Voci - Numero 2 Anno 6 - Amnesty International in Sicilia

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VOCI

Rivista del Centro di Documentazione per la Promozione e l’Educazione alla Tutela dei Diritti Umani “Peter Benenson”

DIAMO VOCE AI DIRITTI UMANI i fatti e le idee

DICEMBRE 2020

NUMERO 2 - ANNO 6

UMANITÀ VIOLATA Storie di popoli perseguitati

«Quando ho acceso la prima candela di Amnesty avevo in mente un vecchio proverbio cinese: “Meglio accendere una candela che maledire l’oscurità” Questo è oggi il motto per noi di Amnesty» (Peter Benenson)


VOCI VOCI - Rivista del

Centro di Documentazione per la Promozione e l’Educazione alla Tutela dei Diritti Umani “Peter Benenson”

IN QUESTO NUMERO Editoriale 3 di Giuseppe Provenza

La dignità non ha prezzo

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Le popolazioni native del Nord America, discriminazione e genocidio

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di Paola Caridi

di Chiara Casotti

COMITATO DI REDAZIONE Chiara Di Maria Responsabile Circoscrizione Sicilia Amnesty International Italia Giuseppe Provenza Responsabile della Redazione Carmen Cera Direttrice del Centro di Documentazione per la Promozione e l’Educazione alla Tutela dei Diritti Umani “Peter Benenson” Silvia Intravaia Responsabile grafica

COLLABORANO Giorgio Beretta, Daniela Brignone, Paola Caridi, Francesco Castracane, Vincenzo Ceruso, Mouhamed Cissé, Carmen Cera, (Coord. Am. Latina), (Coord. Europa), (Coord. Nord America), Marta D’Alia, Chiara Di Maria, Aristide Donadio, Vincenzo Fazio, Maurizio Gemelli, Liliana Maniscalco, Andrea Pira, Giuseppe Provenza, Fulvio Vassallo Paleologo.

www.amnestysicilia.org ai.sicilia@amnesty.it Piazzale Aurora n. 7 90124 Palermo

Sahara Occidentale: l’ultimo territorio conteso in Africa

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Antisemitismo ed economia

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L’ultimo genocidio degli Yazidi

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Il popolo indigeno Rarámuri e la lotta in difesa delle sue terre ancestrali

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Le persecuzioni nei confronti dei Curdi

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La persecuzione dei Rohingya in Myanmar

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Essere mussulmani in Bosnia: fra laicità e confessione

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Repubblica Popolare Cinese: la repressione e le minoranze etniche

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Crimea: sistematica persecuzione della comunita’ dei Tatari

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Medz yeghern, “il grande crimine”: lo sterminio degli Armeni

35

I ROM, una lunga storia di discriminazione

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di Martina Costa di Rosa Guida

di Alessandro Luparello di Monica Mazzoleni

di Giusi Muscas e Giorgio Galli di Riccardo Noury

di Paolo Pignocchi di Paolo Pobbiati

di Giuliano Prandini

di Giuseppe Provenza di Annalisa Zanuttini

TUTTI I GIORNI www.amnestysicilia.it @Amnestysicilia

Amnesty Sicilia

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EDITORIALE di Giuseppe Provenza

«Tutti gli esseri umani nascono uguali in dignità»

non avessero aperto la strada alla comprensione di quale sia il senso della convivenza nel nostro piccolo pianeta.

Un concetto semplice e perfino ovvio che dovrebbe guidare ognuno di noi e concretizzarsi nel rispetto nei confronti di ogni altro essere umano, sia come individuo, sia come membro di una comunità.

Questo numero di Voci vuole essere una carrellata su alcuni casi di persecuzioni, che spesso sono travalicate e travalicano nel genocidio, che hanno afflitto da un secolo a questa parte, e, purtroppo, in alcuni casi affliggono il Mondo.

così recita, fra l’altro, l’articolo 1 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.

Tuttavia, tanta parte dell’umanità sembra ancora incapace di mettere in pratica un principio tanto elementare. Malgrado i notevoli progressi scientifici e tecnologici, malgrado la complessità della società odierna, spesso si assiste, da parte di individui, di enti, di stati, a comportamenti, nei riguardi sia di singoli che di gruppi, che nulla hanno a che vedere con una società evoluta. Non è ammissibile, in ogni caso, che si violi la dignità di un essere umano, mortificandolo, umiliandolo, relegandolo ad indegne condizioni di vita, sia che a causare ciò siano individui o enti di ogni genere. Ma quando, mortificando anche sé stessi, sono gli stati a perpetrare la persecuzione sistematica di intere comunità, fino al genocidio, si entra in una dimensione di disumanità intollerabile che è da considerare tale in qualunque momento storico, ma che diviene incomprensibile nell’era contemporanea, come se l’Illuminismo e la Rivoluzione Francese

Feroci genocidi sono stati realizzati, con perversa premeditazione, nei confronti di Ebrei, Tatari, Armeni, Mussulmani bosniaci. Ma all’orrore di ciò si aggiunge, ed è avvilente constatarlo, come, ai nostri giorni, Palestinesi, Nativi del nord e del sud America, Popolazioni del Sahara, del Medio Oriente e dell’Estremo Oriente, ROM, siano ancora vittime di discriminazioni, umiliazioni e persecuzioni che spesso si configurano, a causa del numero delle vittime, in autentici genocidi. Ricordarlo e metterlo in luce ci appare opportuno per una riflessione sul futuro dell’umanità.

Giuseppe Provenza Membro del Comitato Direttivo di Amnesty International Italia Membro del Gruppo Amnesty Italia 233

Questo numero è dedicato alla nostra amica Liliana Cereda. Liliana ha avuto il merito straordinario di saper contagiare il suo amore per Amnesty e per i Diritti Umani, dedicando una parte rilevante della sua Esistenza alla diffusione degli ideali che costituiscono le basi della nostra Organizzazione. Questo amore avrebbe voluto manifestarlo anche contribuendo con un suo articolo a questo numero, ma, purtroppo, non ne ha avuto il tempo. Le saremo sempre grati per l’esempio che ha dato a tutti, dentro e fuori Amnesty, di una vita vissuta per i propri ideali.

Foto di copertina: Amnesty International / © Archivio privato

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DICEMBRE 2020 N.2 / A.6 - Voci


Umanità violata: storie di popoli perseguitati

LA DIGNITÀ NON HA PREZZO di Paola Caridi

Una spiaggia a Gaza / Foto: Marcin Monko - https://www.flickr.com/photos/marcinmonko/5323304239/

Sulla nostra personale carta geografica, quella che molti europei e occidentali si portano dentro la testa, c’è una macchia. Una sorta di buco nero, una piccola pennellata a oriente del Mar Mediterraneo. Spesso indistinguibile. Eppure, in un mondo per così dire normale, sarebbe impossibile non vedere quella striscia di terra. Gerusalemme è a poco più di un’ora di macchina, ad andare piano. Appena 80 chilometri. Amman è lontana il doppio. Ma i 400 chilometri che separano il Cairo dal piccolo lembo di terra lungo il Mediterraneo sono già più complicati, perché è tutto deserto, il deserto del Sinai, quello su cui si addossa Sharm al Sheykh. Gaza non è poi così lontana. Eppure è come se fosse stata ingoiata dalla terra, per noi che (non) la guardiamo. Dietro un pezzo di mare chiuso, pattugliato dalla marina militare israeliana. Dietro un muro di cemento armato, sorvegliato dalle forze armate di Tel Aviv. Meno di 400 km quadrati ingoiati dalla terra, scomparsi come in un gorgo nella nostra personale mappa geografica. Dentro, vivi, ci sono due milioni di persone. Uno, due, tre, quattro, cinque… dieci…centocinquanta…. due milioni di persone di Voci - DICEMBRE 2020 N.2 / A.6

Donna palestinese passa il checkpoint di Hebron / Fonte: B’Tselem - btselem.org

cui conosciamo il numero e non la faccia. La metà vive in estrema povertà. I dati forniti dall’Unrwa, l’agenzia dell’Onu che dal 1950 si occupa della vita dei profughi palestinesi, sono tanto scarni quanto drammatici: oltre un milione di persone, la metà degli abitanti di Gaza, vive sotto la soglia di povertà. Cioè, in pratica, non arriva a guadagnare più di tre dollari e mezzo al giorno, quando va bene. Quando, per così dire, va bene. Perché i due terzi di quel milione, oltre seicentomila persone, non riescono ad arrivare a oltre un dollaro e mezzo al giorno. Un dollaro e mezzo. 4


Umanità violata: storie di popoli perseguitati

I due milioni di persone che vivono e muoiono a Gaza non hanno nome, così come succede per le persone di tante nazionalità che provano a migrare e ad arrivare da noi, sulle coste siciliane oppure lungo la vergognosa rotta balcanica. I due milioni di palestinesi di Gaza non possono neanche provarci, a migrare, salvo rarissime eccezioni. Quando si pensa alla questione palestinese, si possono percorrere varie strade. Il binario della cronologia oppure la linea della dignità. Il binario della cronologia è ineludibile, certamente. È un lungo elenco di guerre e di tregue e di accordi e di risoluzioni dell’Onu e di violazioni che si susseguono almeno dal 1948. Dalla prima guerra arabo-israeliana che ha segnato linee profonde su quella cartina geografica: la creazione dello Stato di Israele e, sull’altro lato, la nakba, la catastrofe palestinese. E il 1948, data simbolo, è solamente uno degli snodi della Storia che si possono prendere come punto di partenza comunque arbitrario. Oppure si può fare un’altra scelta, che certo contiene (e come potrebbe non farlo!) quel lungo elenco che si pronuncia come una litania. È la linea della dignità. Non è difficile seguirla, la linea della dignità. Basta fermarsi e cercare di capire chi sono, dove si trovano, come vivono quei due milioni di palestinesi chiusi a Gaza. Il simbolo di un popolo, quello palestinese, frammentato nei diversi rivoli in cui – dal 1948 – è stato suddiviso. La linea della dignità consente di definire al dettaglio le violazioni a cui è sottoposto un intero popolo. Un popolo che non è concentrato a Gaza, ma che è sparpagliato tra la Cisgiordania (o meglio, quello che resta della Cisgiordania, in cui vivono 400mila coloni israeliani), il settore orientale di Gerusalemme in cui vivono anche circa 200mila coloni israeliani, e la stessa Israele, la cui popolazione è formata per circa il 20 per cento da palestinesi rimasti dopo il 1948. Circa sei milioni di persone, in totale, a cui si aggiungono i circa 3 milioni di palestinesi che vivono nei campi profughi in Giordania e Libano, in cui sono stati convogliati in gran parte anche i due-volte-rifugiati palestinesi che per decenni avevano vissuto in Siria. Nove milioni di persone, più o meno, che non godono appieno dei diritti inalienabili che vanno riconosciuti a ciascun essere umano. Chi può godere di pieni diritti, infatti, è solo chi, tra i palestinesi, possiede un passaporto diverso. I diritti di cittadinanza, cioè, gli sono riconosciuti da un altro Stato. Ai palestinesi, insomma, è imposta questa doppia perdita di dignità: non solo non godono di diritti inalienabili, ma devono anche indossare un altro abito – essere cittadini di un altro Stato – per poter essere liberi. 5

Gaza è il simbolo chiaro di tutto questo. Il simbolo della condizione palestinese. È la parte per il tutto. Solo a Gaza, vivono due milioni di persone a cui è impedito di accedere a diritti fondamentali: la mobilità (uscire da Gaza), il lavoro, il benessere, la libertà di espressione, la libertà di vivere e scegliere l’istruzione, il diritto a bere acqua potabile, a pescare nelle acque di fronte a Gaza, a esser curati negli ospedali, a non morire soffocati per la diossina sprigionata dai rifiuti bruciati. A non morire di covid19 come topi in gabbia, perché a Gaza mancano non solo le cure idonee e le terapie intensive, ma anche i tamponi per diagnosticare la malattia. Tutti diritti negati perché nella Striscia di Gaza, amministrata da Hamas, un potere politico divenuto regime, si nasce, si vive e si muore come in una prigione, chiusa da uno Stato, Israele, che è Stato occupante, con tutti i suoi doveri. Di Gaza, dell’ingresso o meno degli aiuti umanitari, dell’uscita o meno degli studenti che hanno ottenuto borse di studio, di malati gravi, di emigranti, è infatti Israele a detenere le chiavi. Responsabile dello stato in cui versa la popolazione palestinese, in quanto Stato occupante dal 1967. Gaza è stata via via strangolata dagli anni Novanta in poi, sino a che, nel 2007, dopo la presa del potere da parte di Hamas, è stata chiusa, serrata del tutto. Nessun rapporto con l’esterno. Si vive e si muore nei 400 km quadrati. Che Israele sia responsabile del destino dei palestinesi, compresi quelli di Gaza, in quanto Stato occupante, lo affermano le Nazioni Unite, nelle tonnellate di rapporti dedicati alla questione palestinese e all’occupazione di Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme est da parte di Israele dal 1967 a oggi. Lo reiterano le decine di risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. La soluzione per non dover più rispettare i doveri di Stato occupante è banale: basterebbe non occupare più la Palestina. Non è così semplice, ma soprattutto non è più all’ordine del giorno. Di nessuno. Stati, comunità internazionale, semplici cittadini. I palestinesi sembrano non esistere più, nonostante vi sia ancora un’agenzia dell’Onu, l’Unrwa, che con la sua stessa esistenza definisce e indica che quella questione, la questione palestinese, è ancora aperta.

