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Cinema: La ragazza senza nome /Speciale migrazioni

CINEMA: LA RAGAZZA SENZA NOME

Recenzione di Francesco Castracane

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La ragazza senza nome (La fille inconnue) Belgio/Francia 2016 – 113 minuti di Jean-Pierre e Luc Dardenne – Drammatico

Una sera, dopo l’orario di chiusura del suo studio, Jenny, giovane medico generalista, sente suonare alla porta ma non va ad aprire. Il giorno dopo, viene informata dalla polizia del ritrovamento nelle vicinanze di una giovane ragazza, non ancora identificata.

L’ultimo film dei fratelli Dardenne, attraverso la struttura di un poliziesco, in realtà racconta la metafora di un Europa indifferente alle questioni migranti. Il loro ultimo lavoro, stilisticamente vicino al cinema di Dogma 95, è una riflessione sull’assunzione di responsabilità e sulla necessità di entrare in contatto con un mondo che ci appare estraneo.

Non casualmente il lavoro si apre con una visita medica: lo stetoscopio del medico come strumento di comprensione di come stanno le persone dentro, superando la visione oculare.

Ma una sera, un’ora dopo la chiusura del suo ambulatorio, la giovane dottoressa Jenny, medico in un sobborgo di Liegi, decide di non aprire la porta a una giovane donna nera che suona al suo citofono per entrare. Il giorno dopo, la Polizia la contatta per chiederle i filmati della sua camera di sorveglianza. La donna è morta.

Le immagini della camera ci mostrano una donna che fugge, citofona, e poi, a causa della mancata risposta, fugge ancora. Di quella persona sono rimasti quei pochi secondi ripresi da una camera di sorveglianza, il cui scopo non è conoscere i nomi delle persone, ma identificarle in caso fossero responsabili di reato. E qui si apre la prima riflessione: gli immigrati non hanno nome, sono tutti indistinguibili nella massa. Fuggono, e l’importante è che non si fermino da te.

A questo punto la dottoressa, rosa dal complesso di colpa, si fissa sulla necessità di dare un nome a questa persona, e in questo senso il film diventa anche il racconto di una ossessione. è caratteristica della cultura occidentale quella di dover dare un nome alle cose e alle persone. Robinson Crusoe naufraga su un’isola e decide di denominare tutti gli oggetti e si stupisce che Venerdì, l’indigeno che ha trovato in loco, non ne senta la necessità. In questo senso, il romanzo di Defoe, scritto nel 1709, fu considerato espressione della mentalità colonialista dell’occidente. L’inglese, naufragato sull’isola, costruisce una nuova geografia mentale del luogo in cui sta, e il rapporto con l’indigeno è anche esso una metafora: il “selvaggio”, acquisisce coscienza di essere un “selvaggio” grazie alla riorganizzazione concettuale che Robinson Crusoe riesce a fare interiorizzare a Venerdì.

Qui invece i Dardenne svolgono un salto di senso: passare dall’identificazione, necessaria ai fini del riordino e del controllo, alla denominazione. Gli immigrati sono una massa informe e le telecamere di sicurezza trasformano tutti in un insieme indefinito, pericoloso, senza identità. Si diviene unicamente dei frammenti digitali che passano per alcuni secondi davanti allo schermo.

L’altro può essere riumanizzato solamente se si riesce a passare dalla fase del controllo a quella della definizione. Nel caso specifico, solo dando un nome alla persona, si riconnette la vita alla morte. Si permette ai vivi di riconoscersi come tali e di conoscere, lentamente, la storia della persona.

Il limite, per esempio, del documentario di Rosi “Fuocoammare”, è il suo etnocentrismo, ovvero l’incapacità dell’autore di staccarsi dalle vite degli abitanti di Lampedusa e provare a raccontare le storie degli immigrati, che mai vengono mostrati nelle proprie individualità. Il regista ne disumanizza anche la morte, mostrandoli impietosamente, e anche un po’ cinicamente, incastrati sul fondo di un barcone. Egli non sente mai la necessità di scoprire come si chiamavano, chi fossero, se avessero una vita prima.

L’importanza che la giovane medico ripone nella possibilità di denominare la persona morta, ha invece a che fare, e molto, con la vita. Serve a fare uscire dall’anonimato quella faccia, quel corpo, quella fuga.

La scelta di fondo del film è chiara: favorire la presa di coscienza individuale, perché i Dardenne credono che è solo a partire da lì che si possano affrontare quelli collettivi, che solo da lì sia possibile ripartire, nella speranza che lo spettatore metta in discussione le proprie convinzioni, non sentendosi dalla parte del giusto e degli innocenti, delle vittime, ma vedendosi piuttosto come complice e come colpevole.

L’altro tema è appunto quello della colpa. Jenny si sente responsabile di quella morte, anche se potrebbe avere mille motivi per sentirsene esentata. In fondo aveva finito di lavorare e il suo ambulatorio era chiuso da un’ora. Jenny, più che per indifferenza, si sente colpevole per inadempienza o trascuratezza. Anche così si contribuisce, indirettamente, alla morte di altri. I due autori spingono lo spettatore a prendere atto delle responsabilità individuali, che poi sono la somma delle responsabilità collettive.

