ENZO CASTAGNA
Nato a Roma nel 1928, Enzo Castagna è medico specializzato in radiologia, ora in pensione. Scrive da molti anni, con la stessa passione dell’inizio. Ha pubblicato nel 1986, con la casa editrice Ibiskos di Empoli “Storie di una comune e di un palazzo di vetro”; In Spiragli 45 (editrice Nuovi Autori), 1999, un racconto, dal titolo “Una corsa nel buio”. È socio dell’AMSI (Associazione Medici Scrittori Italiani). Ha partecipato a molti concorsi con diversi testi inediti. Finalista in “La Serpe d’oro” e nel premio “Alessandro Manzoni” di Lesa, III Premio al concorso “Cesare Pavese” di Vallebelbo. Una sua commedia, “Più che l’edera”, è stata rappresentata in un piccolo teatro di Roma, in tre serate.
... Che può importare a Mosca, se un ponte, lontano mille e più chilometri, meriti o non meriti di essere ricostruito? A Mosca interessava il significato morale della ricostruzione...
Tre racconti del tempo intimo
€ 8,00 ISBN
88-86820-71-4
i narratori
IL PONTE Nell’Unione Sovietica, ai tempi della Perestroika Sulla rive del limaccioso Pripjat, vicino a Mozyr, fra incolti arbusti ed esuberanti sterpaglie, ingiallite da lunghe gelate, Fiedor, ingegnere del popolo, guardava fissamente e con struggente nostalgia le rovine seminascoste, ma ancora dignitosamente maestose, del vecchio ponte. Ricordava i tempi, ormai lontani, ma sempre vivi nella sua mente, in cui, giovane studente, s’era dedicato, con altri, alla realizzazione di quell’opera, di cui i dirigenti del partito andarono fieri per molti anni. Prima della guerra, il ponte aveva significato, per il suo Paese, un balzo in avanti nelle realizzazioni economiche del regime. Attraverso il ponte, un intenso traffico ferroviario e rotabile assicurava il trasporto di quei prodotti agricoli e industriali, che nei kolchoz e nelle fabbriche si andavano approntando per i fabbisogni di tutto il popolo sovietico. Durante la guerra, nei primi tempi il ponte assicurava l’arrivo al fronte di armi ed eserciti, necessari per una guerra di movimento, come quella che si stava combattendo. Poi, con le ritirate, si presentò la necessità di distruggere il ponte; bisognava ritardare la marcia trionfale degli invasori, e favorire l’allestimento di nuove difese per i sovietici; e cosi’ vi fu la distruzione del ponte, estremo sacrificio per il bene comune. Fu come se un gigante si fosse immolato, perché una moltitudine di piccoli eroi potesse giovarsi del suo sacrifico, e dalle ceneri del ponte, uno, cento, mille soldati s’ergessero di fronte all’invasore. E ora, solo Fiedor, ingegnere del popolo, si ricordava del ponte. La popolazione del luogo, ormai, aveva imparato a farne a meno. Il traffico a lunga gittata s’era ridotto notevolmente. L’aereo andava sostituendo il treno. Anche i traffici commerciali andavano cambiando di fisionomia. 3
L’introduzione, nell’economia, del piccolo profitto individuale, aveva fatto scadere le grandi imprese statalizzate, e ciò aveva favorito i piccoli traffici locali. Per il traffico locale, era sufficiente la via fluviale, con chiatte, e un ponte di fortuna teso su una serie di galleggianti. E la linea ferroviaria si interrompeva in ciascun lato del fiume, rendendo necessario il trasbordo dei passeggeri. Per Fiedor, che sempre sognava uno stato socialista forte e potente, tutto ciò era altamente deprimente. E di continuo, nelle riunioni del partito, andava sollecitando gli organi preposti a ricostruire il ponte. Affinché la regione mutasse il suo aspetto dimesso, e ridiventasse degna della maggiore patria sovietica. Ma queste sollecitazioni restavano inascoltate. “Ma come puoi pensare, compagno, che sia utile, per le nostre popolazioni, ricostruire il ponte - rispondeva il dirigente dei lavori pubblici - , laddove ciò si risolvesse in un aggravio di spesa per un’opera non più rispondente alle esigenze di vita attuale? Ormai, le popolazioni dedicano una presenza scarsamente entusiastica al lavoro comunitario e preferiscono incrementare i loro introiti con attività marginali, per le quali la costruzione del ponte rappresenterebbe un’opera quanto meno pleonastica, e perciò tutt’altro che redditizia. Il popolo, caro Fiedor, sta riscoprendo il gusto degli agi, e cerca di procurarsi il superfluo con piccole attività supplementari”. “Appunto per questo ‒ controbatteva Fiedor ‒ è necessario ricostruire il ponte, per evitare che le idealità del socialismo portate avanti dalla Rivoluzione di Ottobre, snaturino la loro anima, introducendo nella nazione i germi del consumismo, tipici della civiltà borghese. Il ponte supererà i particolarismi locali, e ricongiungerà in un abbraccio ideale le diverse istanze nazionali, le sole che possono salvare il comunismo. Il ponte soffocherà gli egoismi, e le popolazioni sapranno guardare lontano: torneranno a disprezzare i pochi copechi guadagnati fuori dalle fabbriche, perché non c’è’ gioia di vivere nel tornaconto personale. Solo sentendoci vicini agli altri sovietici dei più remoti angoli del paese, potremo riacquistare il vero senso della vita”. “Ma compagno ‒ rispondeva il pubblico funzionario – non restare avulso dalla realtà del Paese. Bisogna guidare il popolo, ma senza lasciarselo sfuggire di mano. Dove eravamo giunti? A dover governare con il terrore. Non ricordi le spaventose purghe dei tempi di Stalin? 4
