposcuola resta fedele all’ammissione di un elemento di razionalità superiore nell’organizzazione finalistica della materia vivente,32 uno dei tanti allievi prestigiosi - Theodor Schwann (1810-1882) scopre l’individualità organica comune a tutti gli esseri vegetali e animali nella cellula. Alla quale, in pari tempo, il botanico Mathias J. Schleiden (1804-1881) riconosce la proprietà di dividersi e di perpetuarsi.33 Viene costruita, così, la fisiologia cellulare, colonna portante della biologia e della medicina moderne. Ridola segue questi passaggi nell’opera monumentale di F. G. J. Henle (18091885) e nell’edizione francese del primo Trattato riconosciuto di istologia di R.A. Kölliker (1817-1905), strettamente collegati alle esperienze di Schwann.34 In Italia è soprattutto nella medicina anatomo-clinica di matrice francese che De Meis riconosce il momento organico e in Maurizio Bufalini (1787-1875), con la Scuola di Firenze, il suo corifeo, quand’anche intinto appena di fisiologia.35 Secondo il Bufalini delle monumentali Istituzioni di Patologia Analitica, la materia, che forma tutte le cose, si diversifica nei corpi viventi “per un ordine particolare di composizione atomistica e d’aggregato cellulare”.36 In essi è presente sotto forma di “misto” di parti solide e di fluidi che interferiscono fra loro: la malattia è la “consociazione dell’alterazione materiale e dell’alterazione funzionale”. Una metodologia originale e l’inserimento delle analisi chimiche nel bagaglio della clinica inducono Bufalini a chiamare “sperimentale” questa sua costruzione, in effetti sostanzialmente teorica.

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Malgrado il grande successo che le arrise specialmente nell’Italia Centrale, siamo quindi ben lontani dai progressi che, come si è visto, contrassegnavano in quel periodo la scienza medica nel resto d’Europa, e che Bufalini mostra di non apprezzare appieno, anche per una palese inclinazione alla esterofobia. Neanche serviranno le critiche - peraltro di pura metodologia - mosse da Francesco Puccinotti (1794-1872), operante negli stessi anni a Pisa, poichè anch’egli si perde in una costruzione altrettanto fumosa. Basata sull’induzione che ricompone le osservazioni, le collega e ne stabilisce le dipendenze da un effetto generale,37 essa pretende il titolo di Nuova Scuola Ippocratica italiana o “jatrofilosofia”.38 Il momento organico trova a Napoli un’espressione meno imbevuta di astrazioni e perciò più stringente in Pietro Ramaglia (1802-1875). Riacceso lo spirito di Morgagni, egli si sforza di combinare anatomia patologica e clinica, elevando l’una da semplice descrizione dei fatti e l’altra da pura elencazione di sintomi e segni a compiuto metodo diagnostico:39 con l’ausilio dell’anatomia topografica (ancora “non conosciuta neanche di nome in Italia Settentrionale” 40), e della fisiologia. Sempre a Napoli, in parallelo all’anatomismo clinico di Ramaglia, il contemporaneo Francesco Prudente (1804-1867) se ne distingue per l’enfasi che pone sulla spiegazione del processo morboso attraverso il raffronto fra dati istologici e meccanismi fisiologici. Purtroppo non è un Magendie nè un Müller:41 la sua fisiologia manca di una solida base sperimentale, che poi è il peccato originale di tutta la medicina italiana nella prima metà dell’800. Allievo di Ramaglia e di Prudente, Salvatore Tommasi (1813-1888) impersona - secondo De Meis - il momento dinamico-speculativo, quello genuinamente meridionale, almeno fino al suo esilio politico in Piemonte per i moti del 1848. Egli, che più tardi si trasfigurerà nel grande riformatore della medicina italiana, sostiene la tesi di un principio vitale autonomo e razionale che preesiste all’organizzazione vivente e la determina secondo un fine prestabilito, attualizzandosi con la molteplicità degli organi e delle funzioni. Questa netta caratterizzazione filosofica, trasudante nelle Istituzioni di Fisiologia del 1847,42 viene condivisa e addirittura amplificata da un De Meis completamente immerso nell’atmosfera idealistica della cultura napoletana di quegli anni. Per lui i momenti dinamico-astratto e organico “non raggiungevano i puri fenomeni vitali nelle loro esistenze relative”; mentre solo il momento dinamico-speculativo riduceva “all’unità del pensiero la pluralità e la varietà organica”.43

