8 minute read

La convenzione di Istanbul, luci ed ombre /Donne

LA CONVENZIONE DI ISTANBUL, LUCI ED OMBRE

di Maria Grazia Patronaggio

Advertisement

La Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica, conosciuta da molte e molti come Convenzione di Istanbul è stata approvata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa il 7 aprile 2011.

La Convenzione è l’ultima di una serie di iniziative intraprese fin dal 1990 dal Consiglio d’Europa per promuovere soluzioni efficaci a favore delle donne che soffrono violenza maschile e che sono richiamate tutte nel preambolo.

Aperta alla firma l’11 maggio del 2011 a Istanbul il trattato è stato firmato da 32 paesi e il 12 marzo 2012 la Turchia è diventata il primo paese a ratificare la Convenzione, seguito dai seguenti paesi nel 2014: Albania, Portogallo, Montenegro, Italia, Bosnia-Erzegovina, Austria, Serbia, Andorra, Danimarca, Francia, Spagna e Svezia.

Gli Stati che hanno ratificato la Convenzione si sono giuridicamente vincolati alle sue disposizioni, una volta entrata in vigore.

La Convenzione di Istanbul è “il primo strumento internazionale giuridicamente vincolante che crea un quadro giuridico completo per proteggere le donne contro qualsiasi forma di violenza”. Le innovazioni apportate dalla convenzione sono rilevanti e importanti, discendono da una valutazione delle iniziative e dell’attuazione di atti pregressi, e da una valutazione sull’omogeneità delle risposte nazionali alla violenza contro le donne e la violenza domestica. Risponde alla necessità di norme giuridiche armonizzate per garantire che le vittime beneficino dello stesso livello di protezione in tutta Europa. Il Consiglio d’Europa ha deciso che era necessario stabilire degli standard globali per prevenire e combattere la violenza contro le donne e la violenza domestica.

Riconosce che “la violenza contro le donne è una manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi, che hanno portato alla dominazione sulle donne e alla discriminazione nei loro confronti da parte degli uomini e impedito la loro piena emancipazione” e che l’elemento chiave per prevenire la violenza è il raggiungimento reale dell’uguaglianza di genere.

La convenzione riconosce e definisce la violenza di genere, ne elenca le varie forme (la violenza domestica, le molestie sessuali, lo stupro, il matrimonio forzato, i delitti commessi in nome del cosiddetto “onore” e le mutilazioni genitali femminili, gli stupri e violenze sessuali sistematici e diffusi nei casi di conflitti armati tra stati) e soprattutto stabilisce che queste forme di violenza costituiscono una grave violazione dei diritti umani delle donne e delle ragazze. Riguardo alla violenza domestica afferma che anche gli uomini possono essere vittime di tale forma di violenza ma che questo fenomeno colpisce in modo sproporzionato le donne. E che le donne e le ragazze sono esposte maggiormente al rischio di subire violenza di genere rispetto agli uomini. Riconosce, altresì, la violenza assistita e cioè che i bambini e le bambine sono vittime di violenza domestica anche in quanto testimoni di violenze all’interno della famiglia.

La struttura dello strumento è basato sulle “quattro P”: prevenzione, protezione e sostegno delle vittime, perseguimento dei colpevoli e politiche integrate e organiche. Inoltre, il trattato stabilisce una serie di delitti caratterizzati da violenza contro le donne che gli Stati dovrebbero includere, se non lo avessero già fatto,nei loro codici penali o in altre forme di legislazione. I reati previsti dalla Convenzione sono: la violenza psicologica, gli atti persecutori - stalking, la violenza fisica la violenza sessuale, compreso lo stupro, il matrimonio forzato, le mutilazioni genitali femminili, l’aborto forzato e la sterilizzazione forzata, le molestie sessuali.

In Italia, la Camera dei Deputati ha approvato all’unanimità la ratifica della convenzione in data 28 maggio 2013 e sempre all’unanimità il Senato ha convertito il testo in legge il 19 giugno 2013. La convenzione però entra in vigore solo il primo agosto del 2014 quando si è raggiunto il numero necessario di ratifiche (10 di cui 8 da parte degli stati membri).

Un atto inevitabile, per lo stato Italiano, la ratifica della convenzione, un atto raccomandato dalla Special Rapporteur delle Nazioni Unite per il contrasto della violenza sulle donne, Rashida Manjoo, che nelle sue osservazioni faceva notare che “Femmicidio e violenza domestica sono crimini di Stato tollerati dalle pubbliche istituzioni per incapacità di prevenire, proteggere e tutelare la vita delle donne, che vivono diverse forme di discriminazioni e di violenza durante la loro vita”.

Rashida Manjoo riconosce all’Italia gli sforzi da parte del Governo, attraverso l’adozione di leggi e politiche, incluso il Piano di Azione Nazionale contro la violenza” del 2011, ma, “questi risultati non hanno però portato a una diminuzione di femminicidi o sono stati tradotti in un miglioramento della condizione di vita delle donne e delle bambine”.