Paola Caridi Giornalista e storica, esperta di sistemi politici del Medio Oriente e Nord Africa

DICEMBRE 2020 N.2 / A.6 - Voci


Umanità violata: storie di popoli perseguitati

LE POPOLAZIONI NATIVE DEL NORD AMERICA, DISCRIMINAZIONE E GENOCIDIO OGGI È UN BUON GIORNO PER ESSERE “QUALCOS’ALTRO” di Chiara Casotti

Something Else, così sono stati classificate le comunita’ native dalla rete televisiva nazionale CNN durante gli scrutinii elettorali di qualche settimane fa: qualcos’altro. A parte la reazione di indignazione sollevata e le scuse dell’emittente televisiva piu’ importante degli Stati Uniti, è un elemento che fa notare come ad oggi ci siano criticita’ nell’affrontare i problemi che riguardano l’integrazione e il riconoscimento delle comunita’ native nord americane. / Ph: web-facebook

Quando si parla di popolazioni native nord americane, il quadro e’ assai complesso e variegato (anche dal punto di vista meramente terminologico di definizione della loro identita’: l’uso in italiano di Comunita’ native e in inglese di First Nations, sono le uniche due formule approvate da tutti i gruppi nord americani per identificarsi). Con l’espressione nativi americani si intende indicare le popolazioni che abitavano il continente americano prima della colonizzazione europea e i loro odierni discendenti. L’etnonimo indiani d’America (e anche pellirosse) utilizzato e abusato, oggi è considerato termine inappropriato e di uso offensivo. Le comunita’ sono tante e con usi, cultura, lingue diverse fra loro. Cio’ che le accomuna dal diciassettesimo secolo in avanti è la costante azione di sterminio fisico e culturale che hanno subito, da parte dell’invasione “bianca” e della colonizzazione dei territori “scoperti” dagli europei. Da poco tempo è stato sdoganato il termine “genocidio” per parlare della costante violenza subita dalle comunita’ native nordamericane. Voci - DICEMBRE 2020 N.2 / A.6

It’s a good day to be somthing else ”oggi è un buon giorno per essere qualcos’altro”, ironizza un meme diventato virale sui social, ispirato al popolare film Smoke Signals del 1998. La frase originale era “It’s a good day to be Indigenous”. / Ph.: web-twitter

Oltre al GENOCIDIO FISICO, che ha visto sterminare piu’ di dieci milioni di persone nell’arco di meno di un secolo, un’azione altrettanto grave e nefasta è stata quella che noi, oggi, definiamo GENOCIDIO CULTURALE. Fin dai primi incontri con le popolazioni native fino ai giorni d’oggi, le azioni dei governi Statunitensi e 6


Umanità violata: storie di popoli perseguitati

Censimento 2010 delle popolazioni native negli USA / Fonte: U.S. Census Bureau, 2010 Census. 2010 Census Summary File 1.

Canadesi sono state volte ad annientare la cultura nativa, le sue tradizioni, le lingue, i costumi, il cibo, la spiritualita’, in molti modi. La segregazione in aree impervie del territorio nord americano, i divieti di ritualita’ e uso della lingua, le adozioni forzate, ecc.. Un caso che ha segnato duramente ogni comunita’ nei terrritori del nord è stato l’imposizione in Canada delle residential schools per tutti i bambini e bambine native, scuole religiose, cattoliche e anglicane soprattutto, in cui si insegnava l’annientamento della persona in quanto nativa, per portarla all’assimilazione della cultura bianca anglosassone.

CANADA: Il sistema delle scuole residenziali Nella seconda metà dell’Ottocento, la Gran Bretagna aveva gettato le basi - prima con il Gradual Civilization Act del 1857, poi con l’Indian Act del 1876 - per rendere le popolazioni native una categoria legalmente inferiore di cittadini canadesi. 7

Ciò divenne possibile a partire dalle teorie razziste che i coloni inglesi ed i missionari cattolici condividevano: gli “indiani” rappresentavano un grado inferiore di civilizzazione, la loro religione era demoniaca, compito degli europei “civilizzati” e timorati da Dio sarebbe stato quindi quello di “uccidere l’indiano che c’era in loro” per rendere possibile al tempo stesso la conversione all’ “unico vero Dio” e l’assimilazione all’interno del sistema legale di dominio occidentale. Il governo britannico e le quattro Chiese cristiane (Cattolica Romana, Anglicana, Presbiteriana e Metodista) arrivarono alla conclusione che il modo più rapido per assicurare l’assimilazione forzata dei nativi era attraverso il sistema educativo: per questo a partire da meta’ del XIX secolo migliaia di bambini nativi vennero presi con la forza e inseriti nel programma ministeriale delle Scuole Residenziali Indiane. Per essere “protetti da ogni male che li circondava”, i bambini nativi vennero allontanati dai genitori, dal nucleo familiare e dalla comunità, per essere “tenuti costantemente all’interno della società civilizzata”, dove era proibito parlare la propria lingua e usare DICEMBRE 2020 N.2 / A.6 - Voci


Umanità violata: storie di popoli perseguitati

Cross Lake Indian Residential School in Cross Lake, Manitoba, Canada. Foto d’archivio, Febbraio 1940 (Indian and Northern Affairs/Library and Archives Canada/Reuters). Nell’ambito della psichiatria alcuni autori, tra cui Llowyd Hawkeyes Robertson, hanno individuato in molti ex alunni delle scuole residenziali indiane il cosiddetto Disturbo da Stress Post-Traumatico (Post Traumatic Stress Disorder), rinominato per l’occasione “Sindrome della Scuola Residenziale” (Residential School Syndrome).

vestiti e oggetti non occidentali. Fratelli e sorelle non potevano comunicare, erano costretti a lavori pesanti, veniva loro cambiato il nome e addirittura in alcune scuole veniva loro assegnato solo un numero di identificazione. Anni dopo, denunce dei sopravvissuti alle scuole residenziali hanno portato alla luce un quadro di abusi fisici ed emozionali sistematico, sommato a una formazione effettivamente povera, perché al governo canadese non interessava l’educazione degli alunni nativi, cio’ che interessava era la loro assimilazione, e distruzione della loro identita’ originaria. Oltre al genocidio culturale, un gran numero di bambini perse la vita nelle scuole residenziali. Nel 1996 la Royal Commission on Aboriginal Peoples stimò che oltre la metà degli studenti nativi morì all’interno delle scuole; molti morirono di malnutrizione, altrettanti furono stroncati dalla tubercolosi, malattia importata dagli inglesi. Inoltre, dopo l’emanazione ad Alberta nel 1928 del Sexual Sterilization Act, molte bambine e donne native vennero sterilizzate senza il loro consenso, all’interno delle scuole residenziali come nelle strutture ospedaliere federali. Le sterilizzazioni forzate continuarono fino al 1973. Nell’ambito della psichiatria alcuni autori, tra cui Llowyd Hawkeyes Robertson, hanno individuato in molti ex alunni delle scuole residenziali indiane il Voci - DICEMBRE 2020 N.2 / A.6

cosiddetto Disturbo da Stress Post-Traumatico (Post Traumatic Stress Disorder), rinominato per l’occasione “Sindrome della Scuola Residenziale” (Residential School Syndrome). Episodi di razzismo sistemico si verificano anche oggi nelle scuole e nelle università. Uno studio recente ha infatti dimostrato come gli studenti universitari nativi debbano convivere costantemente con un sentimento di inadeguatezza e frustrazione, a causa delle costanti discriminazioni di colleghi, gestori di servizi (librerie, biblioteche, posti di ristorazione, locatori di appartamenti) e personale di vigilanza, sviluppando sentimenti di insicurezza, supposta inferiorità, inadeguatezza a cui possono seguire stress, depressione, dipendenza da psicofarmaci, da droghe o da alcool. Sebbene avvicinarsi alla cultura tradizionale possa giocare un ruolo positivo nell’affrontare la discriminazione, i risultati dello studio suggeriscono che gli studenti nativi che svolgono le pratiche tradizionali siano ancora più discriminati degli altri. Le scuse ufficiali del governo canadese, riguardo alla creazione del sistema criminoso che rispondeva al nome di scuole residenziali indiane, sono giunte solo nel 2008 con il primo ministro Stephen Harper, e un’azione di “riconciliazione” avviata da allora, che prevede azioni di documentazione, indennizzo, e integrazione educativa del sistema.

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Umanità violata: storie di popoli perseguitati

Mappa Nativi USA / A Quincentennial Map of American Indian History, Russell, George L., Phoenix: Thunderbird Enterprises 1992 / Fonte: https://publications.newberry.org

AZIONI LEGALI E DI SUPPORTO ALLE COMUNITA’ NATIVE Per  quanto  riguarda  il  genocidio  fisico e culturale nel Nord America, non c’è stato un processo unitario o una azione legale presso le competenti sedi internazionali (Corte Penale Internazionale, Commissione Interamericana per i Diritti Umani, ecc..) e nazionali (Corte Suprema) efficace, volto a condannare gli Stati Uniti e il Canada per il genocidio nei confronti delle comunita’ native nord-americane, (e le poche petizioni giunte in sede alle Nazioni Unite si sono arenate nella poltiglia della politica diplomatica..). In questi ultimi anni, la parola genocidio, per indicare tutte le violenze subite dalle First Nations, sta diventando di uso comune e accettata: sta avvenendo un lento, ma costante, cambianto culturale (di pensiero) e politico (di approccio alla questione). Le comunita’ native che vivono in nord America sono moltissime e agiscono spesso in modo separato tra loro: questo è stato un grosso problema in passato, perché ha frazionato le azioni legali per la loro tutela, ne ha ridotto forse la forza di impatto e ha creato

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differenze di recepimento normativo da provincia a provincia (in Canada) o da stato a stato (in Usa). Nello stesso tempo pero’, questo pullulare di azioni si è intrecciato alle vicende politiche contemporanee, modificando positivamente comunque la situazione odierna delle comunita’ native all’interno dei due macro sistemi Canada e Usa.