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In verità, nella medicina napoletana esisteva (anzi era sempre esistita e durerà nel tempo) una terza posizione, mediatrice per tradizione, eclettica per vocazione: impersonabile in quegli anni in Antonio Ciccone. Secondo la quale andavano estratti da tutti i sistemi gli elementi utili, senza pregiudiziali: i vantaggi della sperimentazione potevano benissimo integrarsi con quelli dell’osservazione clinica, purché sottoposti entrambi al vaglio di un’analisi scrupolosa.44 In buona sostanza, su codesta posizione confluiva l’empirismo clinico, materiato di fatti acquisiti al letto del malato, che regnava nella Scuola ospedaliera degli Incurabili e che cominciava a trovare nell’ancora giovane Antonio Cardarelli quella che diventerà la sua voce più autorevole.45 È impossibile che lo studente Ridola abbia seguito le lezioni di Pietro Ramaglia nei pochi mesi del 1860 nei quali costui occupò la cattedra universitaria di Anatomia Patologica. Certo fu allievo di Francesco Prudente che tenne la cattedra di Clinica Medica dal 1861 al 1865. Senza contare che entrambi mantennero l’insegnamento libero agli Incurabili per tutta la vita. Peraltro, una testimonianza credibile annovera Ridola nell’uditorio di Cardarelli.46 Inoltre, egli dovette avere per un anno come professore di Medicina Legale Antonio Ciccone; e forse sfiorò Salvatore Tommasi nel fugace passaggio di costui sulla cattedra di Patologia Razionale, che andò poi stabilmente ad Antonio de Martini. Senza dubbio conobbe e studiò le tesi di Bufalini e di Puccinotti. Comunque, di primo impatto, Ridola aderisce essenzialmente alla medicina anatomo-clinica, che a Napoli si mostra ancora vitale al sopraggiungere della “rivoluzione” post-unitaria e viene cooptata dal nuovo regime. Di Ramaglia restano nella sua biblioteca l’esauriente profilo che ne traccia un estimatore coevo47 e, soprattutto, le prime annate de “Il Morgagni”, la rivista medica da lui fondata nel 1857: libera finestra aperta a tutte le tendenze che si andavano palesando in quel delicato passaggio storico.48 In quelle pagine si rintracciano anche le osservazioni cliniche che Prudente faceva pubblicare dagli allievi,49 poiché egli non lasciò opere scritte in prima persona.50 Di Antonio de Martini resta, invece, un volume di lezioni più tardivo: le stesse che Ridola dice di avere a suo tempo seguito e stenografato.51 Così attrezzato, il Nostro si trova a vivere la svolta epocale impressa in Europa dal tedesco Virchow e dal francese Cl. Bernard tra la fine degli anni ’50 e i primi anni ’60. Nel decisivo testo Die Cellularpathologie del 1858 (che Ridola legge nella prima edizione italiana del 186352) Rudolph Virchow (1821-1902) compie due ope-

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razioni capitali. 1) Riconosce nella dottrina cellulare l’“unico fondamento possibile della biologia”: “ogni corpo è una organizzazione sociale” di cui le cellule sono le “unità vitali... , ognuna delle quali ha in sè il carattere completo della vita”.53 2) Diversamente dal suo maestro Müller che sfiorò appena la questione,54 trasferisce e applica questo concetto alla patologia. Le malattie sono il prodotto delle alterazioni strutturali delle cellule: perciò “nelle dottrine mediche si dovrà considerare la parte che hanno nei problemi della vita le cellule dei tessuti” e conciliare le antiche questioni fra patologia umorista e solidista in una patologia cellulare.55 Ma più che conciliazione, la patologia cellulare segna in pratica la liquidazione dei secolari dibattiti che l’hanno preceduta, oltre che l’apertura a vaste prospettive di ricerca. Per esempio, sulle funzioni metaboliche delle cellule; o sui rapporti fra cellule, fluidi organici e strutture interstiziali che le circondano: il cosiddetto territorio cellulare.56 Alcuni anni più tardi, nel 1865, Claude Bernard (1813-1878), discepolo primo di Magendie, raccoglie in un corpo organico - Introduction à l’étude de la médicine expérimentale - i fondamenti che finalmente daranno alla medicina i crismi della vera scienza. Egli viene da una serie di felici successi sperimentali improntati a una metodologia rigorosa: la scoperta della funzione glicogenica del fegato (1840-53-57); gli studi sul sistema nervoso simpatico che porteranno al riconoscimento della vasomotricità (1853); gli studi sulle sostanze tossiche e sui farmaci, dal monossido di carbonio al curaro (1845).57 Molti dei quali erano già presentati nelle Leçons de physiologie expérimentale del 1855, studiate in originale e molto annotate dal nostro Ridola.58 Con le riflessioni critiche tratte da queste e da altre innumerevoli esperienze, Cl. Bernard elabora un compiuto ragionamento sperimentale che assurge a vero e proprio stile di pensiero, destinato ad affascinare intere generazioni di studiosi fino ai giorni nostri.59 In esso trovano posto il ruolo delle idee e delle osservazioni; l’importanza del dubbio; il legame qualitativo e non quantitativo fra stato normale e patologico; il principio deterministico, applicabile all’apparente spontaneità dell’organismo vivente.60 E si dipana la fecondissima concezione del mezzo interno (“le milieu intérieur”), parente prossimo del terreno cellulare di Virchow. Nel suo ambito diventa possibile, fra l’altro, riformare il concetto di tossicità di una sostanza per l’organismo animale e dare scientificità al rapporto organismofarmaco-veleno,61 che è anche una strada per combattere la persistente impotenza delle terapie.

