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Diritti umani e scenari globalizzati: quale futuro occupazionale? /Globalizzazione

DIRITTI UMANI E SCENARI GLOBALIZZATI: QUALE FUTURO OCCUPAZIONALE?

di Maurizio Gemelli

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Il concetto di globalizzazione è andato assumendo nel tempo una importanza crescente persino per la riflessione sistematica sui diritti umani, provocando alcune trasformazioni nel loro processo di internazionalizzazione e innescando nuove istanze sul medesimo terreno. Esso si presenta come multidimensionale, nel senso che, ferma restando la prevalente connotazione economica, finisce per invadere gli ulteriori ambiti delle interazioni sociali, delle istituzioni politiche e del diritto. In termini più generali, possiamo provare a definirla come l’insieme dei processi legati all’accorciamento delle distanze e della loro rappresentazione sociale, scaturito dal parallelo, e spesso contestuale, sviluppo delle tecnologie della comunicazione e dalla conseguente circolazione dei differenti modelli culturali, dei servizi e dei capitali.

Rivisitata sotto il profilo squisitamente economico, la globalizzazione si esprime nella delocalizzazione delle funzioni produttive da parte delle imprese, nell’intensificarsi dell’integrazione fra i mercati (compreso quello del lavoro), nella diffusione dei flussi finanziari.

La valutazione del fenomeno ha sin qui scatenato nei più attenti osservatori reazioni di differente tenore: da quella dei contrari, che la considerano una mera costruzione ideologica, finalizzata a mascherare dinamiche neoliberiste, un simulacro per modulare le scelte regolative interne degli Stati alle esigenze del mercato globale, a quella dei favorevoli, i quali evidenziano come essa, al contrario, esprima cambiamenti strutturali, reali e positivi nella scala dell’organizzazione sociale, politica e giuridica contemporanea, a quella intermedia di coloro che riconoscono che la globalizzazione sta ridefinendo il potere, le funzioni e l’autorità dei governi nazionali, nonché l’organizzazione sociale ad essi interna ed individua in tali processi aspetti sia positivi sia negativi (Amarthya Sen). In tale prospettiva, lo Stato nazionale non può dirsi scomparso, ma sarà necessario avviare un processo di sua profonda trasformazione, riservando autonomia di movimento sempre più ampia alla c.d. governance, ovvero a meccanismi di regolazione e controllo non più accentrati a livello statale.

Sempre più frequentemente, essa diviene espressione di una disarmonia tra le componenti essenziali della cultura. Da una parte, un progresso accelerato della tecnica ed una intensa espansione delle attività economiche, dall’altra la difficoltà dell’etica, della politica e del diritto nell’affrontare gli scenari sempre nuovi determinati da tale sviluppo.

Sotto il profilo sociologico, anche l’individuo nella età della globalizzazione finisce per essere delocalizzato, nel senso che viene separato dai contesti di appartenenza e proiettato in un universo sempre più grande, ma incapace di restituirgli una identità. La dimensione locale non si rivela più in grado di offrirgli adeguata protezione, anche a causa dell’obiettiva difficoltà di individuare le necessarie coordinate di riferimento (Baumann). La globalizzazione dall’alto svilisce il senso di comunità. Attraversando i territori, determina per l’élite del mondo una cittadinanza cosmopolitica, fondata su consuetudini indotte dal mercato e dai mass media (Sassen). Provoca in certa misura anche nuove forme di frammentazione giuridica, concorrendo a creare, al tempo stesso, nuove forme di diseguaglianza. Sul versante della distribuzione della ricchezza, ha aumentato il divario fra paesi ricchi e paesi poveri e questo ha certo contribuito a considerarla come un fenomeno che, già sul piano empirico, sembra lasciare poco spazio ad una riflessione intorno ai suoi rapporti con i diritti umani. è, però, la loro stessa idea che esige di essere situata entro una visione della giustizia necessariamente orientata in senso sovranazionale. L’obiettivo rimane quello di una società internazionale proteiforme, in cui istituzioni statali e sociali convivano con altre cosmopolitiche, abdicando alla pretesa di un centro di governo unitario.