Si riportano qui, come esempi, alcuni casi recenti: Lo Stato della California l’anno scorso (2019) ha riconosciuto e si è scusato ufficialmente per l’avvenuto genocidio (ha usato proprio questo termine) delle comunita’ che abitavano in quel territorio. Nel 2013 la comunita’ Lakota del South Dakota ha presentato una petizione all’ONU per dichiarare gli Stati Uniti colpevoli di genocidio. Questa petizione aveva uno scopo forse piu’ simbolico, per catturare l’attenzione su altri problemi legali della comunita’, in particolare per fermare l’affidamento dei bambini nativi a famiglie bianche (qui bisognerebbe aprire una parentesi specifica riguardo ai numerosi children act). Tra il 2008 e il 2015 la Commissione per Verita’ e Riconciliazione si è occupata del riconoscimento delle violenze perpetrate nelle scuole residenziali in DICEMBRE 2020 N.2 / A.6 - Voci


Umanità violata: storie di popoli perseguitati

L’attivista canadese Autumn Peltier dell’isola di Manitoulin, al tempo appena tredicenne, si rivolge all’Assemblea generale delle Nazioni Unite in occasione della World Water Day del 2018. La sua richiesta di proteggere l’acqua del mondo faceva parte del lancio da parte delle Nazioni Unite del International Decade for Action on Water for Sustainable Development. (Manuel Elias/UN Photo)

Canada e ha denunciato chiaramente il sistema di genocidio culturale e assimilazione dei bambini nativi pianificato dal governo per oltre due secoli. Sempre in Canada è in atto un lento processo di riconciliazione politica, che passa attraverso il riconoscimento del Governo e degli Enti locali di stare occupando la terra delle comunita’ native. È un’azione simbolica, ma importante per far prendere coscienza a tutti gli abitanti canadesi della pari dignita’ dei loro connazionali nativi. Molte sono le azione a difesa dell’ambiente, che per le comunita’ native sono azioni a difesa dei loro territori e diventano, di fatto, azioni a tutela della cultura sociale nativa. Negli Stati Uniti, ad esempio, forse qualcuno avra’ sentito parlare della lotta per fermare la costruzione di un oleodotto all’interno della riserva di Standing Rock (e’ una delle poche azioni arrivate perfino sulla nostra stampa italiana..). Come questa, ce ne sono in atto molte altre. Io personalmente, sto seguendo la vicenda legale della comunita’ di Grassy Narrow, che combatte contro una multinazionale del legname, che ha distrutto l’habitat della sua riserva (falde acquifere inquinate, deforestazione, impoverimento faunistico..). Le sentenze e i provvedimenti politici, che vengono presi a seguito di tutte queste azioni, (solo per Voci - DICEMBRE 2020 N.2 / A.6

citarne alcune, a titolo puramente esemplificativo e non esaustivo, sentenza Tsilhqot’in Nation v. British Columbia del 2014, sentenza Sparrow del  1990,  sentenza  Van  der  Peet  del  1995, Haida Nation v. British Columbia del 2004, ecc...) stanno denunciando le violenze subite a causa del colonialismo moderno e contemporaneo e stanno riconoscendo i diritti finora negati. É un processo di cambiamento lento, ma costante e concreto. È interessante anche osservare come stia evolvendo nei piani scolastici, didattici e culturali il resoconto della vicenda storica del genocidio (dal mio punto di vista è ancora agli albori..) Dunque, Amnesty International sta procedendo in questo modo: cammina al fianco delle comunita’ native, constatando che la necessita’ primaria è supportarle nelle azioni che loro direttamente attivano e stanno attivando per ottenere giustizia (legale, sociale, culturale).

Diritti umani e le devastazioni ambientali in Canada & negli USA I nativi in contrapposizione con i governi e contro le multinazionali: oggi sono tra i principali difensori dell’ambiente e dei diritti ad essa correlati. La loro lotta quotidiana parte spesso da problemi locali di violenza e abuso di risorse ambientali. 10


Umanità violata: storie di popoli perseguitati

Qui riportiamo alcuni casi seguiti dal Coordinamento, per dare un quadro dei diversi aspetti racchiusi nel termine “diritti ambientali” in relazione ai diritti umani.

1. Canada, Provincia del British Columbia: Il popola  nativo  Anishinaabe di Grassy Narrow, che vive a nord del Superior Lake in Ontario, sta subendo dagli anni ‘70 l’avvelenamento delle proprie acque con il mercurio delle compagnie del legname che disbocano la zona. Il popolo nativo Secwepemc, che vive nel sito di Mount Polley, nella regione del Lago Quesnel, dal 2014 subisce l’avvelenamento delle proprie acque con sostanze chimiche di scarto, riversate da parte della omonima Compagnia Mineraria. Per Amnesty International e la communita’ internazionale quanto sta succedendo in questa determinata zona costituisce una forma di “genocidio ambientale”, poiché  non  solo modifica profondamente l’habitat naturale di questo popolo nativo, ma, anche, ne altera i comportamenti, in particolare tra i piu’ giovani che per piu’ tempo sono stati esposti a bere questa acqua contaminata e che finiscono con l’avere delle crisi nervose che ne alterano i comportamenti per l’appunto. Questi stessi giovani costituiscono la prima linea nelle proteste nei confronti di queste azioni (un esempio di questa lotta è Autumn Peltier una sedicenne attivista che si batte per la tutela delle acque e che è andata pure a parlare alle Nazioni Unite nel 2018 per denunciare questo problema).

Le autorita’ statunitensi al momento non hanno posto rimedio alcuno contro questa violenza etnica di genere, pur essendo vincolate a farlo anche in base agli standard internazionali dei diritti umani (vedasi anche la Convenzione di Istanbul per la Tutela delle Donne e lo Sradicamento di ogni forma di Violenza perpetrata nei Loro confronti, ndr). B. Progetti infrastrutturali senza il consenso dei nativi: Un caso emblematico, forse al momento il piu’ famoso, ma non l’unico nel genere, è il caso di mancata richiesta di consenso da parte della popolazione nativa Sioux del Nord Dakota nella costruzione a fianco della loro riserva di un oleodotto destinato a congiugere pozzi petroliferi del nord con il sud degli stati uniti fino ad arrivare fino in Illinois, un oleodotto lungo oltre 1000 chilometri. Per proseguire la costruzione di questo mostro ambientale sono stati registrati in molte occasioni abusi della forza - con connessioni razziste - da parte della polizia statunitense nei confronti di nativi residenti in quest’area, durante le proteste pacifiche messe in atto per questa devastazione ambientale a cui sono loro malgrado sottoposti. C. Raccomandazioni di affinché gli Stati Uniti:

Amnesty

International,

1. Eroghino adeguati finanziamenti per i tribunali autogestiti dai nativi, che vengano tutelati i diritti delle donne tramite la Legge contro ogni forma di violenza alle Donne e che siano salvaguardati i loro diritti connessi con la salute e la sicurezza sociale dei nativi;

Il premier canadese Justin Trudeau ha promesso di intervenire per porre rimedio a questo annoso problema, ma per il momento non ha fatto niente.

2. Implementino una formazione per le forze dell’ordine che contempli l’anti-razzismo e il differente approccio culturale da tenere con i nativi;

2. USA: diversi problemi di abusi dei diritti umani dei nativi nord-statunitensi:

3. Attuino nei servizi sanitari i protocolli standard per il contrasto della violenza sessuale;

A. Casi di “STUPRO ETNICO”

4. Il Congresso statunitense riconosca i tribunali nativi come gli unici organi penali nei loro territori, indipendentemente, dall’etnia del reo;

Nel 2007 Amnesty International pubblicava un rapporto intitolato “Maze of Injustice: The faillure to protect Indigenous Women / Una giustizia ingannata - la mancanza di protezione delle donne native dell’Alaska dalla violenza sessuale” in cui le donne Inuit (che impropriamente - e spesso in modo offensivo - vengono chiamati “eschimesi”) sono state vittime di stupro etnico, ovvero una forma di abuso sessuale finalizzato all’odio razziale. Si precisa che nei territori del nord (tra cui lo stato dell’Alaska stantunitense) ci sono enormi interessi economici, perché territori ricchi di materie prime, tra cui il petrolio. Questi territori vengono strenuamente difesi dalle comunita’ native locali. 11

5. Gli USA adottino una politica esplicita atta a non alterare l’habitat dei nativi con dei progetti infrastrutturali senza il consenso dei nativi.

Chiara Casotti Resp. Coord. Nord America e Isole Caraibiche Amnesty International Italia

IN EVIDENZA

MAZE OF INJUSTICE: The faillure to protect Indigenous Women https://www.amnesty.org/download/Documents/AMR510592007ENGLISH.PDF

DICEMBRE 2020 N.2 / A.6 - Voci


Umanità violata: storie di popoli perseguitati

SAHARA OCCIDENTALE: L’ULTIMO TERRITORIO CONTESO IN AFRICA di Martina Costa

Uno dei campi profughi saharawi a Tindouf, Algeria / © Mahrez Ben Chenouf

Quella del Sahara Occidentale è la storia di un territorio ancora conteso. Una costruzione coloniale, al cui centro vi è la supremazia con i suoi specifici processi di assoggettamento, repressione e violenza. La storia di un popolo cresciuto nell’occupazione e che continua a lottare per liberarsene. Le mappe geografiche portano i segni di questo conflitto. I confini che vengono mostrati nelle mappe danno già una chiara idea di quello che quotidianamente, ormai da un secolo e mezzo, succede in questo lembo di terra. Linee tratteggiate, carte topografiche oscurate, confini astratti o arbitrariamente segnati: questa è la storia dell’ultimo territorio conteso in Africa. Classificato dall’ONU come “Territorio non indipendente”, il Sahara Occidentale è situato nell’Africa occidentale, tra Marocco, Mauritania e Algeria. Circa 1000 km delle sue coste affacciano nell’oceano Atlantico, che fanno del Sahara Occidentale uno dei Paesi più pescosi della regione. Dalla fine dell’Ottocento, durante il periodo coloniale, il Sahara Occidentale è stata una colonia spagnola. Nel 1958 la zona meridionale del Sahara occidentale (Río de Oro) insieme alla parte settentrionale (Saguia el-Hamra) vennero unite in un’unica provincia sotto il nome di “Sahara Spagnolo”. Voci - DICEMBRE 2020 N.2 / A.6

Mappa geopolitica del Sahara Occidentale

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La presenza coloniale nel territorio produce dei movimenti e delle forme di resistenza. Di fronte alla repressione della Spagna, nel 1973 viene fondato il Fronte Polisario (Per la libertà del Saguiet-elhamra e del Rio de Oro), il movimento di ribellione di aspirazione socialista. Sostenuto dall’Algeria, il movimento inizia sin da subito la lotta armata per il rientro in patria. Nel 1975 la Spagna di Franco, prossima alla fine, e soggetta alle pressioni ONU nei processi di decolonizzazione, abbandona la colonia africana. Vengono allora firmati gli Accordi tripartitici di Madrid con il Marocco e la Mauritania, ma invece di organizzare il referendum previsto per l’autodeterminazione, i due Paesi invadono il Sahara occidentale, dividendoselo. Durante la Marcia Verde, 350 mila marocchini vengono mandati nel Sahara Occidentale, per rivendicarne il possesso; così il Marocco ottiene i due terzi del nord e la Mauritania un terzo del sud. La nuova occupazione del Marocco e della Mauritania viene vissuta come un’ulteriore invasione e una nuova colonizzazione. Così nel 1976, viene proclamata la Repubblica Araba Sahrawi Democratica (RASD) dal Fronte Polisario, che con il sostegno attivo dall’Algeria, ha proclamato la propria sovranità sul territorio. La lotta armata del Fronte Polisario colpisce con incursioni fulminee le forze marocchine e mauritane che considera come nuove forze di occupazione. I bombardamenti aerei con napalm e fosforo bianco delle forze marocchine portano all’esodo decine di migliaia di civili saharawi dal Paese, che si rifugiano a Tindouf in Algeria, dove i campi profughi diventano la nuova base operativa del Fronte Polisario. Esiliati, ai campi profughi vengono dati i nomi delle città saharawi che la popolazione è stata costrette ad abbandonare (Aousserd, El-Ayoun, Boujdour, Smara e Dakhla). Nel 1979 il fronte Polisario ottiene il ritiro della Mauritania dai territori occupati, annessi successivamente al Marocco che domina adesso la maggior parte del territorio. Il conflitto armato tra il fronte Polisario e il Marocco si rivelerà lungo, estenuante e privo di risoluzione. Al fine di impedire le incursioni del Polisario nei territori occupati e l’acquisizione delle risorse naturali, negli anni Ottanta, il Marocco inizia a costruire dei muri di sabbia. Dal 1989 il muro difensivo, anche detto il muro della vergogna o “berm”, disegna una nuova geografia: dividendo in due il Sahara Occidentale, la maggior parte del territorio è occupato dal Marocco, mentre il 20% ad est del muro è sotto il controllo del Fronte Polisario. 13