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Una volta attivata la circolazione delle idee con la “rivoluzione desanctisiana”, le trasformazioni radicali firmate da Virchow e da Cl. Bernard non possono che smuovere l’atmosfera satura di teorizzazioni solipsistiche della medicina italiana. Salvatore Tommasi ne sarà l’alfiere entusiasta: al prezzo dell’ abiura del suo passato “dinamico-speculativo”, maturata fra il ’48 e il ’65 nei passaggi come esule dall’Università di Torino a quella di Pavia, e nel ritorno definitivo a Napoli in veste di protagonista primario del rinnovamento italiano. Già nel 1848 egli aveva in qualche modo anticipato la posizione virchowiana sulla primordialità della cellula nell’economia dell’organismo,62 e nel ’57 aveva manifestato il suo entusiasmo per l’impostazione metodologica data da Cl. Bernard.63 Ma è nel 1858 che capovolge le sue posizioni quando proclama “io non sono ippocratico”, poiché “la medicina moderna s’incammina per una via ben diversa”.64 Inchinarsi dinanzi a Ippocrate quale insuperato raccoglitore e assemblatore di fatti, è un conto: riconoscere i progressi della scienza medica, soprattutto grazie all’esperimento che “a Ippocrate era ignoto”, è un altro.65 “Il solo esperimento deve essere il giudice competente delle nostre convinzioni”, tiene a sottolineare nell’edizione 1860 delle Istituzioni di Fisiologia.66 Perciò nel manifesto del suo pensiero - che intitola suggestivamente La Nuova Medicina (1863) e che, non a caso, indirizza da Pavia ai giovani napoletani - egli indica nella fisiologia sperimentale la parola d’ordine del rinnovamento.67 Tuttavia la sua meta è molto più ambiziosa. “Nelle scienze obiettive e naturali, la dottrina non può consistere in un ‘a priori’, non può sorgere dalle speculazioni metafisiche, non può essere un’intuizione, quindi parlar di filosofia nella medicina è un controsenso”.68 La verità va ricercata nella natura, nell’ordine dei fatti senza pregiudizi di sorta: naturalismo moderno è il nuovo dettato. È il forte messaggio col quale apre l’anno accademico 1866-67 nell’Università di Napoli.69 Sui suoi corposi contenuti continuano ancora oggi a soffermarsi epistemologi e filosofi della scienza, dopo l’aspro e lungo dibattito che suscitò immediatamente fra i contemporanei.70 Sulla medesima linea Giuseppe Albini (1827-1911) pone le sue esperienze internazionali, quando nel 1861 fonda presso la stessa Università un Istituto di Fisiologia improntato a criteri di impressionante lungimiranza. Da esso, infatti, prolifereranno molti rami fecondi, dalla chimica fisiologica alla fisiologia della vita di relazione, alla fisiologia applicata all’educazione fisica.71 Il giovane Ridola non può ignorare il grandioso edificio costruito dal secondo Tommasi: gran parte delle nostre citazioni, infatti, provengono dalla sua biblioteca.