Quanti veri comunisti furono privati della libertà e persino della vita, per la ricerca di una ortodossia che si andava sempre di più allontanando dal popolo! Il popolo si guida, ma rispettandone le intime aspirazioni”. Fiedor rimase pensieroso, ma subito controbatté: “Ma sono vere aspirazioni del popolo quelle che, introdotte come droghe letali dai paesi corrotti dell’Occidente, stanno contaminando la pura anima del popolo russo? Forse che la corruzione è sinonimo di civiltà, e il rispetto di una moltitudine corrotta ci fa apparire liberali e democratici? No, compagno. Il popolo va rispettato, ma solo quando sa mostrarsi degno di rispetto. Io penso che sia più civile riempire le carceri, piuttosto che lasciar libero corso alle eresie corrotte. Non ci chiameremo liberi e democratici permettendo al popolo di vivere come animali una vita istintiva e degradante, all’insegna del più beluino egoismo”. “Quello che dici, compagno, è puro vaneggiamento – fu la conclusione dell’altro – non sono io a parlare, ma è tutto il partito con i più alti dirigenti a guidare il nuovo corso. Il passato é ormai alle nostre spalle. Il nostro liberalismo non è in opposizione alla nostra madre patria e alle nostre idee socialiste, ma é a favore del loro bene. Solo se il popolo sarà con noi, potremo tornare grandi. Senza il popolo periremmo. Quando i tedeschi ci invasero, i nostri eserciti, privati dell’anima popolare, si dissolsero: ma, quando il popolo comprese che la propria salvezza non risiedeva nell’invasore ma nella sua cacciata, noi riuscimmo a ricostruire un esercito grande e potente, e diventammo di nuovo una forte nazione. Perciò, compagno, vivi nel comunismo, ma anche nella realtà del popolo!”. Queste discussioni fra Fiedor e gli altri membri del partito erano diventate, oramai, il tema fondamentale dei loro discorsi, eppure non approdavano a nulla di concreto. Nessuno riusciva a convincere l’altro. Fiedor rimaneva isolato, però incontrollabilmente fedele alle sue idee. Era necessario ricostruire il ponte, per rivivere i tempi eroici del passato e ridestare nella gente nobili ideali. Ma come era possibile, praticamente, ricostruire il ponte? Sarebbero bastati pochi volontari sotto la sua guida. Gente di vecchio stampo non ne mancava nel Paese. Sarebbe stato sufficiente convincerne una piccola parte. E poi, una volta ricostruito 5
il ponte, la vita avrebbe ripreso a fluire come nei vecchi tempi: una vita idealisticamente protesa in avanti. Erano, ormai, decenni che Nicola si trovava in Mozyr, e in quel lungo periodo di tempo molte cose erano andate cambiando. Deportato per la sua dissidenza, rinchiuso in un campo di lavoro della zona, torturato, minacciato di morte, molte volte a un passo dall’uccisione, sopravvissuto fra molti stenti, poi ogni giorno sempre meno sorvegliato, quasi trascurato, negli ultimi tempi libero di lasciare la sua residenza coatta. Non gli era stata comunicata ufficialmente la libertà, ma in ogni modo, dove andare? I guardiani erano diventati benevoli, quasi degli amici. Fuori, il mondo era senz’altro peggiore. Quand’era recluso in un ferreo isolamento, sentiva nel mondo esterno molta solidarietà nei suoi riguardi. Quei pochi sguardi che riusciva a incrociare erano di simpatia. “Coraggio ‒ sembrava che gli dicessero ‒ la tua forza alla lunga prevarrà su ogni tirannide. Il popolo, costretto in servaggio, é con te. Vivi anche per noi!”. Ma ora, trascorso tanto tempo, le simpatie esterne si erano raggelate: ora egli poteva andare fra la gente, ma in loro non c’era più alcuna simpatia, solo un sentimento di commiserazione. La gente freneticamente si aggirava per le botteghe, alla ricerca di piccoli affari, per aggiungere, agli stipendi ufficiali, dei piccoli guadagni extra. Spesso, si trattava di pochi copeki, ma quanto necessari per una vita migliore...! Un abito più elegante, una pelliccia per la moglie, un viaggio all’estero, una vacanza sul Mar Nero; per queste cose, valeva bene la pena di esercitare qualche lavoro in più. Il resto contava ben poco. Cosa voleva quest’uomo dallo sguardo spaurito, che s’aggirava fra la gente, senza una chiara volontà, come un fuscello fra le onde? Era stato un deportato? Ma, si tratta di storia antica, chi la ricorda? Ne parlavano i vecchi genitori. Ma ora, che vogliono costoro? Andar via? Ma perché non lo fanno? Nessuno li rincorrerebbe: vogliono del denaro? Ma perché non si danno da fare come noi, che lavoriamo diciotto ore al giorno? L’ozio non paga, né da soddisfazioni. 6
