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Italia privata e Italia pubblica e la difesa dei diritti delle donne /Attualità

ITALIA PRIVATA E ITALIA PUBBLICA E LA DIFESA DEI DIRITTI DELLE DONNE

di Giuseppe Provenza

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Fra i tanti mali che affliggono l’umanità, uno dei più abietti è costituito dal comportamento violento di molti, troppi uomini nei confronti di donne loro compagne, o ex compagne o che li hanno rifiutati.

È questo un triste e vergognoso fenomeno che non ha né confini geografici, né limitazioni culturali. Si verifica in paesi con antiche tradizioni di sottomissione della donna all’uomo, così come in paesi considerati evoluti nelle relazioni sociali e nel rispetto del prossimo e quindi dei diritti umani, si verifica negli ambienti più degradati della società, così come in quelli a più elevati livelli di cultura e di tenori di vita.

Purtroppo della frequenza di atti di violenza da parte di uomini sulle donne non si ha una rilevazione precisa poiché la gran parte degli episodi rimane nascosta o per timore o per pudore. Ad emergere e ad indicare la gravità della situazione è l’aspetto più grave della violenza sulle donne che è il femminicidio.

In questa situazione mondiale di diffusa presenza di uomini che usano violenza alle donne, l’Italia, che campione di rispetto dei diritti umani non è, ancora una volta si distingue.

Lo dicono le cifre ufficiali dell’aspetto che, come si diceva, emerge perché non nascondibile, quello del femminicidio. I casi di femminicidio in Italia negli ultimi anni sono stati (stando ai dati ufficiali): 157 nel 2012, 179 nel 2013, 136 nel 2014, 128 nel 2015. Nei primi 10 mesi del 2016 sono stati 116. Un numero assolutamente intollerabile, un femminicidio ogni due giorni e mezzo.

Ma ciò che, se possibile, fa ancora più impressione è il numero che fornisce l’Istat riguardo alle donne italiane che hanno subito violenza: 6.788.000. È un numero spaventoso perché corrisponde a circa il 27% delle donne italiane fra 15 e 65 anni.

Come si sa l’Europa, con il suo organismo deputato alla difesa dei diritti umani, il Consiglio d’Europa, ha affrontato il problema con la “Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica”, comunemente nota come la “Convenzione di Istanbul”, approvata nel 2011 ed entrata in vigore il 1° agosto del 2014 dopo la ratifica del decimo paese.

L’Italia è stato uno dei primi paesi a ratificare la convenzione il 19 giugno del 2013, dopo l’approvazione della legge da parte del Senato.

Già nell’agosto dello stesso anno l’Italia recepiva nel proprio ordinamento la convenzione mediante il decreto legge, trasformato in legge in ottobre, che, sostanzialmente adottava uno dei tre pilastri della convenzione.

Questa, infatti, enuncia che si possa lottare contro il triste fenomeno della violenza sulle donne mediante le tre “P”: Prevenzione, Protezione, Punizione.

[tabella] Fonte: Women Against Violence Europe (http://www.wave-network.org/country-info)

Ciò che l’Italia ha realizzato, con quel provvedimento legislativo, è stato intervenire in termini del terzo pilastro: la Punizione, mediante opportune ed apprezzabili modifiche al Codice Penale ed al Codice di Procedura Penale.

Tuttavia, e veniamo al titolo di questo articolo, per quanto giusto sia stato modificare le leggi, non è soltanto punendo che si può contribuire a lottare contro la violenza di genere.

Limitandosi a questo intervento lo Stato Italiano ha mantenuto l’atteggiamento tenuto in precedenza, atteggiamento che non appare rivolto alla prevenzione ed alla protezione, come invece raccomanda la Convenzione di Istanbul.

In sostanza le donne italiane continuano a percepire lo Stato come distante quando i fatti avvengono e a sentire il sostegno quasi esclusivamente da parte delle tante Organizzazioni private che operano sul territorio italiano in maniera tanto encomiabile, pur a fronte di grosse difficoltà di ogni genere, a partire da quelle economiche.

Fra le più diffuse e note citiamo “Posto Occupato”, Organizzazione premiata dalla Circoscrizione Sicilia di Amnesty International per il lavoro che porta avanti quotidianamente, DiRe (Donne in Rete), Telefono Rosa, UDI (Unione Donne Italiane), Pangea, e tante altre.

Le organizzazioni italiane del settore hanno fortemente criticato il “Piano d’azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere” varato nel 2015 dal Governo Italiano, soprattutto per lo scarso impegno economico previsto. Il piano scadrà a giugno 2017, ma, a fine 2016 praticamente nulla è stato fatto sia in termini di prevenzione, ossia con progetti di “educazione” da portare avanti nelle scuole, sia in termini di protezione, ossia ampliando e rafforzando la rete dei centri antiviolenza e delle case rifugio.

Finora, infatti, dei fondi stanziati in merito, di per sé insufficienti, circa 10 milioni l’anno, soltanto una piccola parte è andato ai centri antiviolenza, che restano quasi del tutto affidati alla solidarietà dei privati nei confronti delle donne vittime di violenza.

In tale stato di cose, particolarmente riprovevole appare il divario esistente fra i posti letto disponibili in Italia in case rifugio e quelli disponibili in altri paesi, tenuto conto, soprattutto, che, in base alla direttiva del Consiglio d’Europa (un posto letto ogni 10.000 abitanti) l’Italia dovrebbe avere circa 6.000 posti letto, mentre ne ha poco più di 450, contro i 6.800 della Germania.

Gli italiani solidali verso le donne vittime di violenza, mentre, quindi, sentono gratitudine nei confronti di tutti quei volontari che quotidianamente, lavorano con sacrificio e nell’ombra in aiuto delle donne, non possono non manifestare disapprovazione nei confronti di uno stato che, a parole, dichiara la volontà di combattere la violenza sulle donne, mentre, nei fatti, praticamente nulla fa in direzione della prevenzione, che non può che essere suo esclusivo compito, e poco si impegna in termini di protezione, lasciando quasi sole, a partire dagli aspetti economici, le organizzazioni del settore.

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