La lunga guerriglia contro il Marocco ha un momento di pausa nel 1991 con il cessate il fuoco imposto dall’Onu, che costituisce la missione “Minurso” (Missione delle Nazioni Unite per l’organizzazione di un referendum in Sahara Occidentale), volta a sorvegliare il rispetto del cessate il fuoco, facilitare il rientro dei profughi e vigilare sullo svolgimento del referendum per l’autodeterminazione del popolo saharawi, da sempre osteggiato dal Marocco. Dopo 29 anni, l’impegno dell’Onu a favore di una soluzione politica definitiva non è stato ancora concordato tra le parti e il referendum non si è ancora tenuto. Il prezzo di questa pace apparente è stato molto caro e alla speranza di un ritorno nel proprio Paese sono seguiti 29 anni di silenzi, rinvii, proroghe, e ancora repressione, torture e minacce. Nel frattempo il muro di separazione, che taglia il Paese da nord a sud in quello che dovrebbe essere il Sahara Occidentale, ha raggiunto i 2.720 chilometri ed è il più lungo al mondo, dopo la muraglia cinese. Il Marocco dispiega a presidio della linea difensiva circa 185 mila soldati, che corrisponde alla quasi totalità della popolazione saharawi che vive nei campi profughi. I campi attorno alla costruzione di sabbia contengono circa 6 milioni di mine antiuomo, facendo di quell’aria una delle più minate al mondo. Le mine rendono il territorio particolarmente inospitale, soprattutto a causa del fatto che vento e pioggia hanno spostato e sotterrato i dispositivi, rendendo la bonifica della zona particolarmente complessa. Il costo di questa securitizzazione dei confini è elevatissimo: si calcola che la gestione di questo muro costi a Rabat circa 4 milioni di dollari al giorno. Il popolo saharawi, e intere famiglie sono quindi separate: una parte vive nei territori occupati in Sahara Occidentale, sotto la sovranità del Marocco, altri vivono in esilio in Mauritania, e secondo i dati ufficiali dell’UNHCR del 2018, rifugiati nei campi profughi di Tindouf vivono almeno 173.600 saharawi. Quanto costa la pace in Sahara Occidentale? Dopo 44 anni dalla proclamazione della Repubblica saharawi e 29 anni dalla promessa del referendum, violazioni dei diritti umani, arresti arbitrari, rapimenti, torture e sparizioni a danno di oppositori politici e attivisti saharawi sono continuati ben oltre il cessate il fuoco del ’91. La situazione dei civili saharawi che vivono nei territori occupati del Marocco è critica. Diversi rapporti di Amnesty International documentano DICEMBRE 2020 N.2 / A.6 - Voci


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tutta una serie di brutali tecniche di tortura usate dalle forze di sicurezza marocchina nei confronti dei detenuti, soprattutto attivisti per i diritti umani e militanti. Inoltre, le autorità marocchine impediscono sistematicamente i raduni nel Sahara Occidentale a sostegno dell’autodeterminazione saharawi, ostacolano il lavoro di alcune ONG locali per i diritti umani e reprimono il lavoro di attivisti e giornalisti che documentato i crimini dell’occupazione marocchina contro il popolo saharawi. Sebbene gli studiosi della decolonizzazione pongano come data conclusiva del fenomeno il 1997, il colonialismo non è ancora finito. Il Sahara Occidentale è, ad oggi, l’unico Paese in Africa il cui territorio rimane conteso, uno dei conflitti post-coloniali non ancora risolti. Ma perché un territorio arido e sabbioso suscita questo incredibile interesse? Da una parte, poiché il Sahara Occidentale è bagnato da una parte d’oceano tra i più pescosi dell’Africa, il Paese detiene una delle più grandi industrie ittiche, e dall’altro vi sono tra i più grandi giacimenti di fosfati al mondo. Il Sahara Occidentale è infatti un Paese ricco di pesce, fosfato, petrolio, uranio e ferro. I giacimenti di petrolio e le coste pescose sono considerate fra le più ricche dell’intera costa africana. Il governo del Marocco, che considera il Sahara Occidentale come parte delle sue province meridionali, continua a portare avanti un’occupazione illegittima e a sfruttare il territorio a danno della popolazione autoctona che da decenni denuncia l’espropriazione delle risorse naturali del proprio territorio. La risposta internazionale all’occupazione illegittima del Marocco è alquanto contradittoria. Mentre nel 2015 e nel 2016 due sentenze della Corte di giustizia dell’Unione Europea hanno invalidato parzialmente due accordi di commercio tra Unione Europea e Marocco, che non ha diritto di sfruttare le risorse naturali del Sahara Occidentale non detenendone legalmente la sovranità, nel 2018 un nuovo accordo di pesca tra Unione Europea e Marocco è stato siglato. La repubblica saharawi è riconosciuta da diversi Paesi africani, che ha permesso il suo ingresso nel 1982 nell’Unione Africana, con la conseguente l’uscita del Marocco, rientrato solo nel 2017. Il Marocco, che conta dell’appoggio della Spagna e della Francia, primo e secondo partner commerciali, cerca di finanziare gli Stati che non riconoscono il Sahara Occidentale. Le Nazioni Unite, che dovevano essere la soluzione, sono invece diventate parte del problema. Il processo

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di negoziazione sponsorizzato dalle Nazioni Unite tra il Marocco e il Fronte Polisario per l’autodeterminazione del Sahara occidentale è rimasto bloccato, causando sfiducia e sconforto nel popolo saharawi che non crede più alle promesse internazionali. Il 13 novembre 2020, dopo 29 anni di calma apparente, la regione è stata testimone di nuove tensioni. Da diverse settimane, attivisti e militanti saharawi stavano protestano pacificamente, impedendo la circolazione di merci e persone nell’unico passaggio terrestre utilizzato dal Marocco, quello nella zona del El Guerguerat, nell’estremo sud-ovest del Sahara occidentale, situata al di fuori del muro di difesa. Questo varco illegale, di fondamentale importanza soprattutto in questo periodo, permette infatti al Marocco di collegarsi con la Mauritania e commerciare illegalmente con l’Africa, depredando le ricchezze del Sahara Occidentale. L’esercito marocchino ha allora risposto lanciato un’operazione militare nell’area, penetrando nella zona cuscinetto di El Guerguerat e violando il cessate il fuoco del 1991. In attesa che vengano rispettati gli accordi firmati dalle parti, il popolo saharawi è stanco e disilluso: 44 anni di occupazione militare, violazioni dei diritti umani, repressioni, intimidazioni, violenze di ogni genere, sfruttamento delle risorse economiche, il tutto nel silenzio mediatico internazionale. La causa saharawi è quella di un popolo che ha diritto all’autodeterminazione e a vivere dignitosamente nel proprio territorio.

“Disillusi da accordi di pace inefficaci, adesso il popolo saharawi ritorna a combattere. Vogliamo vivere sulle nostre terre libere con dignità, altrimenti moriremo fino all’ultima anima ma almeno seppelliti sotto la nostra terra amata” (Mohamed Dihani, attivista saharawi per i diritti umani) La lotta e il sacrificio del popolo saharawi devono riuscire a riscattare dall’oblio le parole della resistenza: libertà, dignità e autodeterminazione.

Martina Costa Attivista del Gruppo Italia 290 Amnesty International Italia

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ANTISEMITISMO ED ECONOMIA di Rosa Guida

Membri della comunità ebraica protestano contro il leader del partito laburista di opposizione britannico Jeremy Corbyn e l’antisemitismo nel partito laburista, fuori dalle Camere del Parlamento britannico nel centro di Londra il 26 marzo 2018 / © TOLGA AKMEN/AFP via Getty Images

Con “antisemitismo” si indica la storica e intermittente ostilità antiebraica, definita, proprio per la sua durata, come “l’odio più lungo” 1. Le manifestazioni di avversità al popolo giudaico si sono concretizzate, nel tempo, in modi differenti ed in contesti culturali non omogenei basandosi sempre su ideologie del tutto irrazionali. Dall’epoca dell’antigiudaismo precristiano dell’antica Grecia, all’attuale periodo del neo-antisemitismo contemporaneo, l’odio verso gli ebrei si è continuamente nutrito delle paure e delle frustrazioni presenti nel contesto sociale, sfruttando l’ignoranza ed il pregiudizio esistenti in qualsiasi era. Già dall’antica Grecia gli Ebrei furono discriminati e ritenuti impuri, perseguitati per la propria religione monoteista al fine di rafforzare l’identità greca. In epoca cristiana furono invece accusati di “deicidio” e a partire dal II secolo i Padri della Chiesa insegnarono ai propri fedeli a disprezzare gli ebrei e a diffamarli per evitare che le usanze cristiane ed ebraiche, molto vicine, si mescolassero tra loro. Importante per la nostra analisi però è soprattutto quanto successe in

epoca medievale: nel Medioevo infatti l’emarginazione socio-economica del popolo giudaico proseguì. Esclusi quasi ovunque dal possesso fondiario, gli ebrei furono via via allontanati anche dai settori mercantili e artigianali. Tutti coloro che avevano, per necessità, rapporti con il denaro (finanzieribanchieri-prestatatori, cambiavalute, amministratori) furono bollati dai teologi dell’epoca come usurai e accomunati ai peggiori peccatori. L’idea degli ebrei come “razza naturalmente predisposta” ai raggiri finanziari e alla truffa restò un preconcetto cardine dell’antisemitismo, sfruttato ed usato anche e soprattutto in tempi successivi. In epoca moderna l’antisemitismo continuò ad essere il punto di sfogo delle nuove frustrazioni delle classi medie. Nei ceti sociali vittime dei cambiamenti portati dalle rivoluzioni politiche ed economiche, il popolo giudaico fu visto come il competitor “intruso”: cominciò a diffondersi la convinzione che ebrei fossero i promotori, oltre che i principali profittatori, dei nuovi assetti economici e politici. Il celebre preconcetto che si diffuse era: “gli ebrei sono avari e si arricchiscono

1  -  http://www.richardwebster.net/antisemitismthelongesthatred.html

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La “Sala dei Nomi” dello Yad Vashem a Gerusalemme con foto e nomi di vittime ebraiche dell’Olocausto / Ph.: Dr. Avishai Teicher / PikiWiki - Israel free image collection project https://www.pikiwiki.org.il/image/view/12495

con i soldi degli altri” o ancora “gli ebrei vogliono manovrare tutti i paesi secondo i loro interessi”. Alla luce di tali storiche informazioni è evidente che l’antisemitismo ha sempre dato voce alle grandi insoddisfazioni, in tutte le epoche, e ciò soprattutto durante le crisi economiche e sociali. A questo punto posto che, come abbiamo visto, il meccanismo dell’odio ha origini sempre differenti in base al contesto di riferimento, ci si chiede in quale modo e su che basi ideologiche tali ostilità causarono uno tra i genocidi più grandi nella Storia. Per provare a rispondere a tale quesito appare opportuno prima descrivere il contesto sociale di riferimento nella Germania del primo post-dopoguerra. La prima guerra mondiale, com’è noto, si concluse nel 1918 e con il Trattato di Versailles del giugno 1919 si pose ufficialmente fine al grande conflitto. Per la Germania, ritenuta responsabile della guerra, vennero previste condizioni di pace terribilmente afflittive: venne spogliata di oltre 65.000 km2 di territorio e si posero grosse limitazioni all’organizzazione militare tedesca. Le si impose inoltre di pagare un risarcimento esemplare per riparare i danni della guerra. Tutto ciò ridusse il popolo tedesco economicamente in ginocchio e l’inflazione del 1923 fece il resto: bruciò i risparmi della classe media e il tasso di disoccupazione salì incredibilmente. A ciò, dopo pochi anni, si aggiunse anche la Crisi economica del 1929 che colpì pesantemente la fragile economia tedesca. È facile comprendere come in questo contesto la frustrazione dei cittadini della classe media diventò terreno fertile per la propaganda d’odio nazista. La propaganda antiebraica cominciò ad attivarsi e fece breccia soprattutto tra coloro che, oppressi prima dall’inflazione e dalla disoccupazione e poi dal crollo del 29’, si ritrovarono spaventati dall’impoverimento e dal declassamento. Voci - DICEMBRE 2020 N.2 / A.6

Il sistema nazista sfruttò questa situazione facendo leva sull’antico stereotipo medievale: “gli ebrei sono avari e si arricchiscono con i soldi degli altri”. La scuola, le università, la burocrazia, la magistratura, l’esercito, le associazioni professionali, i partiti, le Chiese erano permeati di antigiudaismo e antisemitismo. La popolarità dell’antisemitismo era dovuta al fatto che si poteva finalmente offrire al popolo tedesco, insicuro, disperato, pieno di paure e incapace di capire il disastro nazionale dopo anni di sacrifici, una spiegazione della “malattia economica” che aveva colpito la sana società tedesca: i responsabili erano gli ebrei con le loro trame segrete e i loro complici. Insieme agli stereotipi di tipo economico, la propaganda antiebraica nazista ruotava anche su alcune posizioni ideologiche ricorrenti: diversità e disuguaglianza razziale dei gruppi umani, diversità genetica e necessità di politiche per la purificazione razziale del popolo tedesco attraverso l’epurazione degli stranieri. La propaganda di Hitler si proponeva dunque di “spiegare”, attraverso false informazioni ma chiare,  come funzionava il mondo e voleva fornire risposte a chi non era abituato ad affrontare i problemi razionalmente e si ritrovava ad accettare risposte preconfezionate. Tutto ciò aveva un chiaro valore strumentale: accrescere l’intolleranza, l’avversione e i preconcetti nei confronti degli ebrei e serviva a riversare su un falso obiettivo tutte le frustrazioni e la rabbia popolari. Si creò dunque una guerra di tutti contro un una parte della popolazione che rappresentava la causa di ogni problema. Il messaggio nazista conteneva una promessa di “salvezza”: un avvenire felice e armonioso in un’economia finalmente purificata. Ciò era un destino realizzabile per il popolo-razza tedesco e per attuarlo era inderogabile lo scontro con la razza ebraica. In un quadro di apparente legalità i nazisti diedero il via alle 16