Nei primi anni novanta, il processo di globalizzazione subisce una ulteriore accelerazione, ponendo fine a molti sistemi politici ed economici, che definivano le economie di ieri. L’Unione Sovietica e i suoi stati satellite crollano. L’India avvia una serie di riforme per liberalizzare la propria economia, conducendo sul terreno dell’economia globale oltre un miliardo di persone. Nel trentennio 1982-2012 il tasso di povertà scende dal 60 al 22% della popolazione. L’aspettativa di vita sale da 49 a 66 anni, all’interno di un paese meglio definito dalla tecnologia, dai servizi globali e da un ceto medio in rapida crescita. La Cina crea una nuova forma di capitalismo ibrido, facendo uscire dalla povertà oltre mezzo miliardo di individui. Nello stesso periodo di cui sopra, il tasso di povertà si riduce dall’84 al 13%, corrispondente all’uscita dall’indigenza di circa seicento milioni di cinesi. Oggi la Cina rappresenta la seconda economia del mondo dopo gli Stati Uniti. In Sud Africa, l’apartheid finisce e Mandela viene eletto Presidente. Viene lanciato il World Wide Web e messo a disposizione del pubblico contemporaneamente ai browser, ai motori di ricerca e all’e-commerce.

A fronte degli scenari del passato, anche recente, sin qui sommariamente evocati, il mondo oggi sta entrando in una nuova fase di innovazione, che darà il via a tutta una serie di attività industriali mai sperimentate prima (la genomica, l’intelligenza artificiale, la robotica etc…). Nella genomica operano grandi scienziati italiani, ma lavorano in Francia e negli USA. Ingegneri assai capaci sono impegnati nel campo della robotica, ma lavorano in Corea del Sud, Giappone, Svezia e Germania. Altrettanto brillanti matematici e informatici avrebbero le capacità per creare compagnie di Big Data da miliardi di euro, ma molti di loro non credono nella possibilità di avviare queste aziende in Italia, perché vedono quanto è difficile per gli imprenditori internet italiani sviluppare proprie attività nel paese d’origine rispetto a quanto fanno i loro colleghi in Germania, Regno Unito e negli Stati Uniti.

Cosa deve cambiare per invertire questo trend negativo? Verosimilmente, occorre perseguire, tra gli altri, alcuni degli obiettivi, individuati da Alec Ross, esperto di tecnologia, già Consigliere del Dipartimento di Stato Usa di Hillary Clinton, docente della Columbia University, nel suo recentissimo libro “Il nostro futuro. Come affrontare il mondo dei prossimi venti anni ”, Feltrinelli, e, segnatamente, quello di rendere più facile per una azienda nascere, crescere e fallire, eliminando le pastoie burocratiche, riducendo le barriere culturali e occupazionali, favorendo la piena partecipazione dei giovani e delle donne all’economia. La storia è ormai nota a tutti e passa attraverso tre ambiti fondamentali: tecnologia, automazione e globalizzazione. Forse non a tutti, però, è noto che esiste una robotica di ultima generazione in Corea del Sud, strumenti bancari assai evoluti in paesi africani, nei quali non c’erano banche, tecnologia laser utilizzata per incrementare la produzione agricola in Nuova Zelanda, studenti universitari in Ucraina capaci di trasformare il linguaggio dei segni in lingua parlata; che in Europa, i mercati del lavoro a più alta specializzazione stanno avviando start-up di notevole portata.

Le industrie chiave del futuro verosimilmente saranno la robotica, le bioscienze avanzate, la trasformazione in codice del denaro, la cyber sicurezza, i Big Data.

