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L’incognita ISIS /Storia

L’INCOGNITA ISIS

CHE COSA NON SI RIESCE O NON SI VUOLE CAPIRE (O SI OCCULTA) SULL’ISIS, SULLA SUA GUERRA, SUL SUO INCREDIBILE CALIFFATO

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di Giuseppe Carlo Marino

L’ISIS (Stato Islamico dell’Iraq e al-Sham), spesso abbreviato in IS, è un “ordinamento giuridico islamista”, non riconosciuto ma resistente ed offensivo per forza propria, di cui i media e i commentatori presumono di sapere tutto (organizzazione, propositi, fini, tattiche, operazioni militari) mentre è più vero che − per motivi che qui si tenterà di mettere il luce − tanto se ne è turbati quanto invero se ne ignorano o se ne occultano le verità. Il giudizio che trova tutti concordi in Occidente è che si tratta di un’entità assimilabile a un demone inaspettato che ha fatto irruzione nella contemporaneità , a sfida di ogni idea di ragione e di civiltà: un fatto la cui evidenza risulta senza ombra di dubbio dalla rappresentazione terroristica che esso stesso di sé predilige trasmettere al mondo, con quei proclami enfatici e deliranti, con quegli scempi spettacolari di monumenti d’arte e simboli antichi (accusati di blasfemia) della stessa storia musulmana e, soprattutto, con quelle esecuzioni di ostaggi innocenti, con quegli sgozzamenti ben più orripilanti in crudeltà di quel che, per l’esecuzione di una pena di morte, accadeva anche dalle nostre parti in tempi lontani non ancora adusi al rigore “gentile” e umanitario della ghigliottina.

Il mondo cosiddetto civile (che sarebbe il nostro), con l’imprevista nascita dell’Isis e con la correlativa auto proclamazione di un Califfato (ben fuori dei tempi a noi familiari segnati dalla ragione laica e dal progresso) si è trovato a fronteggiare di colpo qualcosa di simile a una sorprendente regressione nelle più oscure caligini della convenzionale rappresentazione del Medioevo. Tanto che ancora si fatica a ritenere che l’evento sia davvero credibile e reale. Ma se ne conoscono con ampiezza, e impressionano, proprio gli sviluppi organizzativi già assestatisi in efficienti e moderne forme statuali, e le abbondanti risorse economiche acquisite in gran parte tramite una forzosa appropriazione di riserve petrolifere, mentre la proclamazione di un Califfato (3 gennaio 2014) in tempi tanto lontani dall’egira e dall’età della successiva espansione imperiale dell’Islam, per un verso solleva una laica incredulità mista ad irrisione, per un altro verso inquieta come una malefica bizzarria di cui non è dato prevedere le future conseguenze.

Intanto, tra le prime gravi conseguenze, si evidenzia, ben più che un semplice rafforzamento, l’organico assestamento del terrorismo in una ben definita dimensione territoriale protesa ad allargarsi ulteriormente con poteri che non avrebbero potuto costituirsi, né sopravvivere , senza fruire di una loro radicata base di consenso. Della dinamica recente nell’area medio-orientale che ha dato corso ad un’instabile e competitiva “alleanza” tra l’apparato dell’Isis e il cosiddetto Fronte al Nusha (branca siriana di quel che resta di Al Qaida dopo l’eliminazione di Osama Bin Laden) non si ignorano i passaggi; così come è noto che tra i due rispettivi grandi capi, Abu Bakr Baghdadi (l’autoproclamato califfo) e Ayman al-Zawahiri (capo di Al Qaida), intercorrono rapporti infidi segnati da reciproci sospetti: persino per gli eredi di Bin Laden sceicco del terrore, i militanti dell’Isis sono troppo fanatici e “estremisti” per godere di piena fiducia e confidenza. Li tiene insieme comunque – con una comune aspirazione a “purificare” il costume e la prassi dell’ Islam, ancorandoli all’ortodossia della sharia e purgandoli dagli effetti di una crescente “modernizzazione” − una condivisa interpretazione offensiva della jihad come lotta agli eretici e agli “infedeli”. Per loro, mentre gli “infedeli” sono naturalmente quelli di sempre (e cioè i non musulmani, sia cristiani che di altre fedi), gli “eretici” sono tutti gli estranei alla presunta ortodossia sunnita e, in particolare gli sciiti, sia quelli del principale ed ufficiale Stato sciita (ovvero l’Iran), sia gli altri al potere in Siria con Bashar al-Assad o in Iraq con il governo fantoccio filoamericano degli Haydar al-Abadi e Fu’ad Ma’sum (appena succeduti all’ineffabile Jawad al-Maliki ed altri simili arnesi della Cia), e naturalmente anche i musulmani turchi, da secoli considerati “corruttori” della pura tradizione arabo-islamica. Al più alto livello del suo sanguinario impegno contro il nemico, l’Isis colloca quella singolare nazione senza Stato e senza certo territorio che è la nazione curda (frantumata e sparsa tra Siria, Iraq, Afghanistan e Turchia) detestata perché tanto giudicata “eretica” e inaffidabile nelle sue larghe componenti musulmane (di matrice non araba, ma ottomana) , quanto evidentemente “infedele” nelle sue componenti di tradizione culturale autoctona sul tracciato di un singolare sincretismo islamico-cristiano alle cui origini antichissime c’è il messaggio religioso, pacifico e tollerante, del mitico Zarathustra.