Ma forse é vero quello che si andava dicendo. Questi dissidenti erano dei folli. Per loro erano più adatti i manicomi che i campi di lavoro. Ma in ogni modo, poiché sono innocui e non fanno male a una mosca, lasciamoli liberi fra noi. Purché non ci ostacolino nelle nostre attività, e nei nostri lavori. Tutto questo Nicola leggeva sul volto della gente. Ma la gente non sapeva che quel poco di libertà di cui ora essa godeva, era merito anche e soprattutto dei dissidenti. Perché la dissidenza aveva piegato l’ortodossia e aveva convinto i governanti a concedere qualche libertà necessaria, perché richiesta da tutto il popolo. Molte volte Fiedor aveva incontrato nella taverna Nicola e gli altri dissidenti, ma non li aveva mai curati. Anzi, per quanto gliene importasse, avrebbero tutti meritato la morte, perché per colpa loro la grande patria sovietica stava scadendo al rango di una nazione di second’ordine. Però, questa volta Fiedor guardò Nicola con un maggiore interesse. Tornava da una giornata sconvolgente. L’incontro con molti suoi amici gli aveva mostrato chiaramente in quale solitudine egli si trovasse con le sue idee. Molti amici, con i quali ricordava con nostalgia i vecchi tempi eroici e con i quali andava sognando il ripristino dell’ortodossia socialista, al semplice proporre sul piano pratico un’azione chiaramente avversata dalla nuova dirigenza politica, ovvero la ricostruzione del ponte, si tiravano immediatamente da parte. “Come puoi pensare, caro Fiedor, di metterti contro tutti i compagni di partito? Ormai, le nostre sfere dirigenziali hanno radicata una nuova politica, e non saremo noi a poterla modificare. I grandi comunisti del passato si imposero perché quello era il corso della rivoluzione. Oggi mancano tutti i presupposti per poter navigare lo stesso fiume. Manca l’entusiasmo popolare. Il popolo ha imparato a voler provvedere a se stesso, prima che alla nazione, né i dirigenti ce ne danno migliori esempi. L’egoismo genera interessi particolari, e lo sbandierare con troppa enfasi le nostre idee di sempre può dar fastidio a molti, protesi ad inseguire il tornaconto personale. Anche noi abbiamo una vita da svolgere nel contesto reale della società. Irrigidirsi nelle nostre idee potrebbe nuocerci, e non ce ne verrebbe alcun bene. Sarebbe come 7
combattere contro i mulini a vento. Sarebbe una esaltazione onirica, destinata a rimanere tale”. Questo il succo delle risposte dei suoi amici, alle proposte di ricostruire il ponte. E perciò, sconsolato, Fiedor s’era recato nella taverna per annegare nell’alcol le sue delusioni. Per la prima volta, incrociando lo sguardo di Nicola, si vide simile a lui. Uno spaesato. Un emarginato. Un sopravvissuto. Fu preso dalla tentazione di prenderlo sotto braccio, e scuoterlo dalla sua apatia con parole in realtà destinate a lui stesso: ‘Vieni, Nicola – avrebbe voluto dirgli – tuffa le tue tristezze in un mare di vodka; lascia che i nostri sogni vivano per l’ultima volta i loro ultimi bagliori, e poi seppelliamoli definitivamente; che importa il passato? Non ci appartiene più. Solo il futuro è da vivere. Cerchiamo di adeguarci ai tempi. Forse ce ne verrà anche del bene. Potremmo esaudire quel desiderio di agi, che inconsciamente ogni uomo si porta appresso nei momenti di ristrettezze e di bisogno. Una gradevole vacanza sul Mar Nero, le languide carezze di una giovane donna, delle allegre serate a Mosca... Perchè non inseguire tutto ciò, invece di chimere ormai sepolte dall’incalzare del tempo?’. Questo egli avrebbe voluto dire a Nicola, ma se ne astenne. Più che per orgoglio, per una strana idea che andava facendosi strada nella sua mente. Perché non persuadere Nicola e gli altri nemici di sempre a ricostruire il ponte insieme a lui? Essi non avrebbero dovuto opporsi, dal momento che la loro vita, superate le antiche persecuzioni, era stata svuotata di tutti quei contenuti morali di oppositori del regime, che rappresentavano la molla ideale della loro volontà? Ormai, esseri in balia delle onde, estranei ma non avversi alla nuova vita che si andava organizzando nella nazione, avrebbero potuto accettare volentieri un invito a compiere opere non routinarie, le quali avrebbero spezzato la monotonia della loro esistenza. Fu con questa prospettiva, che Fiedor si avvicinò a Nicola. “C’è un vecchio ponte sul fiume – gli disse – che la guerra ha trasformato in un cumulo di rovine; spinto dall’ambizione, e forse dall’amore verso le creature che ho contribuito a partorire, vorrei tanto che que8
sto ponte venisse ricostruito, ma ogni richiesta in tal senso mi è stata respinta: ho cercato del lavoro volontario, ma ho fallito anche in questa direzione; vorresti tu, insieme ai tuoi amici, aiutarmi in quest’opera? Forse ciò significa chiedervi troppo, dopo l’antico odio reciproco che ci ha contrapposti molti anni fa...”