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Sempre più armi a regimi autoritari: per la nostra sicurezza? /Armi e conflitti

SEMPRE PIÙ ARMI A REGIMI AUTORITARI: PER LA NOSTRA SICUREZZA?

di Giorgio Beretta

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Ha fatto notizia il cosiddetto “Emendamento Regeni” con il quale a fine giugno Senato si è pronunciato a favore della sospensione dell’invio alla Repubblica araba d’Egitto di parti di ricambio per i caccia F-16. Un segnale del Parlamento per la scarsa collaborazione delle autorità egiziane nella ricerca dei responsabili dell’uccisione al Cairo del ricercatore italiano Giulio Regeni. Tuttavia – come si è affrettato a specificare il relatore Gian Carlo Sangalli (PD) – “l’emendamento non vuole essere un atto ostile al governo egiziano”. Un’azione, quindi, dal valore poco più che simbolico, ma che comunque – ha notato Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia – rappresenta “un segno di attenzione per la tragica situazione dei diritti umani in Egitto”. Sistemi di sorveglianza e armi all’Egitto

Negli stessi giorni in cui il Senato votava l’emendamento, il Ministero dello Sviluppo Economico (Mise) concedeva però ad un’azienda italiana, la Area spa di Vizzola Ticino (Varese), l’autorizzazione per l’esportazione in Egitto di una tecnologia di

sorveglianza delle comunicazioni via internet. La tecnologia, del valore di oltre 3 milioni di dollari, è destinata al Technical Research Department (TRD) del Cairo, “un’unità opaca, autonoma e priva di controlli democratici dell’intelligence e degli apparati egiziani, protagonista di una intensa attività di sorveglianza delle comunicazioni sia di massa che mirata” – riporta Carola Freudiani in un ampio articolo per “La Stampa”.

Amnesty Italia ha commentato la notizia via twitter chiedendo al Governo italiano “di sospendere la fornitura di software-spia, perché sono a rischio i diritti umani dei dissidenti egiziani”.

Già in precedenza, Amnesty Italia aveva richiamato l’attenzione sulle forniture di armi dall’Italia per gli apparati di pubblica sicurezza egiziani: si tratta – come ho documentato per l’Osservatorio OPAL di Brescia – di 30mila pistole e più di mille fucili a canna liscia inviati tra il 2014 e il 2015 nonostante sia tuttora in vigore la decisione assunta nell’agosto del 2013 dal Consiglio Europeo di sospendere le licenze di esportazione verso l’Egitto di armi e materiali che possono essere utilizzati a fini di repressione interna.

L’Italia non è l’unico paese ad aver inviato armi e sistemi militari al regime di al Sisi: lo riporta Amnesty International evidenziando che, solo nel 2014, gli stati dell’Unione europea hanno emesso 290 autorizzazioni all’esportazione di forniture militari all’Egitto, per un valore di oltre sei miliardi di euro, tra cui piccole armi, armi leggere e relative munizioni, veicoli blindati, elicotteri, armi pesanti per operazioni anti-terrorismo e tecnologia per la sorveglianza. Il tutto nonostante stia continuando nel paese una brutale repressione: sono più di 41mila le persone arrestate in modo arbitrario dalle autorità egiziane e centinaia gli scomparsi, tra cui numerosi attivisti per i diritti umani, di cui non si ha notizia da mesi.

Il Parlamento europeo lo scorso marzo ha approvato a larga maggioranza una risoluzione che rinnova agli Stati membri la richiesta di sospendere l’invio in Egitto di armi e materiali che possono essere utilizzati per la repressione interna: ma alcuni giorni dopo il presidente francese, François Hollande, è volato al Cairo per firmare diversi accordi commerciali tra cui uno di vendita di equipaggiamenti militari da un miliardo di dollari.

