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La Corte Penale Internazionale e il mal contento dell'Africa /Africa

CORTE PENALE INTERNAZIONALE E IL MAL CONTENTO DELL’AFRICA

di Mouhamed Cissé

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Nel 2016 l’Africa del Sud, il Burundi e la Gambia hanno assunto la decisione di ritirarsi dal Trattato di Roma, convenzione che ha creato la Corte Penale Internazionale. L’Unione Africana ha parlato di una giustizia con due pesi e due misure e ha anche, nel corso del 26esimo vertice, minacciato un ritiro collettivo dal trattato degli Stati Africani.

Allo scopo di dissipare le controversie ideologiche e di permettere il discernimento della verità storica e giuridica riguardo in particolare al rapporto tra la CPI e gli Stati africani, è urgente e opportuno fornire qualche elemento di risposta.

La corte è stata creata con il secondo fine di diventare strumento per una nuova forma di neo colonialismo dell’Occidente contro gli Stati africani? I capi di Stato africani erano bersagliati già allora? Analisi del ruolo delle ONG.

L’idea di stabilire una giurisdizione permanente internazionale fu evocata seriamente la prima volta durante le guerre dei Balcani nel 1912 -1913 e successivamente durante la I guerra mondiale, e in particolare durante le discussioni relative al Trattato di Versailles. Uno degli obiettivi ricercati era di trovare una formulazione che potesse permettere di portare in tribunale l’imperatore Guglielmo II e i suoi ufficiali, senza che questi potessero essere protetti dall’immunità propria del loro rango. Il difetto di pertinenza della qualità ufficiale previsto nello statuto di Roma deriva dunque proprio da ciò e non mira necessariamente ai capi di Stato africani ma riflette una più ampia volontà di lotta contro l’impunità.

Le discussioni e negoziazioni sulla questione continuarono in seno alla Società delle Nazioni e successivamente in seno ai diversi comitati ad hoc dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. L’elaborazione della Convenzione per la nascita di un tribunale penale internazionale per la soppressione e la condanna di crimini di Apartheid e altri crimini internazionali si fonda su una delle bozze di questi scambi. Dopo una lunga interruzione dovuta principalmente a dei disaccordi sulla definizione di certi crimini, furono le ONG che con il loro attivismo contribuirono in modo decisivo a permettere la ripresa delle discussioni. Questo soprattutto nel contesto delle atrocità commesse negli anni ’90 in Ex Jugoslavia e in Ruanda e specificamente dopo la creazione del Tribunale Penale Internazionale per l’Ex Jugoslavia nel 1993 e del TPIR nel 1994 attraverso delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. E’ la bozza di Siracusa, che vide una forte partecipazione delle ONG, che ha infine deciso la creazione della CPI non attraverso una risoluzione del Consiglio di Sicurezza ma piuttosto attraverso un trattato al fine di assicurare un’adesione più ampia. Bisogna notare che la funzione di controllo delle ONG di difesa dei diritti dell’uomo continua ancora oggi ad essere determinante. Sono queste infatti che trasmettono gran parte del materiale di investigazione all’Ufficio del Procuratore per cominciare gli esami preliminari prima che quest’ultimo apra delle indagini ufficiali. Ripercorrere la storia della creazione della CPI permette di comprendere appieno l’apporto fondamentale di questo strumento nel complesso mosaico di strumenti esistenti nel mondo di oggi.

La CPI è veramente uno strumento nelle mani degli occidentali per imporre la loro volontà ai loro avversari?

La Corte esercita la sua competenza contro i crimini di guerra, i crimini contro l’umanità, il genocidio e il crimine di aggressione. La Corte è adita in primo luogo quando la situazione è deferita al Procuratore da uno Stato membro; in secondo luogo quando la situazione è deferita dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU; e infine quando il Procuratore proprio motu apre un’inchiesta sulla base delle informazioni ricevute. Lo Statuto della CPI va più lontano prevedendo i casi in cui la Corte può esercitare la sua competenza se uno Stato non membro accetta comunque la sua competenza con una dichiarazione presentata all’Ufficio di Cancelleria.

Su dieci esami preliminari aperti in questo momento, quattro vedono gli Stati africani coinvolti. Su questi quattro, tre esami sono stati aperti su decisione del Procuratore di aprire un’inchiesta di sua propria iniziativa. Il quarto Stato ha lui stesso deferito il caso davanti la Corte.

