Tursi turistica

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“a terra d’u ricorde” teresa crispino sabina piscopo

Catalogazione integrata del Rione arabo-bizantino della “Rabatana”

storia • archeologia • arte • architettura • folklore

... un po’ di storia cosa vedere usi, costumi e tradizioni


in viaggio verso Tursi...

In viaggio verso T ursi: uno straordinario itinerario di fede, d’arte e di storia

Al viaggiatore diretto a Tursi, antico feudo dei principi Doria, la Basilicata strizza l’occhio e regala un album di immagini diverse. Paesaggi, scorci, vedute: la Basilicata dalle mille cartoline eccola qui. Si mette in posa, sorride, offre profili da bella donna. Si cambia d’abito, trasforma i colori e muta le tonalità, si rende ogni volta diversa. Diversa a ogni sguardo, a ogni scatto. E nello scorrere dei chilometri, la via per Tursi non si sottrae al cambiamento. Anzi. Da Matera a Montescaglioso, e andando poi in direzione della Ionica e verso Tursi, il cambiamento in verità le si addice. E spesso è l’altra faccia del ricordo. O forse è l’essenza del viaggio. È il suo rumore di fondo. Allo sguardo il cambiamento si offre sotto forma di fughe di spazi dal finestrino; nella mente tira fuori i ricordi. Tira su dal fondo anche quelli insignificanti, della specie di una scarpa rotta o di un barattolo impigliato nella canna da pesca. Ma alla fine trova sempre un senso, una relazione tra le immagini che li evocano e i ricordi evocati. E allora anche un campo coltivato e un contadino sulla motozappa fanno venire in mente che cinquant’anni fa questa era la terra dei contadini di Rocco Scotellaro. Al viaggiatore che va verso Tursi se ne offre un’infinità, di

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queste relazioni. Prendiamo una chiesa. A Montescaglioso, ad esempio, ce ne sono tante in una sola via: Sant’Agostino,


in viaggio verso Tursi... Santo Stefano, Chiesa Madre, Santissima Concezione, Madonna delle Grazie. Sono tutte in Corso Repubblica. Ma si può anche andare oltre, sulle vie del sacro. Sempre qui, in questa città, in Piazza del Popolo c’è l’abbazia benedettina di San Michele Arcangelo. Oggi l’abbazia è frequentata dai turisti. Già esisteva però ai tempi dei Normanni e degli Svevi. I Benedettini non abitano più qui

Montescaglioso, l’Abbazia

da molto tempo; nel 1784 si trasferirono a Lecce perché non andavano d’accordo con i feudatari del posto. Le mura centenarie, i due chiostri, gli affreschi, i dipinti, quelli rimangono ancora. E rimangono pure le stanze, che sono più di trecentosessanta: cantine, refettorio, celle, biblioteca, appartamento dell’abate. Fuori, sulla piazza, c’è porta Sant’Angelo. Ritaglia verso il basso una vista su pini e olivi, e sui campi coltivati; a sinistra invece, le casette con le tegole e il camino fanno venire in mente storie d’altri tempi. Chi va a Tursi e segue perciò la via del mare, la statale Ionica, fuori dal finestrino vede le colonne doriche delle “Tavole Palatine”. Arrivano fino a noi dalla Magna Grecia e fanno venire in mente templi, teatri, città, non di ora ma d’altri tempi, questa volta veramente lontani. I Greci si misero in mare in un lungo viaggio verso Occidente. Sbarcarono sulla costa ionica e fondarono la colonia di Metaponto, tra il Bradano e il Basento. A Metaponto teneva scuola Pitagora. Anche la collina dell’Incoronata, verso Pisticci, la abitavano i Greci; e i Greci abitavano anche Siris, che probabilmente sorgeva non molto distante da Policoro, l’antica Herakleia. Se si pongono domande, la terra dà risposte alla maniera

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dei rebus. È così, allora, che restituisce tombe, strigili, fibule, orecchini; dà indietro vasi, ampolle, frammenti di