Ancora bombe all’Arabia Saudita

Sono inoltre continuate nei mesi scorsi le spedizioni dall’Italia all’Arabia Saudita e agli Emirati Arabi Uniti di bombe aeree: si tratta – come ho riportato nell’articolo per “Voci” dell’anno scorso – di bombe prodotte nello stabilimento di Domusnovas in Sardegna dalla RWM Italia, azienda tedesca del gruppo Rheinmetall. Anche in questo caso le spedizioni sono state effettuate nonostante una risoluzione del Parlamento europeo dello scorso febbraio abbia chiesto alla Vicepresidente della Commissione ed Alto Rappresentante della Politica Estera, Federica Mogherini, di “avviare un’iniziativa finalizzata all’imposizione da parte dell’UE di un embargo sulle armi nei confronti dell’Arabia Saudita, tenuto conto delle gravi accuse di violazione del diritto umanitario internazionale da parte di tale paese nello Yemen”.

La ministra della Difesa, Roberta Pinotti ha ripetutamente cercato di sminuire la responsabilità italiana nelle spedizioni di queste bombe ma nelle scorse settimane, rispondendo ad una interrogazione parlamentare, il Governo tedesco ha dichiarato che “nessuna competente autorizzazione” è stata emessa da Berlino per componenti riguardanti gli ordigni prodotti a Domusnovas ed inviati alle forze militari dell’Arabia Saudita. Ad oggi sono oltre 8mila i morti, di cui più della metà tra la popolazione civile, e migliaia gli sfollati a seguito dell’intervento militare guidata dall’Arabia Saudita: si tratta, secondo l’Agenzia per gli Aiuti umanitari dell’ONU (OCHA) della maggior crisi umanitaria di tutto il Medio Oriente. Paradossalmente, mentre funziona il blocco degli aiuti, le forniture di armi e sistemi militari continuano ad arrivare indisturbate.

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La risoluzione dell’Europarlamento – fortemente richiesta dalle associazioni della società civile – nell’esprimere “grave preoccupazione per gli attacchi aerei da parte della coalizione a guida saudita e il blocco navale da essa imposto allo Yemen, che hanno causato la morte di migliaia di persone” evidenzia che queste azioni “hanno ulteriormente destabilizzato il paese, stanno distruggendo le sue infrastrutture fisiche, hanno creato un’instabilità che è stata sfruttata dalle organizzazioni terroristiche ed estremiste, quali l’ISIS/Daesh e l’AQAP, e hanno aggravato una situazione umanitaria già critica”. La risoluzione evidenzia inoltre che “alcuni Stati membri dell’UE hanno continuato ad autorizzare il trasferimento di armi e articoli correlati verso l’Arabia Saudita dopo l’inizio della guerra” e afferma chiaramente che “tali trasferimenti violano la posizione comune 2008/944/PESC sul controllo delle esportazioni di armi, che esclude esplicitamente il rilascio di licenze relative ad armi da parte degli Stati membri laddove vi sia il rischio evidente che la tecnologia o le attrezzature militari da esportare possano essere utilizzate per commettere gravi violazioni del diritto umanitario internazionale e per compromettere la pace, la sicurezza e la stabilità regionali”. Finora nessuna iniziativa è stata assunta dai governi dei paesi membri per far implementare questa risoluzione.

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L’UE nel bazar armato del Medio Oriente

Non è una novità che i paesi dell’Unione europea, per mantenere competitive le proprie aziende militari costrette a fronteggiare le riduzioni dei budget per la Difesa, stiano incentivando le esportazioni di armamenti ai paesi della Penisola Arabica. Secondo i dati dell’ultimo Rapporto dell’Unione europea nel 2014 il Medio Oriente è stato infatti il principale destinatario delle esportazioni di sistemi militari dei paesi dell’Ue: si tratta di oltre 31,5 miliardi di euro di licenze.