L’autoproclamato Califfato − così come si erge contro le centrali del potere sciita, dall’Iran (che resta per ora ai margini del territorio occupato dall’Isis come il principale e il più potente dei suoi nemici) alla Siria di Assad e all’Iraq sottoposto ad un infelice tentativo di controllo americano − è alleato di Al Qaida e della “resistenza” talebana in Afghanistan contro il sedicente regime “democratico” a sovranità limitata già formalmente guidato dal corrotto Hamid Karzai e oggi dall’antropologo ed economista Ashraf Ghani, laureato alla Columbia University di New York. E, nel confronto mortale con la popolazione curda impegnata in una disperata lotta per la sopravvivenza, sta perseguendo obiettivi di sterminio particolarmente nei confronti della combattiva minoranza costituita dai cosiddetti “miscredenti” yazidi.

Nel complesso, quella che potrebbe dirsi in generale una guerra di religione sulla quale il Califfato tenta di fondare la sua esclusiva “legittimità islamica”, assume i caratteri specifici di una vera e propria guerra civile interna al mondo musulmano; una guerra stigmatizzata, e talvolta formalmente condannata, dal cosiddetto “Islam moderato” e, in particolare, dalle componenti diffuse della sua diaspora nei Paesi europei. Va da sé che entrare nel groviglio degli accadimenti del mondo islamico esposto alla jihad dell’Isis è per le diplomazie e per i commentatori occidentali un’impresa molto ardua che rende difficile tener ferme le idee e più ancora gli orientamenti e i giudizi. Ad improprio compenso di siffatte difficoltà, basta avere la pazienza di seguire passo dopo passo la cronaca di quanto si sta sviluppando nell’area medio-orientale per avere l’impressione di conoscere almeno quel che basta conoscere. Ma capire il senso autentico di quel che con lsis sta accadendo − al di là del mero cumularsi dei fatti ad altri fatti nel corso delle vicende che ne evidenziano gli orrori − è ben altra cosa.