Il Giappone è il paese in cui vivono i cittadini più longevi e che ospita la popolazione di anziani più numerosa della terra, la cui aspettativa di vita è fissata agli 80 anni per gli uomini e agli 87 per le donne. Tutti questi anziani avranno bisogno di qualcuno che si occupi di loro, ma i bassi tassi di natalità giapponesi - per molti versi paragonabili a quelli di casa nostra - comprovano che non ci saranno nipoti a sufficienza e, grazie alle politiche persistentemente rigide sulla immigrazione, non ci saranno abbastanza esseri umani disponibili a fare quel lavoro. I badanti sono assoggettati a frequenti turnover a causa delle basse retribuzioni e ad un notevole tasso di infortuni sul lavoro. Ed ecco allora arrivare in soccorso i robot, sin da ora in via di realizzazione in una fabbrica giapponese. La casistica, al riguardo, offre una serie di esempi tra i più disparati, secondo quanto ci riporta sempre Ross, nella sua interessantissima pubblicazione cui prima si faceva cenno.

Toyota ha realizzato una aiutante infermiera, chiamata Robina, che è un robot di 60 kg. di peso e un metro e venti di altezza, capace di comunicare con parole e gesti. Ha due occhi distanziati, una chioma e un caschetto e persino una fluente gonna di metallo bianco. Ma c’è anche il fratello di Robina, Humanoid, che opera da assistente domestico multifunzionale, nel senso che sa lavare i piatti, occuparsi dei tuoi genitori quando non stanno bene e persino offrire un trattenimento improvvisato, suonando la tromba o il violino.

Honda ha creato, invece, Asimo (Advanced Step in Innovative Mobility), un umanoide talmente sofisticato da s apere interpretare emozioni, movimenti e comunicazioni verbali degli umani. Dotato di telecamere che fungono da occhi, può obbedire a comandi vocali, stringere mani e rispondere a domande con un cenno del capo o a voce. Si inchina, persino, per salutare, esattamente come fa un giapponese ben educato! Rispetto ad un paziente anziano, è in grado di aiutarlo ad alzarsi dal letto, a sostenere una conversazione etc…

D’altro canto, i robot stanno cominciando a svolgere un ruolo di primo piano anche in sala operatoria. Nei soli Stati Uniti, nel 2013, ne sono stati venduti 1300 chirurgici per un prezzo medio di 1,5 milioni di dollari ciascuno e il numero di procedure sanitarie robotiche cresce di circa il 30% all’anno. Con le pressioni esercitate sulle compagnie di assicurazione e i centri sanitari in vista della riduzione dei costi (la c.d. medicina difensiva negativa), il timore è che le forze del mercato spingeranno i robot nelle sale operatorie in circostanze in cui il paziente sarebbe meglio assistito da un essere umano. Per fortuna, ci sono esempi assolutamente positivi di ricorso ai robot in ambito medico che hanno prodotto risultati davvero sorprendenti. Nel mondo, pare che 70 milioni di persone soffrano di gravi problemi di udito e di parola, per i quali sostanzialmente non si è riusciti ad individuare una soluzione provocandone di fatto l’esclusione sociale. Ebbene, un gruppo di studenti di Ingegneria in Ucraina ha creato Enable Talk, un guanto robotico blu e nero, in cui i sensori flessibili presenti nelle dita riconoscono la lingua dei segni e la traducono in testo su uno smartphone via bluetooth. A sua volta, il testo viene convertito in parlato, mettendo la persona sordomuta in condizione di dialogare e di essere udita in tempo reale.

In Francia, una azienda di robotica, l’Aldebaran, ha creato un automa umanoide, alto circa mezzo metro, chiamato Nao, che in 70 paesi funge da assistente del professore nei corsi di scienze ed informatica. è stato, inoltre, adattato per svolgere funzioni di sostegno in classe, capace di aiutare gli studenti autistici a comunicare più efficacemente.