Questo significa che i paesi dell’UE stanno vendendo rilevanti quantità di armamenti nella zona del mondo di maggior tensione in gran parte governata da regimi autoritari. Nonostante gli espliciti divieti contenuti nella Posizione Comune (2008/944/PESC), i paesi dell’UE hanno continuato ad autorizzare esportazioni di sistemi militari e di armi leggere a governi che abusano dei diritti umani ed a paesi coinvolti attivamente in guerre, come l’Arabia Saudita (3,9 miliardi di euro), il Qatar (11,5 miliardi), l’Egitto (6,2 miliardi) e Israele (998 milioni). Che il Medio Oriente stia diventando un gran bazar degli armamenti “Made in UE” lo dimostra anche il fatto che i ministri della Difesa (e pure le signore ministre della Difesa) dei paesi europei sono sempre più presenti alle esposizioni di armamenti dei paesi del Golfo, tra cui la fiera Idex di Abu Dhabi a cui partecipa puntualmente la ministra Pinotti.

Nonostante gli ingenti affari, i governi europei sono però alquanto riluttanti a fornire informazioni dettagliate sulle proprie esportazioni di sistemi militari. E’ sufficiente uno sguardo alla corposa Relazione dell’Ue (qui disponibile in italiano) – pubblicata come sempre con enorme ritardo – per scoprire che diversi Stati membri non comunicano secondo gli standard comuni richiesti, e che alcuni dei maggiori esportatori non forniscono all’UE i dati sulle esportazioni effettive (consegne) di armamenti: tra questi figurano il Regno Unito e la Germania, ma anche la Francia e l’Italia non rivelano i dati sulle esportazioni secondo le specifiche categorie di sistemi militari. Invece di migliorare, la Relazione europea sta peggiorando di anno in anno e questo malgrado i ripetuti appelli delle associazioni della società civile e le esplicite richieste del Parlamento europeo. Una tale mancanza di trasparenza non dovrebbe più essere tollerata, ma i governi europei fanno orecchie da mercante. Da mercante di armi, appunto.

I nuovi affari di Finmeccanica

Negli ultimi mesi il governo Renzi ha firmato nuovi accordi per forniture di sistemi militari con alcune monarchie del Golfo che fanno parte della coalizione che sta bombardando lo Yemen. A cominciare dal Kuwait con il quale il Ministero della Difesa in aprile ha siglato un accordo intergovernativo che prevede la fornitura di 28 caccia Eurofighter. “Si tratta del più grande traguardo commerciale mai raggiunto da Finmeccanica” - ha commentato trionfante Mauro Moretti, Amministratore Delegato e Direttore Generale di Finmeccanica. Il contratto prevede anche il supporto operativo e “dell’addestramento di equipaggi di volo e personale di terra, che saranno svolte in collaborazione con l’Aeronautica Militare Italiana”. In buona sostanza, la nostra Aeronautica Militare addestrerà i piloti kuwaitiani che andranno a bombardare lo Yemen e i prossimi teatri di guerra.

Non solo. Nei giorni scorsi la ministra della Difesa, Roberta Pinotti e il ministro per gli Affari della Difesa del Qatar, Khalid bin Muhammad Al-Attiyah, hanno sottoscritto un accordo per la cooperazione nel settore navale tra i due paesi. La notizia campeggia sul sito del Ministero della Difesa che riporta che sono stati firmati, inoltre, dal Ministro della Difesa del Qatar e dagli amministratori delegati di Fincantieri e di MBDA (azienda del gruppo Finmeccanica) i contratti per la fornitura di mezzi navali e sistemi d’arma per circa 5 miliardi di euro. Non poteva mancare, anche in questo caso la soddisfazione dell’AD di Finmeccanica, Mauro Moretti. Finmeccanica infatti fornirà a Fincantieri sistemi e sensori navali di ultima generazione per le 7 nuove navi destinate alla Qatar Emiri Naval Forces. Le 7 unità - di cui 4 corvette, 1 Landing Platform Deck e 2 Off-shore Patrol Vessel - saranno impiegate per compiti di sorveglianza e pattugliamento marittimo nelle acque territoriali e nella “zona economica esclusiva”. Nessun accenno, ovviamente, al fatto che anche il Qatar fa parte della coalizione che da oltre un anno sta bombardando lo Yemen.