. Nicola guardò Fiedor con sospetto. Tacque per un po’, poi gli rispose: “Lotte fra noi ce ne furono, e di quale asprezza! Quante volte, incatenato nella mia cella, mi aspettavo di veder sorgere l’ultima alba! Quante volte ho visto scomparire nel nulla alcuni dei miei compagni di sventura! Ma ormai quei tempi sembrano tanto lontani. Eppure, il ponte ci ha già riuniti. Fu quando tu decidesti di minarlo, in modo che il suo crollo si opponesse all’avanzata dei tedeschi, e tu, appostandoti fra le rovine del ponte, con il tuo fucile potesti far crollare al suolo molti dei nemici. Non ricordi quanti altri fucili si appostarono al tuo fianco, fra le rovine del ponte? Tu ti chiedesti con meraviglia da dove sorgessero tanti soldati, dopo che una precipitosa fuga aveva svuotato i ranghi dell’esercito russo? Quei fucili erano i nostri. Dopo una momentanea illusione, in cui credemmo che Dio fosse con le truppe germaniche, riprendemmo coscienza della nostra patria; l’amore patrio non è un abito, che noi possiamo indossare a seconda delle circostanze; lo portiamo indelebilmente impresso sulla nostra pelle; nascosto da divise di parte, se ne possono ignorare i richiami, quando queste divise mostrano avversità per le nostre aspirazioni, e perseguitano i nostri aneliti di libertà. Ma poi, il nemico che si pensava amico, lacera le nostre vesti, le nostre e le vostre divise; cadono le illusioni, scompare la figura di Dio dai loro vessilli, e vi compare il demonio. Sui nostri petti denudati, ricompare il nostro marchio di sempre, quello che ci accomuna; quello dell’amore verso la patria comune: la nostra Santa Russia. Ecco perché il nostro fucile, dopo un periodo di smarrimento, tornò a tuonare con il vostro. Ma voi non ve ne accorgeste. Cessata la guerra, ripresero le persecuzioni; e, fra le rovine del ponte, crebbe l’erba incolta dell’odio”. “Non fu l’odio che ci divise - replicò Fiedor – ma l’attaccamento alle nostre idee e la volontà di portarle a trionfare sui nemici esterni ed interni. Vinti i tedeschi, altre forze misero in pericolo la nostra patria socialista, e voi, con la vostra dissidenza, rappresentaste un serio pericolo. Fu necessario, perciò, combattervi e rendervi inoffensivi. 9
Ora però un altro pericolo mortale si presenta per il socialismo. Le istanze revisioniste, che si muovono dall’interno del nostro stesso partito, lo portano a parlare un linguaggio ben diverso da quello dei padri della rivoluzione. Si dice di voler premiare il merito, di favorire il profitto, per incentivare il lavoro; ma quali sono i risultati? Il lavoro collettivo viene trascurato, le industrie statali divengono carenti, mentre prosperano le attività terziarie e su queste alligna la mala pianta della corruzione. Decadono i costumi. La prostituzione si sostituisce all’amore. L’uomo ricevette dalla natura questa capacità, che è l’amore, e se ne deve servire senza limiti. Ma dell’amore parlo, e non del mercimonio del proprio corpo. L’amore deve avere a fondamento la pratica naturale del trasporto dei sensi; la corruzione dei costumi, quando svilisce questi principi, indebolisce parimenti uno stato clericale ed uno Stato socialista”. “Forse tu parli così ‒ disse Nicola ‒ in quanto rappresentante dell’altra chiesa. C’è una similitudine, fra la Chiesa di Dio e l’altra chiesa; come esiste un misticismo religioso, così vi è del misticismo anche nell’ateismo e nel materialismo; ciò mi fa pensare a due facce di una stessa divinità: Iddio indica all’uomo le tavole della legge, e minaccia i peccatori con le pene dell’inferno; l’ateo, con simbolismi sui quali si impernia la superstizione, cerca di allontanare dalla propria mente l’idea della morte, in modo da concentrare nello spazio della vita terrena, il succo dell’esistenza; su questo tema, si sono articolate tutte le varianti del misticismo ateo e materialista: il culto del diavolo e la idealizzazione di un anticristo, come suprema autorità della vita terrena, in contrapposizione alla vita ultraterrena. Se tu non consideri offensivo tutto ciò, compagno Fiedor, vorrei che notassi come vi sia una similitudine fra questi culti e quelli in cui si articola la dottrina marxista”. Nicola tacque per un po’. Poi riprese: “In ogni modo, io e te siamo superati. L’uomo moderno ha imparato che non è necessario combattere per questi due principi contrapposti. La tecnologia moderna lo ha talmente sommerso di artefatti... si dice per la sua utilità... ma io direi per l’utile di alcuni, che nell’ombra possono ricavarne... da soffocare gli aneliti dell’anima; l’uomo ha perduto, in questa epoca moderna, la sua coscienza spirituale, rendendo, così, vana la ribellione del suo io materialista, contrapposto alla coscienza: egli è preso da una miriade di problemi terreni, che non gli rimane il tempo per instaurare una dialettica con gli avversari 10