Pare che negli Stati Uniti siano già diventati una realtà concreta i cc.dd. legal robots. Si tratta di automi che fungono da archivio parlante, capaci di rispondere alle più svariate domande di clienti e superiori, così come di sbrigare le pratiche d’ufficio più noiose, tra cui la lettura di decine di dossier, articoli e scartoffie per cercare l’informazione desiderata relativa a un’udienza. In Corea del Sud, da tempo i pescatori non riuscivano a contrastare le meduse e l’impatto negativo (quantificato in miliardi di dollari all’anno) delle stesse sull’industria ittica mondiale. Ebbene, lo Urban Robotics Lab del Korea Advanced Institute of Science and Technology ha creato Jeros (Jellifish Elimination Robotics Swarm), una sorta di grande automatico frullatore a immersione, che rintraccia e distrugge meduse al ritmo di una tonnellata all’ora. Nel 2011, negli Usa, Obama ha lanciato la National Robotics Iniziative, al fine di promuovere lo sviluppo dei robots per l’automazione industriale, l’assistenza agli anziani e le applicazioni militari. Programmi di analogo contenuto sono stati contestualmente adottati in Francia e in Svezia.

Oggi quasi tutte le maggiori case automobilistiche stanno studiando e costruendo proprie versioni di autovetture senza conducente. L’azienda che però sta investendo più di tutte in questo settore è Google, la cui autovettura prevede un radar, telecamere che mantengono l’auto all’interno delle corsie e un sistema luminoso di individuazione e distanziamento, sistemi a infrarossi, di imaging tridimensionale e GPS, nonché sensori collegati alle ruote. Ovviamente, Google ha interesse a liberare le mani dei consumatori per una maggiore quantità di tempo da dedicare ai suoi prodotti.

Come accade in ogni altro sviluppo della robotica, molti guadagneranno, ma diversi altri finiranno fuori gioco. Le aziende della tecnologia hanno già sfidato il mercato dei servizi automobilistici. Uber, l’applicazione mobile che connette passeggeri e autisti a pagamento, ha rivoluzionato il mercato del taxi, un lavoro che, all’evidenza, comporta una altissima quantità di interazione umana. La conversazione con un tassista può aiutare a farsi un quadro dell’opinione pubblica, fare il punto sulle politiche in atto o semplicemente sapere che tempo farà. Ma siamo sicuri di essere disposti a perdere il contatto umano? E poi, ammesso che i passeggeri arrivino a preferire conducenti robot, che fine farà il tassista che perderà l’impiego, perché i posti di lavoro nel settore dei servizi saranno più a rischio che mai per effetto della prossima ondata di innovazione? E, si badi bene, che il problema non riguarda i soli tassisti! Si pensi, infatti, agli autotrasportatori, che saranno rimpiazzati dai droni aerei di Amazon o dai furgoni di consegna automatizzati. Ups e Google stanno sperimentando proprie versioni di droni di consegna. Foxconn, l’azienda di Taiwan che produce i nostri Iphone, più tanti altri gadgets insieme ad Apple, Microsoft e Samsung, e che impiega mezzo milione di addetti nelle varie unità produttive, già nel 2011 aveva preannunciato un piano di acquisto per un milione di robot nei successivi tre anni, destinati ad affiancare i lavoratori umani già impiegati nell’azienda, peraltro in pessime condizioni di lavoro.

Il futuro prossimo vedrà attrezzature robotiche che permetteranno ai paraplegici di camminare, farmaci di sintesi capaci di cancellare determinate forme di cancro, codici informatici usati tanto come valute internazionali quanto come armi per distruggere infrastrutture, magari ubicate nell’altro emisfero del pianeta.