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S. Tommasi (1813-1888) da: Il rinnovamento della medicina in Italia

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Così come non può ignorare le ricadute che questo rimaneggiamento di idee produceva in altri rami della medicina. A cominciare dalla terapia, che - come abbiamo visto - si avvia finalmente a sottrarsi dalle condizioni di secolare inferiorità. Questo argomento di scottante interesse pratico forma oggetto di molte letture da parte di Ridola studente e poi fresco laureato, a cominciare da quelle napoletane. È evidente l’attenzione particolare con cui segue il Corso universitario di Terapia e Tossicologia tenuto da Antonio Villanova (1818-1885) - notissimo clinico di provenienza ospedaliera, poichè si preoccupa di ricopiare in chiaro le lezioni da lui stesso stenografate e di raccoglierle in un volume molto curato. Anche se si tratta, tutto sommato, di una farmacologia ossequiente alla “vis medicatrix naturae” e diffidente dei metodi nuovi.72 Diverso e sostanzialmente innovatore è, invece, il percorso di un altro napoletano illustre, Giovanni Semmola (1793-1865), non per niente allievo di Magendie. Infatti, nel Trattato di Farmacologia e Terapeutica Generale del ’53 parte dallo studio fisico-chimico e naturale degli agenti curativi (“farmacologia chimica”) per giungere alla “farmacologia fisiologica” coinvolgente il rapporto tra farmaco e organismo, e da qui alla “farmacologia terapeutica” che indaga sul legame fra natura del morbo e rimedio.73 Di respiro ancora più ampio, per le penetranti interpretazioni delle conoscenze farmacologiche in chiave clinica, è il Trattato di Terapeutica e di Materia Medica di A. Trousseau e E. Pidoux, già citato. A questo punto potrebbe meravigliare l’attenzione vivissima che lo studente Ridola riserva all’Omeopatia - teoria e pratica contestate dalla scienza ufficiale - se non si valutassero almeno due fatti. Il primo - lo abbiamo sottolineato altre volte - è il senso di frustrazione degli studiosi più avvertiti dinanzi alla pochezza (e qualche volta alla stravaganza) dei mezzi curativi disponibili. Per cui l’Omeopatia ebbe (e continua ad avere) perlomeno il sapore di un’allettante alternativa. Sfrondata da esagerazioni e da fideismi, la teoria omeopatica - formulata tra il 1796 e il 1810 dal medico sassone C. F. Samuel Hahnemann (1755-1843) - si basa su alcuni concetti essenziali. l) Agenti chimici e fisici che provocano manifestazioni simili a quelle di malattie conosciute si mostrano in grado di guarire queste ultime, poiché due malattie dello stesso genere non possono coesistere nello stesso organismo. 2) Gli agenti sono forze immateriali, quindi attive anche a dosi infinitesimali. 3) La cura deve essere personalizzata, poiché va rispettata l’individualità dell’organismo.74

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Il secondo fatto è la solida popolarità di cui l’omeopatia continuava a godere a Napoli. Approdatavi verso il 1822 al seguito delle truppe austriache d’occupazione, venne adottata entusiasticamente da un browniano-rasoriano deluso, l’autorevole chirurgo Cosimo de Horatiis (1772-1850). Malgrado fiere resistenze, la sua diffusione fu irrefrenabile, al punto da indurre i Borbone a istituire nel 1829 e a tenere per qualche tempo una “Clinica Omiopatica” presso l’Ospedale Militare, forse unica in Italia.75 Anche in questo caso Ridola si rivolge alle fonti: si procura la traduzione italiana 1833 dell’Organon, la bibbia degli omeopati, pubblicata da Hahnemann nel 1810.76 Ma poi accumula numerose opere in italiano e in lingua sulle applicazioni le più disparate del metodo: dai rigori della statistica, alla cura delle malattie morali nella vita monastica (!), alla medicina veterinaria. Va rilevato, però che - almeno a livello di testi - i contatti di Ridola con l’Omeopatia si rallentano parecchio qualche tempo dopo la laurea.77 Molto più fugace e superficiale sembra il suo interessamento per l’altro metodo non ortodosso, il magnetismo animale o Mesmerismo, nonostante il patrocinio dello stesso Hahnemann78 e il successo incontrato in tutta l’Europa. Lanciato dal medico austriaco Franz. A. Mesmer (1734-1815) con la pretesa di sfruttare a scopo terapeutico il fluido magnetico che emanerebbe da ogni organismo vivente, il Mesmerismo può ritenersi tutt’al