Amici del Musical #13

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amici del

musical

Le Bal des Vampires Daniele Carta Mantiglia Raffaëlle Cohen Next to normal Sarà perché ti amo Mary Poppins Angelo Di Figlia Chitty Chitty Bang Bang Beauty and the Beast Dirty Dancing Casanova Houdini Le nozze di Figaro Risate sotto le bombe Trasteverini

13|2015 w e b z i n e


Amici del Musical www.amicidelmusical.it sito ideato da Franco Travaglio webzine issuu.com/amicidelmusical ideazione e coordinamento editoriale Francesco Moretti

in redazione Stefano Bonsi, Alessandro Caria, Enrico Comar, Laura Confalonieri, Sara Del Sal, Diana Duri, Matteo Firmi, Roberta Mascazzini, Roberto Mazzone, Valeria Rosso, Enza Adriana Russo, Franco Travaglio n. 13|2015 21 marzo 2015

in copertina: Daniele Carta Mantiglia e RaffaĂŤlle Cohen in Le Bal des Vampires

Abbiamo fatto il possibile per reperire foto autorizzate e ufficiali. Per ogni informazione e/o chiarimento scrivete a: francesco.moretti@gmail.com


Facts & Figures

Dall’Italia Next to Normal Sarà perché ti amo Trasteverini Disney’s Beauty and the Beast Rossetti experience (Beauty, la Famigli Addams, JCS, Aggiungi un posto a tavola) Risate sotto le bombe Le nozze di Figaro

Dall’estero Le Bal des Vampires An American in Paris Dirty Dancing Mary Poppins Chitty Chitty Bang Bang Casanova DER GROSSE HOUDINI

Le interviste Daniele Carta Mantiglia Raffaëlle Cohen Il cast di Beauty and the Beast Angelo Di Figlia scarica la webzine in pdf: http://bit.ly/adm_13_download

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foto | BRINKHOFF/MÖGENBURG

Buon sangue non mente


di Franco Travaglio Un’enorme dentiera da carnevale campeggia sulla facciata del Mogador, sede parigina di Stage Entertainment: è il logo sanguinolento de Le Bal des Vampires, il grande musical (siamo più abituati a conoscerlo col titolo tedesco Tanz Der Vampire), visto da più di 7 milioni di spettatori in tutto il mondo, debuttato a Vienna 18 anni fa e tratto dalla parodia cinematografica Per favore non mordermi sul collo. Fautore del successo cinematografico e teatrale un grande maestro, Roman Polanski, che ha portato la satira dei vampiri anche nella ville lumière. E sorprendentemente le dolci sonorità del francese si sposano molto meglio alle musiche di Jim Steinman di quelle più aggressive del tedesco. Ecco allora Le Bal Des Vampires, l’ultimo blockbuster di Stage Francia, dopo La Bella e la Bestia, e in attesa di Cats previsto per la prossima stagione. Vampiri quindi, ma non quelli agghiaccianti di Dracula, e nemmeno quelli patinati e adolescenziali di Twilight, no, questi vampiri sono parzialmente ballerini (nonostante il titolo qui la danza è alquanto al margine), assai rockettari, e deliziosamente comici. La colonna sonora è un ibrido tra ballad roboanti, scioglilingua da revue, grandi hit stranamente pre-esistenti

Le Bal des Vampires, Parigi - Teatro Mogador

Grande successo anche nella capitale francesce per i vampiri di Roman Polanski



(dall’intenso Total Eclipse of the Heart ai meno noti titoli di Meat Loaf, già Eddie nel Rocky Horror film), sonorità hiddish e rock epico. A confezionare il tutto la vena gotica del rocker Jim Steinman, già mentore dello stesso Loaf nonché (co)autore del Whistle Down The Wind lloywebberiano, coadiuvato per il libretto e le liriche dall’esperto Michael Kunze (Elisabeth, Mozart, Rebecca). La storia è quella del film: Alfred, giovane assistente del vampirologo Abronsius, segue il professore in un villaggio sui Carpazi, si mette sulle tracce del vampiro Von Krolock, trova l’amore in Sarah, l’affascinante figlia di un locandiere, e tenta di salvarla dalle grinfie del succhiasangue

del quale subisce il fascino magnetico e peccaminoso. Il tutto tra inseguimenti nelle cripte, un sontuoso castello che sembra uscito da un video clip metal, balletti all’aglio, vampiri sadici e invadenti, vasche da bagno contese e un intero camposanto semovibile che si anima di mille defunti dai denti aguzzi pronti a celebrare l’insaziabile appetito di sangue e vita. Il libretto mescola con sapiente mestiere il registro grottesco con quello ironico, la risata e l’emozione, il coup de theatre con la suspence, e l’allestimento non dà tregua allo spettatore nella bulimia di luci, cambi scena, costumi strepitosi di Sue Blane, storica costumista di Rocky Horror (Picture) Show, sontuose



orchestrazioni rigorosamente dal vivo. Nel cast c’è una ‘vecchia’ conoscenza del musical italiano, Daniele Carta Mantiglia, già giovanissimo Romeo per Cocciante, e poi nel cast di Peter Pan, davvero convincente nei panni dell’eroe imbranato Alfred, mentre Rafaëlle Cohen (già vista nel medesimo teatro in Sister Act) è la splendida Sarah, dalla vocalità cristallina e una sensualità naif ‘suo malgrado’ perfetta per il ruolo, che rende ancora più sorprendente la sua metamorfosi da bellezza angelica a matura donna-vampira. Stéphane Métro (voce francese del Fantasma dell’Opera al cinema) è un Krolock istrionico, carismatico, che mette la sua potente vocalità al servizio di un personaggio mai così inquietante. Da notare anche i perfetti tempi comici dell’Abronsius di David Alexis, deli-

zioso nel suo solipsismo scientifico, ma tutti i protagonisti sarebbero da citare per la naturalezza e la professionalità con cui ricreano un mondo in cui sarebbe facile scadere nella macchietta. Abilissimo nell’orchestrare l’insieme con grande senso del ritmo teatrale, Polanski trova il terreno fertile per rinverdire la caustica satira dei vampiri già al centro del quarto lungometraggio della sua carriera (che aveva anche interpretato accanto alla compianta moglie Sharon Tate), accompagnando lo spettatore in un viaggio pieno di sensazione ed effetti, in cui non mancano riflessione, potenza narrativa e teatro di ottima fattura, che si può nutrire anche del sangue finto, del gran guignol vampiresco e del gioco scenico più collaudato, se è nelle mani sapienti di professionisti di questo calibro.


Daniele Carta Mantiglia


di Franco Travaglio Dopo Daniela Pobega nel Re Leone spagnolo, e Gian Marco Schiaretti nel Tarzan tedesco un altro performer italiano porta all’estero la bandiera del musical tricolore, a testimonianza della grande qualità che caratterizza i nostri performer. Daniele Carta Mantiglia protagonista del Bal des Vampires a Parigi: un altro sogno che diventa realtà grazie al colosso dell’intrattenimento Stage Entertainment. Incontriamo Daniele nel lussuoso foyer del Teatro Mogador. Raccontaci dell’avventura che ti ha portato a essere qui a Parigi, protagonista di questo kolossal. È partito tutto dalla chiamata di una collega, Loredana Fadda, “Ho letto su un sito francese delle audizioni per un nuovo musical della Stage, lo conosci?” Il titolo però in francese non mi diceva nulla, solo dopo ho realizzato che l’avevo visto pochissimi mesi prima a Berlino e me ne ero completamente innamorato: dovevo assolutamente farlo. Ho mandato tutto il materiale, dopo di che sono venuto a Parigi 4 volte, la prima solo per un colloquio riguardante la pronuncia, infatti la prima fase è stata dedicata a verificare se era possibile lavorare sul mio francese, mentre nelle altre due mi sono esibito di fronte al team

Le Bal des Vampires, Parigi - Teatro Mogador

Un italiano alla corte di Roman Polanski Il giovane Daniele Carta Mantiglia si racconta


creativo cantando il mio solo, il duetto, la coreografia. Superate tutte queste scremature è arrivata l’ultimissima prova alla presenza di Polanski stesso, e ho avuto il ruolo.

Ma tu lo parlavi già il francese? Sì, l’avevo studicchiato un po’ alle medie con la mia insegnante, e me lo ricordavo. La cosa mi ha aiutato a non essere totalmente spaesato: sapevo parlicchiare, lo capivo, non era una lingua totalmente nuova per me. Certo, dopo ho dovuto fare uno studio enorme con una professoressa di dizione con cui lavoravo quasi tutti i giorni sulla pronuncia e la dizione per togliere un po’ di accento italiano e rendere tutto più comprensibile.

Che tipo di musical è Le Bal des Vampires? È uno spettacolo che si distacca molto dal classico musical a cui siamo abituati, come la rivista o lo show Disney. Roman Polanski ha portato nel mondo del musical la sua esperienza cinematografica, e molti colleghi della prosa hanno notato che mantiene una grande dimensione recitativa, che è un grande complimento perché vuol dire che traspaiono bene le relazioni dei personaggi. C’è un vero gioco teatrale in scena: nonostante il rock, la maestosità di scenografie e costumi, mantiene una grande leggerezza. Ci sono molti doppi sensi, c’è tutta l’ironia già presente nel film che satireggiava sui vampiri, moda che oggi è tornata con operazioni cool e glamour alla Twilight. Per questo motivo è uno spettacolo anche molto attuale perché mette


alla berlina il vampirismo e in generale la cultura gotica.

Nella colonna sonora il rocker Jim Steinman riesce a creare costruzioni drammaturgico-musicali mai scontate: nei brani non c’è mai la stuttura pop ripetitiva strofa-ritornello, c’è sempre un movimento imprevedibile, evolve sempre in un tema melodico più intenso. Qual è il suo segreto secondo te? Jim Steinman non scrive abitualmente per il musical, non nasce come compositore di musical, probabilmente è proprio questo il suo punto di forza. Anche in ambito pop ha sempre scritto (per cantanti come Meat Loaf e Bonnie Tyler ndr.) canzoni molto complesse, molto lunghe e mai banali che sorprendono continuamente nonostante ci sia sempre il ritornello che ti rimane in mente. È difficile capire quale sia il suo segreto, perché analizzando le partiture non si trova la chiave stilistica esplicita che si riscontra in molti dei suoi colleghi.

