Voci - Numero 3 Anno 3 - Amnesty International in Sicilia

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Speciale Migrazioni

CINEMA: LA RAGAZZA SENZA NOME di Francesco Castracane

La ragazza senza nome (La fille inconnue) Belgio/Francia 2016 – 113 minuti di Jean-Pierre e Luc Dardenne – Drammatico Una sera, dopo l’orario di chiusura del suo studio, Jenny, giovane medico generalista, sente suonare alla porta ma non va ad aprire. Il giorno dopo, viene informata dalla polizia del ritrovamento nelle vicinanze di una giovane ragazza, non ancora identificata. L’ultimo film dei fratelli Dardenne, attraverso la struttura di un poliziesco, in realtà racconta la metafora di un Europa indifferente alle questioni migranti. Il loro ultimo lavoro, stilisticamente vicino al cinema di Dogma 95, è una riflessione sull’assunzione di responsabilità e sulla necessità di entrare in contatto con un mondo che ci appare estraneo. Non casualmente il lavoro si apre con una visita medica: lo stetoscopio del medico come strumento di comprensione di come stanno le persone dentro, superando la visione oculare. Ma una sera, un’ora dopo la chiusura del suo ambulatorio, la giovane dottoressa Jenny, medico in un sobborgo di Liegi, decide di non aprire la porta a una giovane donna nera che suona al suo citofono per entrare. Il giorno dopo, la Polizia la contatta per chiederle i filmati della sua camera di sorveglianza. La donna è morta. Le immagini della camera ci mostrano una donna che fugge, citofona, e poi, a causa della mancata risposta, 17

fugge ancora. Di quella persona sono rimasti quei pochi secondi ripresi da una camera di sorveglianza, il cui scopo non è conoscere i nomi delle persone, ma identificarle in caso fossero responsabili di reato. E qui si apre la prima riflessione: gli immigrati non hanno nome, sono tutti indistinguibili nella massa. Fuggono, e l’importante è che non si fermino da te. A questo punto la dottoressa, rosa dal complesso di colpa, si fissa sulla necessità di dare un nome a questa persona, e in questo senso il film diventa anche il racconto di una ossessione. è caratteristica della cultura occidentale quella di dover dare un nome alle cose e alle persone. Robinson Crusoe naufraga su un’isola e decide di denominare tutti gli oggetti e si stupisce che Venerdì, l’indigeno che ha trovato in loco, non ne senta la necessità. In questo senso, il romanzo di Defoe, scritto nel 1709, fu considerato espressione della mentalità colonialista dell’occidente. L’inglese, naufragato sull’isola, costruisce una nuova geografia mentale del luogo in cui sta, e il rapporto con l’indigeno è anche esso una metafora: il “selvaggio”, acquisisce coscienza di essere un “selvaggio” grazie alla riorganizzazione concettuale che Robinson Crusoe riesce a fare interiorizzare a Venerdì. Qui invece i Dardenne svolgono un salto di senso: passare dall’identificazione, necessaria ai fini del riordino e del controllo, alla denominazione. Gli immigrati sono una massa informe e le telecamere di sicurezza trasformano tutti in un insieme indefinito, pericoloso, senza identità. Si diviene unicamente dei SETTEMBRE 2017 N. 3 / A.3 - Voci


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