Un altro tema che viene sviluppato nel film è la sempre maggiore difficoltà nel rappresentare la realtà. Nessuno ha visto veramente la ragazza senza nome da vicino, ma ne vediamo solamente l’immagine riprodotta. Anche un testimone l’ha vista solamente attraverso un vetro. I registi vogliono forse sostenere che nell’era della rappresentazione digitale, diviene sempre più difficile conoscere l’ontologia delle persone che incontriamo? Sta per uscire, per fortuna stroncato duramente dalla critica, un film sugli emoticon “Emoji”. Cosa sono le “faccine” che sempre più si usano nelle conversazioni? Una rappresentazione dell’emozione, non la vera emozione. La rappresentazione dell’emozione, permette alle persone di prenderne le distanze, e di non sentire più le proprie emozioni e quelle dell’altro.

Ma i Dardenne non si tirano indietro neanche nel raccontare l’immigrazione, la raccontano per quello che è, non nascondendone i rapporti con la criminalità.

Il viaggio alla ricerca del nome della donna sconosciuta, diventa anche un viaggio della giovane dottoressa nel proprio mondo interiore, e nella scoperta della propria empatia.

Ma uno degli aspetti importanti dei film dei Dardenne è anche la descrizione del contesto sociale nel quale i personaggi si muovono. La Polizia è rappresentata senza troppi fronzoli: persone normali che cercano di svolgere il proprio dovere senza eroismi, vestiti con abiti anonimi. E nonostante la struttura sia un poliziesco, non ci sono sparatorie, inseguimenti ed eroi, ma la banalità di un’indagine piena di false piste, di strade che devono essere abbandonate, di salti all’indietro.

Anche il lavoro della dottoressa, impegnata in un ambulatorio di periferia, lungo una tangenziale dove si sentono continuamente passare le macchine, è rappresentato senza alcuna retorica e eroismo. Un mondo dolente di pazienti frequentato da anziani, diabetici, alcolisti, depressi, malati di tumore, che nell’ambulatorio trovano una piccola ancora di salvezza, e che nonostante la freddezza e il distacco della dottoressa, le vogliono bene.

È una rappresentazione assolutamente lontana da quella svolta dai medical drama statunitensi, dove oltre alla spettacolarizzazione della malattia, c’è la moltiplicazione dei subplot costruiti sulle storie di amore. In pratica degli Harmony bianchi, dove gli ospedali sono tutti puliti, ben illuminati e medici e infermieri sono vestiti all’ultima moda. Evidentemente gli sceneggiatori non hanno mai avuto la fortuna di stare in un Pronto Soccorso alle 4 di mattina.

Si citava all’inizio il rapporto di questo film con i criteri definiti da Lars Von Trier nel suo Dogma 95 (1). In effetti, uno degli elementi che caratterizza il film è la completa mancanza di colonna sonora. L’unica volta in cui si sente della musica è perché uno dei pazienti dedica una canzone alla dottoressa. Per il resto del tempo il film è attraversato dai rumori della realtà, in particolare dal brontolare dei motori che si sentono passare in lontananza. I titoli di coda in effetti si chiudono sul rumore delle macchine che passano.

Inoltre, e questa è una caratteristica dei film dei Fratelli Dardenne, i protagonisti vengono spesso seguiti da vicino con la macchina, contribuendo a quella sensazione di impossibilità di fuga che coinvolge lo spettatore. I registi prediligono piani sequenza utilizzando un montaggio estremamente discreto. La naturalezza della recitazione viene ottenuta dai Dardenne facendo recitare gli attori senza troupe. Possono provare e riprovare senza nessuno attorno e senza essere distratti e cominciare a recitare quando si sentono pronti.

(1) - Cosa è Dogma 95: Dogma 95 (Dogme 95) è un movimento cinematografico creato dai registi danesi Lars von Trier e Thomas Vinterberg, fondato su un decalogo di precise regole espresse in un manifesto programmatico pubblicato nel 1995 (da cui il nome). La corrente, dunque, non è nata né si è evoluta in modo spontaneo, come invece è avvenuto nella maggior parte dei casi nella storia del cinema. Il decalogo, al quale aderirono subito anche Søren Kragh-Jacobsen e Kristian Levring, è spesso definito

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Le dieci regole di Dogma 95:

1. Le riprese vanno girate sulle location. Non devono essere portate scenografie ed oggetti di scena (Se esistono delle necessità specifiche per la storia, va scelta una location adeguata alle esigenze).

2. Il suono non deve mai essere prodotto a parte dalle immagini e viceversa. (La musica non deve essere usata a meno che non sia presente quando il film venga girato).

3. La macchina da presa deve essere portata a mano. Ogni movimento o immobilità ottenibile con le riprese a mano è permesso. (Il film non deve svolgersi davanti alla macchina da presa; le riprese devono essere girate dove il film si svolge).

4. Il film deve essere a colori. Luci speciali non sono permesse. (Se c’è troppa poca luce per l’esposizione della scena, la scena va tagliata o si può fissare una sola luce alla macchina da presa stessa).

5. Lavori ottici e filtri non sono permessi.

6. Il film non deve contenere azione superficiale. (Omicidi, armi, etc. non devono accadere).

7. L’alienazione temporale e geografica non è permessa. (Questo per dire che il film ha luogo qui ed ora).

8. Non sono accettabili film di genere.

9. L’opera finale va trasferita su pellicola Academy 35mm, con il formato 4:3, non widescreen. (Originariamente si richiedeva di girare direttamente in Academy 35mm, ma la regola è stata cambiata per facilitare le produzioni a basso costo).

10. Il regista non deve essere accreditato.

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