delle proprie idee. E così, in questa terra, i governanti, impossibilitati a negare alle proprie popolazioni i beni di consumo, che stanno invadendo il pianeta, anche nei suoi più reconditi recessi, modificano il proprio credo collettivista, introducendo, sia pure in forma embrionaria, il concetto del profitto. Ed essendo essi stessi degli uomini, non si tengono lontani dalla sua realizzazione pratica, e cercano di farsi trovare pronti negli ingranaggi del complesso meccanismo creato, in modo che dei beni di consumo possano riversarsi anche su di loro. Come vedi, compagno Fiedor, le nostre Chiese non hanno più motivo di combattersi. Il vero materialismo lo troviamo, in questa epoca, trionfante, nel fluire stesso della nostra vita quotidiana, quando accettiamo i canoni, ormai codificati, di questa vita. Che bisogno c’è di combattere i propri avversari politici?”. Fiedor rimase scosso a queste parole. Per la prima volta, egli vide , nei dissidenti, non più dei nemici della rivoluzione, ma dei compagni di un naufragio, sbattuti da una tempesta su una stessa isola deserta, e costretti a escogitare degli espedienti per sopravvivere. Timidamente, introdusse la sua proposta: “Perché non mi aiutate a ricostruire il ponte?”. Non avendo notato disappunto o contrarietà sul volto di Nicola, riprese: “Il ponte è il passato. Anche se questo fu orribile per voi, il passato fu la ragione della nostra vita. L’oggi non ci appartene; vivere la vita odierna, significa essere morti anzitempo. Ricostruiamo il ponte. Riprendiamo a combattere sul ponte, insieme, come avevamo fatto durante la guerra, le nostre battaglie comuni; combattiamo insieme contro il nemico che inquina la nostra esistenza; la dipendenza dai ritrovati delle moderne tecnologie, che creano l’illusione di benessere per l’uomo, sopprimendo, però, ogni sua intima aspirazione; la stessa creatività dell’uomo viene affossata, demandandosi alle macchine , non solo l’appagamento di bisogni materiali, ma anche di quelli spirituali. Solo ricostruendo il ponte, riusciremo a ricreare in questa regione, le condizioni ambientali, che avevano caratterizzato quell’epoca”. Nicola sorrise. E questo sorriso suonò allo sguardo di Fiedor come un assenso. “Ne parlerò agli altri, ma penso che tutti noi accetteremo la tua proposta: insieme, ridaremo a questa regione il suo volto originale… forse la vita stessa subirà un cambiamento, spero in meglio”. 11
Passarono giorni, che a Fiedor sembrarono dei secoli. Egli avrebbe voluto trovarsi insieme con i dissidenti, per afferrarne i più segreti discorsi. E, infatti, vi furono, fra Nicola e gli altri, molte discussioni, anche vivaci, prima di raggiungere un accordo. “Come puoi pensare di aiutare i nemici della nostra Patria, della nostra Religione, delle nostre Famiglie, a ricostruire il simbolo della loro potenza vacillante? Vuoi forse che riprendano potere, e che con esso abbiano di nuovo inizio le persecuzioni? Non ti ricordi degli amici morti nei campi di concentramento, a migliaia, alcuni di stenti, altri fra le torture, altri, i più fortunati, fucilati? Molto più umani gli attuali governanti, i quali, pur disprezzandoci, ci ignorano, additandoci al popolo come innocui alienati”. Voi pensate – controbattè Nicola – che questo comportamento sia più umano di quello degli altri? Noi siamo stati emarginati dal contesto sociale della nazione, e non ci rimane che di morire, sia pure di morte naturale. Gli altri ci consideravano uomini. La nostra esistenza era pericolosa per loro, e perciò ci combattevano; la tortura s’addice agli uomini, e non agli esseri inanimati. E le persecuzioni erano tanto più crudeli quanto più noi eravamo importanti. Stringevamo l’anima coi denti, e resistevamo, con la speranza che un giorno i nostri ideali avrebbero potuto prevalere. Ma ora, che abbiamo visto i nostri tiranni perdere il loro potere, e la loro tracotanza venire confusa, possiamo forse gioire, come per una nostra vittoria? No. Ora veniamo a trovarci emarginati, in uno con i nostri persecutori, come dei sopravvissuti, ormai inutili alla nazione. Quale sarà il nostro futuro? Ritengo che l’età e le sofferenze patite, non ci presentino un lungo futuro radioso. Se vogliamo tornare a vivere da uomini, riprendiamo a esercitare la nostra libera volontà, anche se realisticamente dovremo cercare degli alleati. Ci viene offerto, dai nostri antichi persecutori, di ricostruire insieme il ponte. Perché non accogliere questa occasione? Se, con il ponte, il passato si riaffaccerà, cerchiamo che questo passato evolva nel senso da noi desiderato: con l’immancabile vittoria del Bene sul Male, e, con l’aiuto di Dio, dell’Uomo redento sul demonio”. Queste parole, piene di speranza, scesero nel cuore dei presenti, e tutti furono convinti a ricostruire il ponte. Per molti mesi, mentre la gran massa della popolazione s’affaccendava nei soliti traffici, un pugno di uomini con alacrità operava intorno alle rovine del ponte. 12