Mentre ogni altra parte del corpo si sta aprendo alle incursioni della medicina, il cervello umano rimane ancora una sorta di mistero. Gli scienziati si propongono di forzarne il codice cominciando a fare ricorso alla genomica per trattare le malattie neurologiche e mentali. Per avere contezza minima delle ricadute del problema, basterà riflettere sulle conseguenze, in termini anche soltanto di disturbi psichici, che i diversi conflitti armati in Iraq e in Afghanistan, ma prima ancora quelli del Vietnam, hanno provocato nei militari e diplomatici statunitensi di ritorno da quelle zone di guerra. La sequenza genomica ci dirà se siamo predisposti alle malattie cardiache, quanto saremo alti, quanto peseremo, se saremo dei corridori veloci, se saremo predisposti per la matematica, se avremo i capelli ricci o lisci, gli occhi azzurri o castani, se perderemo i capelli da giovani e tutto questo riusciremo a saperlo probabilmente già dieci settimane dopo il nostro concepimento. Con i progressi della genomica, attualmente l’intera genetica del feto è accessibile e imporrà a tutto il mondo di affrontare la questione della selezione genetica.

Possiamo esser certi che, una volta in possesso di tutte queste informazioni, in tanti non opterebbero per bambini progettati su misura, nel senso che, una volta venuti alla luce, presentino il corredo genetico corrispondente alle migliori aspirazioni di un genitore? Esiste il rischio concreto che, conoscendo in anticipo le predisposizioni e i talenti del proprio figlio, i genitori sarebbero influenzati nelle decisioni riguardanti la sua formazione? La paura di una futura malattia potrebbe impedire ai genitori di offrire al figlio un normale sviluppo sociale?

Com’è noto, sin dall’ormai lontano 1998, il Congo è impelagato nel conflitto più letale (oltre cinque milioni di vite umane) registrato sulla terra dopo la seconda guerra mondiale, fomentato dalla competizione sulle risorse naturali, da divisioni etniche e dall’arroganza dei signori della guerra. Benché sia stata dichiarata la pace, in realtà le tensioni permangono, il mercato nero continua a diffondersi, in assenza di efficaci strumenti di contrasto, e il Congo rimane uno degli stati più poveri al mondo, con un tasso di analfabetismo che coinvolge un terzo della popolazione e l’aspettativa di vita fissata ad appena 46 anni. Alcune tra le più atroci sofferenze del Congo si sono registrate a Goma, una cittadina sul confine orientale con il Ruanda, devastata dai continui combattimenti, che hanno già costretto all’esodo più di due milioni di persone. Visitando il campo profughi di Mugunga, a nord di Goma, nel quale vivono centinaia di migliaia di rifugiati in baracche fatte di tele cerate e fogli di lamiera ondulata, con pesanti pietre che tengono ferme quelle precarie costruzioni e con i bambini che camminano a piedi nudi sulla roccia vulcanica grigionera, si può agevolmente constatare che i cellulari sono assai diffusi. I rifugiati li usano persino per mandare e ricevere denaro, o, più semplicemente, per mantenere i contatti familiari dopo essere stati evacuati dai vari campi profughi montati, e magari subito dopo abbandonati, a seconda delle esigenze specifiche delle milizie.

Orbene, a proposito del lento, ma inesorabile, declino del lavoro, la dottrina scandinava (Brynjolfsson) lo ha etichettato come “il grande paradosso della nostra epoca”. La produttività è a livelli record, l’innovazione non è mai stata così rapida, eppure al tempo stesso registriamo una caduta del reddito medio ed un minor numero di posti di lavoro disponibili. La gente rimane indietro, perché la tecnologia avanza molto velocemente e le nostre capacità non ce la fanno a reggere il passo. Saranno molti quelli che rimarranno senza lavoro. A differenza della precedente ventata di globalizzazione e innovazione, trainata dall’informatica, che ha fatto uscire dall’indigenza una considerevole serie di persone, la prossima ondata metterà in difficoltà i ceti medi di tutto il mondo, minacciando per molti un ritorno alla povertà. Con il crescere dello spazio occupato dai robot, l’economia globale vivrà una rivoluzione alimentata da un’intelligenza artificiale e una capacità di apprendimento delle macchine tale da potere avere effetti sulla forza lavoro non meno pregiudizievoli della rivoluzione agricola, industriale e digitale che l’hanno preceduta. Se prenderanno piede gli assistenti robot, potrebbero persino creare una frattura tra le generazioni più anziane e quelle più giovani. Non è solo questione che gli anziani siano più disponibili a parlare, ma che i giovani lo siano altrettanto nell’ascoltare. Ai nostri tempi, infatti, mostriamo uno scarsissimo interesse per le esperienze, anche semplicemente di vita, che i nostri anziani hanno da trasmetterci.

