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Una parola di troppo /Editoriale

UNA PAROLA DI TROPPO

di Andrea Cuscona

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Ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione; questo diritto include la libertà di sostenere opinioni senza condizionamenti e di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo ai confini

(articolo 19 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani – 1948). In queste poche righe si decreta, in senso universale, l’inviolabile diritto di cui gode ciascun essere umano, per nascita, ad esprimersi liberamente. “Attraverso ogni mezzo e senza riguardo ai confini”: ecco, sta qui l’eccezionale portata dell’assunto stesso, a mio avviso quasi avanguardista.

Anche se una tale rivendicazione per il genere umano viene codificata soltanto nel 1948 e – dunque – tardi rispetto alla nostra storia evolutiva, porre l’accento sul fatto che un diritto debba esprimersi senza possibili barriere fisiche e immateriali ci fa capire quanto visionari e lungimiranti siano stati coloro che hanno vergato quella magna charta. Appare chiaro che in quegli anni, appena usciti dallo strazio della Seconda Guerra Mondiale e dal cannibalismo dei diritti che lo caratterizzò, l’esigenza di tutelare la libertà di espressione fu colta come cardine essenziale su cui far poggiare una nuova Umanità. Pochi decenni dopo, Peter Benenson lesse sulla pagine dell’Observer di quei giovani portoghesi arrestati per aver soltanto manifestato un pensiero: fu la sua indignazione, come sappiamo, a dare il via alla nascita del nostro movimento globale di difensori dei diritti umani.

Questo excursus storico ci proietta, però, al presente, in un epoca in cui dovrebbe essere impossibile sopprimere le libertà di cui ogni individuo gode. Eppure, tristemente, i corsi e ricorsi storici ci schiacciano di fronte ad una realtà infarcita di gravissime violazioni ai danni di chi manifesta il proprio o altrui pensiero.

Per il ruolo che svolgo, per sensibilità, per tanto altro ancora, trovo doveroso, quindi, tenere viva l’attenzione sulla delicata situazione in cui operano tanti, troppi giornalisti e operatori dell’informazione, così come blogger o videomaker in tutto il Mondo. Ogni giorno, chi scrive un articolo su un quotidiano online o cartaceo, chi mette la faccia o la voce, chi realizza anche un semplice video o racconta una storia sul proprio blog personale rischia davvero grosso quando si scontra con un sistema deviato.

Quel che emerge è che di anno in anno, i governi stanno limitando sempre di più la libertà su Internet. Con il blocco degli indirizzi IP, in Turchia e Arabia Saudita hanno chiuso rispettivamente 50.000 e 400.000 siti, compresi portali di notizie e social media. Il “Grande firewall” voluto dalla Cina strozza l’accesso a Internet a oltre 800 milioni di utenti, quasi un sesto della popolazione mondiale.

Sono sempre di più i governi che limitano l’accesso al web durante le rivolte e le proteste, come è successo in Etiopia lo scorso anno in più di un’occasione. Nel 2016 è accaduto ai sistemi Signal in Egitto e Whats App in Brasile.

La censura online è un’arma impropria di cui si dotano certe autorità nazionali con al complicità di grandi colossi informatici, in barba alla privacy dei loro utenti. Basti pensare a Snapchat e Microsoft che non hanno ancora voluto dotarsi di opportune misure a garanza della privacy nei propri servizi di messaggistica; nella “Classifica della privacy dei messaggi” soltanto tre aziende prevedono la crittografia end-to-end di default su tutte le loro app di messaggistica. E che dire della fotografia scattata ogni anno da “Reporters without borders” in merito alla libertà di stampa nel Mondo? Un pericoloso sali e scendi di posizioni nel ranking, dentro cui si devono leggere i numeri di un sistema mondiale che sembra voler imbrigliare sempre più le voci libere e indipendenti. E si potrebbe continuare oltre.

Tutto questo sembra quasi un’inezia se volgiamo uno sguardo ad uno dei più recenti episodi di violazione dell’articolo 19 della DUDU: dallo scorso febbraio, il giornalista turco-tedesco Deniz Yücel, corrispondente dalla Turchia del quotidiano tedesco Die Welt, resta detenuto in attesa del processo che lo vede accusato di “propaganda terroristica” e “istigazione all’odio“. Purtroppo, nel Paese di Erdogan, questo è soltanto l’ultimo di una serie agghiacciante di arresti e bavagli all’informazione. Sarebbe quasi stucchevole citare tutti i casi di cui Amnesty si occupa e si è occupata, ma vorremmo davvero che non si leggessero ogni giorno atrocità di questo ed altro genere.

Dunque? Come sempre la migliore medicina è proprio l’informazione stessa, unita al coraggio, alla fame di verità, alla sete di giustizia, alla sana indignazione e all’attivismo. Perché un parola non sia mai di “troppo”.

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