E vendiamo pure “l’usato sicuro”

Gli affari di armi non si limitano ai nuovi contratti. L’ultima iniziativa è quella di vendere “l’usato sicuro”. Il Ministero della Difesa e la Marina Militare sono infatti diventati i “big player” della manifestazione fieristica “SeaFuture” della Spezia durante la quale hanno cercato acquirenti per le navi dismesse dalla Marina Militare. Con l’approvazione, nel dicembre del 2014, della cosiddetta “Legge navale” (sulla quale il parlamento ha chiesto al Ministero della Difesa urgenti chiarimenti anche a seguito delle notizie emerse nell’ambito dell’inchiesta “Tempa Rossa” in cui è stato iscritto nel registro degli indagati per abuso d’ufficio e traffico d’influenza l’ex Capo di Stato maggiore della Marina, ammiraglio Giuseppe de Giorgi), la Marina Militare ha adesso a disposizione un gigantesco stanziamento di 5,4 miliardi di euro per il rinnovo di gran parte della propria flotta. Può quindi permettersi di provare a piazzare sul mercato le navi dismesse.

In ballo ci sono – come ha spiegato tempo fa la ministra Pinotti – 54 vascelli per un totale di 35mila tonnellate di unità navali dismesse o in dismissione: dalle unità della classe Maestrale non ammodernate, alle classe Soldato, dalle unità classe Minerva ai cacciamine classe Lerici. Come ha affermato l’ammiraglio Roberto Camerini nella conferenza stampa di presentazione, queste navi rappresenterebbero “un buon affare per le marine estere più piccole”. Anche in questo caso tra i potenziali acquirenti figurano paesi attivi nel conflitto in Yemen come Bahrain, Emirati Arabi Uniti e Egitto. Ma su questo punto problematico, nessun commento dal governo Renzi.

Il business del controllo delle frontiere

Per contrastare gli sbarchi di migranti e di persone in cerca di rifugio, l’Unione europea invece di sospendere l’invio di armi a paesi in guerra, ha messo in campo una serie di politiche per rafforzare le frontiere esterne. Nel 2015 questo mercato ha comportato affari per 15 miliardi di euro, ma entro il 2022 supererà i 29 miliardi. Frontex, la controversa agenzia europea per la gestione comune delle frontiere dell’Unione, è arrivata quest’anno ad avere un budget di 238,7 milioni di euro contro i 6,3 del 2005, cifra che segna un aumento del 3.688 percento negli ultimi undici anni.

Chi sta maggiormente approfittando della “crisi dei migranti” sono, ancora una volta, le industrie europee della difesa. A queste industrie – documenta il rapporto “Border Wars” della Ong olandese Stop Wapenhandel e diffuso in Italia da Rete Disarmo – è andata gran parte dei 316 milioni di euro forniti dall’UE per la ricerca in materia di sicurezza. Ne hanno beneficiato soprattutto le aziende produttrici di sistemi militari come Airbus, Thales e Safran, Indra. Ma anche il colosso italiano Finmeccanica.

Proprio Finmeccanica e Airbus sono stati i vincitori di contratti dell’UE particolarmente importanti volti a rafforzare i controlli delle frontiere. Airbus è anche il vincitore dei maggiori contratti di finanziamento dell’UE della ricerca nel settore della sicurezza. Non è certamente un caso: questi colossi degli armamenti stanno infatti contribuendo a determinare la politica europea di sicurezza delle frontiere con capillari attività di lobby. L’Organizzazione europea per la Sicurezza (EOS) comprende Thales, Finmecannica e Airbus e diverse sue proposte sono diventate politiche europee: è il caso, ad esempio, della trasformazione proprio di Frontex in “Guardia costiera e di frontiera europea” (European Border and Coast Guard - EBCG).

In estrema sintesi: le aziende della difesa non solo continuano a fare affari vendendo armamenti ai paesi in zone di conflitto, ma hanno trovato il modo di trarre profitti dalla crisi dei migranti che loro stesse alimentano fornendo armi e sistemi militari. Nel frattempo cresce l’insicurezza collettiva ed aumenta la presenza di militari armati nelle nostre città.

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