In molte zone del pianeta, ci si sente nuovamente sotto l’assedio di crescenti disuguaglianze e di perturbazioni indesiderate ed è sempre più diffusa la sensazione che stia diventando difficile trovare il proprio posto nel mondo, o anche solo tirare avanti. E questo sta provocando lo scompiglio in molte società. L’innovazione porta con sé promesse e pericoli. Le forze che stanno generando progressi senza precedenti nell’ambito della ricchezza e della salute sono quelle stesse che possono permettere ad un hacker di rubarti l’identità o di violare casa tua. I social network possono tanto aprire a nuove connessioni quanto creare nuove forme di ansia sociale. La digitalizzazione dei pagamenti può facilitare il commercio, ma può anche permettere nuove frodi. La genomica avrà un impatto sulla nostra salute più consistente di qualsiasi altra innovazione del secolo scorso. Vivremo più a lungo, ma le nostre vite si faranno più complicate con l’aumento delle informazioni e delle scelte che avremo da gestire. Sulla biologia di quelli che siamo e di ciò che saremo, conosceremo più di quanto oggi possiamo anche solo immaginare.

La combinazione di storia globale, competizione internazionale e numerose variabili politiche locali sta producendo una serie di sistemi ibridi in quasi tutti i paesi del mondo (il capitalismo di stato cinese, la complessa democrazia indiana, le economie di mercato sociali dell’Europa occidentale, il miscuglio delle strategie di sviluppo in Africa, America latina ed Asia). I problemi e le difficoltà sono comunque comuni e si lasciano individuare rispettivamente nel come equilibrare crescita e stabilità in un’epoca di profonde disuguaglianze; come prepararsi alle sfide sociali ed economiche della nuova ondata di globalizzazione e innovazione; quale, e quanto, controllo gli stati nazionali dovranno esercitare sulle società, reso ancor più arduo dal rilievo, ormai sotto gli occhi di tutti, che internet e i social media hanno già provocato una sostanziale perdita di controllo, ferma restando l’impossibilità oggettiva di tenere tutto sotto osservazione. L’informazione, com’è noto, non transita più ai giorni nostri dai media tradizionali e dai governi delle società, ma viaggia su una vasta rete di cittadini e consumatori, che interagiscono con fonti di informazione che un tempo erano dominanti. Ecco quindi che l’opzione fondamentale del XXI secolo diventa quella tra sistemi totalmente aperti e sistemi completamente chiusi. E un fattore cruciale di successo dei paesi sarà rappresentato dalla capacità di ciascuno di garantire i diritti a tutti i propri cittadini, soprattutto non ignorando il ruolo delle donne, e men che meno maltrattandole. Vicende come quella di Malala Yousafzai, la quale, com’è noto, il 10 ottobre 2014 è stata insignita del premio Nobel per la pace diventando, a 17 anni, la più giovane vincitrice di un premio Nobel, attribuito “per la sua lotta contro la sopraffazione dei bambini e dei giovani e per il diritto di tutti i bambini all’istruzione”, non dovranno più ripetersi, malgrado l’analisi statistica ci consegni ancor oggi i dati, niente affatto tranquillizzanti, che il 90% delle donne pakistane è vittima di violenza domestica e solo il 40% è alfabetizzato. Ciò che, ad ogni buon conto, dovremmo avere chiaro è che trattare bene le donne non è soltanto, e soprattutto, una questione etica, ma anche assai più materialmente economica, dal momento che rappresentano la metà della forza lavoro di ogni nazione e un paese che vuole realmente competere non può certo andare molto lontano se sceglie deliberatamente di privarsi della metà della sua forza lavoro! Secondo una stima della Banca Mondiale, anch’essa, manco a dirlo richiamata da Ross nel suo volume, il 93% dei paesi medio orientali e nordafricani prevede norme assai restrittive sui lavori che alle donne è consentito svolgere, con conseguenti rischi di emarginazione economica in futuro a tutto vantaggio dei paesi dell’africa sub sahariana, dell’America Latina e dell’Asia. Nella stessa Cina, il regime maoista, ispirandosi al noto slogan “le donne reggono la metà del cielo”, ha posto la parità come questione centrale, sollecitando le donne ad avviare piccole attività commerciali di quartiere, assicurando alle stesse impiegate in fabbrica salari quasi pari a quelli degli uomini, più sussidi per i figli e orari flessibili. Un quarto della popolazione femminile urbana frequenta il college, dove le donne ottengono risultati migliori di quelli degli uomini. Nel 2013, la Cina vantava il primo posto nel mondo per percentuale di donne in posizione di vertice, pari al 51% e la metà delle donne più ricche del mondo vive in Cina.

