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In Cina torna la questione operaia /Estremo Oriente

IN CINA TORNA LA QUESTIONE OPERAIA

di Andrea Pira

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Tre anni di carcere con sospensione della pena per aver disturbato l’ordine sociale. La condanna è stata comminata lo scorso settembre a tre attivisti del Panyu Migrant Workers Documentation Service Center, una delle più conosciute organizzazioni non governative che si occupano di dare assistenza ai lavoratori migranti.

Lo scorso novembre un’altra condanna, questa volta a ventuno mesi di detenzione è stata inflitta a un quarto attivista per i diritti dei lavoratori che gravita attorno al centro nella ricca provincia costiera del Guangdong, uno dei motori produttivi della Repubblica popolare. L’accusa di disordini contro il direttore del centro Zeng Feiyang e i suoi compagni Zhu Xiaomei, Tang Huangxing e Meng Han, si riferisce all’attività e al sostegno dato ai lavoratori per organizzarsi e reclamare salari e migliori condizioni nei posti di lavoro.

I tre erano in custodia da dicembre del 2015. Gli arresti rientrano nella più ampia stretta del governo cinese contro gli attivisti per i diritti civili e umani.

Nella versione dei fatti data dall’agenzia giornalistica di Stato Xinhua, i sindacalisti avrebbero «incitato gli operai a interferire con il lavoro nelle fabbriche e con la normale produzione, disturbando l’ordine sociale»..

Per di più Zeng si sarebbe anche lasciato andare a condotte lascive, avrebbe tradito la moglie con almeno otto amanti e frequentato prostitute. O almeno così riporta la stampa ufficiale nello sfruttare argomenti ricorrenti nelle cronache che riguardano personaggi invisi alle autorità, contro i quali si costruisce una campagna diffamatoria che tocca anche l’ambito privato.

Il caso è arrivato fino alle Nazioni Unite. Su ricorso dell’International Trade Union Confederation, l’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) ha esortato la Cina a garantire che i quattro sindacalisti possano continuare a fornire servizi di consulenza, senza alcun impedimento. Il comitato per la libertà d’associazione dell’Ilo ha inoltre rimarcato la mancata ratifica da parte di Pechino di due delle convenzioni fondamentali dell’organizzazione: quella sulla libertà d’associazione e il diritto a organizzarsi e quella sul diritto alla contrattazione collettiva.

L’apparente clemenza della corte, che ha disposto la sospensione della pena per i sindacalisti, non deve comunque trarre in inganno. Di fatto non potranno infatti più continuare a sensibilizzare i lavoratori sui propri diritti, perché al minimo segno di disordine o protesta, il rischio è che possano finire in carcere.

“Il governo continuerà ad avere grossi problemi indipendentemente dall’assistenza del Centro Panyu”, spiegava lo scorso settembre William Nee, ricercatore di Amnesty International a Hong Kong, in un’intervista alla Reuters “Non potranno ignorare le vertenze, soprattutto perché nella maggioranza dei casi i lavoratori chiedono ciò di cui hanno diritto al 100%”.

Il caso è comunque stata occasione per le frange più nazionaliste della stampa e del governo di puntare il dito contro l’ingerenza di “forze straniere” accusate di voler destabilizzare la Cina. In una confessione pubblica trasmessa dall’emittente di Stato, Cctv, Zeng ha confermato di aver ricevuto formazione e fondi dall’estero. L’attivista ha quindi ammesso di aver assecondato i voleri dei propri finanziari di utilizzare “metodi estremi” per portare avanti le rivendicazioni degli operai. In questo caso le forze straniere hanno un nome e un cognome. Si tratta del China Labour Bulletin, organizzazione non-governativa di Hong Kong fondata a Han Dongfang, il leader operaio di Tian’anmen, che funge da sorta di proto-sindacato indipendente.

La spontaneità della confessione può essere messa in discussione. Le autocritiche e le ammissioni di colpa in diretta televisiva stanno diventando una costante nella Cina del presidente Xi Jinping, presa nel mezzo della campagna anti-corruzione, con la quale il capo di Stato sta facendo un repulisti tra le file del Partito.

Complice il rallentamento dell’economia negli ultimi anni si è assistito a un aumento delle rivendicazioni.

Secondo i dati raccolti proprio dal China Labour Bulletin, dall’inizio del 2016 gli scioperi e le proteste sono stati oltre 1.600 in tutto il Paese, ma in particolare nelle aree costiere e nella provincia sudoccidentale del Sichuan. Per il governo rientrano nel grande calderone degli “incidenti di massa” che possono turbare l’armonia sociale e alle quali Pechino risponde alternando il bastone della repressione alla carota degli aumenti del salario minimo e a una maggiore attenzione per le condizioni di vita e produzione dei lavoratori.