Metaponto, le Tavole Palatine


in viaggio verso Tursi... statue, collane. Manda fuori oggetti ma in realtà sono storie quelle che racconta. Allora lo strigile non è solo uno strigile, ma un pezzo della storia quotidiana dell’atleta che con quello strigile raschiava via dal corpo la polvere e il sudore, e gli orecchini non sono semplici orecchini ma parlano della donna che li ha indossati. La terra racconta dei Greci e dei Romani, e prima ancora dei Lucani e degli Enotri. Il pensiero va al grande archeologo Dinu Adamesteanu. Ma anche a poco tempo fa. Nella Val d’Agri si costruisce un oleodotto, ed ecco venir fuori una gran quantità di oggetti. È recente anche la curiosa scoperta, nel santuario di Pantanello a Metaponto, di resti dei cibi appartenuti all’antica colonia magnogreca, conservati in maniera straordinaria grazie all’assenza di aria. La Basilicata però è anche la terra dell’antica città romana di Grumentum. Latino era il poeta Orazio, nato a Venosa. Di Valsinni invece era la triste Isabella Morra, poetessa del Cinquecento; ora, a Valsinni, la ricorda un parco letterario a lei intitolato. Anche a Pisticci la terra restituisce la voce degli antichi Greci. Ma proprio qui tra i calanchi e l’argilla qualche secolo fa, nel 1688, il terreno si sbriciolò. Ci fu una frana tremenda; crollarono le case, le persone morirono. Poi quelle case furono ricostruite. Sono le “casedde”, in quello che oggi significativamente è il rione Dirupo. A Policoro invece, altro grande centro della Magna Grecia che si fa incontro a chi viaggia per Tursi, è il Museo della Siritide a ricordare gli antichi splendori; come quello

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di Metaponto, raccoglie quel che la terra ha restituito. Valsinni, il Castello

A Policoro c’è anche un grande castello baronale sulla


in viaggio verso Tursi... cima di una collina. La costruzione si presenta nella sua corpulenza poderosa a chi la guarda dal basso in alto, prima di inerpicarsi su per la salita. Interrompe la vista al di là della collina su cui si erge a presidio, con le finestre allineate, con i fianchi mezzo diroccati di mattoni sconnessi. Molti secoli fa quel castello era un monastero; una volta passò di lì Federico II di Svevia. Verso la fine del Settecento

Policoro

lo comprò all’asta Maria Grimaldi principessa di Gerace, che diventò così proprietaria del feudo di Policoro. L’ultimo ad acquistarlo fu il barone Luigi Berlingieri di Crotone ed il castello fu suo fino agli anni Cinquanta, quando ci fu la riforma fondiaria. Non molto distante da Policoro, sulla strada per Tursi, c’è la cattedrale di Santa Maria di Anglona. Non resta niente, ora, dell’antico centro che una volta era qui. E neanche rimane traccia dell’antichissima Pandosia che fu distrutta da Silla. Il santuario però, dall’alto della sua collina, racconta una storia che attraversa i secoli. Si legge nel profilo sobrio ed essenziale dell’esterno, nella pietra bianca e nel marmo; è scritta nel portale romanico e nelle formelle che lo sovrastano, nelle formelle fittili con sagome di animali che sono sul muro esterno. Dentro queste pareti centenarie resta chiuso il silenzio come in un guscio, sottofondo senza suoni per i delicati affreschi medievali che impreziosiscono la chiesa. Sono dipinte figure di santi, raccontate scene della Bibbia dal Vecchio e dal Nuovo Testamento. Fino a qualche anno fa, la bellezza millenaria di queste pitture era gravemente danneggiata dal passare del tempo, tant’è che dell’antico splendore restava poco sin quando, grazie al volume curato da Cosimo Damiano Fonseca, il valore del ciclo pittorico è stato accreditato