Il Rapporto comprende un’analisi puntuale degli aspetti economici e sociali e politici che ne sono all’origine. Un’analisi puntuale sulle cause e le conseguenze di una politica italiana che fa troppo poco per eliminare le disparità di genere. Nel suo rapporto Rashida include una serie di “raccomandazioni” per l’Italia: una legge specifica sulla violenza alle donne, una struttura governativa che tratti solo la parità e la violenza, ma anche la necessità di finanziare case rifugio e centri antiviolenza. Nel rapporto si raccomanda di puntare su prevenzione, protezione delle vittime e punizione dei colpevoli e su politiche atte “a eliminare gli atteggiamenti stereotipati circa i ruoli e le responsabilità delle donne e degli uomini nella famiglia, nella società e nell’ambiente di lavoro”.

Rashida Manjoo riconosce l’esistenza di leggi per proteggere le vittime ma non sono ritenute sufficienti. “L’Onu “raccomanda” di intervenire sulle cause strutturali della disuguaglianza di genere e della discriminazione” che sono la causa del fenomeno.

Insomma non si può pensare di risolvere il problema della violenza maschile contro le donne e dei femminicidi (estrema conseguenza di questa) come un fenomeno da affrontare soltanto sull’emergenza. Pensare alla violenza di genere come un fenomeno strutturale è l’unico modo per mettere a punto un intervento di reale cambiamento.

Ad un’emergenza si risponde con un intervento emergenziale, ad un fenomeno strutturale con un cambiamento strutturale che a partire della progettazione, attuazione, monitoraggio e valutazione delle politiche e dei programmi in tutti gli ambiti politici, economici e sociali garantisca che donne e uomini possano beneficiare in ugual misura di una uguaglianza sostanziale.

Eppure i governi italiani continuano ad agire e a legiferare sull’emergenza anche dopo l’entrata in vigore della Convenzione di Istanbul.

In questo momento, nonostante le sollecitazioni, non è stata attribuita la delega alle Pari Opportunità. Non si ha una ministra/o per le pari opportunità. Nonostante le leggi italiane, ricordiamo la legge sugli atti persecutori (n. 38 del 2009) e sul femminicidio (n. 119 del 2013) siano delle ottime leggi, puntano esclusivamente sull’aspetto repressivo-giudiziario che non su altri interventi (sostegno a centri e case rifugio, monitoraggio dl fenomeno, interventi di prevenzione, interventi di politica economica e sul welfare per incidere sull’occupazione delle donne e sul loro inserimento/reinserimento lavorativo, su un serio programma di protezione della vittima che ne tuteli l’incolumità dalla denuncia in poi). Interventi utili e non meno rilevanti delle pene inflitte per combattere il fenomeno. Ancora una volta la violenza maschile contro le donne viene considerata un problema preminentemente di ordine pubblico e non culturale e sociale.

La legge sullo stalking è una buona legge ed è stata utile per quelle associazioni di donne e per le avvocate che con loro collaborano ai fini di un perseguimento dello stalker e una migliore protezione della vittima. La legge più recente 119/2013 inasprisce le pene e tranquillizza tutti e tutte sapere che i trasgressori abbiamo pene esemplari, ma tutto questo non basta.

Femminicidio, violenza sessuale, violenza di genere, stalking sono aspetti di un unico fenomeno. Occorrerebbe un testo unico organico che raccolga ed armonizzi gli strumenti legislativi esistenti e ne dia un’adeguata copertura finanziaria in modo da permettere una adeguata e reale applicazione. Occorrerebbe un soggetto istituzionale che coordini gli interventi sulla violenza, non solo in concomitanza con l’elaborazione del Piano Nazionale contro la violenza ma in forma stabile e continuativa.

E qui occorre introdurre un altro elemento di riflessione. Il ruolo delle associazioni di donne che da 20 anni in Italia lottano contro il fenomeno della violenza maschile contro le donne e che rappresentano per questo motivo una risorsa indispensabile e da valorizzare.

Sugli interventi legislativi adottati e succitati, le associazioni di donne che storicamente con i loro servizi si occupano del tema della violenza di genere e sono riunite in un associazione nazionale dal nome D.I.Re. Donne In Rete contro la violenza, sono intervenute e hanno detto la loro rimanendo inascoltate. Le associazioni sono intervenute sia singolarmente sia condividendo i numerosi comunicati e appelli.

La convenzione di Istanbul riconosce in più di un articolo l’importanza delle organizzazioni che si occupano del tema della violenza maschile contro le donne. In particolare all’art. 9 “Le Parti riconoscono, incoraggiano e sostengono a tutti i livelli il lavoro delle ONG pertinenti e delle associazioni della società civile attive nella lotta alla violenza contro le donne e instaurano un’efficace cooperazione con tali organizzazioni.”

Tale ruolo è stato spesso messo in evidenza da chi si occupa del tema e da più voci è stato richiesto un loro contributo nell’elaborazione degli strumenti giuridici posti in essere dallo stato Italiano.