Un quadro non altrettanto entusiasmante presenta invece il Giappone, dove le donne, malgrado siano quelle con la maggiore istruzione al mondo, negli anni successivi al college, e subito dopo l’inserimento nel mondo del lavoro, lo abbandonano al primo figlio, nel senso che il 70% di esse smette di lavorare, per una durata media di sessanta ore a settimana, dal momento che questi bioritmi non possono dì certo conciliarsi con le esigenze di una mamma che desideri dedicare un po’ del suo tempo alla prole!

Una seconda condizione fondamentale di sviluppo futuro consiste – prosegue condivisibilmente l’arguta riflessione di Ross - nel disporre di giovani le cui idee vengano finanziate e ai quali siano riservati anche posti da dirigenti nell’ambito aziendale. La circostanza che nell’Europa mediterranea la grande quantità di giovani professionisti sia costretta ad aspettare decenni prima di vedersi affidare una reale autorità, ovvero prima di vedersi finanziati gli investimenti necessari, è una delle cause della stagnazione, soprattutto laddove si consideri che Google, Facebook, Microsoft ed Oracle e innumerevoli altre imprese dell’età dell’informazione sono state lanciate da soggetti poco più che ventenni. Ancor più paradossale si presenta il quadro nel nostro paese, all’interno del quale il giovane, nella fascia di età ricompresa fra i 20 e i 40 anni, dovrebbe reputarsi già assai fortunato a riuscire a spuntare un breve colloquio con un eventuale finanziatore, né tantomeno verrebbe mai ritenuto idoneo a dirigere un’azienda. In perfetta controtendenza, in Africa sono sempre più numerosi i giovani competenti in tecnologia che entrano nel mondo del lavoro e avviano una loro attività, o che lavorano in remoto per aziende asiatiche, americane o europee. Il tasso di imprenditoria femminile è pari a quello degli uomini, e, anzi, la Nigeria e il Ghana hanno più imprenditrici che imprenditori. Lo stesso Ruanda, vent’anni dopo il brutale genocidio del 1994, ha ricostruito la sua economia, fondandola sulla conoscenza e sulle infrastrutture, tipo la fibra ottica, che consente a quel paese di scambiare le merci con procedure ad alta tecnologia. Negli ultimi anni, la disuguaglianza si è molto attenuata, grazie all’attivismo del governo di Kagame, che ha fatto dell’uguaglianza di genere un principio chiave durante la ricostruzione del post-conflitto, varando una serie di riforme politiche e giuridiche che hanno garantito alle donne pari diritti, abbandonando, altresì, ogni forma di violenza di genere. Il Ruanda è l’unico paese al mondo nel quale si ritrova un organo parlamentare democraticamente eletto composto in maggioranza da donne, che si contano altrettanto numerose, del resto, anche nelle leadership dei settori pubblico e privato.