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in viaggio verso Tursi... e divulgato suggerendone il restauro; cosa che ha restituito alle pitture tutta la loro importanza e ne ha migliorato la leggibilità. Proprio qui, nel santuario di Santa Maria di Anglona, l’8 settembre si celebra la festa dedicata alla Vergine per ricordarne la nascita. Arrivano pellegrini da ogni parte, anche da lontano. A Tursi, la devozione per la Madonna di Anglona è molto sentita. Una volta la gente del posto alla Vergine chiedeva la pioggia. Questa terra impastata d’argilla e fatta di calanchi ha sete di acqua; perciò soprattutto in passato in Basilicata alla Vergine si chiedeva appunto la pioggia, pioggia e raccolto abbondante. Carlo Levi racconta il frastuono di trombe e di spari che accompagnava l’immagine della Madonna il giorno della festa ad Aliano, quando i contadini lanciavano verso l’immagine sacra manciate di grano perché portasse abbondanza. Era un fragoroso rituale in onore di quella che a Levi sembrava più una Persefone contadina che la madre di Dio, in piena sintonia con la mentalità di quell’universo contadino studiato cinquant’anni fa dall’antropologo Ernesto De Martino. La devozione per la Vergine in Basilicata è ovunque molto sentita. L’immagine della Madonna di cui parla Levi aveva la pelle scura, come quella della famosa Madonna Nera di Viggiano di cui era copia. Anche a Sant’Arcangelo, vicino Tursi, la devozione per la Vergine è grande. Proprio a Sant’Arcangelo infatti c’è il monastero di Santa Maria di Orsoleo. Secondo la leggenda lo costruì Eligio II della Marra, non prima di

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aver sconfitto e ucciso un enorme drago che infestava la La Madonna di Viggiano

regione. Solo la Madonna di Orsoleo però rese possibile


in viaggio verso Tursi... la prodigiosa sconfitta dell’essere mostruoso, poiché apparve miracolosamente ad Eligio dandogli forza e coraggio per affrontarlo. A testimonianza dell’impresa, accanto all’altare rimangono ancora oggi le zanne del drago. Ad Anglona, la devozione per la Madonna veste le linee discrete e sobrie del santuario, in piena sintonia con la vastità di calanchi che lo circonda.

La Madonna di Orsoleo

Quei calanchi sono proprio ciò che accompagna, curva dopo curva, chi da Anglona si dirige a Tursi. Ricordano il paesaggio lunare che Carlo Levi incontrò nel suo viaggio da Grassano ad Aliano. Pochi sprazzi di verde e per il resto solo argilla bianca, che sembra germogliare dal terreno arido per squarciarsi nelle profondità dei burroni. Queste formazioni del terreno, i calanchi, hanno l’aspetto e la consistenza dei castelli di sabbia sulla riva del mare. Fragili escrescenze fatte di una quantità senza numero di particelle d’argilla, sembrano momentaneamente strappati all’assenza di forma a cui li condanna la loro stessa natura proprio come lo è la sabbia dei castelli impastati con acqua di mare: basta lo scorrere delle dita per far perdere ai fianchi sabbiosi la materia costitutiva, e così i profili dei calanchi sembrano dilavati dal passaggio continuo di dita innumerevoli e invisibili. Lo stesso principio regola i cosiddetti camini di fata in Turchia, fatti di argilla come i calanchi lucani e come questi erosi dall’agire continuo del vento e dell’acqua. A Tursi, la natura argillosa del terreno prende la forma dei burroni, che dall’alto della Rabatana rotolano giù e si sgretolano. Quei burroni fanno venire

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in mente i versi di Albino Pierro, il poeta tursitano che per ben due volte fu alla soglia del premio Nobel.

I Calanchi e la strada verso Tursi


in viaggio verso Tursi... Le poesie di Pierro sono immagini e sono voci; hanno l’arcaica durezza delle pietre, scolpite nell’austerità senza tempo del dialetto di Tursi. È proprio “a terra di jaramme”, la terra di burroni della sua Tursi, che Pierro ha intrappolato nei versi come nel bianco e nero di una vecchia fotografia. “A terra di jaramme” è qui tra i calanchi e gli smottamenti del terreno, nella fragilità di una terra impastata di sole e di argilla. Dalla Rabatana i burroni si rompono in rivoli di frane, scendono e arrivano fino al fossato sottostante. Il convento di San Francesco dal campanile arabeggiante invece, dall’alto della sua collina guarda la Rabatana appesa alle nuvole, sospesa come sul palmo della mano dei suoi burroni. Il grande complesso fu costruito poco prima della metà del Quattrocento. La chiesa decorata ed affrescata, il chiostro, il pozzo, il nartece, la biblioteca, il calefactorium, le aule per lo studio e la meditazione, la stanza del frate guardiano, le celle spartane, i sotterranei. Fu subito cenacolo per i novizi, che i frati francescani della regola dei padri minori e osservanti avviavano agli studi di teologia e filosofia ma anche ad altre discipline. Era perciò un autentico faro di vita intellettuale per la ricca raccolta di testi sacri e non; un luogo di formazione umanistica oltre che di cultura scientifica, e sicuramente fu un punto di riferimento per tutto il circondario che vedeva gli stessi “zoccolanti” predicare e mendicare tra le strade dei paesi nel rispetto della regola, suscitando tra la popolazione pratiche devozionali ed opere di misericordia.