Il nuovo Piano nazionale antiviolenza, in uscita in questi giorni, ha previsto il confronto tra tutti gli attori necessari, compreso D.i.Re, che ha partecipato ai gruppi di lavoro per l’elaborazione dello stesso. Da un comunicato della stessa associazione emerge che il ruolo è stato marginale e non valorizzante tant’è che in una lettera aperta al Presidente del Consiglio, al Capo Dipartimento del DPO, al presidente della Conferenza Stato Regione e ai Ministeri competenti, l’associazione nazionale D.i.Re, denuncia un percorso discontinuo e poco lineare, “è mancato un chiaro indirizzo politico ed è stato spesso faticoso e difficile per i differenti approcci e soprattutto per il tipo di interventi proposti per contrastare la violenza contro le donne. Non vi è stato un vero processo partecipato nella elaborazione dei documenti e dei loro contenuti, come richiesto anche dalla Convenzione di Istanbul (art. 7 e 9), per cui l’obiettivo di condividere un percorso di analisi e di programmazione per lo sviluppo del nuovo Piano di Azione contro la violenza alle donne non può dirsi raggiunto. Evidenziamo che i risultati finali espressi nei vari documenti non sono per noi né soddisfacenti né condivisibili”. Il comunicato ribadisce la necessità di “una metodologia progettuale ed integrata tra tutti i servizi e le agenzie, che permetta alle donne vittime di violenza la massima libertà di scelta sul percorso da intraprendere e consideri prioritaria la loro protezione e quella dei minori coinvolti, non disgiunta dalla costruzione del loro nuovo progetto di vita”.Viene ribadito che “Gli interventi efficaci contro la violenza alle donne necessitano, invece, di politiche globali e coordinate, di un approccio integrato e di sistema che preveda un percorso centrato sulla donna, di un coinvolgimento in primo luogo dei centri antiviolenza, quali luoghi privilegiati dell’accoglienza e di forti reti territoriali e nazionali orientate ad un approccio di genere”.

In un altro comunicato della stessa associazione apprendiamo una presa di distanza dalle scelte del governo. Si tratta del documento sottoposto all’intesa della Conferenza Unificata Stato regioni che definisce le caratteristiche e il funzionamento dei centri antiviolenza e prescrive i requisiti strutturali e organizzativi per poter accedere ai finanziamenti previsti dalla legge 119/2013 a partire dal 2015. “Un’intesa che cancellerà un patrimonio qualificato di esperienze e di saperi acquisiti da oltre venti anni dai Centri Antiviolenza. Si disconoscono le specificità che caratterizzano il lavoro delle donne nei Centri antiviolenza e le competenze acquisite dalle operatrici dei centri”. I criteri contenuti nel documento del Governo disconoscono la connotazione politico-culturale dei centri antiviolenza, che hanno come obiettivo fondamentale storicamente espresso quello di promuovere sul territorio la trasformazione dell’impianto culturale da cui si genera la violenza parallelamente all’offrire accoglienza e supporto alle donne che hanno subito violenza.

Da una parte le Istituzioni governative accolgono la raccomandazione di concertare le politiche con chi di questo tema si occupa da anni ma dall’altra gli spunti, le riflessioni, i suggerimenti competenti non vengono accolti nei documenti e nelle scelte. Non si riconosce e non si valorizza nei fatti l’esperienza maturata dagli anni 70 da queste associazioni e prevalgono logiche diverse, logiche che puntano alla mera distribuzione di fondi per favorire la nascita di luoghi e meri servizi lontani dal riconoscere la natura e l’origine del fenomeno e di conseguenza distanti dalla possibilità di affrontare il fenomeno.

Invece gli elementi imprescindibili da cui partire per redigere un Piano nazionale contro la violenza verso le donne erano stati già evidenziati in occasione del precedente Piano di Azione nazionale nel 2011:

• il principio che le donne vittime di violenza sono soggetti di diritto e quindi le politiche devono rispondere ai bisogni qualificati che le donne esprimono;

• il riconoscimento dell’associazione nazionale D.i.Re quale interlocutrice competente e rappresentativa sui temi che riguardano la violenza alle donne e dei Centri Antiviolenza quali luoghi specializzati nell’accoglienza e ospitalità delle donne che hanno subito violenza, e dei loro figli/e, prevedendo il loro rafforzamento e sostegno finanziario;

• l’esplicitazione nel Piano delle responsabilità, degli organismi di gestione, dei tempi delle azioni, dei finanziamenti, delle modalità di monitoraggio e di valutazione;

• la trasversalità degli interventi proposti, rispetto alle aree: sociale, sanitaria, legislativa, giudiziaria;

• la matrice interministeriale, di chi gestisce le politiche delle aree sopra descritte, con regia DPO;

• la caratterizzazione quale intervento di sistema, che prevedesse tre aree programmazione: nazionale, regionale, locale.

Non rimane che rilevare e sottolineare una distanza tra gli obiettivi del governo e quello delle associazioni che su questo lavorano.

Le misure finora adottate in Italia sono frammentarie e settoriali, inadeguate a contrastare la violenza maschile contro le donne e sono ben lontane dal dare attuazione alla Convenzione di Istanbul.

This article is from: