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Continua la lotta dei popoli nativi per il riconoscimento dei loro diritti /America Latina

CONTINUA LA LOTTA DEI POPOLI NATIVI PER IL RICONOSCIMENTO DEI LORO DIRITTI

di Francesca Cerrina

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Il 4 settembre 2014, sono stati uccisi quattro attivisti indigeni appartenenti alla tribù degli ashàninkas nell’Alto Tamaya - Saweto, una piccola comunità nella regione peruviana di Ucayali, al confine col Brasile, immersa nella foresta pluviale. Le loro morti sono considerate una rappresaglia per il loro attivismo contro il disboscamento illegale dilagante della foresta amazzonica e lo sfruttamento da parte dei narcos delle vie fluviali. I quattro erano di ritorno da un viaggio a piedi in Brasile dove si erano incontrati con altri leader indigeni per discutere delle sorti delle loro terre ancestrali. Faceva parte del gruppo anche Edwin Chota, considerato il Chico Mendes peruviano per la sua lotta per la preservazione della foresta amazzonica e che, proprio per questo suo impegno civile e ambientalista, era stato oggetto di crescenti minacce di morte negli ultimi mesi, minacce che aveva regolarmente denunciato alle autorità peruviane, senza ricevere alcuna risposta.

L’uccisione di Edwin Chota e degli altri membri della comunità ashàninkas è purtroppo solo uno degli innumerevoli episodi di violazioni dei diritti umani commessi ai danni delle popolazioni indigene che per giunta, nella maggior parte dei casi, passano sotto silenzio.

I popoli nativi di tutto il continente americano continuano infatti a essere vittime di marginalizzazione e discriminazione storica, molti sono costretti a vivere in condizioni di povertà estrema, con bassi livelli di scolarizzazione, ridotta speranza di vita ed elevata mortalità materna e infantile.

Il paradosso è che molte di queste comunità risiedono in aree ricche di minerari e risorse naturali, ma di norma non vedono riconosciuti i diritti sulle loro terre, a cominciare dalla facoltà di partecipare alle decisioni che ne comportano uno sfruttamento in nome di interessi privati nazionali e stranieri. Sempre più spesso i territori indigeni vengono infatti occupati per realizzarvi progetti di imprese private e multinazionali che, violando le norme esistenti, portano allo sfruttamento agricolo e idrico del suolo o alla distruzione dell’ecosistema per l’estrazione di risorse minerali e del legno.

Tutto ciò avviene con il beneplacito delle autorità locali che, anzi, fanno passare tali iniziative come preziose opportunità per la crescita della ricchezza nazionale. Si è così pericolosamente affermato un clima ostile nei confronti delle comunità indigene che si oppongono a tali progetti di “sviluppo” e che hanno portato i nativi a essere vittime di intimidazioni, aggressioni e omicidi, i loro leader oggetto di procedimenti penali basati su accuse infondate o pretestuose e diverse comunità a essere cacciate dai loro territori o minacciate di sgombero forzato.

La discriminazione e l’esclusione sociale storicamente radicate in molte società latino americane fanno sì che la maggior parte di questi crimini resti impunito. In alcuni casi poi sono le stesse autorità a reprimere con la forza le proteste dei nativi per il riconoscimento dei loro diritti, come in Perù, dove nel giugno del 2009, a Bagua, nella Regione di Amazonas, si sono verificati pesanti scontri tra la polizia e le comunità native locali, che si opponevano a una serie di investimenti privati nelle loro terre voluti dall’allora Presidente Alan García, nei quali sono morte 34 persone tra forze dell’ordine e manifestanti.

Eppure quasi tutti i Paesi latino americani si sono dotati di norme interne, anche a livello costituzionale, che riconoscono i diritti dei popoli indigeni o hanno sottoscritto norme di diritto internazionale in tal senso, come la Convenzione 169 dell’ILO, in vigore dal 1991, e ratificata da 15 Stati della regione, che attualmente costituisce l’accordo internazionale più completo in materia di tutela dei popoli nativi, o la Dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti dei popoli indigeni, adottata dall’Assemblea generale nel 2007 e votata unanimemente da tutti i Paesi latino americani, che, pur non essendo legalmente vincolante, rappresenta un’indubbia evoluzione della normativa e della volontà degli Stati in materia. In particolare, i due documenti sanciscono il principio fondamentale secondo cui i popoli indigeni devono essere consultati ogniqualvolta vengano varate leggi o progetti di sviluppo che abbiano un impatto sulle loro vite. Il dramma che stanno vivendo i popoli nativi è dunque paradossalmente dovuto al mancato rispetto, in primis da parte dei governi, di norme concepite e adottate proprio per proteggerne i diritti.