più un anticipo dell’ipnotismo medico e - in qualche modo - dell’anestesia.79 Negli ordinamenti del nuovo Stato italiano era caduta la doppia laurea in Medicina e in Chirurgia, che aveva caratterizzato dal 1820 l’Università di Napoli.80 Col Regolamento Matteucci del 1862 il titolo di Medico-Chirurgo diventò unico, come unica diventò la Facoltà, su tutto il territorio nazionale.81 L’approccio alle malattie chirurgiche per lo studente Ridola fu altrettanto scrupoloso e proficuo, per quanto si ricava dalla sua biblioteca, anche perché sorretto - come abbiamo visto - da sostanziose cognizioni di medicina. In ciò sulla direttiva tratteggiata da A. Boyer (1760-1833) nell’Introduzione al suo monumentale Trattato: secondo cui il chirurgo privo di conoscenze mediche si degrada a “empirico, che porterà a tentoni quella mano, che dee essere guidata... dallo studio generale di tutte le scienze Esculapiane”.82 I testi, in verità, non sono numerosi (una diecina) e in gran parte di autori stranieri, ma quasi tutti di notevole peso scientifico: riflettenti gli anni ’30-’40, di passaggio tra le fasi innovativa e di transizione della chirurgia primo- ottocente-

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sca. Quando guadagna pari dignità con la medicina; comincia a privilegiare gli interventi riparativi su quelli demolitivi; trova sostegno nella teoria cellulare per aggredire in profondità i tessuti malati; si apre alla fisiopatologia.83 Su codesti aspetti si soffermano le celebri Leçons orales di Guillaume Dupuytren (1777-1835) - nella prima traduzione italiana del 1835 - e il Dictionnaire di P. H. Nysten (1774-1817). È significativo che entrambi gli autori siano riconosciuti con Magendie tra i fondatori della nuova fisiologia, e che sullo stesso registro si allinei l’Handbuck del tedesco W. Roser.84 Sul lato delle tecniche (per l’epoca) più ardite e di una vastissima casistica sta il Trattato dello scozzese W. Fergusson (1808-1877). Mentre la chirurgia tradizionale si specchia nelle esemplari descrizioni anatomico-chirurgiche del grande Alphonse A. L. M. Velpeau (1795-1867).85 Regge il testimone per gli italiani - tutto solo - il lombardo G. B. Monteggia (1762-1815) con le sue Istituzioni: giustamente famose per le innovazioni in chirurgia riparativa non disgiunte dall’attenzione ai problemi clinici. Altrettanto striminzita è la rappresentanza della Scuola napoletana, limitata al Piccolo Atlante di anatomia e chirurgia di Fernando Palasciano (1815-1891) del 1854, quando questo attore di primo piano della scena scientifica e politica operava agli Incurabili.86 Mentre manca Felice de Renzis, che pure tenne la cattedra di Clinica Chirurgica per tutto il periodo universitario di Ridola e fu chirurgo di ragguardevole calibro, oltre che coautore di un ponderoso Trattato. Forse una traccia indiretta della sua influenza potrebbe riconoscersi nel fatto che egli figura fra i traduttori delle opere chirurgiche del Velpeau.87 Il nome di Velpeau ritorna sul Traité des accouchements (edizione 1836), un classico di risonanza europea, che, tuttavia, è una delle due sole presenze di ostetricia nella biblioteca degli anni universitari. Forse per debolezza di stimoli. Infatti, Aurelio Finizio - autore della seconda presenza, un Compendio a dichiarato scopo didattico - ancora nel 1864 lamenta, fra le gravi lacune dell’insegnamento dell’ostetricia nell’Ateneo napoletano, la mancanza di testi adatti.88 Unite all’ostetricia in un’unica cattedra dal Decreto Matteucci, “le malattie delle donne e dei bambini” sono presenti nella traduzione italiana del 1838 in due distinti Trattati dello stesso autore, Joseph Capuron, noto esponente della scuola ostetrica francese. Mentre alle sole malattie dei bambini è dedicato il volume originale di Carl Gerhardt, fondatore della pediatria in Germania.89 Una simile, discutibile commistione di discipline si ripete per le malattie veneree. Legate per tradizione nell’insegnamento alle malattie della pelle, sono abbinate