Inizialmente, il loro lavoro passò inosservato, essendovi molte sterpaglie e molti arbusti, a proteggere la loro attività da sguardi indiscreti. Ma poi, come Prometeo dall’argilla, i mattoni e le pietre, vivificati dall’opera umana, cominciarono a distaccarsi dal suolo, acquistando le fattezze di ciò che s’accingevano ad essere. La folla, attonita , tacque. Ma non tutti. Fiedor fu chiamato nella sede del partito. “Così, intestardito nelle tue idee, hai voluto contravvenire alle nostre decisioni collegiali, e ti accingi a ricostruire il tuo maledetto ponte?”. Fiedor ribattè prontamente: “Le decisioni del partito furono che non si stornassero dei fondi per dei lavori che voi ritenete inutili. Ma io non sto impiegando, in quest’opera, danaro pubblico. Perciò, quale biasimo mi viene rivolto?”. “Compagno Fiedor, tu ti proclami socialista ortodosso. E invece, appari come un pericoloso reazionario. Non solo, scavalcando il sindacato assoldi della manovalanza, contravvenendo alla nostra legislazione, ma avendo plagiato dei folli, te ne servi, utilizzandoli senza mercede e con orari e ritmi di lavoro disumani, apparendo ai nostri occhi, non come uno sfruttatore, ma addirittura simile al Faraone. Non ci meraviglieremmo di trovare, sotto le fondamenta, i resti di coloro che non sopravvissero all’immane lavoro”. Fiedor rimase per un attimo scosso a tali parole, ma poi si riprese prontamente: “La nostra è un’opera compiuta volontariamente, da un gruppo di uomini, che potrebbero ritirarsi da questo lavoro in qualsiasi momento lo volessero”. “Ma dimentichi, compagno Fiedor, che questi uomini non possono decidere niente, perché non sono liberi. Essi appartengono ancora alle patrie prigioni, in cui voi li avete ridotti. Sono dei prigionieri in regime di semilibertà vigilata. La nostra tolleranza non deve essere confusa con la nostra debolezza. Concediamo loro una certa libertà, perché li riteniamo dei folli innocui. Ma se tu, pieno di livore contro di noi, ti servi di questa gente, per organizzare una rivolta, noi dobbiamo riconoscere una certa pericolosità nella loro follia. In tal caso, siamo costretti a limitare le loro uscite dal carcere, in modo che essi comprendano il loro errore”. 13
E così Fiedor si trovò nuovamente solo. Ma non completamente. Infatti, il ponte, non più un rudere, tendeva le sue braccia verso le opposte sponde del fiume, senza però raggiungerle. Una creatura s’apprestava a vivere, ma la nascita era ritardata dalle invidie e dalle gelosie dei suoi nemici. E mentre egli, transitando sul greto del fiume, ricordava i giorni trascorsi con gli altri del gruppo, provava del rimorso, per avere costretto di nuovo Nicola e gli altri al regime carcerario. Provava del rimorso! Ma com’era possibile? Non si sentiva più nemico dei dissidenti. Anch’egli, sia pure sotto una diversa angolazione, era un dissidente. Le giornate passate a ricostruire il ponte avevano creato una specie di solidarietà fra i nemici di ieri. La notizia che alcuni volontari stavano ricostruendo un antico ponte, andato distrutto durante la guerra, era volata lontano. A Mosca, nelle alte sfere dirigenziali, vi erano persone, per le quali il passato, seppure bisognevole di essere modificato e corretto, non era da seppellire completamente. Per loro, il tentativo di ricostruire il ponte, non era opera biasimevole ma altamente meritoria, anche perché le alte sfere dirigenziali vengono sempre tenute all’oscuro delle beghe locali. Che può importare a Mosca, se un ponte, lontano mille e più chilometri, meriti o non meriti di essere ricostruito? A Mosca interessava il significato morale della ricostruzione. C’erano dei veterani (a Mosca era stato taciuto che i più dei ricostruttori erano dei dissidenti ancora in carcere) che desideravano riportare alla luce un’opera altamente meritoria del regime del tempo, e che aveva svolto durante la guerra un ruolo esaltante e decisivo per la vittoria contro gli invasori. Che, quindi, fossero ben accette queste loro aspirazioni. E che, anzi, fossero favoriti anche con pubbliche contribuzioni. E fu così, che nella sede del partito, a Mozyr, arrivò una lettera contenente un encomio solenne per i volontari del ponte, e un congruo assegno. L’arrivo di questa lettera produsse a Mozyr un certo disorientamento. Avrebbero dovuto mostrarsi pentiti nei confronti di Fiedor, riconoscendo pubblicamente i loro torti; e avrebbero dovuto consegnargli l’intero assegno, perché la costruzione del ponte andasse avanti. Ma, al riguardo di tutto ciò, sorse una grande disputa fra tutti i rappresentanti del partito. 14
Quelli del sindacato sostenevano che i lavoratori erano stati defraudati del loro diritto, essendosi ricorso all’impiego di lavoro nero. Le rappresentanze militari andavano sostenendo che il ricorso all’opera dei dissidenti sviliva il significato altamente morale della ricostruzione del ponte. Quelli dei Lavori Pubblici ritenevano che la competenza dei lavori dovesse tornare naturaliter agli aventi diritto. E tutti, all’unisono, protesi al godimento anche parziale degli utili assegnati da Mosca. Perciò, tutti studiarono il modo di riprendere i lavori, senza interpellare colui che era stato il principale animatore dell’iniziativa. Ma, fortunatamente per Fiedor, il disaccordo fu talmente grande che tutti ritennero opportuno, per non far prevalere i meriti dei rivali, che l’operazione ponte proseguisse nel modo in cui era iniziata ed era stata interrotta, con la sola variante di far scorrere del denaro sottobanco, a profitto personale dei maggiorenti. I dissidenti furono di nuovo liberati, e Fiedor fu, senza alcuna spiegazione, lasciato libero di proseguire la ricostruzione. Il gruppo tornò a lavorare come prima, ma l’atmosfera era diversa. Non vi fu più l’antico entusiasmo. La