Raccontaci la tua esperienza con un mostro sacro come Roman Polanski. Ero molto spaventato, per tutta l’operazione in generale, ma quando è entrato in sala il primo giorno, gli sono bastati due secondi, un sorriso e una battuta per mettere tutti a proprio agio. Il timore reverenziale nei suoi confronti è sparito e ci siamo trovati a lavorare con un compagno, un amico. Nei miei confronti è stato come un padre, mi ha accompagnato per mano in un’esperienza che per me era completamente nuova, ed



è stato un grande onore, una grandissima lusinga sapere che una persona come lui si mettesse a mia disposizione, senza farmelo pesare, per permettermi di dare il meglio. Per il resto è stato un mese e mezzo di lezione di recitazione e di messa in scena: vedere lui lavorare sulla regia mi è servito come attore, perché mi ha fatto notare tante piccole cose che mi sono poi trovato a interiorizzare e a restituire quasi inconsapevolmente in scena, ma anche dal punto di vista registico. Ora sono molto giovane, e non penso ci si possa improvvisare registi senza una lunga esperienza, ma è una cosa che mi ha sempre affascinato e il suo esempio mi ha insegnato la cura ma-

niacale per i particolari. Anche se siamo a teatro non ha mai badato alle distanze e ha curato i dettagli come se lo spettatore si trovasse a 10 cm, come se ci fosse la cinepresa. Ogni costume, scena, elemento di attrezzeria doveva essere perfetto; ogni gesto, ogni posizione calibrati con precisione certosina, per rendere lo spettacolo stimolante dall’inizio alla fine, in modo che non ci sia nulla di scontato, di ripetitivo, di lasciato al caso. Dopo questo tipo di lavoro sei sicuro che quella scena riuscirai a farla perfettamente, che tu sia in perfetta salute o con 40 di febbre o che tu ti sia fatto male, perché hai tutti gli strumenti e le indicazioni che ti servono.


Qual è il momento che preferisci dello spettacolo e quello più difficile? La scena più difficile è quella iniziale: sono in una tormenta di neve, non c’è assolutamente nulla sul palco con me, a parte il pupazzo del professore congelato. Ci sono solo quattro note, quindi è un opening in punta dei piedi, ma ci deve essere nello stesso tempo molta energia per aprire lo spettacolo, cosa difficile visto che nemmeno vedo il pubblico, perché recito dietro un tulle, come un muro tra me e la platea. Mi mette sempre molta agitazione e mi stanco tantissimo. Il momento più divertente invece è nel secondo atto: dopo la mia canzone solista, c’è la scena spassosissima nella cripta in cui io e il professore cerchiamo i vampiri: ora che abbiamo chiari tutti i passaggi tecnici ci divertiamo veramente molto.

Alfred è un personaggio molto difficile perché è continuamente sospeso tra comicità e serietà, passione e goffaggine, quindi basta il minimo errore per rovinare lo spettacolo, perché è il primo personaggio in cui lo spettatore si immedesima. Come hai raggiunto questo equilibrio? Polanski ci ha chiesto da subito di guardare il film, non tanto per emularlo ma per capire l’essenza dei personaggi, e c’è da dire che nella versione cinematografica lui interpretava il mio ruolo. Pur essendo perso-


naggi molto caratterizzati non sembrano mai finti o caricaturali, non mi ha mai dato l’indicazione di ‘fare’ l’imbranato o l’innamorato, mi ha detto: “mettiti nei panni di un ragazzino un po’ naif che si trova a dover fare tutto ciò che avrebbe mai voluto”. Le altre sfaccettature del personaggio mi arrivano dagli impulsi che ricevo dagli altri personaggi: col professore sono tremendamente maldestro, con Sarah alla goffaggine aggiungo la passione dell’innamoramento, e coi vampiri esce tutto il terrore che mi paralizza. Da tutti questi elementi e rapporti ho maturato l’equilibrio in Alfred e con gli altri personaggi: è arrivato un po’ da sé, un po’ grazie alla direzione di Polanski, un po’ grazie al lavoro che faccio sera dopo sera. Infatti ogni replica è diversa serve a far sì che non subentri l’automatismo, che è sempre un rischio per gli spettacoli replicati a lungo e uccide l’arte. Io punto sempre a evitare la ‘rappresentazione’ e a puntare sulla ‘presentazione’, come se fosse sempre la prima volta. Ogni replica mi chiedo se potevo recitare in un determinato modo, mettere determinate sfumature, e ogni tanto provo delle cose diverse, se funzionano le tengo. Ovviamente sono tutti cambiamenti in linea con quello che si è costruito col regista, ma cerco di inserire qualche elemento nuovo, vivo, che renda sempre lo spettacolo unico.


Le mille e una vita di RafaĂŤlle Cohen


di Franco Travaglio Rafaëlle Cohen è giovanissima, ma dal curriculum diresti che ha già vissuto molte vite. Incontrandola per strada potrebbe sembrare semplicemente una modella, però sa ballare, cantare e recitare ad alti livelli. È un animale da palcoscenico, però scrive, compone e crea sceneggiature. Ha all’attivo più di dieci spettacoli teatrali e altrettanti film tra medio e lungometraggi, corti, video clip e spot pubblicitari. Diresti che appartiene solo al mondo dello spettacolo, ma ha due lauree in Ingegneria e Architettura tra Parigi e il Politecnico di Milano, è esperta di disegno grafico e fotografia, e parla ben sette lingue, tra cui un italiano impeccabile, con cui ci ha parlato del suo ultimo successo.

Cosa ci racconti di questo show? Le Bal des Vampires è uno spettacolo davvero divertente: un musical molto comico, con una travolgente partitura rock, ed è anche stupendo dal punto di vista visivo e scenografico. Cantiamo dall’inizio alla fine, e gli artisti sono uno più bravo dell’altro. Io stessa ogni sera mi diverto da morire guardando i colleghi, si ride molto. La regia di Roman Polanski è un grande valore aggiunto: si tratta di un allestimento studiato e pensato nei minimi dettagli, nonostante sia un ko-

Le Bal des Vampires, Parigi - Teatro Mogador

Ingegnere, architetto, organizzatrice di eventi, performer: scopriamo chi è davvero la giovane interprete di Sarah


lossal di proporzioni inedite: non ci sono spettacoli di questo livello in Europa attualmente, a parte alcune eccezioni, tra cui le produzioni del Cirque du Soleil. C’è uno sforzo immane a livello di scene, luci, suono. Pensa che abbiamo fatto quasi tre settimane solo di prove tecniche. In una parola, è una meraviglia!

Che tipo di lavoro avete affrontato con Roman Polanski, e com’è stato umanamente approcciarsi con un personaggio così famoso? All’inizio ero un po’ intimorita, ma pian piano ho iniziato a capire che Roman è innanzitutto una persona squisita. È un vero professionista e parla solo di lavoro, però sa anche

essere molto divertente: cerca sempre di far ridere le persone che gli stanno intorno. All’inizio non riuscivo a credere che avrei lavorato con lui: fino al primo giorno di prove, in cui abbiamo letto con lui il copione, ero convinta che sarebbe venuto due o tre volte, e che avremmo provato soprattutto con i suoi assistenti. Invece è stato qui quasi tutti i giorni dell’allestimento. Ogni volta che apriva bocca io avevo brividi in tutto il corpo, perché diceva cose talmente giuste, belle e interessanti da emozionarmi nel profondo. Inoltre nonostante i suoi 82 anni si muove con incredibile agilità: è dappertutto, corre, salta, umanamente è veramente fantastico.


Raccontaci dei provini e della tua reazione quando hai saputo che eri stata scelta. Dopo 5 lunghi turni di audizioni da ottobre 2013 a febbraio 2014, in cui sono rimasta sempre molto serena, abbiamo fatto l’ultima prova sul palco, con le luci, alla presenza di Polanski e di altre 20 persone. Da 100 eravamo rimaste in 5, ma stranamente quando ho saputo che ero stato scelta, ho accolto la notizia con calma e serenità, l’ho vissuta come una grande vittoria però non conoscevo ancora lo spettacolo (non l’avevo visto a teatro e il film l’ho visto solo successivamente), quindi non sapendo bene a cosa andavo incontro non ho avuto una reazione particolarmente eclatante.

Qual è il tuo rapporto con l’Italia: tu hai studiato al Politecnico di Milano e parli l’italiano molto bene, lavoreresti in musical di produzione italiana? È vero, io ho studiato ingegneria e architettura in Italia, e intanto per mantenermi in allenamento ho continuato a esercitarmi anche nella danza e nel canto. La mia esperienza al Politecnico è stata molto interessante: ho imparato una nuova lingua ed ho scoperto il mondo dell’architettura, che era nuovo per me, è stato un periodo molto stimolante della mia vita. Però all’inizio ero a Lecco, che è un piccolo centro in cui non c’è una grande vivacità culturale, e non ero felicissima... Gli unici eventi artistici li organizzavo io.



Invece quando sono arrivata a Milano è stato molto più interessante: ho conosciuto un sacco di gente e sono venuta a contatto con molte realtà artistiche nuove. Nonostante questo però non so se mi piacerebbe lavorare in Italia. Anche se sono innamorata di questo Paese e mi appassiona la sua bellezza, l’esperienza di quegli anni mi ha fatto percepire una mentalità troppo chiusa: qualsiasi progetto proponessi, le porte mi si chiudevano sempre, se tentavo di migliorare qualcosa o lanciare un’iniziativa mi sentivo sempre dire: “non è possibile, si fa così e basta”. Questo atteggiamento non mi piace, quindi non vorrei lavorare a queste condizioni. Però se ci fosse il tour di

uno spettacolo francese o inglese con una tappa in Italia, verrei con molto piacere.

Molti artisti, soprattutto in Italia, fanno fatica a ottenere una formazione che unisca le tre arti del teatro musicale: canto, danza e recitazione. Come hai fatto tu ad aggiungerci ingegneria e architettura? Che consigli daresti a un aspirante performer? Una persona che vuole studiare le tre discipline deve aver presente che l’elemento che le unisce è il teatro. Ballare o cantare senza sentire cosa stai dicendo o facendo col tuo corpo, senza interpretare, non ha senso. Ballare per ballare, o cantare solo per la bellezza della voce, è una


cosa inutile, quindi ricordate sempre che il teatro è la cosa più importante. La danza e il canto invece sono cose discipline talmente tecniche che si devono iniziare a padroneggiare da piccoli, diversamente bisogna insistere all’infinito finché non le hai dentro di te. Io ho le ho imparate in aggiunta ai miei studi di ingegneria perché non potevo vivere o respirare senza, era un’esigenza, non potevo farne a meno.

Io e te abbiamo fatto entrambi uno spettacolo a cui siamo molto legati, Sister Act, come lo ricordi? Qualcosa del tuo lavoro in Sister ti è servito in Le Bal Des Vampires? Certo, Sister Act mi è servito moltis-

simo! Oltre ad essere stata una bellissima esperienza, ha rappresentato la mia prima grossa produzione a Parigi, una grande famiglia che non dimenticherò mai. Io poi ero swing [l’artista che non fa parte del primo cast di uno show ma è pronto a sostituire un gran numero di ruoli ndr.] e cover [il sostituto di un ruolo che subentra quando il primo cast non è in scena] quindi non ero sul palco tutte le sere, però rimpiazzavo tredici ruoli diversi, quindi dovevo essere sempre pronta. Conoscere così tanti ruoli è stata una formazione accelerata: io ho fatto ingegneria e architettura per molti anni, non ho potuto affrontare una scuola specifica, quindi non avevo un diploma in musical,


Sister Act è stato il mio diploma sul campo, una palestra incredibile! Da allora sono pronta ad affrontare tante cose di cui prima non avevo grande dimestichezza: fare le audizioni è più facile, sono più a mio agio sul palco e posso anche fare cambiamenti all’ultimo minuto. Qualche giorno fa il direttore ed io non ci siamo trovati: lui è partito prima di me ed ho dovuto tagliare un po’ di testo, decidendo in due secondi. Questo non l’avrei potuto fare senza la mia esperienza da swing!