A fronte degli scenari, sommariamente sin qui evocati, nascono spontanei gli interrogativi se potremo ragionevolmente sperare che le società moderne risponderanno a questo ormai crescente deficit di posti di lavoro, riservati agli esseri umani, rafforzando le reti di welfare, di sicurezza sociale, in maniera tale da consentire di reimpiegare questi lavoratori in altri settori? Saremo capaci di prendere una parte dei cospicui guadagni prodotti nel campo della robotica e di reinvestirli nell’istruzione e nella formazione professionale dei tassisti, dei camerieri, e di tutti gli altri rimasti senza occupazione? Si avrà sufficiente rispetto per la loro dignità umana? Saremo in grado di comprendere sino in fondo che il lavoro è un diritto e, ogni qual volta è fatto passare come una gentile concessione, ad essere lesa è la giustizia, senza la quale non è possibile costruire alcuna vera democrazia e promuovere il rispetto di ogni persona umana? Quando un lavoratore raggiunge la mezza età e ha figli, la necessità di sussidi cresce e, parallelamente ad essa, l’esigenza di implementazione di programmi di ammortizzatori sociali. Nonostante tutta l’efficienza dell’economia della solidarietà (c.d. sharing economy), verso la fine della vita del lavoratore, o in caso di malattia o infortunio, la responsabilità dei governi è destinata a crescere e il compito di tutelare il lavoratore a trasferirsi dal datore di lavoro ai programmi governativi finanziati dai contribuenti. è un costo irrinunciabile per consentire ad un mercato del lavoro flessibile di operare senza troppi lacci e lacciuoli, e, ogni qual volta esso assicurerà enormi guadagni ai proprietari delle piattaforme, questi dovranno essere chiamati a contribuire, sostenendone i relativi costi sociali ulteriori. Si potrebbe pensare, sulla scorta di quanto suggerito nei giorni scorsi da Bill Gates, Fondatore di Microsoft, in una recente intervista concessa al sito di informazione Quartz, di tassare i profitti delle aziende, che aumentano la produttività per effetto della introduzione dei robot, e poi reinvestire il relativo gettito fiscale in servizi per gli anziani, per l’istruzione e per le esigenze dei bambini che hanno bisogni particolari. E chissà che una scelta di questo tipo non finirebbe per allentare le tensioni intorno alla introduzione delle tecnologie, consentendo altresì di elaborare una strategia politica più efficace di gestione del cambiamento.

L’urgenza di realizzare condizioni di equità diffusa nella distribuzione dei beni dovrà insomma, in ultima analisi, costituire un tarlo per l’ispirazione delle condotte non soltanto dei politici, magari talvolta persino a danno dei loro non pochi privilegi, ma altresì un ineludibile punto di partenza al quale conformare lo stile di vita e le scelte operative concrete di chiunque (imprenditori per primi, ma non solo loro) intenda contribuire al bene comune dell’intero pianeta con il proprio impegno quotidiano. Un traguardo così ambizioso sarà in concreto tanto più facilmente raggiungibile quanto più lo sviluppo verrà interpretato in termini di libertà. Come Amartya Sen ci ricorda spesso nei suoi scritti, è la libertà il coefficiente del progresso umano e il buon esito di ogni azione sociale ed economica consiste nel suo incremento. A condizione, però, che essa sia intesa come autentica possibilità di crescita, e non come deresponsabilizzazione o cedimento ad una mentalità edonistica ed individualistica. Per contribuire positivamente a tale processo, l’economia non deve dissociarsi dagli altri ambiti del vivere umano, né può dominarli, ma è chiamata ad integrarsi con essi. Ogni settore deve quindi collaborare con gli altri e tenere in grande considerazione il bene di tutte le persone, e non solo di alcune, e di tutta la persona, intesa come sommatoria delle sue varie dimensioni (economica e materiale, umana, relazionale e persino spirituale). La marginalità e le difficoltà delle esistenze in equilibrio precario si combattono anche attraverso applicazioni concrete del principio di sussidiarietà, da parte dei più fortunati e dei più acuti analisti della prospettiva futura.

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