consapevolezza che la libertà potesse essere concessa loro o tolta senza alcuna giustificazione, aveva nei dissidenti rafforzata l’idea che essi non erano più considerati come esseri umani, ma come dei sopravvissuti, di cui era lecito per chiunque servirsi per qualunque scopo. E, quanto a Fiedor, profondo conoscitore dei meccanismi che regolavano la vita del partito, aveva raggiunto l’intima certezza dei patteggiamenti che necessariamente avevano dovuto avere luogo fra i vari funzionari preposti. ‘Se mi è stato concesso di riprendere i lavori – si andava dicendo Fiedor – sicuramente non è per un sincero ravvedimento; né la decisione deve essere stata disinteressata, dal momento che il desiderio di danaro, per i singoli, supera anche quel minimo di riservatezza, per cui si dovrebbe cercare di tenere celato l’aspetto corrotto del proprio comportamento’. Ma, anche a voler sorvolare sull’aspetto economico del fatto, c’erano i risvolti morali, che non promettevano nulla di buono per lui. Quando le autorità pubbliche s’appropriano di una impresa personale, i meriti vengono confusi a tal punto, che spesso l’ideatore dell’opera rimane nell’ombra. 15
Ed egli, già emarginato dai ranghi del partito per la sua ortodossia, avrebbe ricostruito il ponte senza alcun vantaggio, non solo economico, ma anche d’immagine. Anzi, non si poteva escludere che i funzionari del partito, ben lungi da riconoscergliene un merito, avrebbero potuto rafforzare la loro posizione contro di lui, sostenendo che i meriti della ricostruzione del ponte spettassero a loro, avendo l’ingegnere accettato mal volentieri di eseguire il lavoro. Mentre il lavoro proseguiva quasi per inerzia, gli esecutori andavano sempre più acquistando coscienza che il lavoro, per il loro bene, non dovesse essere completato. Un giorno, quando mancava poco per dichiarare completata l’opera, Fiedor sorprese Nicola pensoso sulla riva del fiume. “Come vedi ‒ gli disse ‒ l’acqua continua a scorrere sotto i nostri occhi, malgrado tutto vada mutando in questo mondo. Non è la stessa acqua che scorreva tanti anni fa, quando insieme combattevamo contro i tedeschi. Eppure, il fiume è lo stesso. Per quanto l’umanità si celi sotto le più svariate apparenze, essa rimane sempre, invariabilmente, la stessa. Io ti ho odiato tanto, da perseguitarti crudelmente. Poi, ci siamo trovati a voler insieme ridestare il passato, sia pure con opposte speranze; e gli altri, che ora ci governano, vanno spingendo le masse verso una politica informe e gretta, che affossa le nostre aspirazioni sia pure contrastanti, ma sempre ammantate di un sano idealismo. Eppure, nelle nostre profonde differenze, siamo sempre gli stessi: degli esseri che si affannano, soffrono, gioiscono, odiano, amano, per un epilogo che non muta mai, come il fluire di questo fiume; la morte, invariabilmente ci accomuna, e, dopo un lunghissimo numero di secoli, sarà impossibile distinguere di chi sono le ossa”. “Giuste parole ‒ disse Nicola. In questi giorni mi sto chiedendo se è stata una saggia decisione quella di rifare il ponte. Ogni monumento non vive per se stesso, ma per l’ambiente in cui si trova, e spesso, invece di dare il suo marchio caratteriale agli edifici circostanti, sembra dagli altri influenzato. Difficilmente, se non con uno sforzo di memoria, riusciamo a cogliere l’intimità del passato di fronte ad opere costruite allo scopo di immortalarlo. E spesso i nostri pensieri, turbati dai problemi della vita presente, avvolgono o con le loro grettezze l’opera del passato, sminuendone il valore simbolico. Quando avremo restituito il ponte a questa gente, esso non sarà il nostro, ma il loro ponte. Per loro, non avrà il significato di ciò che esso fu per noi, ma 16
di ciò che sarà per loro. Per loro, il ponte sarà quello di una umanità nella quale la inerzia dei governanti attuali fa affiorare manifestazioni deteriori. L’egoismo, la ricerca dell’utile individuale, l’edonismo, la corruzione generale stanno sconvolgendo i rapporti reciproci. Noi condanniamo tutto ciò, sia pure da opposti punti di vista. Ma siamo nel giusto? Forse che anche questo mutare dei rapporti umani, sotto la spinta inconscia dell’umanità, non è essa stessa una pagina di storia? Non è lecito ai morti contendere spazio ai vivi. Noi abbiamo cessato la nostra funzione. Voi avete costruito un socialismo avverso alla nostra religione, ed in nome dei nostri reciproci ideali ci siamo odiati con ferocia. Ma ora gli altri stanno cercando un’altra strada. Dove porterà? Non e’ mai possibile prevedere il corso della storia. Ma lasciamo che la storia segua il suo corso”. Tacquero per un po’. Poi, Fiedor, sommessamente ma deciso, insinuò: “Questa sera mineremo il ponte. Come allora. Anche allora, le travolgenti avanzate dei tedeschi nel nostro territorio sembravano indicare un nuovo corso storico. Ma noi vi ci opponemmo. Distruggemmo il ponte, e trovammo riparo fra le macerie per combattere la nostra battaglia. E vincemmo, cambiando il corso della storia”. “No, caro Fiedor – ribattè Nicola – non