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discriminazioni contro gli ebrei tedeschi, dimostrando coi fatti che il “problema” ebraico era per loro prioritario. In tal modo l’antisemitismo razzista cessò di essere una semplice ideologia e si trasformò in un sistema socio-politico “razionale”, programmato. Si diede inizio allora al boicottaggio dei negozi e degli studi professionali, all’espulsione in massa degli ebrei dalla burocrazia e dalle varie istituzioni. Tutte le proprietà ebraiche mobili e immobili furono confiscate (alla fine della guerra verrà considerato il più grande furto dei tempi moderni). Tutti gli ebrei furono costretti ad abbandonare, senza indennizzi, liquidazioni, mensili e assistenza pubblica, le proprie aziende, le professioni gli impieghi e le altre attività. Nella notte fra il 9 e il 10 novembre 1938 i nazisti, per ordine del ministro della propaganda Göbbels, scatenarono un gigantesco pogrom in tutta la Germania. Novantun ebrei furono assassinati e migliaia feriti, 26.000 imprigionati; più di duecento sinagoghe, centri comunitari e cimiteri incendiati, distrutti, profanati; numerosissime proprietà ebraiche danneggiate, tra cui circa 7500 magazzini assaliti, saccheggiati, distrutti. Tutti i cristalli delle vetrine dei negozi degli ebrei furono infranti nella notte definita “dei cristalli” (Kristallnacht). Successivamente una commissione interministeriale accusò gli ebrei di essere responsabili di quanto era accaduto e li costrinse a pagare collettivamente una pesantissima multa e a restituire gli indennizzi pagati dalle assicurazioni. Gli iniziali progetti di “purificazione” del solo Reich dalla presenza ebraica (spogliazione emigrazione o deportazione), si trasformarono presto in un progressivo macro-progetto di sterminio dell’intero ebraismo europeo. I nazisti chiamarono l’operazione di sterminio degli ebrei “Soluzione finale del problema ebraico in Europa” (Endlösung). Un’operazione che, in prospettiva, per i nazisti rappresentava una conquista per l’umanità, alla pari della lotta contro i virus patogeni o gli insetti nocivi. Durante la Shoa furono deportati e persero la vita più di sei milioni di ebrei. Per rispondere al quesito iniziale, tutto ciò è stato possibile sulla base di manipolazioni ideologiche proprie dei sistemi totalitari, rese possibili da esasperanti crisi economico-sociali.

maggio 2020, l’odio antisemita, soprattutto in rete, è aumentato sensibilmente e si è adeguato al nuovo contesto storico. Dalla ricerca emerge che tre quarti delle teorie antisemite si riferivano al mondo della finanza e al potere che gli ebrei avrebbero sui sistemi economici mondiali, potere da cui deriverebbe anche il covid-19: ancora lo stesso ritornello dunque “gli ebrei vogliono manovrare tutti i paesi secondo i loro interessi”. Il problema dei discorsi d’odio, antisemiti e razzisti, non è solo italiano. Gli esiti della ricerca di Mediavox, almeno in parte, coincidono con la ricerca curata dall’Università di Oxford secondo cui il 20% degli inglesi credono che il virus sia stato creato dagli ebrei per sfruttarlo economicamente. L’Oxford Coronavirus Explanations, Attitudes and Narratives Survey (OCEANS), pubblicato sulla rivista Psychological Medicine, si basa su un campione di 2.500 adulti che rappresentano le diverse classi sociali della popolazione del Regno Unito: il gruppo è stato selezionato in base al sesso, all’età, alla regione e al reddito. Durante il loro lavoro, i ricercatori hanno domandato “se gli ebrei avessero creato il virus per far crollare l’economia e per conseguire un guadagno finanziario”. Il 5,3% ha detto che è abbastanza d’accordo con l’affermazione; il 6,8% si è detto moderatamente d’accordo”; il 4,6% ha dichiarato di “essere molto d’accordo”; il 2,4% ha comunicato di “essere completamente d’accordo”. Non si può allora tacere che il problema dell’antisemitismo e degli stereotipi di tipo economico, nei confronti degli ebrei, continua ad essere presente e non è mai sparito: si riattiva infatti tutte le volte in cui si presenta una crisi. Ma come è emerso prima, l’odio è irrazionale e deriva dall’ignoranza. Per difenderci, dunque, l’unica arma è l’educazione: solo attraverso la cultura, l’informazione e l’educazione sarà possibile evitare, in futuro, epiloghi disastrosi come quelli del passato. Rosa Guida Attivista del Gruppo Italia 233 Amnesty International Italia

FONTI

E allora si pone come necessaria un’ulteriore riflessione sull’attuale crisi economico-sociale e sanitaria: quanto le frustrazioni economiche e sociali, nel nostro contesto, ci spingono ad essere manipolati e ad odiare?

http://www.vita.it/it/article/2020/07/13/odio-sui-social-e-boom-di-antisemitismo/156176/ https://www.mosaico-cem.it/attualita-e-news/mondo/sondaggio-universita-di-oxford-il-20-

Da una ricerca dell’Osservatorio Mediavox dell’Università Cattolica di Milano tra marzo e

https://www.osservatorioantisemitismo.it/antisemitismo/#termini https://encyclopedia.ushmm.org/content/it/article/world-war-i-aftermath

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degli-inglesi-crede-al-complottismo-antisemita-sul-covid-19

https://messaggeroveneto.gelocal.it/tempo-libero/2019/11/02/news/il-cacciatore-di-nazistila-crisi-economica-sta-rianimando-gli-estremismi-1.37826674

https://www.treccani.it/enciclopedia/antisemitismo_%28Enciclopedia-delle-scienzesociali%29/

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L’ULTIMO GENOCIDIO DEGLI YAZIDI di Alessandro Luparello

Nadia Murad Basee Taha dà un volto alle migliaia di donne yazide che sono state violentate dai membri dell’ISIS. I suoi sforzi per porre fine alla violenza sessuale come arma in guerra le sono valsi il Premio Nobel per la Pace 2018 - Ph: © Picture Alliance/dpa/V. Simanek

Iraq del nord. Metà estate. Domenica. Forse se ne percepivano i prodromi, forse. Nero attorno. Come una bandiera diventata simbolo di morte e vessillo di propaganda, come i villaggi incendiati al passaggio dei miliziani jihadisti, come i veli integrali imposti alle donne, come la terra gettata sulle fosse comuni, come l’orrore dei proclami e delle esecuzioni. Alle prime ore del 3 agosto 2014 la furia devastatrice di Daesh si è abbattuta con estrema crudeltà, ferocia e potenza (ma in modo tutt’altro che scoordinato e casuale) sui villaggi della piana di Nineveh. L’obiettivo non era quello di rafforzare il controllo territoriale pseudo-statuale del c.d. Califfato islamico (proclamato da Al Baghdadi il 29 giugno) ma di colpire una specifica minoranza curda, pacifica e molto chiusa che abitava (e abita) quell’area: gli Yazidi. Daesh, che pure ha perseguitato tutte le minoranze (mandei, cristiani siriaci, sciiti, turcomanni), contro gli yazidi ha metodicamente pianificato ed eseguito con intransigenza e lucidità una vera azione genocida. Unico obiettivo: sradicarli, eliminarne le fondamenta culturali, distruggerne i templi, incendiarne case e campi, avvelenarne i pozzi. Degli yazidi non sarebbe dovuto rimanere nulla, nulla che sarebbe potuto

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tornare a vivere lì in futuro. Genocidio, appunto (riconosciuto come tale dall’ONU il 16 giugno 2016: “They came to destroy: ISIS crimes against the Yazidis”). Gli Ēzidī (in curdo) / Yazīdī (in arabo) sono una comunità religiosa di etnia e lingua curde, molto esigua nei numeri (circa 3-500’000 persone) e molto localizzata geograficamente (principalmente nel nord dell’Iraq e, in minima parte, in Siria e nel Caucaso). Il loro tratto distintivo è rappresentato sostanzialmente dalla religione professata; questa ha origini antichissime (sebbene se ne rilevino diverse stratificate contaminazioni da islam, ebraismo e cristianesimo) ed è molto identitaria: non sono ammessi matrimoni con persone di altre religioni e non sono ammesse, né in un senso né nell’altro, conversioni; ciò indubbiamente ha contribuito e contribuisce in modo significativo alla chiusura e all’isolamento della comunità e all’esoterismo che ne circonda la dottrina (tramandata peraltro prevalentemente in forma orale).

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Gli yazidi sono monoteisti: credono in un unico Dio che ha creato tutto e tutti, inclusi il bene e il male, e che si manifesta attraverso sette angeli, il principale dei quali -Melek Ṭāʾūs- ha le sembianze di un pavone. La figura di Melek Ṭāʾūs (angelo che ha vissuto la ribellione e il successivo pentimento) è stata -erroneamente e in modo controversoassociata a Iblīs o Shaytan (diavolo dell’Islam, che corrompe l’animo umano allontanandolo dall’unico Dio, Allah); tale (strumentale) interpretazione, ha portato gli yazidi ad essere marchiati ingiustamente come “adoratori del diavolo” e ha quindi -di fatto- fornito un alibi per giustificare repressioni e violente persecuzioni. Anche, ultima di una lunga serie, quella di Daesh. Il piano genocida di Daesh appare nitido e quasi banale nella sua crudeltà: ff uomini e ragazzi, kuffar (miscredenti), giustiziati sommariamente sul posto; ff bambini rapiti per farne, attraverso violenze e indottrinamento, combattenti; ff donne e ragazze, sabaya (schiave di guerra), usate come schiave sessuali per i miliziani. E così il 3 agosto 2014, coi miliziani arrivati da Mosul e Tal Afar nei villaggi della minoranza yazida, è iniziato l’assedio. Molti sono stati travolti, molti altri sono riusciti a fuggire, a piedi, in un esodo drammatico sul monte Sinjar che ha lasciato un enorme numero di morti (soprattutto per fame e sete) lungo il percorso. Gli uomini, come racconta un sopravvissuto all’attacco del 3 agosto al villaggio di Tel Qasab, sono stati subito uccisi:

“Hanno separato gli uomini dalle donne e i bambini. Ci hanno fatto camminare, poi ci hanno chiesto di convertirci ma nessuno ha voluto. Siamo rimasti in silenzio. Allora ci hanno fatto voltare di schiena e hanno sparato. Se ne sono andati ma io ero ancora vivo” (Amr Muhammar Abu) I ragazzini invece sono stati rapiti tutti, ad eccezione di quelli troppo piccoli, e sottoposti a conversioni forzate, indottrinamento, maltrattamenti, asfissiante

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propaganda e addestramento militare. Lo scopo era da un lato cancellarne le radici yazide (finanche i nomi e la lingua), distorcerne ricordi, tradizioni e affetti fino ad annullarne l’identità, dall’altro farne combattenti. E combattenti (suicidi) del Califfato, quei bambini lo sono diventati davvero.

“Molte volte, quando ci troviamo di fronte l’Isis, vediamo i bambini che si lanciano verso di noi. Gli hanno fatto il lavaggio del cervello. Non sappiamo mai se, quando si avvicinano, sono in fuga o sono stati mandati per uccidere. Molti nostri combattenti sono morti così. Si tratta di una decisione incredibilmente difficile, non sai cosa fare, perché se non li uccidi saranno loro a uccidere te” (Aziz Abdullah Hadur, comandante Peshmerga)

“Quando ci addestravano, ci dicevano che l’ISIS era la nostra unica famiglia, che i nostri genitori erano degli infedeli e che il nostro primo compito sarebbe stato quello di tornare per ucciderli. Non ci era permesso piangere, ma io pensavo a mia madre, a quanto poteva essere preoccupata per me e cercavo di piangere in silenzio” (Nasrin, 12 anni)

Per le donne e le ragazze yazide il piano di Daesh prevedeva altro:

“Daesh credeva di poter distruggere l’identità yazida mettendo le mani e rivendicando i corpi di donne e ragazze” (Lynn Zovighian, attivista) E quindi, caricate sui pullman e portate a Raqqa o a Mosul, infedeli e -come tali- disumanizzate, venivano vendute come sabaya per diventare schiave sessuali. Privilegio e diritto di combattenti, attrazione per i foreign fighters. Il mercato, con tanto di prezzo, era

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allestito online, siti web e canali Telegram. Vendute, abusate, violentate e poi rivendute. Ancora e ancora.