I più desiderosi di informazioni abbondanti e dettagliate possono ricorrere al libro appena uscito con Feltrinelli in edizione italiana dell’antropologa ed economista Loretta Napoleoni (Isis. Lo Stato islamico del terrore). Anche se il sottotitolo promette di spiegare “chi sono e cosa vogliono le milizie islamiche che minacciano il mondo”, in realtà, a parte la calligrafica descrizione del fenomeno, il libro spiega ben poco e, direi, quasi niente. Certo non trascura del tutto di mettere in luce, per accenni e con cautela, sia le illusioni coltivatesi in Occidente circa la buona sorte dei processi più o meno artificialmente attivati (se non addirittura fomentati) con le cosiddette “primavere arabe”, sia le colpevoli responsabilità e gli errori delle politiche delle cosiddette “democrazie” (specie degli Usa) nell’area, prima e dopo il fatale 11 settembre delle Twin Towers. Ben più che errori, potremmo più apertamente riconoscere, vere e proprie dissennatezze ovvero pseudomachiavellismi simili a quelli di un potere che scegliesse di affidarsi a un “male” ritenuto minore per avere ragione di un altro ritenuto maggiore: così, la strumentale utilizzazione della Al Qaida di Osama Bin Laden nella guerriglia anticomunista e antisovietica in Afghanistan; così, le spericolate e controproducenti alleanze con forze di fanatismo islamista in Libia per abbattere Gheddafi; così, più recentemente, il conclamato appoggio politico, diplomatico e militare, in nome di una “rivoluzione democratica” da attuare in Siria, ai ribelli mobilitati contro il regime di Assad, di fatto alimentando le stesse forze che poi, per loro conto, con un’evidente eterogenesi dei fini, avrebbero costituito proprio questo terrificante, indomabile Isis. Appunto, con le sue “milizie islamiche che minacciano il mondo”. Di esse, dei loro capi, della loro organizzazione statuale e delle loro rilevanti risorse, e dei loro obiettivi a breve termine, la Napoleoni sa dirci molto. Niente però – ripeto – sui contenuti ideologici e sulla progettualità (questa si inevitabilmente “laica” a dispetto del suo confezionamento “religioso”) di un’azione che sempre più appare rivolta non soltanto ai musulmani ma al mondo intero, pure in tempi che , lo si voglia o no, non sono più quelli del profeta Maometto.

Una qualche strategia, ancorata a una “visione del mondo” compatibile con quel che oggi il mondo è diventato, il Califfato (per quanto ad una sensibilità occidentale possa apparire un assurdo e quasi ridicolo anacronismo) deve pure avercela. E, infatti, ce l’ha certamente, a tal punto che all’Isis affluiscono (sembra in misura crescente) fedelissimi militanti di formazione e cultura occidentale, già cittadini delle nostre metropoli, nostri “figli” e nostri commensali di gusti e di costumi, in vario modo “volontari” e “convertiti”, comunque, a quanto pare, convinti di aver trovato una buona causa per la quale combattere. E gli sgozzatori chiamati alle più crude e crudeli recitazioni del terrore nelle televisioni sono normalmente inglesi, americani, francesi (ne avremo anche di italiani?).

Non è da credersi che tali lugubri e fanatici boia, a loro modo terribilmente “scenografici”, facciano consistere la loro voglia di “cambiare il mondo” soltanto in un sadico esercizio da tagliagola. Qualcosa in mente, qualcosa di terribilmente “ideale” e idealistico (se si vuole, di utopico e di profetico) è certo che in mente ce l’hanno e li induce a ritenersi al di sopra delle normali misure del “bene” e del “male”, a pensarsi come “rivoluzionari”. E’ appunto quel “qualcosa” ciò che pare largamente sfuggire ai cronisti, agli analisti e ai commentatori occidentali. Ma, a pensarci bene, è più credibile che non se ne voglia assumere conoscenza; che lo si rimuova per eludere il processo di autocritica (un vero e proprio “esame di coscienza” dell’Occidente) al quale l’esigenza di scoprirlo nella sua verità costringerebbe.

In concreto, si rimuove il fatto poco contestabile che l’idea stessa di “rivoluzione” − per almeno due secoli consegnata ai progressi della ragione laica che ha costruito e alimentato i processi storici della democrazia in Occidente dalla rivoluzione francese alla rivoluzione d’ottobre − si è convertita nel farneticante orientamento a prescegliere come strada per il “cambiamento rivoluzionario” paradossalmente la stessa negazione assoluta della modernità, l’”antimodernità radicale”, coincidente con il recupero e il rilancio integralistico di antiche fedi religiose, con il loro antico portato di cultura, valori e modelli organici (la sharia), di cui la progressiva secolarizzazione” nel tessuto delle società dominate dal libertinismo diffuso e dall’edonismo del modello di vita capitalistico mette in forse la sopravvivenza. Non a caso i nemici che l’Isis intende combattere, ben più che gli “infedeli” (cioè i non musulmani), sono gli stessi musulmani cosiddetti “moderati” che hanno deliberatamente accettato, o soltanto passivamente subiscono, i processi di integrazione ovvero di normalizzazione nel sistema occidentale e, più in generale, nell’intero sistema della globalizzazione capitalistica.