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invece dal legislatore italiano alle malattie mentali. Nel corredo librario dello studente Ridola è dedicato alla sifilide il Trattato molto noto del francese J. A. Jourdan. Mentre per la dermatologia fa testo un originale di F. Hebra, celebratissimo rappresentante della Nuova Scuola Medica Viennese.90 Nel periodo che vide Ridola studente sono, comunque, sempre più forti anche in Italia, i segnali del distacco di questi e di altri rami dalla medicina e dalla chirurgia, destinati in seguito a irrobustirsi in specializzazioni autonome. E, spesso, le sue scelte di lettura abbozzano preferenze che si paleseranno nella piena maturità professionale. Per l’otorinolaringoiatria, per esempio. Accomunata - tanto per cambiare - un po’ dappertutto all’insegnamento dell’oculistica,91 viene avvicinata da lui attraverso un testo di avanguardia, che lascia presumere un interesse preciso: The use of laringoscopy dell’inglese Morell Mackenzie (1837-1892), uno dei primi e più geniali specialisti della materia. Senza trascurare, tuttavia, l’oculistica con due testi di J. Pilz del ’60 e del ’62, altrettanto specifici.92 Questo intenso movimento di libri presuppone canali di alimentazione numerosi e ben forniti. Tali li costruivano, all’epoca, i librai, anche nelle vesti di piccoli editori; il collegamento dell’editoria con i medici che segnalavano i testi stranieri da pubblicare e spesso se ne facevano traduttori; l’abitudine di stampare i trattati in dispense per facilitarne la diffusione. Sullo sfondo, da un lato stava la necessità dell’aggiornamento, dato il dislivello culturale fra la medicina italiana e quella d’Oltralpe; dall’altro, la scarsa conoscenza delle lingue fra i medici e gli studenti nostri. Situazione segnalata e stigmatizzata ancora nel 1878 da Giuseppe Albini nell’accingersi a tradurre dal tedesco un manualetto di fisiologia: foriera oltretutto - egli scrive - di facili speculazioni.93 Ridola è pienamente compartecipe di questo mondo, col quale è venuto a contatto, già da studente, per curare le commissioni commerciali che gli affidava da Matera il cugino Michele, libraio e cartolaio.94 Ben presto, da giovane medico, si lega in prima persona ad alcuni librai-editori: di uno di essi - Giovanni Gallo - diventa e rimane a lungo consigliere apprezzato e corrispondente blandito.95 Inoltre, sfruttando l’intuizione che l’ha indotto subito a studiare le lingue, gli è agevole offrirsi come traduttore. Ancora fresco di laurea, infatti, firma col conterraneo Michele Massarotti la traduzione dall’inglese e l’edizione italiana del manuale Rimembranze anatomiche: che dall’epistolario risultano in fase di avanzato approntamento nel 1867, ma delle quali, purtroppo, non si trova traccia nella

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sua biblioteca. Solo da poco i mezzi multimediali ci hanno permesso di scoprire almeno i dati del testo d’origine.96 Questa facilità d’accesso alla letteratura internazionale da amico di editori, da lettore e da interprete, assommata all’assiduo tirocinio negli ospedali pubblici e nelle scuole private che intensifica negli anni post-laurea,97 fa da comprensibile stimolo sia alla ricerca di nuove esperienze fuori dalle mura napoletane che al desiderio di risalire direttamente ad altre, più nutrite sorgenti del sapere medico. Nel 1866 - a un anno appena dalla laurea - l’occasione gli viene dalla terza Guerra d’Indipendenza. È tentato, infatti, ad allontanarsi da Napoli entrando nella Sanità Militare, sulla scia dell’amico Vincenzo Donadeo, che fa parte di un gruppo di medici trasferito all’Ospedale Militare di Bologna per ricevere gli infermi dai campi di battaglia della Lombardia. Il tentativo abortisce, forse perchè Ridola - nel frattempo - si è ammalato di “febbre reumatica”.98 In realtà, la questione di fondo è di ben altra natura, squisitamente culturale: sta nella difficile sintonia con gli indirizzi che si andavano imponendo nella medicina napoletana. Lo rivela con fin troppa chiarezza Alfonso Janora, quando sollecita Ridola sul comune proposito di trasferirsi nel Nord perchè sazi dell’insegnamento di Tommasi, insofferenti ai metodi didattici del chirurgo Gallozzi, sconfortati per lo scarso profitto negli ospedali napoletani troppo affollati di praticanti.99 A ripensarci, già nella composizione della biblioteca dello studente Ridola si potevano rinvenire i segnali di un’adesione più convinta alle correnti anatomoclinica ed “eclettica” regnanti nelle corsie degli Incurabili (agli insegnamenti dei Semmola, dei Biagio Lauro,dei Villanova, dei de Martini, del giovane Cardarelli: per intenderci) che non al naturalismo scientifico in quel