“Seveh ha 17 anni ed è stata venduta sette volte. Ha tentato il suicido tre volte, l’ha salvata l’altra prigioniera che era con lei. Sua sorella di 11 anni si è uccisa dandosi fuoco nel campo profughi in cui vivono con la famiglia, a Zakho, nel Kurdistan iracheno. Le storie sotto le tende bianche dell’Onu cambiano solo per l’atrocità dei particolari” (Sara Lucaroni, giornalista, L’Espresso) Tra le ragazze, quel 3 agosto, c’era anche Nadia Murad Basee, ventunenne, studentessa di Kocho, col sogno di diventare estetista. La sua voce, straordinariamente forte, è un fiume placido ma potente e inarrestabile, una candela nel buio. Ci parla della sua storia ma travalica la sua persona, diventa voce del suo popolo, delle donne abusate, dei rifugiati. Nadia è una persona appassionata, decisa e resiliente, che ha deciso di vincere paure e stereotipi e trasformare il proprio dolore in lotta per la giustizia. Esile ma straordinariamente forte, ha scelto di raccontare i propri traumi (rivivendoli) decine di volte pur di far conoscere all’ONU, ai potenti della Terra, a tutti, la tragedia che si stava consumando nel silenzio e nell’inerzia del mondo. A Nadia Murad è stato assegnato nel 2018 il premio Nobel per la Pace ma la sua lotta non è ancora finita: negli anni Daesh è stato (militarmente ma non culturalmente) sconfitto eppure il progetto genocida di sterminio della comunità yazida continua. è necessario e urgente salvare i rapiti, proteggere il reinsediamento dei profughi nella propria terra natia, accogliere i bambini. Tantissimi yazidi vivono ancora lontani: alcuni in Europa (specie in Germania), molti nei campi profughi UNHCR (tra cui, per molti versi terribile, quello siriano di al-Hol), troppi ancora rapiti, dispersi.

“Quasi 3000 Yazidi sono ancora dispersi dal genocidio. Abbiamo bisogno che la comunità internazionale formi una coalizione, sostenuta dalle Nazioni Unite, per cercare i nostri dispersi”

la propria lingua o il volto dei genitori) tornati alle loro famiglie dopo aver subito rapimenti, torture, stupri e altre atroci violenze, compreso l’obbligo di prendere parte ai combattimenti. Hanno ancora ferite, malattie e menomazioni fisiche. Soffrono di stress posttraumatico, ansia e depressione, manifestati anche attraverso aggressività, flashback e incubi. Peggiore ancora è la sorte per quei bambini frutto della violenza dei miliziani.

“Sopravvissuti a crimini orribili, questi bambini ora affrontano l’eredità del terrore. La loro salute mentale e fisica dev’essere una priorità negli anni a venire se si vuole che essi si reintegrino del tutto nelle loro famiglie e nelle loro comunità” (Matt Wells, Amnesty) Anche il cruciale aspetto della giustizia è stato consapevolmente eluso (pressoché universalmente), eppure senza verità e giustizia è di fatto impossibile ricostruire davvero -e su nuove basi di convivenza- la vita di una comunità. Secondo il diritto umanitario, i membri di Daesh (inclusi i combattenti stranieri) possono essere ritenuti responsabili di crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio, ma

“molti governi non vogliono processare chi ha compiuto questi crimini. E le prove sono schiaccianti” (Nadia Murad)

“Molte persone hanno visto il genocidio del mio popolo dai propri salotti. Guardavano con orrore e incredulità mentre la mia comunità era soggetta a violenze indicibili. E quando un conflitto o una tragedia scompare dalle notizie in prima pagina, si ritiene che non sia più un problema. Il genocidio è ancora in corso perché 200.000 yazidi sono ancora sfollati, migliaia di donne e bambini sono ancora dispersi o prigionieri e quelli che provano a ritornare a casa non trovano più nulla” (Nadia Murad)

(Salwa, attivista e sopravvissuta) Nella ricerca “Legacy of Terror - The plight of Yezidi child survivors of ISIS” Amnesty International parla di circa 2000 bambini yazidi (che spesso non ricordano Voci - DICEMBRE 2020 N.2 / A.6

Alessandro Luparello Responsabile del Gruppo Italia 044 Amnesty International Italia

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IL POPOLO INDIGENO RARÁMURI E LA LOTTA IN DIFESA DELLE SUE TERRE ANCESTRALI di Monica Mazzoleni

Sierra Tarahumara, Messico. La comunità Coloradas de la Virgen è una delle comunità indigene ubicate nella sierra Tarahumara e conta 850 indigeni Rarámuri, un numero che va riducendosi di anno in anno a causa degli alti indici di mortalità e dello sfollamento dovuti alla violenza nella regione. / Ph.: © David Paniagua / Amnesty International

La Sierra Tarahumara è una catena montuosa che si trova nello stato di Chihuahua, nel nord del Messico.

municipali; in sintesi pesa l’assenza delle istituzioni sia a livello federale che a livello statale.

I suoi 335.000 abitanti vivono in 23 municipi distribuiti su un’area ampia come il nord d’Italia.

La comunità Coloradas de la Virgen è una delle comunità indigene ubicate nella sierra Tarahumara e conta 850 indigeni Rarámuri, un numero che va riducendosi di anno in anno a causa degli alti indici di mortalità e dello sfollamento dovuti alla violenza nella regione.

La Sierra è una zona con alti indici di marginalizzazione e mancanza  di servizi socioeconomici quali educazione e cura della salute. Secondo l’Istituto Nazionale di Statistica e Geografia Messicano i municipi serrani con maggior presenza di popoli indigeni sono anche quelli con minor accesso ai servizi e, in genere, con condizioni generalizzate di povertà. La regione serrana del Chihuahua soffre inoltre di alti livelli di violenza, dovuti per la maggior parte alla presenza di gruppi organizzati del crimine legati al traffico di droga illecita e alla corruzione degli agenti

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I Rarámuri sono conosciuti per la loro qualità di corridori: sanno percorrere di corsa lunghe distanze con una forza e una resistenza anche superiore a quella dei più allenati runner del mondo. Il territorio di Coloradas è uno spazio etnico, i suoi membri ritengono che sia stato loro donato originariamente dai loro antenati ancestrali. La comunità lo cura in accordo con i suoi usi e

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Rarámuri di Chihuahua, Messico / Fonte: panoramio.com

costumi regolandone lo sfruttamento dei boschi e proteggendone lo sviluppo ecologico e culturale.

In questi anni è stato un continuo susseguirsi di istanze, giudizi e riscorsi sulla questione.

Le famiglie indigene di Coloradas vivono di agricoltura di sussistenza, allevamento di bestiame su piccola scala e raccolta di piante medicinali.

Nel giugno 2018 il tribunale Superiore Agrario ha ordinato una nuova indagine peritale topografica al fine di delimitare tecnicamente il piano della superficie che corrisponde al territorio della comunità ed esprimere una nuova, finale sentenza sulla proprietà della terra e il permesso dell’utilizzo della foresta.

Attualmente nel territorio ancestrale Rarámuri di Coloradas de la Virgen esiste una comunità agraria di maggioranza indigena e un ejido costituito da persone di predominanza non indigena, dette “mestizas”. Nel 1934 il popolo indigeno fece richiesta ufficiale a diverse autorità di riconoscimento della proprietà del loro territorio per la creazione dell’Ejido Coloradas de la Virgen. Il procedimento fu lungo e difficile: durò più di 20 anni e l’ejido fu creato solo nel 1957. Nel 1992 ci fu un’assemblea, tenuta con l’obiettivo di realizzare un aggiornamento censuale, che gli indigeni contestarono. Secondo i leader della comunità di Coloradas de la Virgen il procedimento fu caratterizzato da irregolarità. Circa 57 ejidatari originali furono privati dei loro diritti, 9 ebbero i loro diritti agrari confermati e vennero riconosciuti 78 nuovi membri. Questi ultimi, per la maggior parte, provengono dalla famiglia Fontes che non appartiene alla comunità indigena Rarámuri e che ha diversi interessi economici nella zona tra i quali quattro concessioni minerarie. Voci - DICEMBRE 2020 N.2 / A.6

In questo contesto complicato il risultato è che da 28 anni lo Stato messicano non è stato in grado di garantire la proprietà effettiva al popolo Rarámuri delle sue terre ancestrali e non è stato in grado di stabilire condizioni che gli permettessero di esercitare il controllo effettivo sul suo territorio. In questo lungo periodo la comunità ha sofferto rappresaglie, come uccisioni del bestiame, distruzioni di piantagioni, e continue minacce e attacchi anche alle persone. Alcuni attivisti dei diritti degli indigeni sono stati uccisi e questi crimini rimangono ad oggi impuniti. Nel 2019 Amnesty International, all’interno della campagna internazionale a favore delle persone che difendono e promuovono i diritti dell’ambiente e alla terra, ha avviato un’azione in favore di Julián Carrillo. Egli era un difensore dei diritti umani dei Rarámuri, dal 1992 era stato eletto dalla comunità per alcuni incarichi di comando, come, per esempio, commissario 22


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di polizia e presidente dei beni comunali. Il suo compito era di controllare il territorio, i boschi, l’acqua e gli animali selvatici di Coloradas de la Virgen. Il 24 ottobre 2018 Julián Carrillo è stato assassinato da uomini non identificati. Alcuni giorni prima aveva identificato alcuni membri di un presunto gruppo del crimine organizzato, e per sicurezza si era rifugiato nella catena montuosa della Sierra Tarahumara. Julián aveva espresso preoccupazione per la comunità a seguito degli alti livelli di violenza nel territorio di Coloradas de la Virgen generata dalla divisione della comunità a seguito della concessione del diritto ejidale a mestizos e alla presenza del crimine organizzato. Secondo il difensore e altri membri della comunità, il crimine organizzato si era appropriato del territorio indigeno con l’obiettivo di piantare coltivazioni illecite, in particolare cannabis e papaveri. Secondo Julián membri del crimine organizzato avevano minacciato molte persone della comunità che avevano deciso di andarsene e traslocare in città vicine per non rischiare la vita. Alcuni leader indigeni e cinque suoi familiari erano stati uccisi, compreso suo figlio. Nel settembre 2018 Julián Carrillo aveva detto ad Amnesty International che credeva che le minacce e le uccisioni dei suoi famigliari fossero in relazione con il loro lavoro di difesa dei diritti umani e del territorio. Nel 2012 il Messico aveva stabilito un Meccanismo di Protezione per i Difensori dei Diritti Umani e dei Giornalisti con l’obiettivo di definire e implementare misure di prevenzione e protezione per garantire la vita, l’integrità, la libertà e la sicurezza dei difensori dei diritti umani e giornalisti che si trovano in situazioni di pericolo. Nel 2014 questo stesso Meccanismo aveva emesso misure di protezione per i membri dell’organizzazione Alianza Sierra Madre A.C.

(ASMAC), tra cui tre difensori di Coloradas e tra loro Julián Carillo. Queste misure di protezione non sono state efficaci per proteggere Julián, come non lo sono state le misure del Plan de Prevención para el Estado Chihuahua conosciuto come Alerta Temprana finalizzate a rispondere e contrastare le cause strutturali della violenza in Chihuahua. Amnesty International ha denunciato la situazione di isolamento del popolo Rarámuri nel rapporto pubblicato nel gennaio 2019 dal titolo “Tra proiettili e oblio. Mancanza di protezione per le persone difensore del territorio nella Sierra Tarahumara” (Entre balas y olvido. Ausencia de proteccion a personas defensoras del territorio en la Sierra Tarahumara). Ha lanciato, inoltre, una campagna a livello internazionale per dare voce al popolo Rarámuri. Nell’ottobre 2020, a due anni dall’assassinio di Julián, sono state consegnate più di 61.000 firme, raccolte in tutto il mondo (15.000 in Italia), alle autorità messicane per chiedere di avviare finalmente un’indagine immediata, esaustiva e imparziale allo scopo di fare luce sull’uccisione di Julián Carillo, tenendo conto che potrebbe essere conseguenza dell’attività in difesa dei diritti umani, e assicurare alla giustizia i responsabili materiali e i mandanti. Si chiede anche di attuare misure per proteggere la vita e l’incolumità dei famigliari di Julián Carrillo, e del personale di ASMAC, l’organizzazione locale che segue il caso. Si chiede, infine, di garantire il diritto alla terra alla comunità di Coloradas de La Virgen e di garantire che i suoi membri possano godere dalla sicurezza necessaria per continuare il loro lavoro di difesa del territorio senza timore di subire rappresaglie. Ad oggi gli assassini di Julián Carrillo non sono ancora ancora stati assicurati alla legge, ma la lotta del popolo Rarámuri per la difesa del suo territorio, dell’ambiente della biodiversità continua. Difendere chi si occupa della difesa dell’ambiente significa difendere la Terra.