Ho notato che rispetto alle altre produzioni qui a Parigi si vede di più la maturazione del tuo personaggio dalla ragazza solare dell’inizio alla donna-

vampira maliziosa e matura del finale. Polanski ha trovato in te l’interprete giusta per questa evoluzione, o è un aspetto sottolineato in modo particolare nell’edizione parigina? Io non ho visto le altre versioni, ma ad esempio nel film il personaggio in effetti non evolve. Secondo me è un elemento voluto dall’adattatore Michael Kunze. Me l’ha spiegato lui stesso quando è venuto alle prove: lo spettacolo parla della trasformazione di Sarah da ragazza a donna, o da pura a vampira. Sono sicura che l’abbia sempre voluto, quindi se tu non l’hai visto negli altri spettacoli vuol dire che qui è riuscito meglio, forse perché dentro di me ho entrambi gli aspetti. La gente mi dice spesso che


esprimo purezza, ma nello stesso tempo nascondo la voglia di ammazzare tanta gente, quindi mi sento molto vampira!!!...

Quali sono il momento più divertente e quello più difficile dello spettacolo? Tutti i momenti col professore, che è un interprete molto comico, sono divertentissimi, ma la mia scena in cui la gente ride di più è quando sto facendo il bagno nel castello e tiro fuori un’enorme spugna: in una scena simile nel primo atto spiego la mia passione per il bagno in vasca, e nel secondo è come se avessi trovato il mio paradiso in una enorma vasca da bagno e una spugna spropositata, quindi il pubblico muore dalle risate! Le scene più difficili sono entrambe le mie canzoni: prima di cantare “Gli stivali rossi” sono di fretta, devo cambiarmi gli stivali e poi correre, recitare, e poi cantare delle cose difficilissime, e trovare il fiato giusto per farlo è sempre una grande sfida. Anche i duetti con Krolock sono molto complessi da eseguire, tutto lo spettacolo è una sfida continua!

Qual è attualmente il tuo sogno più grande? Fare l’architetta, la scenografa, o hai dei ruoli in particolare che vorresti interpretare, o magari fare tutt’altro, e inaugurare l’ennesima vita di Raffaelle? Sogni ne ho tanti, quello più grande sarebbe fare un musical al cinema. Il cinema è l’arte che preferisco in assoluto, quindi oggi è il mio obiettivo principale. Mi piacerebbe anche cantare per una principessa Disney, o essere Maria in West Side Story, Velma Kelly in Chicago, Lucy in Jekyll&Hyde. Ci sono tanti ruoli che mi piacciono, però il mio più grande sogno rimane il cinema!

E chissà che Roman Polanski non ti voglia per un suo prossimo film.. Beh perché no? Vediamo... Non poniamo limiti ai sogni!



foto | Gaetano Cessati

Una famiglia quasi normale


di Roberto Mazzone Attesissima da mesi, ha debuttato in anteprima nazionale sabato 7 marzo al Teatro Coccia di Novara la versione italiana di Next to Normal, musical del 2008, con libretto e liriche di Brian Jorkey e musica di Tom Kitt. Il musical debutta a Broadway il 15 aprile 2009 dopo venti anteprime e rimane in scena al Booth Theatre fino al 16 gennaio 2011, per un totale di 734 repliche. La versione italiana è prodotta da Andrea Manara e Davide Ienco per STM – Scuola del Teatro Musicale di Novara, in collaborazione con Compagnia della Rancia, con la supervisione artistica di Saverio Marconi. Diana Goodman (una intensa e stupefacente Francesca Taverni) è in apparenza una normale casalinga che vive nella periferia americana, così come del tutto normale sembra la sua bella famiglia. In realtà Diana soffre di disturbo bipolare accompagnato da allucinazioni, derivanti da un trauma da lei vissuto anni prima. Suo marito Dan (Antonello Angiolillo), si impegna per mantenere stabile la famiglia, ma le cose si complicano quando Diana decide di smettere di prendere le pillole prescritte dal suo psichiatra, fino ad arrivare a un tentativo di suicidio. Su suggerimento di un nuovo medico curante, il dottor

Next to Normal, Novara - Teatro Coccia

Suicidio, depressione, tossicodipendenza, elettroshock: la ricetta per un musical di successo



Madden (Brian Boccuni), Diana viene convinta dal marito a sottoporsi a terapia elettroconvulsiva (elettroshock) che le provoca però amnesie. Insieme alla figlia adolescente Natalie (Laura Adriani), la quale si sente invisibile agli occhi della madre e comincia a sua volta ad assumere farmaci in modo incontrollato, Dan cercherà di ricostruire la vita di Diana come se Gabe - il piccolo mancato anni prima a soli otto mesi di vita, in seguito a un blocco intestinale - non fosse mai esistito. Luca Giacomelli Ferrarini è un Gabe - immaginato diciottenne da sua madre - molto “rock”, e sempre convincente, che nelle intenzioni incarna i desideri e le paure più recon-

dite di ogni essere umano, una sorta di It; si fa notare anche questa volta il giovane e brillante Renato Crudo, nel ruolo di Adam, fidanzato di Natalie, già apprezzato in Ragtime, andato in scena la scorsa estate al Teatro Comunale di Bologna. Lo spettacolo affronta temi che non ci si aspetterebbe di trovare in un musical “tradizionale”: disturbo bipolare, allucinazioni, elettroshock, elaborazione del lutto, il suicidio, la tossicodipendenza. Suggestivo il disegno luci di Valerio Tiberi, le cui scelte cromatiche dominanti (blu-giallo-verde), sembrano davvero rispecchiare gli stati d’animo dei protagonisti. Lo spettacolo non è tratto da alcun


libro o film di successo, è totalmente originale, ma molti sono i riferimenti ad altri musical o a personaggi letterari. Le più evidenti riguardano il musical Tutti insieme appassionatamente, il romanzo Il giovane Holden, la protago-

nista del film Qualcuno volò sul nido del cuculo e la pièce teatrale Chi ha paura di Virginia Woolf? Pubblico delle grandi occasioni e stampa presente al Teatro Coccia sono concordi nel tributare a questa


operazione il successo che merita e si può già affermare che il regista Marco Iacomelli stia portando a casa la sfida di aver descritto, nel suo adattamento, una infinita gamma di sfumature emotive, grazie ad inter-

preti di talento, che hanno fatto vibrare sul palcoscenico una partitura musicale di stampo rock eseguita da musicisti dal vivo, sotto la direzione musicale di Riccardo Di Paola, con la supervisione di Simone Manfredini.


Pi첫 Mamma Maria che Mamma Mia!


di Roberto Mazzone L’impressione aleggiava già durante il workshop messo in scena il giugno scorso. E ieri sera, purtroppo, ha trovato conferma. Sarà perché ti amo, il progetto firmato e diretto da Alfonso Lambo, che contiene le più belle canzoni dei Ricchi e Poveri, ha debuttato nella sua forma “compiuta” al Barclays Teatro Nazionale il 6 marzo scorso. Accanto al titolo si legge “Una canzone e molto più” ed è un peccato constatare che tutta l’operazione poteva in effetti essere “molto più”. Come durante il workshop di presentazione, permangono evidenti difetti a livello audio (per gran parte dello spettacolo la voce degli attori sul palco sembra sdoppiarsi tra timbro naturale e amplificazione, n.dr.); e anche l’illuminazione della scena lascia un po’ a desiderare, nonostante il disegno luci sia affidato all’esperienza di Valerio Tiberi. È soprattutto sul piano drammaturgico, però, che lo show presenta notevoli lacune. Il claim “Lasciatevi innamorare” appare pretestuoso: lo spettacolo parla d’amore, ma l’universalità del concetto non è sufficiente (e soprattutto non andrebbe sfruttata) nell’intento di creare il successo di un prodotto. Essendo un progetto tutto italiano, sembra quasi

Sarà perché ti amo, Milano - Barclays Teatro Nazionale

Le canzoni dei Ricchi e Poveri non bastano per convincere del tutto


che il messaggio che voglia passare sia che i musical realizzati in Italia non affrontino il tema dell’amore nelle sue varie sfaccettature… Anche l’ambientazione presenta qualche elemento di scarsa coerenza: lo spettacolo vorrebbe rappresentare “la vecchia Milano delle case di ringhiera”, e invece – a esclusione del caseggiato dove vivono i tre protagonisti appunto – le scene di città sono un susseguirsi di moda, iPhone,Vanity Fair, e prenotazioni on line. Lo spettacolo ha avuto una gestazione lunga e travagliata. Una riflessione risulta immediata: ci sarà dunque un motivo se questo spettacolo ha impiegato sette anni per arrivare al punto in cui si trova ora? E purtroppo non sembra essere ancora un traguardo.

Nonostante le evidenti perplessità suscitate a livello drammaturgico, la regia di Alfonso Lambo si dimostra fresca e piuttosto dinamica, supportata dal talento di TUTTI i performer in scena, che hanno saputo costruire al meglio i propri personaggi. I protagonisti Giada D’Auria, Bruno De Bortoli e Andrea Verzicco (che cura anche le simpatiche coreografie) sono un terzetto collaudato. Paola Ciccarelli e Altea Russo (quest’ultima interpreta anche la leggendaria Mamma Maria), nel ruolo di due vicine impiccione, sono un’esplosione di italianità. Tanti applausi anche per l’effervescente Lucia Blanco negli eccentrici panni di Susy; e poi Fabrizio Corucci nel ruolo di papà Ernesto, Tiziana Lambo, Giorgio Camandona,


Marta Belloni e Andrea Rossi. Le carte vincenti di questo spettacolo risultano dunque i personaggi e – ovviamente – le canzoni dei Ricchi e Poveri, negli entusiasmanti e inediti arrangiamenti di Davide Marchi e Paola Bertassi.

Siamo ancora lontani però dal poterlo considerare la risposta italiana a Mamma Mia!... o almeno non si può dire che lo sia, solo perché un’eccellenza italiana come i Ricchi e Poveri viene di sicuro apprezzata all’estero più di quanto non accada in Italia.