momento trionfante. Il distacco si consuma nel 1867 puntando ancora su Bologna. Il clinico medico Luigi Concato (1825-1880) col suo pragmatismo intento ai fatti e alieno dalla ricerca delle “ultime ragioni”, e l’esimio chirurgo Francesco Rizzoli (1809-1880) con le sue ardite innovazioni, sono i poli d’attrazione per i transfughi napoletani. Specialmente il secondo, del quale Ridola continuerà a raccogliere e ordinare articoli e lezioni per molti anni, curandone personalmente l’indice.100 Tuttavia Bologna rappresenta soltanto una tappa, così come lo è Milano, dove egli trasloca per un paio di mesi nel ’68.101 Poiché il vero traguardo è Vienna, sede ancora viva e prolifica della Nuova Scuola omonima; o, meglio, è la cultura tedesca, forte richiamo in quegli anni per

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tanta parte della scienza e della medicina italiane, verso la quale - oltretutto - Ridola è attratto dalla familiarità con la lingua, diuturnamente coltivata. Fra gli ultimi di ottobre del ’68 e il gennaio del ’69 egli è reperibile con l’amico Decio Lioy presso l’Ospedale Generale di Vienna. Dove ha scelto di seguire Johann Oppolzer (1808-1871): che, peraltro, già conosceva da alcune dispense in italiano edite dall’amico Gallo.102 Oppolzer è un brillante esemplare dell’ultima generazione della Nuova Scuola Viennese, proteso a conciliare - nelle sue seguitissime lezioni - l’accuratezza diagnostica del celebre predecessore J. L. Schoenlein (1783-1864) con lo scetticismo terapeutico ancora imperante di Skoda e con la pratica clinica sostenuta dal microscopio e dal laboratorio.103 Che poi - ormai è chiaro - rappresenta il filone preferito in medicina da Ridola: all’occasione, corroborato dalle più ricche esperienze europee. Sul versante chirurgico la scelta è quasi obbligata verso un personaggio ancora più famoso: Theodor Billroth (1829-1894) - fondatore della Scuola chirurgica viennese, votata alla recente pratica dell’antisepsi - genialissimo operatore specialmente sull’apparato gastro-enterico.104 Ma sono le numerose specialità che la Nuova Scuola Viennese va introducendo nella medicina europea (dalla rinoscopia all’oftalmologia; dall’ototerapia alla laringoscopia105), a catalizzare l’attenzione del Nostro: che peraltro, come abbiamo notato, si era accesa verso alcune di esse negli ultimi anni napoletani. E sono i testi di molte specialità - oltre alle lezioni di Oppolzer e di Billroth - a formare buona parte del bagaglio col quale Ridola, nell’inverno del 1869, rientra in patria: almeno stando a un elenco manoscritto di autori e di titoli che egli redige in quel periodo e ai ritrovamenti nella biblioteca.106 Quando, fermatosi a Matera, tramonta il progetto di tornare a Vienna o di raggiungere Lioy a Berlino107 e Ridola riprende l’attività di traduttore, sceglierà per primo proprio il testo di una specialità, la rinolaringoiatria, quella forse preferita. Si tratta di una monografia sull’angina difterica (Die Schlunde - Diphterie) di Adolf Wertheimber, comparsa a Monaco nel 1870. Oltre a tradurla, Ridola la commenta con note e aggiornamenti, e la arricchisce di un’Appendice densa di considerazioni personali. Dopo non poche vicissitudini editoriali, l’opera vede la luce a Napoli nel 1872, e - in seconda edizione con copertina modificata - a Milano nel 1873.108 Estremamente lusinghiera è la recensione che, fin dalla prima edizione, ne fa “Lo Sperimentale” - autorevole rivista scientifica fiorentina - soprattutto per la

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traduzione dal tedesco, che giudica superlativa.109 Sul testo (insieme ai commenti favorevoli di altri) ancora qualche tempo dopo si registrerà l’apprezzamento di Fernando Massei, pioniere della rinolaringoiatria a Napoli. Col quale, peraltro, Ridola intratteneva da anni rapporti molto stretti: a testimonianza ulteriore di un antico e continuo interesse per la materia.110 Ma, al di là del contenuto specialistico, nelle note a Wertheimber affiora vivo il ricordo e frequente è il riferimento alla lezione clinica ricevuta da Oppolzer e dalla Scuola Viennese.111 Codesta comune matrice continua a ispirare le successive scelte di traduzione: nel ’73 un Formulario Terapeutico viennese, del quale curiosamente gli viene respinta la stampa dallo stesso “Lo Sperimentale” che lo aveva osannato l’anno