Per far fronte a questa situazione, diverse comunità indigene si sono mobilitate e hanno fatto sentire la loro voce, ottenendo dei successi di portata storica.

Nel 2012 la Corte Interamericana dei diritti umani ha emesso una sentenza a favore del popolo kichwa de Sarayaku, condannando lo Stato ecuadoriano per aver autorizzato un progetto estrattivo nel territorio di tale comunità senza il suo consenso previo.

La vicenda risale al 2002, quando una compagnia petrolifera aveva occupato parte del territorio dei Sarayaku per realizzare alcune esplorazioni petrolifere che avevano comportato la contaminazione dell’ecosistema e del territorio.

La sentenza della Corte, nel riconoscere il diritto dei Sarayaku a essere preventivamente consultati, ha imposto allo Stato ecuadoriano una serie di misure riparatorie, tra cui l’adottare i provvedimenti necessari per regolare il diritto dei popoli indigeni alla consulta e al consenso previo, libero e informato.

ùSebbene quest’ultimo, così come altri punti della sentenza debbano ancora trovare esecuzione, il 1° ottobre 2014 la comunità Sarayaku ha ricevuto le scuse ufficiali del governo ecuadoriano, un passo di grande importanza nella lotta per l’affermazione dei loro diritti e di quelli di tutte le comunità native.

Parallelamente, ad ottobre 2014 si è conclusa l’azione legale intrapresa dalla comunità Sawhoyamaxa nel 1991 per ottenere la restituzione delle proprie terre, nel nord del Paraguay, di cui si era appropriato l’uomo d’affari e proprietario terriero Heribert Roedel alla fine degli anni Ottanta, costringendoli a vivere per anni ai bordi della strada.

Nel 2006 la Corte Interamericana dei diritti umani aveva condannato lo Stato paraguayano per la violazione dei diritti dei Sawhoyamaxa, sollecitandolo a emanare una legge che restituisse loro 14.404 ettari di terra.

Il provvedimento in questione è stato adottato a giugno 2014 e successivamente impugnato da un gruppo di imprese appartenenti a Heribert Roedel.

Il 2 ottobre 2014 la Corte suprema del Paraguay, respingendo tale ricorso, ha posto la parola fine alla lotta di questa comunità per il riconoscimento dei propri diritti.

Questi casi di successo sono quindi la chiara dimostrazione di come le cose possano cambiare e di come i popoli indigeni possano vedere riconosciuti i loro diritti individuali e collettivi. Ciò che è finora mancata è la volontà politica di muoversi in questa direzione. E’ pertanto fondamentale, come raccomanda Amnesty International, che i governi della regione adempiano ai loro obblighi, sanciti anche a livello internazionale, in materia di difesa e protezione dei diritti delle popoli ancestrali, adottando innanzitutto le norme che assicurino loro il diritto di essere interpellati e poter intervenire liberamente, in anticipo e consapevolmente nelle decisioni che li riguardano.

Attualmente solo il Perù ha adottato, nel 2011, una legge in questo senso, mentre in Bolivia esiste un progetto di legge su cui si sta dibattendo.

Gli Stati occidentali, dal canto loro, possono e devono contribuire in maniera significativa al processo di affermazione dei diritti dei popoli nativi dal momento che sono le loro imprese a realizzare molti dei progetti di “sviluppo” che incidono sul destino di queste comunità.

Un passo importante in questa direzione può essere compiuto attraverso l’adozione della Convenzione 169 dell’ILO che i governi occidentali si ostinano a non voler ratificare sulla base del pretesto, infondato, che sul loro territorio non risiedano popoli nativi, ma che se ratificata comporterebbe l’obbligo per loro di rispettare le norme in materia di consultazione e rappresenterebbe uno forte strumento di pressione sulle imprese occidentali operanti nell’area.

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