Gli sforzi del centro, non sempre trovano attuazione nella periferia dell’impero. In Cina esistono norme del lavoro che tuttavia non sempre sono applicate dagli imprenditori o dalle autorità locali. Spesso gli stessi lavoratori rinunciano al contratto per poter passare più facilmente e senza lacci da una fabbrica all’altra, alla ricerca di stipendi più alti e condizioni migliori. Inoltre manca un sindacato che svolga a pieno il proprio compito. L’azione collettiva, scrive ancora il China Labour Bulletin, è perciò “il solo modo che i lavoratori hanno per proteggere i propri interessi”.

Guardare a quanto succede come a un risveglio o a una presa d’atto dei propri diritti sarebbe però non centrare il punto. “Le lotte di questa classe lavoratrice contemporanea estremamente mobile e flessibile riguardano i bisogni immediati: il salario non corrisposto oppure un condizionatore che non funziona nell’officina”, nota Gabriele Battaglia in un’analisi su Internazionale. La protesta paga. A fine 2016 i lavoratori di un’industria elettronica di Dongguan, la città fabbrica della Cina, andata in bancarotta hanno ricevuto i compensi dovuti e finora mai corrisposti dopo che lo stabilimento un anno fa era stato chiuso.

La stampa locale ne ha dato notizia. Ciò di cui non ha parlato, denuncia ancora il CLB, sono le violenze della polizia e gli arresti che i lavoratori hanno dovuto subire prima che gli venisse riconosciuto dal sistema legale quanto spettava loro.

Le azioni collettive, aggiungono Mark Selden e Jenny Chan del China Policy Institute dell’università di Nottingham, sono tuttavia di corto respiro, confinate a una sola azienda o settore.”Sebbene alcune di queste lotte abbiamo portato ad aumenti salariali, la dura realtà svela che le vittorie non si sono tradotte in benefici sul lungo termine con la formazione di sindacati reattivi o con l’emergere di un’agenda sul lavoro più ampia”, scrivono i due studioso. Di contro, l’attivismo operaio sconta la repressione e gli arresti proprio nel Guandong, dove è più forte il legame transfrontaliero con le ong che hanno sede a Hong Kong.

Pechino sente i rischi legati a questi sommovimenti. Il Partito al potere continua a chiamarsi comunista e quindi implicitamente a presentarsi come difensore delle istanze dei lavoratori. L’impegno a continuare a garantire benessere alla popolazione è inoltre alla base del patto sociale dal quale il Pcc trae legittimità.

Non sfugge quindi che lo stesso presidente Xi Jinping abbia esortato l’Acftu ad auto-riformarsi e cercare una maggiore connessione con i lavoratori, abbandonando l’immagine burocratica che dà di sé.

La seconda economia al mondo è in una fase di transizione. L’obiettivo di crescita per il 2016 era stato fissato tra il 6,5 e il 7%. Quando i risultati sull’anno saranno resi noti, probabilmente il dato si collocherà sulla parte mediana, se non su quella bassa della forchetta. Nei prossimi anni il ritmo potrebbe anche essere più lento. Ufficialmente le previsioni del tredicesimo piano quinquennale indicano una crescita media del 6,5% nell’arco di tutto il lustro. A metà dicembre, Xi ha comunque aperto all’ipotesi che possa essere più bassa, accogliendo i consigli delle istituzioni finanziarie internazionali.

Tale processo di trasformazione prevede, almeno a parole, una riorganizzazione delle grandi aziende di Stato e una riduzione della capacità produttiva in eccesso. Tradotto, ci potrebbero essere conseguenze sull’occupazione, le cui ripercussioni il governo intende scongiurare. La crescita della seconda economia al mondo si sta inoltre sempre più spostando sui servizi.

La riprova sono le proteste contro la nuova turnazione che hanno investito Wal-Mart in diverse città della Cina. Anche in questo caso il malcontento riflette la necessità dell’azienda di adattarsi a un contesto, quello cinese, dove sempre più diffuso e capillare è l’e-commerce.

Nei mesi scorsi la protesta operaia ha interessato inoltre Coca Cola, Sony. In questo caso i lavoratori volevano certezze per il passaggio degli stabilimenti da una proprietà straniera ad aziende cinesi. Il colosso delle bibite ha ceduto alcuni impianti per il packaging a conglomerati locali, spingendo i dipendenti a chiedere compensazioni per possibili licenziamenti o tagli agli stipendi. Scene non molto diverse si sono viste a Guangzhou contro la cessione della controllata Sony Electronics Huanan. Il timore è che la nuova proprietà non riesca a garantire le stesse condizioni concesse dagli stranieri, con il rischio che possano anche peggiorare.

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