prima;112 e, più tardi, un lungo articolo di M.D. Rosenthal sulla terapia delle malattie del midollo spinale, ripreso da un Trattato dello stesso Autore, dove - guarda caso - campeggia una dedica a Oppolzer e a Skoda.113 Negli anni ’70 Ridola è, quindi, attivissimo sul piano culturale, con riflessi positivi sulla libera professione - scelta di vita ormai definitiva - che ne fanno ben presto un medico molto noto, consultato dentro e fuori le mura cittadine.114 Ed egli non indugia a trasferire nella pratica quotidiana sia le meditazioni dottrinarie che le tecniche nuove, senza sottrarre le sue esperienze al vaglio critico delle pubblicazioni sulla stampa medica. Lo fa, per esempio, per l’inoculazione ipodermica dei farmaci, possibile con la recente e ancora avanguardistica introduzione della siringa di vetro e degli aghi metallici nell’armamentario medico.115 Sperimenta per questa via il curaro, il chinino e la morfina in diverse situazioni d’emergenza, inducendo altri a provare.116 Contemporaneamente si affida a corrispondenti di tutto rispetto per l’aggiornamento continuo della biblioteca: il giovane e ormai lanciato editore-libraio a Milano Ulrico Hoepli sostituisce di fatto il vecchio e limitato Giovanni Gallo.117 Ma gli anni ’70 segnano anche il momento del primo incontro con l’archeologia118 e sono gli anni nei quali egli si affaccia sulla scena politica. In altri termini, a parte l’archeologia, inizia allora a percorrere - e lo farà tutto e felicemente - l’iter che in quel periodo storico portava le “élites” mediche, soprattutto nel Mezzogiorno, a congiungere agiatezza familiare, prestigio professionale e fortune politiche.119 Anticipiamo subito che per Ridola tutto questo non tornerà mai a eccessivo discapito nell’esercizio della professione e nella preparazione medica. I quali,

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piuttosto, potranno ricavare dalle nuove attività altre occasioni di contatti e di conoscenze.120 Tanto più che nel frattempo, naturalmente, la medicina non si era fermata alla Scuola di Vienna, anzi stava imboccando un’altra svolta epocale: segnata dalla nascita della batteriologia e dai progressi della diagnostica strumentale e di laboratorio. Svolta non indolore, almeno nell’ambiente napoletano che rimaneva pur sempre il riferimento culturale più prossimo per Ridola. Come si palesa, infatti, nella polemica innescata da Mariano Semmola (1831-1895) col saggio Medicina vecchia, Medicina nuova: nato soltanto per introdurre il Corso di Terapeutica alla Facoltà di Napoli nel ’76-’77, e diventato invece e subito un autentico “best seller” fra i non pochi misoneisti.121 Egli si scaglia contro la medicina sperimentale trionfante (“la medicina nuova”), materiata di esami di laboratorio, di diagnosi cercate al microscopio o sul tavolo autoptico; di privilegio della malattia come astrazione sulla concretezza dei casi clinici, di noncuranza per l’efficacia delle terapie. Eppure irrigidita, a suo dire, in sistemi che ricalcano proprio i dogmatismi della “medicina vecchia” tanto deprecati dagli innovatori.122 Ne è esempio l’idolatria recentissima per l’eziologia parassitaria delle malattie che ha deformato la grande scoperta di Pasteur.123 Ma, quel che è peggio, gli innovatori tentano di disperdere l’autentico tesoro della “vecchia medicina”: l’osservazione, filtrata dal ragionamento che inquadra secondo logica segni e sintomi: quale soltanto può nascere e crescere al letto del malato e dalla variegata nosografia di una corsia ospedaliera.124 Dell’attuale situazione è colpevole in larga parte l’adesione acritica a tutto quanto arriva dai paesi di lingua tedesca: l’esterofilia che sembra aver travolto i medici italiani.125 Tommasi ne è il capofila e su di lui si appuntano gli strali di Semmola.126 Ma, in generale, non sono molte le figure di medici che si salvano. Ci sono Oppolzer in Austria, Jaccoud in Francia (per l’indiscussa qualità di clinici all’antica), e - in qualche misura - il tedesco Ziemssen (almeno per l’imponenza dei dati che riesce a racchiudere nella sua Enciclopedia). Tuttavia egli diffida anche di questo nuovo mezzo di apprendimento: utile tutt’al più per la consultazione da parte di medici esperti, altrimenti colossale “bazar” di nozioni, e quindi causa di ulteriore confusione.127

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