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Nella seconda metà dell’Ottocento il convento fu adibito a cimitero, quando gli ordini religiosi furono soppressi,


in viaggio verso Tursi... e agli inizi del secolo scorso fu definitivamente chiuso. Fino a cinquant’anni fa la chiesa funzionava ancora. Oggi invece, pietra dopo pietra, quel convento sta venendo giù, sta franando, ed è ora un cantiere in attesa di grandi restauri. La fragilità della terra, a Tursi, non solo rovina giù insieme ai burroni che scivolano dall’alto della Rabatana. Sui fianchi delle montagne di creta e di argilla si aprono come

Il Campanile del Convento di S. Francesco

finestre anche le fessure delle grotte scavate nell’arenaria. È proprio dalla parete di questi rilievi che nasce il canale Pescogrosso con il suo letto di sassi e di macigni. Il sole brucia il terreno e secca le piante, e anche l’acqua del canale si secca e se la beve la polvere. C’era un tempo assai lontano in cui le donne venivano qui a lavare i panni. Oggi, invece, Tursi non è solo una fotografia in bianco e nero. È un paese vitale, fiero delle eredità culturali e nello stesso tempo molto attento a cogliere le opportunità di un mondo in rapidissima evoluzione. È un paese che pulsa di attività, che anima la piazza, che esprime ingegno. Lo ha fatto anche alcuni secoli fa, allorché giovani maestranze del luogo, al seguito del Principe Doria, si trasferirono a Genova per edificarvi il prestigioso “Palazzo Tursi”. Opera tanto dispendiosa che prosciugò le casse del Principe sicché le maestranze tursitane dovettero rinunciare al compenso, ricevendo, in cambio, la dispensa dal pagamento delle future gabelle e ottenendo che il “Palazzo”, sede oggi del Municipio di Genova, ricordasse la loro provenienza. Il paese però non può fare a meno di avere come elemento vitale la potente espressione della natura e del paesaggio. I burroni, le pietre, il torrente, il ponte, tutto ne è segnato. Ed è questa la terra del ricordo di Albino Pierro.

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in viaggio verso Tursi... È questo il paese dell’anima, senza tempo, dove arrivano le voci della vecchia Rabatana chiusa nei suoi burroni. Di don Albino, il poeta, a Tursi rimane ancora la casa dell’infanzia, “u pahàzze”, come la chiama lui nei suoi versi. Pierro morì a Roma nel 1995. Ma è nel dialetto di Tursi che a un certo punto sentì il bisogno di esprimersi. Ed ecco le immagini della sua infanzia prendere la forma liquida dell’inchiostro per tornare a vivere sotto forma di figure nella mente e nel ricordo. Così sono i versi di Albino Pierro. Hanno i colori e i sapori della sua Tursi, il giallo del sole e il rosso di “pupàcce e pummidòre”, peperoni e pomodori, che le ragazzine vendevano portando il cesto sulla testa: “Certe vòte m’i sonne/ u gride d’i uagninèlle/ ca vènnene pupàcce e pummidòre/ nda na spurtèlle”, “Certe volte me le sogno le grida delle bambine che vendono peperoni e pomodori in una cesta”. Le parole del poeta non dimenticano neppure lo strepito dei contadini quando si uccidevano i maiali. Ovunque le mani afferravano e trattenevano il porco che si opponeva con tutte le sue forze dal prestare la gola al coltello sacrificale, mentre il piccolo Albino a casa si tappava le orecchie per non sentire lo strazio dell’animale. Crescendo però imparò pure lui a trattenere la bestia che moriva sotto quelle mani. Anche l’odore intenso della “fella rusce”, il pane abbrustolito e spalmato con lo strutto, e delle salsicce allo spiedo, e il profumo dei dolci di Natale, anche questi salgono da quell’infanzia, e così gli “struffoli” e le “crispelle” e il dolce del miele. A Tursi, dolci sono anche le marmellate d’arancia, fatte