La Roma da sognare dei Trasteverini


di Franco Travaglio Dalle penne di Andrea Perrozzi e Gianfranco Vergoni, e dalla mente di Veruska Armonioso nasce Trasteverini, un piccolo gioiello di teatro musicale che nelle sapienti mani di Fabrizio Angelini prende corpo in uno spettacolo di rara poesia e divertimento. Deliziosamente sospeso tra Garinei e Giovannini, off-Broadway e uno Scugnizzi alla romana, tra risate (tante, intelligenti e di cuore) ed emozioni, racconta di un gruppo di ragazzi del pittoresco quartiere capitolino di Trastevere alle prese coi soldi che mancano, il lavoro che non si trova o non si vuole trovare, tentazioni di fare la ‘svolta’ tramite la classica scorciatoia che si rivela una trappola verso l’inferno, problemi di coppia, amicizia e canzoni. Dario (lo stesso Perrozzi, anche compositore delle musiche, impunito dalla simpatia contagiosa) è un moderno Rugantino col sogno di diventare cantante ma col vizio di non prendere mai nulla sul serio (“tu manco da morto starai serio cinque minuti”), ed è fidanzato con Adriana (la bravissima Elisabetta Tulli), che ha piedi per terra per entrambi. Ne nascono battibecchi e duetti (“Me possino cecà”) all’insegna de “l’amore non è bello se non è litigarello”. Il suo amico inseparabile Enrico (Enrico

I trasteverini, Roma - Teatro Sette

Poesia, emozioni e tante risate con la commedia musicale Romana de Roma


D’Amore, in una delle sue prove più convincenti) si innamora di Gabriella – Irene Cedroni, un’altra performer completa, come tutto il resto del cast, tra cui ricordiamo il multiforme Alessandro Salvatori, le amiche schiave dei social Francesca Cinanni, Roberta Marini e Valentina Naselli, e il ‘cattivo’ Tiziano Caputo – assistente di un losco impresario che promette un lancio nel mondo dello spettacolo che si rivelerà una truffa. Enrico sarà costretto a tradire l’amico, che si troverà in prigione al posto suo, e il dramma irromperà nella commedia, spiazzando il pubblico e lo stesso ritmo registico. Essenziale e lineare l’allestimento: otto sedie, qualche tavolo e

poco più, con momenti geniali come il prologo in cui una sorta di staffetta di monologhi assolve brillantemente alla funzione di presentare tutti i personaggi in un’unica scena, e il finale primo atto, “Credice”, in cui tutti i personaggi e i loro motivi conduttori dialogano in un crescendo di emozioni. Ma tutte le canzoni hanno un perché, ci sono belle arie, inni da cantare a


squarciagola (“I Trasteverini”, ad esempio, è una efficace autopresentazione “semo i romani de ‘na vorta quelli che a le donne j’aprono la porta pe’ pagà nun fanno alla romana e tutte ‘e sere sotto casa ‘e vanno a pià. Noi semo i trasteverini quelli che nun c’hanno ‘n euro né i quattrini ma lealtà e pe’ sognà je basta de cantà”), numeri comici e drammatici, tutti ben inseriti nel contesto drammaturgico e nella trama e im-

mersi in una romanità folk alla Trovajoli incrociata con l’opera pop e il musical da camera. Ed è un bene che ci sia il cd in vendita perché sono brani da ascoltare e riascoltare, per portarsi a casa un ricordo di questo spettacolo e pensare con nostagia alla città eterna. Quella città che forse non c’è più, o forse non c’è mai stata, forse un po’ da cartolina ma tutta da sognare, dipinta con efficacia in “La mia città”: “Tra vicoli e balere, commari, vecchie e sore, le carrozzelle e i fiori de lillà... Le grattachecche e i colli, le chiese, i sanpietrini e l’anima, la mia città...”. Dopo questo spettacolo, è anche un po’ nostra, anche se siamo nati a chilometri di distanza. Credice.


Tale as old as time


di Enrico Comar Il segreto del perfetto spettacolo pre-natalizio? Divertimento, tanta musica, un tocco di magia e i “soliti” ma sempreverdi buoni sentimenti a marchio Disney in una confezione altamente spettacolare! Questa, sostanzialmente, la ricetta vincente di questo Disney’s Beauty and the Beast, tour internazionale in occasione del ventesimo anniversario dello spettacolo (che, ricordiamo, debuttò a Broadway nel 1994, restando in scena per 13 anni), che vede riunito gran parte del team creativo originale di Broadway (regia di Rob Roth e coreografie di Matt West, costumi premiati con il Tony Award di Ann Hould, luci di Natasha Katz, scenografie di Stanley A. Meyer) sotto la diretta supervisione della Disney, per proporre uno show che supera ampliamente, per spettacolarità e cura dell’allestimento, la “concorrente” produzione austroungherese attualmente in tourneé europea. Uno spettacolo di puro intrattenimento, nel senso migliore del termine. Forse niente di geniale o di epocale (Roth non è Julie Taymor, né ambisce ad esserlo) ma spettacolarità e divertimento puri e ai massimi livelli. Allestimento ricco, colorato, sfarzosissimo e naif (stilisticamente poi in

Disney’s Beauty and the Beast, Trieste - Teatro Rossetti

A vent’anni dal debutto a Broadway, un nuovo tour mondiale fa rivivere il sogno della Bella e la Bestia


perfetto pendant con il Rossetti, con quelle scenografie liberty tutte giocate sui toni blu e dorati!), di grande impatto e molto coinvolgente, per quanto a tratti un po’ troppo circense e zuccheroso (laddove la trama avrebbe richiesto qualche atmosfera più gotica), con uno stile un po’ sopra le righe che a volte non coinvolge fino in fondo (la trasformazione finale sin troppo spettacolare, che banalizza, anziché esaltare, la magia del momento) ma che indubbiamente sa destare meraviglia e divertimento. Testo semplice ed efficace (di Linda Woolverton), volutamente schematico (con i personaggi caricaturalmente stereotipati ma proprio per questo spesso irresistibili), che riesce tuttavia ad approfondire in modo interessante alcuni aspetti che nella versione cinematografica da cui è tratto restavano solo sfiorati, alternando massicce dosi di umorismo “basso” ma efficace e alcuni momenti davvero toccanti. Musicalmente orecchiabile e frizzante, nel tipico stile di Alan Menken (su solidi testi di Howard Ashman e Tim Rice) con almeno un paio di numeri memorabili. Alterna sonorità vagamente “offenbachiane” a rimandi al musical degli anni ‘40 e al vaudeville, che perdono però molto della loro efficacia affidate ad un orchestra risicata (diretta da Michael Borth) con ampio uso di sintetizzatori (comunque un passo avanti rispetto agli standard italiani). Cast eccellente e notevolmente affia-


tato a partire dai comprimari, che diventano spesso i veri perni dello spettacolo.Teatralmente perfetto, ad esempio, l’equilibrio tra la complicità/rivalità raffinata e aristocratica tra Lumiere (Hassan Nazari-Robati) e Cogsworth (James May) e quella clownesca e piacevolmente dozzinale tra Gaston (Adam Diertlein, meraviglioso!) e Lefou (Jordan Aragon), ma eccellenti anche la sexy Babette di Andrea Leach o lo stralunato Maurice di Paul Crane, mentre decisamente poco convincente (non tanto per mancanza di talento, ma per discutibili scelte interpretative, oltre che registiche) è la Bestia di Darick Pead, fortemente sbilanciata sul versante sdolcinato e grottescamente umoristico e priva della statura tragica richiesta al personaggio (imperdonabile la dozzinale esecuzione della bellissima If I can't love her) anche a causa di un character design non troppo convincente (aspetto “orsacchiottoso” che incute tenerezza più che paura, con corna appena visibili e lunga coda volpina, movimenti più scimmieschi che ferini). Decisamente più a suo agio Hilary Maiberger nel ruolo di Belle, in grado di rendere umanissimo e sfaccettato un personaggio facile al cliché, che l’attrice riesce invece a mantenere interessante e dinamico per tutta la durata dello spettacolo. Sonoro ben bilanciato, pulitissimo e con volumi mai eccessivi ed eccellente, come sempre, l’organizzazione dell’evento da parte del Rossetti.


Girare il mondo divertendosi


di Sarah Del Sal Americani. Partiti da un tour nel loro paese per arrivare ben oltre gli Stati Uniti. Alcuni sono nel cast già da tre anni e non dimostrano il benché minimo sintomo di stanchezza né dell’essere in scena con lo stesso ruolo da cosi tanto tempo, né per i lunghi viaggi. Non di certo per quanto riguarda i teenagers. Charlie Jones e William Poon sono due macchine da guerra, sanno intrattenere chiunque con la loquacità degli adulti e parlano come loro. “Sono davvero fiero di lavorare con persone di così grande talento, credo di poter dire che questi anni nello spettacolo mi hanno dato molto e girare il mondo facendo il mio lavoro è un traguardo bellissimo” afferma Jones con la sicurezza di una persona che potrebbe avere il quintuplo dei suoi anni, e invece lui è ancora dell’età giusta per interpretare Chip; ma ormai lo abbiamo capito che all’estero il talento viene assecondato e trasformato in una professione fin dall'infanzia. Quello che invece è meno scontato è l'entusiasmo dei principals. Hilary Maiberger, Belle, è alla sua prima esperienza che però dura da tre anni, senza alcun training in danza o recitazione, ma con lunghi e approfonditi studi di canto. “Studiavo per

Disney’s Beauty and the Beast, Trieste - Teatro Rossetti

I protagonisti del musical si raccontano: talento, fatica, palcoscenico e la sensazione di stare in una lunga vacanza


scoprire le potenzialità della mia voce e per poi poter insegnare a cantare, e ho avuto l’opportunità di ottenere il ruolo che sognavo fin da bambina, quando ho visto lo spettacolo. Belle ha cosi tanto in comune con me che mi viene naturale interpretarla. Anche io leggo tanto, ho sempre un libro con me, anche se spesso sono dei trattati sulla voce. Dopo questa esperienza penso che vorrei continuare a recitare.” Darick Pead, la Bestia, ama parlare d’amore e dei suoi meccanismi, indagando come questa magia riesca a unire due persone. “Sono stato un discolo a scuola ma amo raccontare storie, e finché potrò raccontare una storia con un

pubblico davanti io sarò felice. Questo tour ci offre la possibilità di interpretare dei ruoli stupendi. Ammetto che non conoscevo che una canzone di questo spettacolo prima


di entrarvi ed è proprio quella della Bestia, quindi sono stato felice anche per questa occasione, così come l’opportunità unica che abbiamo di girare il mondo facendo quello che ci piace”. Hassan Nazari-Robati e James May sono invece Lumière e Cogsworth. “È difficile per noi esibirci fuori dall’America perché le bat-

tute vanno riviste e la reazione del pubblico non è mai uguale.” James May colleziona foto di orologi, li fotografa in tutti i posti che visita. Per lui, della California del sud, essere da tre anni stabilmente in uno show è una vera novità perchê è abituato agli allestimenti che stanno in scena circa tre settimane lasciando poi un punto interrogativo sul futuro. Questi ragazzi sono partiti da un US tour per andare in tutto il mondo a raccontare una storia che li ha appassionati tutti fin da bambini. Chissà se questo show porterà loro fortuna e ce li farà ritrovare a Broadway, così come spesso è accaduto con i loro colleghi inglesi, che in West End però, dopo i tour, ci ritornano.


the Rossetti experience


di Francesco Moretti La prima volta fu in Cats, nel 2008. Già all’ingresso nella grande sala del teatro Rossetti, abbracciando con un colpo d’occhio la platea e il palco, ci si rendeva conto dell’enorme valore aggiunto dato dalla volta affrescata con un cielo al crepuscolo, le nubi illuminate da una calda luce gialla e arancione che annuncia il tramonto. Il bello, però, veniva all’affievolirsi della luminosità in sala, quando le mille luci colorate della scenografia di Cats diventavano un tutt’uno con le migliaia di stelle che improvvisamente si accendevano sul cielo dipinto: un effetto da togliere il fiato per qualche secondo. Poi la musica, e i gatti che sbucavano ovunque, e i balli e le movenze... ma quando cominciarono a suonare le note di Memory, e Grizabella cantava i suoi struggenti ricordi alla luna, ecco che la magia si ripeteva: si riaccendevano le stelle sulla volta, e tutto il teatro si fece scenografia, abbracciando palchi, gallerie, loggione e platea. È un’emozione che non so in quanti teatri al mondo si possa provare. Qui al Rossetti indiscutibilmente sì. Ed anche in questa stagione, quattro musical e quattro momenti si sono prestati ancora una volta a questo suggestivo gioco tra palco e platea, in un’esperienza unica.