L’ufficio del Procuratore indaga in questo momento su dieci situazioni (di cui due nello stesso paese). Otto Stati africani sono implicati. Di questi paesi africani, cinque hanno loro stessi deferito la situazione davanti al Procuratore (Repubblica Centrafricana, Mali, Costa d’Avorio, Uganda e RDC), un caso proprio motu da parte dell’Ufficio del Procuratore (Kenya) mentre negli altri due casi, si tratta di una decisione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (Libia e Sudan).

La richiesta di intervento della Corte da parte degli Stati africani in proporzione così elevata porta a credere che la Corte abbia una sua utilità e che il suo intervento non sia frutto di una decisione imposta dall’ Occidente contro i paesi africani. Dei capi di Stato africani, vista le situazioni prevalenti nei loro rispettivi paesi, hanno preso dunque l’iniziativa di far riferimento a questo nuovo organo internazionale sia in qualità di Stati membri sia, nel caso di Stati non membri, riconoscendo comunque la competenza della Corte su dei presunti crimini commessi sul loro territorio. Certuni diranno che i politici africani usano la Corte come strumento politico per inviarvi i propri avversari politici. Ma in realtà, il meccanismo di apertura di una inchiesta è complesso e lo standard “base ragionevole per aprire una inchiesta” è elevato. In effetti, l’Ufficio del Procuratore deve presentare alla Camera Preliminare una domanda di autorizzazione accompagnata da ogni elemento giustificativo. La risposta può essere negativa. Pertanto, una decisione del Procuratore di aprire un’inchiesta per sua propria iniziativa non conduce a un’apertura automatica di una situazione o di un caso. Il Procuratore è autonomo e indipendente nell’esercizio delle sue funzioni cosi come i giudici. Il modo di designazione di questi ultimi, le qualifiche richieste e l’importanza nella loro scelta da parte degli Stati membri di tener conto della rappresentanza geografica equa scarta ogni equivoco quanto alla possibilità d’imposizione dei giudici da parte degli occidentali.

Un altro argomento, e non da meno, riposa sul fatto che la “corte penale internazionale è complementare alla giurisdizioni penali nazionali”. Lo statuto assicura la preminenza dell’organo giudiziario interno sulla CPI anche se si parla di complementarità dei due organi.

La competenza della Corte non potrebbe essere imposta “quando il caso è oggetto di una inchiesta o azione giudiziaria da parte di uno Stato che ha competenza, a meno che questo Stato non abbia la volontà o sia nell’incapacità di portare avanti l’inchiesta o le condotte”. Emerge di nuovo lo spirito degli esperti di diritti umani che hanno partecipato alla redazione dello statuto.

La critica riguardante le potenze come USA, Russia e Cina che non hanno aderito è giustificata? Sono intoccabili?

Secondo i termini dello Statuto, per la loro non adesione, i cittadini americani (cosi come per tutti i paesi che non hanno aderito) non possono essere perseguiti nel territorio degli Stati non membri ma al contrario possono esserlo nel territorio di uno Stato membro. Per evitare questo pericolo, gli USA hanno proceduto alla firma di accordi bilaterali con questi Stati in vista di garantire la protezione dei loro cittadini. Nondimeno, si può constatare che questo strumento non lascia questi grandi paesi indifferenti. Infatti, nel 2002 con una manovra diplomatica senza precedenti – e con un valore giuridico discutibile – l’amministrazione Bush J. minacciò di ritirare la firma apposta il 31 dicembre 2000 dal suo predecessore, il Presidente Clinton. La ragione della minaccia era che il governo americano temeva un’azione giudiziaria contro il personale dei servizi segreti o ufficiali per ragioni politiche. Analogamente, il 16 novembre 2016, il Ministro russo degli Affari Esteri ha annunciato la firma di un decreto da parte del Presidente Vladimir Putin di ritiro della firma della Russia dalla Statuto di Roma. Ciò è avvenuto all’indomani della pubblicazione di un rapporto di esame preliminare dell’Ufficio del Procuratore che faceva riferimento a movimenti di truppe russe in Ucraina e in Crimea. La Russia ha firmato lo Statuto di Roma nel 2000 e non sembra ad oggi per niente interessata a ratificarlo. Si tratta dunque di una ritorsione politica di fronte alla decisione dell’apertura di un esame preliminare in Georgia e in Ucraina più che di una reale critica contro le azioni della corte.