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coi frutti grandi e profumati degli aranceti che crescono nelle campagne, nel verde che contende


in viaggio verso Tursi... lo spazio dei burroni. In quei burroni, da bambino, Albino Pierro andava a nascondersi. Da quei burroni, il vento sale con la voce delle pietre. Corre sottile e impalpabile tra le strade strette della Rabatana, il cuore antico della vecchia Tursi nel cui nome rimane ancora l’eco di lontane origini arabe e del lontanissimo “rabat” magrebino, che è il borgo fortificato, la località incastellata. A Tursi, del Castello ora non resta più nulla. Quella voce che viene

S. Maria di Anglona: formella fittile

dall’Oriente, quella voce sottile come il vento che inizia la sua corsa lontano nel tempo e nello spazio, può essere ancora percepita sotto forma di eco anche nei termini dialettali di altri luoghi qui nella Basilicata araba, che araba è, appunto, solo in alcune espressioni linguistiche oppure nei nomi di località che come la Rabatana di Tursi rimandano ad antiche contrade d’Oriente, come Castel Saraceno oppure i vicinati di Pietrapertosa, o ancora i due quartieri arabi di Tricarico, la Saracena e la Rabata, quest’ultima ricordata nei versi di Rocco Scotellaro: “Vento fila nei baratri/ delle lunghe stradette./ Giù nella Rabata,/ chiuse le stentate/ porte dei sottani,/ e non verranno…”. Quel vento corre sottile e si fa voce. L’ha catturato Albino Pierro in un lungo componimento dedicato proprio alla Rabatana, “A Ravatène”, e con le parole e l’inchiostro ne ha fatto una fotografia: “Cchi ci arrivè a la Ravatène/ si nghiànete ‘a pitrizze/ ca pàrete na schèhe appuntillète/ a na timpa sciullète. […] Pòure cristiene!/ Ci durmìne cch’i ciucce e cch’i purcèlle/ nda chille chèse nivre com’i fòrchie;/ e pure mò lle chiàmene ‘biduìne’/ cc’amore ca sù’ triste e fèn’a sgrògnue/ a piscunète e a lème di curtèlle”: “Per arrivarci, alla Rabatana, si sale la ‘pitrizze’, che sembra una scala addossata a una parete d’argilla in

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in viaggio verso Tursi... rovina […] Poveri cristiani!/ ci dormivano con gli asini e i maiali/ in quelle case nere come le tane;/ e anche ora li chiamano ‘beduini’/ perché sono violenti e fanno a pugni,/ a sassate e a colpi di coltello”. Voci e colori abitavano la Rabatana di Pierro, e urla e strepiti, e giochi di ragazzi. Pugni e botte, grida e sassate animavano una volta il borgo antico. Qui chitarre e mandolini e un baccano da tapparsi le orecchie accompagnavano le giovani spose, e organetti che suonavano e batterie che rintronavano, e mortaretti e tamburi assordanti, nella Rabatana legata al cuore di Albino Pierro perché proprio lì morì sua madre. Adesso, nella Rabatana senza tempo, poca gente abita ancora. Rimangono le piccole case, spesso solo muri esterni che racchiudono i crolli e le frane dell’interno. Rimangono le strade, intrappolate in una dimensione senza tempo come ragnatele sottili e invisibili. Rimangono le terrazze sospese sui burroni e sulle argille. Il resto è storia, è poesia, è ricordo. È una bella foto in bianco e nero che la Basilicata dalle mille cartoline conserva nel suo album, in attesa che quanti trascorrono le proprie vacanze nei villaggi sorti lungo la vicina costa metapontina, scoprano questo angolo dell’Italia minore, così carico di memorie. Sabina Piscopo

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