Trieste - Politeama Rossetti

...e tutte le volte che le stelle sulla volta del Rossetti si accendono per celebrare la magia del musical


In Disney’s Beauty and the Beast (novembre 2014), tutte le tonalità blu e oro che caratterizzano così bene il Rossetti si fondono armoniosamente con i colori dominanti dello show. Ma le stelle della volta si sono accese dopo la dolcissima scena del ballo, quando Belle e la Bestia escono dalla grande biblioteca per andare a sedersi nei giardini del Palazzo, in una notte blu. Il cielo stellato del Rossetti è diventato per magia il cielo che guardano sognanti i due protagonisti del musical Disney.

È in Gethsemane, uno dei brani più intensi di Jesus Christ Superstar (gennaio 2015), che la volta stellata del Rossetti si fa un tutt’uno con la scena. Ted Neeley, illuminato da un occhio di bue, canta i suoi tormenti ad una platea rapita, ma sembra davvero che si rivolga direttamente a Dio.


Anche ne La famiglia Addams (gennaio 2015), le stelle della volta fanno capolino per dialogare direttamente con la luna che ballonzola leggera in scena, tanto amata da zio Fester - Pierpaolo Lopatriello, in uno dei momenti più suggestivi e poetici dello show.

In Aggiungi un Posto a Tavola (febbraio 2015), le stelle fanno capolino, discrete, durante Notte da non dormire... c’è da ripopolare la terra dopo il diluvio, un tocco di romanticismo in più aiuta sempre!


Si può ridere anche sotto le bombe


di Enrico Comar 8 settembre 1943. Costretti da un attacco aereo a rifugiarsi nello scantinato del teatro di provincia in cui si stanno esibendo, gli artisti di una scalcinata compagnia itinerante guidata dal poco affidabile impresario Commendator Fresconi, ingannano il tempo e la tensione provando i numeri di un nuovo spettacolo che dovrebbero rappresentare la settima successiva in un importante teatro. Con il passare delle ore vengono a galla tensioni, rivalità, piccoli segreti che si sviluppano via via in situazioni più complesse, sino ad improbabili colpi di scena. La commedia, che vede il ritorno sul palcoscenico della fortunata squadra Buozzo-Marinetti-Schmitz, è, più che un musical vero e proprio, un divertito omaggio al teatro dell’epoca e ai suoi cliché, con tocchi di avanspettacolo, commedia musicale e rivista fluidamente inseriti in una “solita” ma sempre efficace cornice di teatro nel teatro, e affidati ad un cast efficace e ben amalgamato, che sopperisce ad un testo (di Giorgio Buozzo e Gianni Fantoni) a volte un po’ attorcigliato su se stesso e pretestuoso, che non sempre sfrutta al meglio un materiale di partenza (di per sé promettente) ma che, grazie all’asciutta regia di Francesco Sala

Risate sotto le bombe, Trieste - Teatro Bobbio

Un divertito omaggio al teatro degli anni Quaranta, e ai suoi cliché, tra avanspettacolo e rivista musicale



e alle sonorità curate e retrò dell’orchestra diretta da Christian Schmitz (piacevole e frizzante colonna sonora costituita, eccezion fatta per la title song composta per l’occasione, interamente da classici dell’epoca), offre un bel ritratto storico e d’ambiente, trasportando efficacemente il pubblico nel mondo di frenesia bohemienne e di disperata vitalità degli artisti in tempo di guerra. Il gioco funziona per un po’, con un tocco piacevolmente leggero che non sfocia mai nella banalità, ma alla lunga rischia di stancare, senza mai riuscire a toccare corde (anche umoristiche) più profonde e interessanti. Ne fanno per prime le spese proprio le tre Sorelle Marinetti (al secolo, ri-

spettivamente, Nicola Olivieri, Andrea Allione e Marco Lugli), i cui personaggi risultano un po’ sottotono e a volte inseriti a forza in quello che sulla carta dovrebbe essere uno spettacolo cucito su di loro, mentre a vestire i panni del mattatore è Fantoni, in grado di portare in scena efficacemente e con grande equilibrio un personaggio sempre sul filo della macchietta come quello di Fresconi. Completano il cast i bravi Francesca Nerozzi (Velia Duchamp) e Paolo Cauteruccio (Rollo). Il risultato è comunque uno spettacolo gradevolissimo, divertente al punto giusto e musicalmente impeccabile.


Who could ask for anything more?


di Franco Travaglio Misurarsi con un cult del cinema non è mai una passeggiata. Quando il cult in questione è Un Americano a Parigi di Vincente Minnelli l’impresa rasenta l’atto eroico. Non sorprende quindi che Christopher Wheeldon, regista e coreografo di questo primo adattamento teatrale destinato a Broadway, abbia, parafrasando Manzoni, ‘sciacquato i panni in Senna’, immergendo letteralmente tutta la prima fase di allestimento proprio in quelle atmosfere parigine evocate dal musical. Infatti, prima di debuttare al Palace di Broadway, An American in Paris ha realizzato due mesi di repliche nella Ville Lumiere, al Théâtre du Chatelet, dove abbiamo assistito con piacere a un’anteprima. Il libretto, adattato da Craig Lucas (The Light in the Piazza), rispetto alla pellicola mette in maggiore risalto l’intreccio amoroso (lei che ama lui che ama l’altra, concupita segretamente anche dai suoi due amici..) e gli aspetti storici e drammatici: nel secondo dopo guerra Jerry, soldato americano, decide di rimanere a Parigi e coltivare la sua passione per la pittura e dimenticare la barbarie del conflitto mondiale. Si offrirà di aiutarlo nella sua carriera la connazionale Milo, matura mecenate il cui interesse non si limita

An American in Paris, Parigi - Théâtre du Chatelet

Nella Ville Lumière una stilosa produzione de “Un americano a Parigi” destinata a Broadway


però all’aspetto artistico, e quando il giovane si innamorerà di Lisa, giovane commessa che lui non sa essere promessa all’amico Henri, la complicazione sentimentale e drammaturgica toccherà l’apice. A questo quadrilatero amoroso Lucas aggiunge un altro vertice, lo sfortunato pianista Adam, che si rivelerà anch’egli innamorato di Lisa, musa di tutte le sue composizioni. La danza è la componente più ricorrente e curata, con i corposi balletti sulle suite di Gershwin, compresa quella che dà il titolo allo spettacolo, e i protagonisti sono ottimi danzatori, a cominciare dalla dolce Lisa di Leanne Cope, inglese etoile del


Royal Ballet e dal convincente Jerry di Robert Fairchild, proveniente invece dal New York City Ballet, impegnati in romantici passi a due e a scene di piĂš ampio respiro, tutte straordinariamente coreografate. Stranamente defilata in un ruolo non da protagonista assoluta abbiamo rivisto con piacere Jill Paice (Milo), le cui qualitĂ canore e attoriali avevamo giĂ avuto modo di apprezzare in Matilda e The Woman in White a Londra e in Curtains a Broadway. Non mancano le celeberrime song di Gershwin da I got rhythm a The man I love, da Love is here to stay a They can't take that away from me, che prendono vita in un allestimento di gran classe,



con scenografie fastose e mai kitsch, arricchite da suggestive proiezioni dal fotografico al pittorico, ricreando una Parigi dai colori caldi, e scene di teatro nel teatro ricche di simbolismi e invenzioni, per culminare con la discesa di un grande arco decò che ricorda il Chrysler Building. La sfida di portare il film a teatro è vinta ampiamente, anche se sarà interessante valutare la risposta dell’esigente pubblico della Grande Mela e

della spietata critica newyorkese, a uno spettacolo che ha dalla sua una colonna sonora indimenticabile, ma anche l’inevitabile patina datata di un dance show old style che dovrà fronteggiare la concorrenza di spettacoli più moderni nella concezione stilistica e nel ritmo registico. E a Broadway gli spettatori non avranno la fortuna che è toccata a noi di uscire dal teatro e di sentirsi davvero come un americano a Parigi.


foto | Mehr! Entertainment GmbH

Solo la noia non è proibita


di Roberta Mascazzini In questa stagione 2014/2015, Germania ed Italia hanno un altro musical in comune, oltre a La famiglia Addams, ed è Dirty Dancing, tratto dall’omonimo film del 1987, ormai diventato un cult tra le spettatrici cinematografiche femminili più per la storia d’amore e l’attraenza del protagonista che per altri motivi: tanto basta per far assurgere questo titolo a leggenda e convincere Eleanor Bergstein, già autrice del film, a portare la sua creatura a teatro, facendolo diventare un musical nel 2004. Inutile ripercorrere la trama di Dirty Dancing, in quanto lo show teatrale ricalca quanto ancora oggi viene regolarmente replicato in televisione. Le scene (Stephen Brimson Lewis) ed i costumi (Jennifer Irwin) sono gli stessi visti al Teatro Barclays Nazionale di Milano, con l’orchestra esattamente nella stessa posizione, sopra agli attori e visibile al pubblico. Insomma, per una volta tanto non ci si deve né si può lamentare che “all’estero però è diverso”, frase ricorrente, ma spesso fasulla, ormai diventata abituale come tanti altri modi di dire. Quello che in Germania, semmai, è diverso, in questo caso, è che Dirty Dancing ha avuto una première nel maggio 2014 a Berlino e proseguirà