Posta in questi termini, la “guerra santa” dell’Isis , nei suoi aspetti di guerra civile dell’Islam, è una guerra rivolta sia contro i “corruttori” dell’slam (cioè contro gli Stati, le dinastie e i potentati arabi che, a partire dalla gestione delle risorse petrolifere, fanno parte del sistema di interessi e affari dell’”impero americano”), sia contro i “corrotti” che in pratica altri non sarebbero se non i musulmani ritenuti vittime del processo di integrazione occidentalista, ovvero i cosiddetti “musulmani moderati”. Mentre nei suoi contestuali aspetti di guerra di religione − volgendosi perentoriamente contro la “religione del denaro” stigmatizzata come l’anima del sistema capitalistico (il “grande Satana”!) − concretizza oggettivamente una vocazione, (per quanto generica, elementare, irrazionale e anacronistica nella sua forma antimoderna di integralismo religioso) che potrebbe dirsi un’impropria vocazione antiimperialistica, accreditandosi come il nuovo anti-imperialismo postmoderno, addirittura come l’unico anti-imperialismo oggi possibile, una volta venuto meno quello occidentale, di formazione e tradizione laica (sul lungo filo che dall’illuminismo aveva condotto alla storia politica del marxismo) espressosi e a lungo perseguito nel secolo scorso contro l’”impero americano” con l’esperienza del comunismo, conclusasi in modo fallimentare con la “vittoria” del capitalismo e il crollo dell’Urss , al termine della guerra fredda. Il che ne spiega il fascino, ben meno che sorprendente, vistosamente demoniaco, che esercita su elementi inquieti e ribelli, per lo più giovani, dello stesso Occidente che siano comunque alla ricerca di una radicale via di fuga dal “pensiero unico” della globalizzazione capitalistica e dalla sua “democrazia” di cui avvertono la falsa coscienza e verificano, talvolta drammaticamente, le ingiustizie e le oppressioni sempre meno occultabili sotto la maschera di un presuntuoso, “imperiale” trionfo di civiltà e di progresso civile. Con il loro stesso accesso esasperatamente impietoso all’estremismo terroristico della jihad, questi fanatici ribelli evidenziano le terribili conseguenze di un ribaltamento nell’irrazionale pseudoreligioso, e nel puro e semplice nichilismo, delle istanze rivoluzionarie laiche che la stretta neoimperialistica della globalizzazione ha castrato e reso ormai quasi proibitive nelle aree del mondo sulle quali l’egemonia dei poteri capitalistici, dopo il 1989, si è affermata con la maggiore presa totalitaria. Nel contempo, l’Isis riesce a raccogliere e a strutturare in un’entità dotata di territorio, di governo e di preoccupante forza militare masse rilevanti sottrattesi (anche per le contraddizioni, gli insuccessi e i reiterati errori della leadership imperiale americana) alla presa totalizzante e totalitaria di tale egemonia, per quanto lasci ancora nel vago, consegnandola alle suggestioni mitiche e alla vuota utopia di un ineffabile Califfato, la progettazione del futuro da opporre alla globalizzazione capitalistica.

Ma questo basta, forse, a creare nella scena mondiale le condizioni di un conflitto tra mondo globalizzato e resistenza antiglobalizzazione che hanno già indotto papa Francesco a intravedere le premesse di una nuova , una terza, guerra mondiale. Quale che siano gli sviluppi, per adesso imprevedibili, di quanto sta accadendo, resta il fatto che i nostri politici, e i nostri analisti e commentatori, si ostinano a non vedere o a far finta di non vedere (ad elusione di ogni seppur minimo impegno di critica al sistema egemone di cui fanno parte) che la cosiddetta “vittoria” storica del capitalismo nella guerra fredda del secolo scorso si è di fatto concretizzata in un vero e proprio disastro storico di cui il nuovo secolo sta pagando le imponderabili, assai inquietanti conseguenze.

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