Queste azioni di ritorsione non hanno impedito all’Ufficio del Procuratore di continuare le sue indagini in Ucraina, di condurre degli esami preliminari relativamente alle azioni condotte dall’Inghilterra in Iraq o di Israele sul territorio palestinese.

Gli africani si pongono la giusta domanda? La creazione e la nascita della Corte ha delle ricadute benefiche sulle loro popolazioni in materia di protezione dei diritti umani?

La Corte è uno strumento di lotta contro i crimini più gravi, contro l’impunità e di prevenzione nonché uno strumento di peacebuilding.

Il preambolo riflette maggiormente l’intenzione dei redattori ed è conforme allo spirito della loro visione. Seppur non facendo parte della parte operativa dello Statuto, il preambolo delinea gli obiettivi principali ed è il risultato di lunghe negoziazioni che stanno alla base dell’accettazione dello Statuto. Secondo il Preambolo, la Corte ha un carattere universale, prende in considerazione “tutti i popoli”, denuncia i “milioni di vittime di atrocità”, e soprattutto “afferma che i crimini più gravi che toccano l’insieme della comunità internazionale non saranno lasciati impuniti e che la loro repressione deve essere effettivamente assicurata attraverso misure prese nel quadro nazionale e attraverso il rinforzamento della cooperazione internazionale”. I redattori si dicono “determinati a mettere fine all’impunità degli autori di questi crimini e a concorrere anche alla prevenzione di nuovi crimini”. Cosi la lettura di questo paragrafo indica la doppia funzione della Corte: da un lato di perseguire i crimini più gravi assicurando la lotta contro l’impunità e dall’altro come strumento di prevenzione.

Inoltre, l’amnistia non sarà più permessa per i crimini previsti dalla Corte. Grazie a questo strumento, la tensione tra amnistia e lotta contro l’impunità fa pendere chiaramente la bilancia a favore della lotta contro l’impunità. Questo stato di fatto riflette l’incidenza delle ONG nella loro volontà di prevedere degli strumenti di protezione delle popolazione.

La CPI, oltre ad essere uno strumento di azione giudiziaria e di lotta contro l’impunità è uno strumento di dissuasione efficace?

La risposta è certamente mitigata quando si considera, per esempio, la situazione in Siria e le numerose minacce di apertura d’inchiesta contro i belligeranti. Di fronte agli interessi delle grandi potenze in Siria, ci sono poche chance di veder materializzarsi una risoluzione del Consiglio di Sicurezza che preveda l’apertura di un’inchiesta in questo paese. In certi casi, gli interessi nazionali prevalgono chiaramente e lo strumento del diritto è brandito. In Africa dell’ovest, la minaccia di fare ricorso alla CPI sembra essere largamente accettata e funzionante. Delle minacce di ricorso alla CPI sono state utilizzate sia da parte del Segretario Generale delle NU sia dalle organizzazioni regionali come la CEDEAO.

L’importanza della Corte come strumento con una propria mission nel contesto internazionale è innegabile. Si constata che oltre alla funzione di strumento di lotta contro l’impunità, si aggiunge la sua funzione centrale nella ricostruzione post-conflitto (peacebuilding). In effetti, “la corte stabilisce i principi applicabili alle forme di riparazione, come la restituzione, l’indennizzo o la riabilitazione, da accordare alle vittime o a chi ne ha diritto”. Il Prof. Vincent Chetail ritiene che in un contesto caldo che segue le situazioni di conflitto armato, giudicare i crimini di guerra è una tappa essenziale ai fini di restaurare la pace e di procedere ad una rottura con il passato. Egli aggiunge inoltre che l’esperienza ha dimostrato che la riconciliazione e la riparazione delle vittime ha dei benefici in un approccio che unisce gli aspetti interni e internazionali della giustizia, il quale ha un obiettivo che va al di là della semplice repressione criminale dei crimini commessi nel passato.

Vista l’importanza della corte, tutte le ONG e gli operatori sociali in contesti difficili dovrebbero far propria la missione di informare correttamente sul funzionamento e sugli obiettivi della CPI, in modo da aiutare a cambiare la percezione di “(in)giustizia internazionale” che buona parte della popolazione civile ha.

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