Dirty Dancing, Düsseldorf - Capitol Theater

Nonostante gli evidenti difetti, anche in Germania il musical tratto dal film cult riempie le platee


in tour attraverso Germania, Svizzera ed Austria fino all’inizio di agosto 2015, mentre la produzione italiana è andata in scena, seppure per ben due mesi, che in Italia non è affatto poco, solo a Milano. La produzione tedesca poteva inoltre contare su due protagonisti che già interpretarono i ruoli di Baby e Johnny nella passata edizione di Stage Entertainment, seppure come cover: Máté Gyenei e Anna-Louise Weihrauch. Anche Marie-Luisa Kaster vestì già per la nota società di produzione teatrale i panni di Penny. Ci sarebbero tutte le premesse per uno spettacolo ben riuscito. Eppure questo musical ha qualcosa che non convince. Il successo di pubblico, in

termini di biglietti venduti è indiscutibile, ma esiste una differenza tra un teatro sold out e la soddisfazione del pubblico in sala. È vero che alle società di produzione che non siano teatri stabili o altri enti sovvenzionati da contributi pubblici poco può importare che il pubblico sia soddisfatto quando la cassa è piena, ma è un discorso che non sempre o non a lungo premia. Lasciando da parte il fatto per cui si potrebbe discutere se Dirty Dancing meriti il titolo di musical, visto che i protagonisti ballano e recitano, ma sono altri a cantare, questa produzione ha essenzialmente una grande mancanza: il ritmo. Tutto sembra trascinarsi faticosamente, i dialoghi sono


lenti e persino pochi e brevi in proporzione alla lunghezza dello spettacolo. Ci sono momenti vuoti, in cui sembra che tutto sia sospeso, come se si fosse pigiato il tasto “pausa” del videoregistratore. Non si tratta , come si potrebbe magari pensare, di momenti di vera pausa per permettere al pubblico di applaudire. Anche perché gli spettatori trovano ben pochi motivi per farlo e in quelle rare occasioni fanno fatica a cogliere il momento opportuno. In poche parole, i tempi sono tutti sbagliati. Il primo tempo è quello peggiore da questo punto di vista.Va leggermente meglio nel secondo atto, ma il risveglio dalla catalessi si ha solo alla fine del musical con la famosa scena sulle

note di The time of my life, naturalmente applauditissima, a sottolineare il fatto che gli spettatori, in realtà, fossero lì solo per quello. Se è vero che i due attori nei ruoli di Johnny, ma soprattutto di Penny, eseguono egregiamente il loro compito, si può invece imputare parte della colpa alla Weihrauch. La sua è una Baby poco espressiva, addirittura insignificante, a parere non solo di scrive, ma anche del resto del pubblico presente in sala che, naturalmente, si lascia andare a commenti durante la pausa oppure a fine rappresentazione. Inoltre, l’attrice non riesce a rendere l’evoluzione delle qualità di ballerina del personaggio nel modo in cui ci si aspetterebbe:


non è né abbastanza negata all’inizio, né eccessivamente brava alla fine, tanto da stonare quasi accanto ad un Johnny dai passi così perfetti da apparire distaccato e freddo. La vera passione per la danza è invece trasmessa dal personaggio di Peggy: perfetta, sciolta, elegante, bella e sexy. Insomma, come ogni donna vorrebbe essere o almeno ballare. Tirando le somme, l’attuale produzione teutonica di Mehr Entertain-


ment porta a teatro solo intrattenimento, senza emozioni e senza divertimento, ma di sicuro, avrà un successo garantito fino a fine tournée il 2 agosto, solo grazie al richiamo del titolo cinematografico e a come a quell’epoca - negli ormai lontani anni ’80 - Patrick Swayze entrò nei cuori del pubblico femminile che, infatti, ancora oggi, riempie i teatri, sperando di rivedere attraverso Máté il defunto attore americano.


foto | Deen van Meer

La tata vola su Vienna


di Roberta Mascazzini A quasi dieci anni dalla première di Londra e a cinquanta dall’uscita del film della Walt Disney Pictures, Mary Poppins è arrivato al Ronacher di Vienna nell’ottobre del 2014. Il musical era stato un buon successo a Londra (poco più di 3 anni) e a New York (quasi 7 anni), passando persino per l’Olanda, la Svezia, il Messico e tanti altri paesi. Anche nella città austriaca questo spettacolo pare andare a gonfie vele, tanto è vero che si è deciso di prolungarlo fino al 31 gennaio 2016, mentre, inizialmente, era previsto “solo” fino a giugno dell’anno corrente. Eppure, nonostante possa sembrare scontato, non sempre o non ovunque, è facile aver successo con la trasposizione teatrale di un enorme successo cinematografico, soprattutto perché non in tutti i paesi ci sono le stesse tradizioni e la stessa cultura. Per esempio, se i bambini italiani sono cresciuti vedendo ogni anno il film disneyano alla televisione durante le vacanze natalizie, non è così nel mondo di lingua tedesca, dove il genere dei film musicali è completamente ignorato dalle emittenti televisive. Nonostante ciò, è naturale e lecito che lo spettatore si aspetti da questo titolo soprattutto della magia, perché

Mary Poppins,Vienna - Ronacher Theatre

Com’era prevedibile, anche nella capitale austriaca la tata più famosa del mondo fa il botto


Mary è una tata dotata di poteri soprannaturali. Il teatro però è il luogo dove tutto è possibile e quindi, grazie a diversi trucchi, il pubblico ottiene tutto ciò che desidera: la borsa magica da dove esce di tutto, persino un attaccapanni, la tata che vola sopra le teste degli spettatori fino a raggiungere il fondo della sala, gli scaffali della cucina di casa Banks che cascano e vengono risistemati con un po’ di magia. È vero che la storia raccontata nel musical diverge leggermente da quella del film: un paio di scene compaiono in ordine differente (per esempio Feed the birds o Spoonful of sugar), non c’è la divertente scena dei pinguini ballerini e nemmeno quello

strano personaggio dello zio Albert. Però l’opera teatrale conserva un elemento essenziale del capolavoro disneyano: i colori vivaci. Anche a teatro pare, durante molte scene, di trovarsi dentro un lavoro di Walt Disney. Da questo punto di vista, bellissime sono proprio le scene che non sono presenti nel film, come la gita al parco dove, al posto dei pinguini danzanti, ci sono le statue animate. Altrettanto colorata è la bellissima ed allegrissima scena nel negozio di Corry, durante la quale si canta Supercalifragilistichespiralidoso, che nel film veniva intonata al parco. Anche l’altra notissima canzone, Con un poco di zucchero non viene cantata nella stanza di Mary, ma in cucina


mentre si cerca di rimettere ordine al caos creato dai terribili bambini. L’effetto è così molto più dinamico e divertente. Il musical, a differenza del film, caratterizza maggiormente le figure dei genitori, mostrandoci un padre che tratta in modo piuttosto freddo i suoi famigliari, cercando di imporsi in modo quasi militaresco, perché lui stesso, da bambino, non ha ricevuto affetto, ma è stato affidato alle cure di una terribile bambinaia, quasi una strega. La moglie, di conseguenza, non può che essere più fragile di carattere e sottomessa ai voleri del marito, tutto preso dal lavoro e dal costruirsi e mantenere una certa posizione sociale. Proprio sulla tematica

sociale il musical pone qua e là un accento che non era presente nella spensieratezza disneyana pur terminando, per la famiglia Banks, in modo migliore, che si può scoprire però solo andando a teatro! Oltre ai trucchi che consentono alla protagonista di essere magica, alle scenografie coloratissime, sono i bellissimi balletti a caratterizzare questo musical: la già citata scena nel parco, il famoso ballo degli spazzacamino sui tetti di Londra, i giocattoli che si animano. Le coreografie di Matthew Bourne sono talmente belle da far rivivere davvero l’atmosfera del film. Ma la magia di questo musical si deve anche ai suoi attori, in primis Annemieke Van Dam, che se qualche



anno fa non aveva proprio acceso gli entusiasmi dei musical fans con la sua interpretazione di Sissi in Elisabeth, pare aver trovato in Mary Poppins un ruolo che le è molto più congeniale. Annemieke costruisce un personaggio al contempo dolce e deciso. Bravi anche i signori Banks, Reinald Kranner (George) e Anaȉs Luecken (Winifred). Ottimo David Boyd nella parte di Bert, fantastico tutto il cast, del quale fa parte il per-

former italiano Angelo Di Figlia, intervistato in questo numero. Visto che Vienna è tra le città più visitate dagli italiani, consigliamo di prendersi una sera per andare a vedere questo bel musical a teatro, proprio nel centro cittadino. In alternativa, si possono tenere d’occhio le date del tour in Gran Bretagna ed Irlanda, che partirà ad ottobre 2015 per continuare fino alla primavera del 2017.


Angelo Di Figlia

un italiano nel mondo di Mary Poppins


di Matteo Firmi È una fredda giornata a Vienna, l’appuntamento è fissato davanti al famoso Cafe Sacher, ma all’arrivo di Angelo, dopo un breve scambio di convenevoli, andiamo a scaldarci all’interno di un locale poco lontano . La chiacchierata prende subito corpo e il tempo, come nelle migliori occasioni,vola. Diplomato nel 2001 alla MTS di Milano, Angelo di Figlia ha partecipato a grandi produzioni in Italia e all’estero, da Pinocchio a Mamma Mia! in Italia e Francia, dalla Bella e la Bestia a Parigi, all’attuale Mary Poppins a Vienna.

Partiamo da Mamma Mia!, che esperienza è stata? Mamma Mia! è uno spettacolo che ha lasciato il segno, mi ha cambiato un po’ la vita. È uno spettacolo dove l’energia e l’entusiasmo trainano tutto. In Italia ero il capo balletto e ho vissuto lo spettacolo subito a 360 gradi, abbiamo avuto un ottimo cast con dei performer veramente bravi nel nostro panorama italiano. A detta del team creativo si tratta di uno dei migliori delle ultime produzioni e l’ho riscontrato anche io nelle varie repliche che ho visto. Mamma Mia! è una grande famiglia e uno spettacolo che è uguale in ogni parte del mondo, cosi quando mi han chiamato in

Vienna

Da Mamma Mia! a Mary Poppins, il giovane performer si racconta tra sogni e speranze


Francia sono riuscito a prepararmi in poco tempo. Chi ha partecipato a Mamma Mia! sa che è un qualcosa di unico, e quando ne parliamo tra colleghi sembriamo dei bambini appena usciti da un mondo magico.

Perchè Mary Poppins è il sogno di una vita? Beh... quando vedi lo spettacolo lo capisci, credo che non ci sia show migliore per l’ensemble... c’è tutto: mille stili, mille emozioni, tutti ci siamo emozionati vedendo Mary da bambini. Quando anni fa lo vidi a Londra ero rimasto colpito, ma non cosi tanto; sai, è uno spettacolo che si basa più sul libro che sul film, però sono stati creati dei numeri speciali, Supercalifragilistichespiralidoso è completamente diverso, non è soltanto ballare, ma si tratta d’interpretare, hai un personaggio... è il mio primo ensemble (di quelli che ho fatto io) dove sul contratto ho il nome del mio personaggio. Hai un ruolo ben definito e ciò è importantissimo, poi c’è il tap che io adoro! Ancora adesso sono grato dell’opportunità che mi è stata data. L’entusiasmo che ho qui è alle stelle... E siamo al 19 dicembre... e devo farlo fino a giugno! È uno spettacolo eccezionale, il cast è unico... c’è talmente tanto talento!

Una domanda che tante volte mi son fatto... cos’è per te musical? Decisamente il mio canale d’espressione ideale per il tipo di artista che cerco e voglio di essere. Ho avuto la fortuna di provare vari


tipi di lavoro, ho fatto il ballerino e m’annoiavo... Il mio primo amore è la danza, amo ballare, ma ho capito che non era la mia strada principale. Da quando mi ricordo io ho sempre ballato, però se mi chiedi cosa vuoi fare nella vita, beh... ballare e basta non è abbastanza per me, anche perché nella mia testa il termine di paragone è talmente alto che ho capito che quella strada non l’avrei fatta bene come lo volevo io. L’insegnamento di Mary Poppins è “Anything can happen if you let it” ed è molto importante che ognuno di noi lavori appunto per “far succedere” il proprio sogno e quando ho scoperto il musical, ho capito che QUELLO era il mio vero sogno e ho lavorato per farlo succedere... ci ho investito la mia vita ed ora ho la fortuna di fare IL lavoro che amo!