cambiammo il corso della storia. Perdemmo tutti, per un nuovo corso, di cui non conosciamo il finale. Persero i tedeschi con il loro nazionalismo esasperato. Perdeste voi, con l’ortodossia socialista. Perdemmo noi, con la nostra sete di individualismo, sordo ad ogni esigenza di socialità. Forse, neppure coloro che oggi sembrano vittoriosi, alla distanza risulteranno tali. Le masse premono, alla ricerca di nuove soluzioni, e perciò muta la storia. Ma essa mai si arresta, e nessuna soluzione può chiamarsi definitiva. Se distruggiamo il ponte, la storia non si fermerà, né si potrà mai avere il ritorno al passato. Se noi, insieme, abbiamo ricostruito il ponte, fu per una esigenza comune: ma ora tale esigenza appare chiaramente superata, e riaffiorano le nostre vecchie discordanze. Mosca ha deciso che il ponte appartiene al popolo russo; al popolo quale esso è attualmente e non a quello che noi avremmo voluto che fosse. A chi giova distruggerlo? Non certo ai nostri ideali, che non hanno avuto alcun peso sulle decisioni di Mosca, e neppure sembrano averne in un futuro prossimo. La distruzione del ponte avrebbe il significato di volerci dissociare ancor più dal popolo russo, di scava17
re un solco ancora più profondo. No. Non dobbiamo minarlo. Dobbiamo conservarlo per un domani lontano, con la speranza che qualcuno si ricordi di noi”. Fiedor tacque a queste parole. Egli non poteva contrapporre alcun argomento valido, ma c’era in lui, profondamente radicata, la volontà di distruggere il ponte. Il socialismo, per lui, era un dogma, che non doveva essere adattato ai volubili umori delle masse. Nato dalle masse, come forza vitale, sprigionatasi spontaneamente, per il bene delle masse stesse, doveva rimanere puro, come alle sue origini. Nessun patteggiamento doveva inquinarne le radici, che traevano il nutrimento direttamente dalle masse. Non era possibile che il ponte, ricostruito per puri fini ideali, venisse mercificato a beneficio di alcuni; di coloro che si appropriavano dei fondi stanziati da un governo lontano, e perciò cieco; di alcuni, fra le masse, che ritenevano utile godere, per i loro traffici personali, di un bene pubblico gratuito, piuttosto che di servizi privati e a pagamento. No. Egli non poteva permettere tutto ciò. Doveva minare il ponte. Quella notte stessa. Senza alcun indugio. Non avrebbe chiesto aiuto a nessuno, neppure a Nicola, e agli altri del gruppo. Avrebbe fatto tutto da solo. Lo fece, alcune ore dopo il calar del sole. Prese alcune cariche di dinamite, dai suoi attrezzi (come ingegnere ne possedeva per i suoi bisogni nelle demolizioni), le piazzò sotto ciascuno dei pilastri del ponte, dopo averle collegate a un detonatore. Si pose a distanza di sicurezza, con il comando a portata di mano. Guardò il ponte a lungo, prima di far esplodere le cariche. La sua creatura s’immolava. La mano era salda e decisa, ma il cuore, lacerato dal dolore, gli imponeva di indugiare. L’indugio gli fu fatale. Un fischio potente lacerò l’aria. Alcuni soldati, appostati sulla riva del fiume, avevano spiato le sue mosse. Essi erano stati avvertiti che un folle voleva distruggere il ponte, quello che il governo centrale aveva deciso di donare alle popolazioni locali. 18
La delazione era stata tanto circostanziata che essi vi prestarono fede, e si prepararono a troncare l’azione sabotatrice. Dopo avere accertato la fondatezza della delazione, si passarono il segnale convenuto. Un fischio acuto, cui immediatamente fece seguito una scarica di mitra. Incredulo, Fiedor, con il corpo ripetutamente squassato, cadde sulle ginocchia. Colui che anni prima aveva avuto il potere di somministrare la morte, su indicazione di delatori, diventava improvvisamente la vittima sacrificale del suo stesso sistema. I suoi nuovi amici lo avevano tradito! Oppure, egli aveva tradito loro? Era una delazione, quella di Nicola, avvertendo la polizia, che si stava cercando di sabotare il ponte oppure il tentativo di evitare di ridiventare la vittima dell’antico tiranno? La distruzione del ponte sarebbe stata imputata a tutto il gruppo, e tutti avrebbero pagato per essa. Era necessario tirarsene fuori, lasciare che le cose andassero nel loro corso naturale, che l’opposizione al partito rimanesse nell’ambito del possibile e non dell’irrealizzabile, insomma era necessario avvertire la polizia di ciò che Fiedor andava tramando. E ora, mentre il sangue di colui che che aveva sognato di riportare indietro il fluire della storia andava bagnando sempre più il terreno, su cui il corpo giaceva, pochi attoniti sguardi s’appuntavano su di lui: quelli dei soldati, che si andavano chiedendo chi mai fosse colui che cercava di distruggere il ponte; quelli di Nicola, che intendeva salutare con mestizia la dipartita di uno che gli fu, sia pure per breve tempo, amico; quelli della natura, insensibile al mutare delle vicende umane, spesso incomprensibili, perché condizionate da sentimenti, aspirazioni, e moventi, i più disparati e mutevoli.
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