Monica Mazzoleni Membro del Coordinamento America Latina Amnesty International Italia

FONTE Entre balas y olgido ausencia de protección a personas Ph.: Amnistía Internacional

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defensoras del territorio en la Sierra Tarahumara Amnistía Internacional: https://www.amnesty.org/en/documents/amr41/9554/2019/es/

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LE PERSECUZIONI NEI CONFRONTI DEI CURDI di Giusi Muscas e Giorgio Galli

Combattente curda delle YPJ, Unità di Protezione delle Donne, ramo femminile delle Unità di Protezione del Popolo, in prima linea contro lo Stato Islamico. Siria, Novembre 2014 © Bruno Deniel-Laurent

I curdi sono circa 35 milioni. Sparsi su un vasto territorio di montagna, sono il più grande popolo senza nazione e uno dei più discriminati. Non esiste infatti uno Stato del Kurdistan: i curdi vivono fra Turchia, Iran, Iraq e Siria e non sono né arabi, né persiani, né turchi, pur rappresentando la quarta etnia del Medio Oriente. Il territorio su cui vivono è uno dei più ricchi della regione, soprattutto di petrolio e risorse idriche. La lingua curda è una delle lingue iraniche insieme al farsi e al pashto. Si tratta quindi di una lingua indoeuropea, non associabile al turco. È vero tuttavia che per molto tempo gli intellettuali curdi si sono espressi in turco, non lasciando traccia scritta della propria lingua madre. La maggior parte degli studiosi ritiene che i curdi non siano etnicamente indoeuropei e che la loro lingua sia il frutto di un’assimilazione progressiva. Non esiste peraltro un’unica lingua curda, ma tre varietà evolutesi parallelamente: il kurmanji, parlato a settentrione; il sorani, nell’area centrale, e il pehlewani -o curdo meridionale- parlato nell’Iran occidentale. Al tramonto dell’Impero ottomano, Francia e Inghilterra se ne spartirono le spoglie. Il territorio curdo venne smembrato: il trattato di Sèvres, del 1920, che istituiva l’attuale Stato turco, prevedeva la formazione di un Kurdistan indipendente, ma tale ipotesi fu fermamente respinta da Mustafa Kemal, fondatore della moderna Turchia. Il successivo Trattato di Losanna - del 1923 - cancellava ogni riferimento Voci - DICEMBRE 2020 N.2 / A.6

alle rivendicazioni territoriali curde. Sottoposti a una politica di assimilazione forzata dai diversi Stati e in particolare da quello turco, i curdi sono stati deportati, hanno dovuto cambiare i loro nomi e l’uso della loro lingua è stato tollerato solo in privato. La Turchia è arrivata persino a negare la loro esistenza come gruppo etnico, chiamandoli spregiativamente “turchi di montagna”. Ancor più grave il comportamento dell’Iraq di Saddam Hussein, che nell’attacco chimico di Halabja del 1988 arrivò a uccidere 5.000 curdi. Risale al 1978 la creazione in Turchia del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK), fondato da Abdullah Öcalan e dichiarato organizzazione terroristica anche da Stati Uniti e Unione Europea. Con lo scoppio del conflitto siriano, nel 2011, è nata la Federazione del Nord della Siria -non ufficialmente riconosciutanota anche come Rojava o Kurdistan occidentale. Fondamentali nella lotta allo Stato islamico, i curdi del Rojava sono stati considerati terroristi dalla Turchia perché legati al PKK. Nel 2019, con il ritiro del contingente americano dalla regione, il governo di Ankara si è sentito libero di sferrare l’attacco militare noto come Operazione Sorgente di pace, che ha provocato centinaia di vittime e 160.000 sfollati. Dato il legame tra Putin e Ankara, l’unico alleato rimasto ai curdi del Rojava è il dittatore siriano Bashar al-Assad. Di orientamento socialista, il PKK ha annesso grande importanza all’emancipazione femminile, contrariamente a quanto suggeriva la retorica 24


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Curdi iraniani Peshmerga membri del Kurdistan Democratic Party (KDP-Iran) prendono parte alle esercitazioni militari di routine a Koya, 100 km a est di Arbil, la capitale della regione autonoma curda dell’Iraq settentrionale. 9 dicembre 2014 © SAFIN HAMED/AFP via Getty Images

ufficiale turca - che sottolineava il divario tra donne turche, formalmente emancipate, e patriarcato degli arretrati curdi. Le donne del PKK sono state etichettate dal governo  turco come prostitute perché, in una prospettiva patriarcale, non potevano essere considerate terroriste e la loro ribellione doveva essere degradata in termini sessisti. Ma anche i nazionalisti curdi hanno frenato sullo sviluppo di un movimento femminile indipendente. Essi hanno infatti insistito sul mito - poco fondato nella realtà storica - di un’ancestrale autonomia delle donne curde, sminuendo il ruolo dei movimenti di liberazione femminile. Il mito della libertà della donna curda è stato creato soprattutto per ottenere le simpatie dell’Occidente. In realtà, l’azione dello Stato turco e quella dei nazionalisti curdi sono state singolarmente concordi. Per reagire all’assimilazione, infatti, i curdi si sono radicati ancor di più nelle loro tradizioni, portando a un’ulteriore sottomissione delle donne. Quasi completamente analfabete, queste ultime parlavano il curdo come unica lingua ed erano depositarie della memoria storica del popolo. L’insorgere del conflitto è stato la loro occasione per rivendicare libertà dai loro stessi uomini. Il PKK poi ha segnato una significativa rottura con il passato già da quando, con l’imprigionamento di molti indipendentisti uomini a partire dal 1980, le donne curde hanno dovuto imparare a relazionarsi con l’autorità pubblica e la burocrazia, ampliando la loro sfera di azione. Il 1987 ha visto la nascita dell’Unione Patriottica delle Donne del Kurdistan e nel 1993 sono state formate le prime unità militari di sole donne. Il processo è culminato nel 2005 con la fondazione del Consiglio Superiore delle Donne. L’esercito turco si è reso responsabile di violenze sistematiche contro le donne militanti. Tali violenze avevano un ruolo simile a quello degli “stupri di guerra” nella ex Jugoslavia: 25

erano volte infatti a umiliare il nemico ledendo quella che nella cultura patriarcale dominante è considerata una sua proprietà. L’attivismo delle donne curde contro la Stato islamico va visto anche in questo contesto: l’affermazione dell’Islam politico significherebbe infatti la perdita di tutti i progressi compiuti per l’emancipazione femminile nell’arco di oltre un secolo. Va tuttavia sottolineato che, secondo Amnesty International, anche i curdi del Rojava si sono resi responsabili di violazioni dei diritti umani. Un rapporto di fine 2015 riporta infatti che le forze curde del nord della Siria potrebbero aver commesso crimini di guerra, quali trasferimenti forzati e demolizioni di case della popolazione araba locale, saccheggi e distruzioni di villaggi e paesi. Giusi Muscas Membro del Coordinamento Europa Amnesty International Italia

Giorgio Galli Attivista Amnesty International Italia

FONTI Osservatorio Diritti

https://www.osservatoriodiritti.it/2020/01/09/curdi-siria-in-turchia-news-isis-cosa-stasuccedendo-storia/

Nena News

http://nena-news.it/le-radici-della-rivoluzione-delle-donne-curde-i-parte/

Eastjournal

https://www.eastjournal.net/archives/67057

Amnesty International

https://www.amnesty.org/en/documents/mde24/2503/2015/en/ DICEMBRE 2020 N.2 / A.6 - Voci


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LA PERSECUZIONE DEI ROHINGYA IN MYANMAR di Riccardo Noury

Rifugiati Rohingya in coda dopo essere sbarcati da una nave della Marina del Bangladesh sull’isola di Bashar Char. 4 Dicembre 2020 © STRINGER/AFP via Getty Images

La Lega nazionale per la democrazia di Aung San Suu Kyi ha vinto nettamente le elezioni parlamentari (cui non è dato sapere in quanti abbiano preso parte, dato che un terzo del paese è dilaniato da conflitti armati) svoltesi l’8 novembre in Myanmar. Anni fa, questa notizia sarebbe stata accolta con entusiasmo nel paese asiatico e non solo. Oggi che l’ex Nobel per la pace abbia visto confermata la sua leadership - s’intende, sempre sotto l’occhio vigile dei militari - non riscalda i cuori di nessuno. Men che mai, della minoranza rohingya. Per Suu Kyi, infatti, quella minoranza musulmana semplicemente non esiste nei discorsi ufficiali, intrisi di uno sconcertanze negazionismo sulla discriminazione e le sofferenze patite storicamente da un popolo cui è stata persino negato il diritto di cittadinanza: contadini immigrati dal Bangladesh e nulla di più. Questo insieme di negazioni, l’apartheid istituzionale che vige nello stato di Rakhine, il fondamentalismo buddista predicato dal “Venerabile W.” (il monaco predicatore d’odio Wirathu, fatto conoscere al mondo nel 2017 dall’omonimo film di Barbet Schroeder), spiegano le strategie di terra bruciata poste in essere dal 2015 dalle forze armate di Myanmar contro i rohingya. “Terra bruciata” non è una metafora, è la conseguenza reale di operazioni militari dal chiaro intento criminale: costringere i rohingya a fuggire dal paese. devastando, saccheggiando, incendiando, stuprando, uccidendo. L’intenzione è stata quasi conseguita: su poco più di un milione di persone, dal 2017 a più riprese circa 800.000 si sono rifugiate nel vicino Bangladesh. Voci - DICEMBRE 2020 N.2 / A.6

La vita nei campi rifugiati è stremante. I rohingya sono stipati in luoghi sovraffollati e insalubri, con l’imminente minaccia del Covid-19, con scarse possibilità di muoversi e, per i piccoli, di studiare. Per migliaia di essi si prospetta un’esistenza ancora più precaria. Nell’aprile 2020 sono iniziati i primi trasferimenti - di un gruppo di naufraghi salvati dalla Marina militare del Bangladesh - sull’isola di Bashar Char: un pezzettino di terra malamente emersa nel Golfo del Bengala, a costante rischio di inondazione e per questo disabitata e che è stata riconvertita in centro di accoglienza per i rifugiati rohingya. Nel corso degli ultimi due anni, si è parlato più volte di accordi tra Bangladesh e Myanmar per il progressivo rimpatrio dei rifugiati: uno scenario impossibile perché le terre dei rohingya non ci sono più e quei pochi che non sono fuggiti vivono in una sorta di prigione a cielo aperto, con poca libertà di movimento e scarso accesso ai servizi fondamentali, come quelli di salute pubblica. Sui gravi crimini commessi ai danni dei rohingya la giustizia internazionale è al lavoro: la Corte internazionale di giustizia ha ricevuto un anno fa una denuncia dal Gambia (e anche in quel caso, Suu Kyi, intervenuta a difendere l’operato del suo governo, non ha fatto esattamente una bella figura) mentre un’indagine è stata aperta anche dal Tribunale penale internazionale.