Che tipo di artista vuoi essere? Il più poliedrico possibile, voglio fare bene tante cose, tutto ciò che m’interessa lo voglio fare a livello ottimale, mi piace che il pubblico gioisca di una cosa che io faccio, ma il primo devo esser io a star bene. A me piace cercare, scoprire, approfondire sempre qualcosa di nuovo, punto sempre sulla qualità: meno, ma fatto bene.

Com’è stato lavorare in giro per l’Europa? È bellissimo, puoi confrontarti con culture e metodologie diverse... io sono stato tanto fortunato, le mie due avventure estere sono state Parigi e Vienna.



Tante volte noi italiani all’estero siamo etichettati come quelli che hanno una qualità più bassa; com’è stato l’approccio con le nuove compagnie? Devo riconoscere che tante volte c’è un idea un po’sbagliata dell’artista italiano, però sono contento di esser riuscito a far la mia parte per far cambiare questa idea. Bisogna un po’ conoscere l’ambiente dove entri, è difficile che nella prima settimana di lavoro a Parigi ci si prenda a pacche sulla schiena o altro, però rispettando paese e tradizioni e lavorando bene si può creare quell’amicizia che va al di là della bandiera.

La chiaccherata molto piacevole volge al termine, Angelo è una persona veramente stupenda, la sua passione per il musical la si vede mentre parla, mentre spiega nel pomeriggio viennese il suo cammino nel magico mondo del teatro. Auguro a lui il miglior cammino musicale possibile, perché se lo merita.


foto | Thomas Dashuber

Una vecchia fuoriserie

conquista Monaco al volo


di Laura Confalonieri Mettere in scena la prima continentale di Chitty Chitty Bang Bang, uno dei musical più costosi degli ultimi anni, è una sfida che pochissimi teatri cittadini avrebbero accettato. Il sovrintendente del Gärtnerplatztheater Josef E. Köpplinger, tuttavia (e pur avendo la sede in restauro fino al prossimo anno), non si è tirato indietro: non solo si è accaparrato - primo fra tutti nei Paesi germanofoni - i diritti di rappresentazione dello spettacolo, ma ne ha anche curato personalmente la regia. La traduzione in tedesco dei testi dei fratelli Richard M. e Robert B. Sherman è stata affidata a Frank Thannhäuser. Il loro spartito è stato adattato per il teatro da Jeremy Sams e Ray Roderick. Il direttore musicale Michael Brandstätter ha avuto a disposizione il coro operistico e l’orchestra sinfonica del Gärtnerplatztheater, che ha diretto con brio, e la coreografa Ricarda Regina Ludigkeit un corpo di balletto classico, che ha usato poco e male. Judith Leikauf e Karl Fehringer hanno fatto le cose in grande, costruendo la fabbrica di dolci di Lord Scrumptious (solenne: Alexander Franzen) sul modello di quella di Willie Wonka, e la cervellotica mac-

Tschitti Tschitti Bäng Bäng, Monaco

Una tonnellata e mezza di alluminio e legno: nonostante il peso, Chitty Chitty Bang Bang vola alto


china da colazione di Caractacus Potts. Per fabbricare Chitty sono stati usati solo alluminio e legno. Nonostante ciò, la fuoriserie pesa una tonnellata e mezza. Un banco idraulico le permette di ruotare e di sollevarsi fino a due metri di altezza. Il 30 aprile 2014 la sala ospitante del Prinzregententheater registrava il “tutto esaurito”, con un pubblico all’inizio scettico, ma incuriosito, e alla fine divertito ed entusiasticamente

plaudente. Anche per tutte le repliche nel teatro da 856 posti non se ne trovava uno libero. Il film del 1968 cui il musical s’è ispirato, del resto, è stato in parte girato anche in Baviera: il castello del barone era quello di Neuschwanstein e il paese sottostante era Rothenburg ob der Tauber (ma le riprese hanno fatto tappa anche a Rohrbach, nel Palatinato). Era quasi un punto d’onore, quindi, che la prima continentale si desse qui.


Il Prinzregententheater non è grande come il Palladium di Londra, quindi bisogna lavorare di proiezioni. Mentre l’orchestra suona l’ouverture, in effetti, sembra di essere al cinema: sul fondo viene proiettato un cielo azzurro con qualche nuvola bianca, e cominciano a scorrere i titoli di testa (i nomi degli interpreti e del resto della troupe). Quando l’obiettivo ritorna sulla terra, la scena è semibuia (luci: Michael Heidinger) e divisa in due piani da un ponte sopraelevato, dove sta una parte del coro. Siamo alle corse - non, come potrebbero far pensare i costumi di Alfred Mayerhofer, a quelle, celeberrime, di Ascot, ma a quelle automobilistiche di un luogo imprecisato nella campagna inglese (se Michael Otto, in carico

della drammaturgia, s’è attenuto al film, dovremmo essere nel Buckinghamshire). Tagli al numero musicale e brevi proiezioni in bianco e nero della corsa, per mostrare al pubblico come mai, quando farà giorno pieno, vedremo il rottame arrugginito di una fuoriserie dominare la scena. A bordo di questo rottame giocano Jeremy e Jemima Potts (Marinus Hohmann e Amelie Spielmann), figli del bizzarro inventore vedovo Caractacus Potts (sottotono: Peter Lesiak) e nipoti di un ex ufficiale che ha servito nelle Indie (vivace: Frank Berg) e che ora, un po’ svanito, gira per casa perennemente in divisa coloniale.



A completare la famiglia il cane Edison (ruolo muto, chissà perchè affidato a Nicola Gravante, visto che tutti gli altri cani che appaiono durante lo spettacolo sono di peluche). I bambini sono quasi alti quanto il padre e quando cantano, a differenza sua, non si fanno mettere sotto dall’orchestra. Nadine Zeintl, una Truly Scrumptious anche lei a misura di bambini, non osa usare tutta la bella voce che ha. Non si fa, invece, problemi a dar sfoggio del suo timbro brillante Sigrid Hauser, Baronessa esilarante: Bombie Samba è il numero più applaudito di tutto lo spettacolo. Erwin Windegger, baritono abituato a ruoli vocalmente più impe-

gnativi (ad esempio Sweeney Todd, proprio nel Gärtnerplatztheater), è chiaramente sprecato nel ruolo del Barone. Però è divertente osservare i suoi tentativi di eliminare la Baronessa (che si salva perfino da un volo dalla finestra). E se Markus Meyer è un Accalappiabambini tanto sinuoso e inquietante da far sudare freddo anche gli adulti, David Jakobs e Hannes Muik, rispettivamente nei ruoli di Boris e Goran, riportano il buonumore coi loro siparietti comici. Nel coro spicca il nome famoso di Kerstin Ibald, in lista anche come sostituta Baronessa. Quasi spiace che non abbia mai avuto la possibilità di debuttare in quel ruolo.


foto | Claudia Heysel

Casanova

il seduttore in pantaloni attillati


di Laura Confalonieri Un teatro cittadino deve, di questi tempi, avere una massiccia dose di coraggio per portare in scena un musical in prima mondiale, soprattutto nell’indigente ex Germania Est, dove la politica taglia le sovvenzioni con le cesoie. Eppure l’Anhaltische Theater di Dessau, cittadina sassone che ha un complesso architettonico patrimonio dell’UNESCO, ha commissionato al quarantaduenne compositore Stefan Kanyar e al quarantesettenne scrittore Andreas Hillger proprio un musical. In Germania, in un settore dominato da una multinazionale che agisce su scala mondiale, un nuovo musical deve, se spera di fare cassa, avere un soggetto accessibile, un protagonista famoso e una miscela di temi musicali tipici del genere. Hillger, che da tempo ha preso gusto a scrivere libretti, ha evidentemente ripassato di recente il Don Giovanni di da Ponte e ne ha ricavato tre atti di recitativi, ballate, duetti e numeri d’insieme sulla vita di Giacomo Casanova. “Was kostet die Welt? (quanto costa il mondo)”, tema centrale del compositore Stefan Kanyar, è il vero motto di Casanova, più delle avventure romantiche, che pure non mancano e

Casanova, Dessau [D] - Anhaltische Theater

Un nuovo musical in prima mondiale, tra kitsch e citazioni classiche: una scommessa nell’ex Germania Est


che vengono mostrate senza sottigliezze, oltre che senza veli: Casanova viene arrestato dall’Inquisitore Conte Querini (Adam Fenger, baritono spietato) durante un’orgia, i cui partecipanti portano fatsuits con genitali ultradimensionali. Ad un orecchio allenato non è difficile riconoscere da quali autori il compositore ha tratto ispirazione (accanto a Mozart, si sentono Beethoven, Bizet e Bernstein, oltre ad influssi di musica popolare al limite del kitsch), come ad un frequentatore dei teatri d’opera è impossibile non avere un déjà-vu fin dall’inizio dello spettacolo, quando il servitore Leporello (sic!) si lamenta della vita grama cui è costretto dalle avventure del suo padrone, mentre detto padrone deve lasciare le braccia di una dama per difendersi in duello dal di lei padre, che ucciderà (e che, in conclusione di serata, tornerà a prenderlo per trascinarlo all'inferno). D’altronde la leggenda vuole che proprio Casanova abbia collaborato alla stesura del libretto e alla regia del mozartiano Don Giovanni... André Eckert è un Leporello con una bella voce da basso e le braccia tatuate, in jeans e gilet di pelle come un roadie. Il Giacomo Casanova di Patrick Stanke ha una passione per i pantaloni troppo aderenti in pelle rossa e le canotte nere senza maniche. Ha i capelli lunghi e il fiato corto, non solo quando duella (inesplicabilmente incrociando le mani dietro le spalle)


ma, soprattutto, quando canta, oltre ad un’epa incipiente. Non si capisce come tutte le donne (suore in giarrettiere comprese) di Venezia vogliano dargli la caccia, arrivando perfino ad arrampicarsi sulle sbarre della sua cella nei Piombi, gridando come groupies isteriche. Però si vede anche dalla gigantesca scritta luminosa stile Las Vegas (la Venezia dello scenografo e costumista Ulrich Schulz è, oltre a quella, solo uno schermo gigante su cui vengono proiettate immagini in bianco e nero di gondole e Piazza San Marco) che la Serenissima è in decadenza: ogni tanto le lampadine delle letterone si fulminano e di “VENICE” resta solo “NIE” (che in tedesco significa “mai”) o “NICE” (che in tedesco neppure esiste, ma che in inglese significa, fra l’altro, “carino”). In questo scenario da crisi economica, le veneziane, si vede, hanno imparato ad accontentarsi - perfino di un rubacuori con la panza da camionista americano. Una di loro in particolare diventerà il chiodo fisso del seduttore: bella, misteriosa, ottima schermidrice (gli salva la vita fin all’inizio, mettendo in fuga i ninja - sic! sic! - dell’Inquisizione), accetta di diventare la sua amante, ma rifiuta la sua proposta di matrimonio, oltre che di rivelargli il suo vero nome, facendosi chiamare semplicemente Henriette. Roberta Valentini è vocalmente e fisicamente sempre a suo agio, sia nelle scene di cappa e spada, che in



quelle in costume, che in quelle di nudo. Il regalo d’addio di Henriette al suo Casanova sarà farlo fuggire dai Piombi. Gli apparirà fantasma molti anni dopo nel castello boemo di Dux, nella cui polverosa biblioteca, sventrata e invasa da una grigia coltre di neve con vista su opprimenti monti grigi, lui, ridotto al lumicino, riceve la visita della loro figlia (Karen Helbing, voce prorompente di soprano), della quale fino ad allora ha ignorato l’esistenza, che, per buona misura, si presenta non solo con una lettera della defunta madre, ma addirittura

incinta, per incoraggiarlo a continuare a vivere. E siccome qui il librettista sta decisamente esagerando, gli dei del musical (nelle vesti del regista Christian von Götz) intervengono a salvare il pubblico: una discesa agli inferi è, per un seduttore canuto, una fine più dignitosa che diventare un nonno babysitter, fosse anche solo dal punto di vista teatrale. Daniel Carlberg dirige con piglio l’Anhaltische Philharmonie. Bravo Helmut Sonne alla direzione del coro del teatro. Standing ovation per tutti.


foto | Harald Dietz

Houdini Buon sangue una a testa in gi첫 nonvita mente


di Laura Confalonieri Una prima mondiale ha sempre qualcosa di magico, e il teatro cittadino di Hof ha pensato bene di commissionare al compositore e paroliere inglese Paul Graham Brown un musical su una figura storica il cui nome è sinonimo di magia: Harry Houdini. Brown apre il suo nuovo spettacolo, The Great Houdini (DER GROSSE HOUDINI nella traduzione tedesca di Moritz Staemmler), con un’ouverture degna di un’operetta del secolo scorso, al termine della quale il sipario si apre su un grande tableau: davanti ad un tendone da circo la folla canta un inno a Harry Houdini, che, appeso a testa in giù, si libera da una camicia di forza. Da quel momento la vita di Houdini, o, meglio, la vita di Erik Weisz, viene raccontata in flashback. La famiglia Weisz arriva nel 1878 in America, dapprima nel Wisconsin, poi a New York. Il padre abbandona moglie e figli e Ehrich (il ragazzo ha deciso, d’ora in poi, di chiamarsi così), e i suoi due fratelli aiutano la madre a tirare avanti, un po’ con lavoretti saltuari, un po’ con piccoli imbrogli. Più tardi Ehrich e il fratello maggiore Dash si aggregano ad uno spettacolo itinerante di freaks. Lì Ehrich scopre la sua passione per i lucchetti.

DER GROSSE HOUDINI, Hof [D]

Un’altra eccellente prima mondiale in Germania, sulla vita del più celebre degli illusionisti ed escapologi


Durante una fiera incontra la sua futura moglie Beatrice (Bess) e se ne innamora. I tic, le crisi depressive e le manie di Houdini crescono di pari passo alla sua popolarità . Dopo la morte della madre, una relazione fatale e alcuni insuccessi professionali, muore a causa di una peritonite, apparentemente provocata dai pugni richiesti e ricevuti sottopancia da uno studente. Questa la trama dello spettacolo, che si attiene alla biografia di Houdini. La partitura di Paul Graham Browns richiede un’orchestra eccellente e cantanti che sappiano cantare veramente. Il teatro di Hof fornisce sia


l’una che gli altri. Sotto la direzione di Kenneth Duryea l’orchestra sinfonica di Hof riesce a destreggiarsi senza sforzi fra melodie stile impero austroungarico e i ritmi dei ruggenti anni ‘20, inframmezzati da ballate, arie sentimentali, piacevoli assoli, teneri duetti e grandi cori (complimenti al direttore Cornelius Volke). Chris Murray è un Houdini intenso e combattuto, che centra tutte le note e tutti gli acuti anche quando è appeso a testa in giù in catene. Non si risparmia neanche il trucco più famoso del grande illusionista, l’evasione dal contenitore pieno d’acqua. Christian Venzke è Dash, il fratello



maggiore che sacrifica la sua felicità personale sull’altare del successo del fratellino, e Cornelia Löhr è una Bess devota, ma anche determinata. Stefanie Rhaue dimostra le sue capacità di trasformista, passando dal personaggio della donna cannone all’inizio dello spettacolo a quello della medium sofisticata e intrigante Madame Charmian poche scene più tardi. Janelle Groos è una madre commovente. Karsten Jesgarz è il padre in fuga, che accompagna tutta la vicenda coi suoi commenti. È lui che chiude lo spettacolo con un ultimo assolo, una gradevole ballata. Il basso Jens Waldig brilla in tanti ruoli minori, così come Andreas

Bühring nel ruolo di Leopold, il fratello più giovane, e André Weiß in quello del giovane Erik, che per tutta la serata accompagna Harry come un alter ego. Il balletto con le coreografie di Tim Zimmermann arricchisce l’intelligente allestimento di James Edward Lyons, che evita di proposito ogni spettacolarità, per concentrarsi sul contenuto cameristico del musical, aspetto, questo, sottolineato anche dalla scenografia (oltre trenta cambi di scena in toni seppia, che danno un tocco d’antan) e dai costumi (più di cento) di Annette Mahlendorf. Peccato che la tournee abbia richiamato poco pubblico.


foto | Teatro Regio,Torino

Wolfgang

che inventò il musical


di Franco Travaglio Il rapporto tra Mozart e il musical si caratterizza in due spettacoli, Mozart! di Kunze e Levay (revival a Vienna previsto per il prossimo settembre 2015) e il francese Mozart, L’Opera Rock. Ma non si può capire a fondo la storia del teatro musicale moderno senza studiarne i progenitori, e quindi l’opera lirica, con la rivoluzione portata in essa dal compositore salisburghese che ha influenzato il teatro in musica di tutti i tempi, compresa la commedia musicale moderna. Le nozze di Figaro in particolare inaugura il filone del dramma giocoso, con cui riesce a raccontare i sentimenti, i vizi e i tic dell’umanità, con l’efficacia, la schiettezza e la potenza drammatica della musica. Il segreto è far convivere, proprio come nella vita, elementi seri e buffi, contrapponendosi alle affettazioni, agli astrusi artifici dell’opera seria contemporanea. Dice lo stesso Wolfgang in Amadeus, parlando dell’amore agli italiani “No, non credo che lo conosciate. Almeno assistendo alle vostre opere, con tutti quei soprani che strillano, amanti flaccidi che roteano le pupille. Questo... questo... questo non è amore, questo è immondizia!”. Non è difficile fare un parallelo nemmeno troppo azzardato tra questa rivoluzione e l’approccio più moderno, quotidiano, vero del musical

Le Nozze di Figaro, Torino - Teatro Regio

La rivoluzione del teatro musicale moderno inizia proprio col compositore salisburghese


rispetto alle forme di teatro musicale precedenti. Si trova piena conferma a queste suggestioni nella messa in scena, proprio delle Nozze mozartiane, vista al Teatro Regio di Torino il febbraio scorso. Un allestimento fortunatamente rispettoso della partitura e del libretto, lontano da certi modernismi cervellotici che si riscontrano in troppe regie liriche. Un plauso alla regista Elena Barbalich, allo scenografo e costumista Tommaso Lagattolla e al light designer Giuseppe Ruggiero, per aver composto quadri scenici di ispirazione pittorica coi colori caldi di una Spagna solare, e aver seguito la partitura senza forzature né manie di protagonismo. La rivoluzione mozartiana irrompe

sul palcoscenico fin dall’aprirsi del sipario, dopo la solenne overture esaltata dal piglio energico del direttore Yutaka Sado. Diamo ancora la parola al protagonista di Amadeus: “Allora, c'è un servitore a terra, in ginocchio. E lo sa perché? Non perché vi è costretto, no! Sta solo misurando lo spazio. Sa per cosa? Il letto. Il suo letto nuziale. Per vedere se ci sta! Ah! Ah! Ah!”. Barbalich sposta più dignitosamente Figaro da terra a un tavolo di progettazione, ma l’effetto ‘verista’ non ne è diminuito. Il primo atto procede senza soluzioni di conti-


nuità sorretto da una trama leggera che sottende una leggiadra, arguta, irresistibile celebrazione dell’ingegno femminile che mette in castagna qualsiasi tentativo maschile di gabbarlo. Figaro (il bravo baritono Guido Loconsolo) sta per sposare la servetta Susanna (la convincente Grazia Doronzio), che è però concupita dal loro padrone Conte di Almaviva, e con la complicità della Con-

tessa (la coppia è interpretata dalle belle voci di Dionysios Sourbis e Erika Grimaldi), una serie infinita di equivoci, travestimenti in cui solo il deliziato pubblico sa chi è chi, sospetti incrociati, spille perdute, paggi travestiti da dame (Cherubino è Samantha Korbey, ottima prova vocale e mimica), e scappatelle più o meno innocenti, si riuscirà a mantenere l’illibatezza della sposina e ottenere il pentimento del Conte, che darà il via al dolente eppur dolcissimo perdono della Contessa prima del finale. Tanti i brani diventati celeberrimi, dall’immortale Non più andrai farfallone amoroso che un sadico



Figaro canta al Paggio destinato alla vita militare, al caustico Se vuol ballare signor contino, alla metateatrale Voi che sapete che cos’è amor di Cherubino. Lo stesso compositore (questa volta quello vero) godeva del successo extra-teatrale delle sue arie: “Alle sei sono andato con il conte Canal al cosiddetto ballo di Bretfeld, dove è solito riunirsi il fior fiore delle bellezze praghesi… Io non ho ballato e non ho mangiato… Ho però guardato con sommo piacere tutta questa gente saltarmi intorno, piena di autentica allegria, sulle note del mio Figaro, trasformato in contraddanze e in allemande. Perché d'altro non si parla se non di Figaro, altro non si suona, intona, canta e fischietta se non Figaro...

È certo un grande onore per me.” Ogni singola nota delle Nozze non si limita alla meraviglia musicale, diventa teatro e quindi vita, ci parla di noi con un’intensità tale da far volare le quasi 4 ore di spettacolo. Se gli espedienti sono quelli tipici del teatro brillante, l’abilità librettistica di Lorenzo Da Ponte (le cui parole sono perfettamente comprensibili a due secoli e passa di distanza) e l’indescrivibile musica di Mozart ci regalano uno spaccato dell’animo umano con le sue debolezze, le ripicche, i battibecchi, con uno sguardo indulgente e amorevole che permette a ogni spettatore di salire su quel palco e a non volerci scendere più.


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Le Bal des Vampires, Parigi - Teatro Mogador, data

Grande successo anche nella capitale francesce per i vampiri di Roman Polanski


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