Riccardo Noury Portavoce di Amnesty International Italia

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ESSERE MUSSULMANI IN BOSNIA: FRA LAICITÀ E CONFESSIONE di Paolo Pignocchi

Hatidza Mehmedovic, una donna bosniaca musulmana, sopravvissuta alle atrocità di Srebrenica nel 1995, prega davanti al muro commemorativo con i nomi delle vittime dell’offensiva serbo-bosniaca del luglio 1995. Hatidza ha seppellito suo marito e due figli nel cimitero commemorativo di Potocari dopo dieci anni di ricerca dei loro resti tra quelli raccolti da varie fosse comuni nella Bosnia orientale. 26 Maggio 2011 a Potocari vicino a Srebrenica © ELVIS BARUKCIC/AFP via Getty Images

Non è mai stato facile essere mussulmani in Bosnia Erzegovina. Necessari alcuni cenni storici di contesto. Josip Broz, meglio conosciuto come Tito, perseguendo la totale laicità della Jugoslavia adottò con assoluta decisione la negazione dei mussulmani di Bosnia come realtà statale, li confinò alla sola dimensione confessionale. Lo scopo era limitare il fattore religioso del paese. Quindi invitò i mussulmani a definirsi serbi o croati. All’inizio degli anni 70 la situazione cambiò e chi era mussulmano poté definirsi tale affermando con questo la propria identità nazionale, sentiremo parlare poi di “islam politico”. Questo equilibrio fu sempre un fattore critico nella Bosnia multietnica e multireligiosa. Il rapporto fra fede e politica condizionò e condiziona i rapporti fra la Bosnia e l’Europa. Il leader degli anni del conflitto (1992-1995) Alija Izetbegovic era convinto che i nazionalismi avrebbero distrutto la Bosnia multietnica ma fu proprio lui (diversamente dal suo pensiero) a “vendere” la Bosnia, a Dayton. Non possiamo poi non considerare gli influssi esterni che, dopo il conflitto, ebbe la Bosnia, per esempio, 27

dall’Arabia Saudita tanto che ancora oggi si parla di Bosnia come epicentro dell’estremismo islamico. Il 30 settembre 2003, Alija Izetbegovic, ormai in ospedale, rivolse un appello ai propri concittadini. “Il testamento di Alija Izetbegovic” dichiarava che: “La Bosnia sopravviverà se i Serbi resteranno Serbi, i Croati resteranno Croati e i Bosgnacchi resteranno Bosgnacchi, ma se tutti si sentiranno prima di tutto parte di questo Paese. Vorrei esortarvi a escludere la vendetta, ma a reclamare piuttosto verità e giustizia. E che nessuno ricerchi la vendetta, perché la vendetta attira la catena del male.” Ma il genocidio di Srebrenica, con più di diecimila morti mussulmani ragazzi e uomini, fu l’episodio centrale di tutta la storia dei mussulmani in Bosnia. Non averlo impedito può avere molti significati. Dopo 25 anni da quando il mondo girò lo sguardo di fronte al peggiore crimine commesso sul suolo europeo dal 1945, le famiglie delle vittime del genocidio di Srebrenica attendono ancora giustizia. DICEMBRE 2020 N.2 / A.6 - Voci


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Nel giro di alcuni giorni del luglio 1995, in quello che è passato alla storia come il genocidio più breve, vennero uccisi almeno 8372 (secondo i dati ufficiali della Commissione Masowieski) e più verosimilmente secondo i sopravvissuti almeno 10.700 mussulmani bosniaci, per la maggioranza ragazzi e uomini. Il genocidio fu perpetrato da unità dell’Esercito della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina, guidate dal generale Ratko Mladi (condannato in primo grado all’ergastolo dal Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia), in quella che nel 1993 era stata dichiarata dall’ONU “zona protetta” e che si trovava, nel 1995, sotto la tutela di un contingente olandese. La “zona protetta” di Srebrenica fu delimitata dopo un’offensiva serba del 1993 che obbligò le forze bosniache a una demilitarizzazione sotto controllo dell’ONU. Le delimitazioni delle zone protette furono stabilite a tutela e difesa della popolazione civile bosniaca, quasi completamente mussulmana. Il 9 luglio 1995, la “zona protetta” di Srebrenica e il territorio circostante furono circondati dalle truppe dell’Esercito della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina, che l’11 luglio riuscì a entrare definitivamente nella città. Perché Srebrenica? Perché era un’anomalia: un’enclave a maggioranza mussulmana in una parte di Bosnia ormai del tutto “serbizzata“. Per far confermare sul campo i confini della “nuova” Bosnia, che sarebbero stati sanciti negli accordi spartitori di Dayton, occorreva mettere fine a quell’anomalia. Tutti erano d’accordo che Srebrenica dovesse essere sacrificata, la storia (non la giustizia, purtroppo) ci dirà se i leader internazionali dell’epoca erano consapevoli del progetto genocida che si stava per compiere. Dall’11 luglio, i maschi dai 12 ai 77 anni (e, come si vedrà, non solo loro) furono separati dalle donne, dai bambini e dagli anziani, apparentemente per essere interrogati; in realtà vennero uccisi e sepolti in fosse comuni. Circa 15.000 uomini e ragazzi cercarono rifugio in quella che fu chiamata la Marcia della morte fra Srebrenica e Tuzla e solo 6.000 riuscirono a salvarsi, scappando attraverso boschi e villaggi su strade accidentate e sentieri fangosi, percorrendo oltre 100 chilometri. Ancora oggi in memoria di quel percorso molte persone lo percorrono a ritroso per 35 km al giorno, in quella che oggi è chiamata la Marcia della Pace. Anche quest’anno, ci sarà questa marcia con solo 700 persone (rispetto alle migliaia degli anni passati), un numero contingentato per l’emergenza sanitaria in Bosnia. L’orrore delle loro storie è accentuato dal fatto che i massacri si sono svolti solo in pochi giorni. Anche se si riesce a controllare le emozioni, considerando solo Voci - DICEMBRE 2020 N.2 / A.6

le cifre, il risultato è sconcertante: circondare migliaia di uomini, catturarli, ucciderli, bruciarli, scavare fosse per seppellirli - si tratta di uno sforzo mostruoso che può essere portato a termine in alcuni giorni solo se ci sono migliaia e migliaia di perpetratori. Il solo cercare di comprendere la portata del genocidio è insopportabile, ascoltare i particolari delle storie raccontate dai sopravvissuti è straziante. Immaginare migliaia e migliaia di uomini armati che perlustrano i boschi in cerca della loro preda e chiedersi: “Perché?” Nel processo di primo grado nei confronti dell’ex leader militare serbo bosniaco Ratko Mladi, terminato con la condanna all’ergastolo, il Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia ha riconosciuto le responsabilità individuali di Mladi, in quanto comandante dell’esercito serbo bosniaco, giudicandolo colpevole di 10 imputazioni su 11. L’ex generale serbo bosniaco è stato giudicato responsabile, tra l’altro, di genocidio, persecuzione per motivi etnici e religiosi ai danni di mussulmani bosniaci e croato bosniaci, sterminio, deportazione, omicidio, terrore, attacchi illegali contro i civili e cattura di ostaggi. Il processo è stato uno dei più lunghi della storia, a causa della vastità delle accuse, della quantità di prove (compresi 592 testimoni) e dei vari tentativi della difesa di ritardare o far terminare il procedimento giudiziario. Il processo d’appello è stato più volte rinviato per motivi di salute dell’imputato e poi a causa della pandemia da Covid-19. https://www.irmct.org/en/cases/mict-13-56

Sarebbe meglio non fosse piuttosto che sia così come oggi è la nostra Srebrenica Nulla di morto né di vivente in lei può più abitare Sotto un cielo plumbeo l’aria di piombo mai nessuno ha imparato a mettersi nei polmoni Da lei fugge tutto ciò che ha gambe con le quali possa e sappia dove fuggire Da lei fugge tutto anche ciò che da nessuna parte se non sotto la terra nera può fuggire (Le lacrime delle madri di Srebrenica di Abdullah Sidran)

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Umanità violata: storie di popoli perseguitati

Donne musulmane bosniache parenti delle vittime del genocidio di Srebrenica in visita nei luoghi dell’esecuzione di massa del 1995 dei loro cari, raccolgono fiori e cartucce di proiettili in una diga dove centinaia di persone sono state uccise. 13 Luglio 2020 a Petkovac vicino a Srebrenica, in Bosnia ed Erzegovina © DAMIR SAGOLJ via Getty Images

Circa 6.700 corpi umani (anche se la ICMP International Commission of Missing Persons parla di piu’ di 7.000) sono stati riconosciuti, solo 33 nel 2019, sono stati riesumati, identificati e sepolti nel Memoriale di Potocari dove ogni 11 luglio si svolge una dolorosa cerimonia commemorativa: tra questi, 421 bambini, un neonato e una donna di 94 anni. Sono numerose perciò le persone che non hanno ancora neanche una tomba dove piangere i loro cari uccisi nel genocidio. L’Istituto nazionale per le persone scomparse subisce, anno dopo anno, tagli dei finanziamenti e questo accresce le difficoltà di riuscire, col passare del tempo, a dare un nome a poveri resti umani. I leader politici e le leggi della Repubblica serba di Bosnia ed Erzegovina, una delle due entità che gli accordi di Dayton del 1995 hanno creato nella Bosnia post-guerra, non hanno ancora riconosciuto il genocidio di Srebrenica, al quale non vi è alcun riferimento persino nei programmi scolastici. Il processo di riconciliazione non ha fatto passi avanti, anche per un clima islamofobico dilagante, e le divisioni tra i gruppi nazionali all’interno del paese proseguono. Nonostante i processi conclusi dal Tribunale Penale per l’ex Jugoslavia e quelli ancora in corso presso il cosiddetto “Meccanismo residuale internazionale” nei confronti dei principali ideatori del genocidio 29

di Srebrenica, e la condanna di altri 74 imputati, il numero dei casi giudiziari irrisolti è estremamente lungo e, salvo i casi particolarmente gravi, tutte le cause “minori” sono passate ai tribunali locali. Amnesty International è molto preoccupata per l’impunità dilagante che ne è derivata. I processi per crimini di diritto internazionale nei tribunali della Bosnia ed Erzegovina sono molto lenti e condizionati da fattori esterni, tra cui l’assenza di programmi di protezione per i sopravvissuti e i testimoni. In assenza della necessaria volontà politica, la stragrande maggioranza delle persone sospettate di crimini di guerra e crimini contro l’umanità non verrà mai chiamata a rispondere del suo operato. Nel frattempo prende campo il negazionismo: Per questo le “Madri di Srebrenica”, sdegnate e amareggiate, hanno chiesto ufficialmente al Comitato per il Nobel di revocare l’assegnazione del riconoscimento per la letteratura a Peter Handke. A distanza di 25 anni, le donne di Srebrenica continuano a piangere i loro morti. Alcuni resti non si troveranno mai più. Le autorità della Bosnia Erzegovina post-Dayton le hanno lasciate sole.

Paolo Pignocchi Resp. del Coordinamento Europa di Amnesty International Italia

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REPUBBLICA POPOLARE CINESE: LA REPRESSIONE E LE MINORANZE ETNICHE di Paolo Pobbiati

Cittadini mongoli protestano presso il Ministero degli Affari Esteri di Ulaanbaatar, capitale della Mongolia, contro il piano cinese di ridurre l’insegnamento in mongolo nelle scuole della vicina regione cinese della Mongolia Interna il 31 agosto 2020. © BYAMBASUREN BYAMBA-OCHIR/AFP via Getty Images

15 ottobre 2020. La Cina ottiene un seggio nel Consiglio ONU per i Diritti Umani, il massimo organo per la tutela dei diritti nel mondo. Certo si trova in buona compagnia: in questa tornata sono stati eletti dall’Assemblea Generale anche Russia, Cuba, Pakistan e Uzbekhistan. Non certo paladini dei diritti umani, danno più l’idea di un gruppo di volpi messe a fare la guardia a un pollaio. In questo contesto che di fatto delegittima non solo il Consiglio ma tutta la comunità internazionale, non può non colpire l’assoluta indifferenza nei confronti di ciò che stava avvenendo proprio in quelle settimane ad Hong Kong la violenta repressione del movimento filo democratico e la nuova legislazione sulla sicurezza nazionale – e di quanto la mancanza di trasparenza e di una informazione libera in Cina abbia avuto conseguenze tragiche sulla diffusione della pandemia di Covid 19 nel resto del mondo. Ma se queste due questioni sono comunque sotto gli occhi della stampa internazionale, le violazioni dei diritti umani in Cina hanno aspetti forse meno visibili ma molto più diffusi ed altrettanto gravi. Teniamo presente che in Cina risiede il 20% della popolazione mondiale e non è un mistero che l’influenza economica e politica di Pechino sul resto del mondo sia da anni in crescita assieme al suo PIL, e non soltanto in Africa o nel sudest asiatico. Sarebbe un grave errore pensare che tutto ciò non ci riguardi. Voci - DICEMBRE 2020 N.2 / A.6

Protesta a sostegno del popolo uiguro. Londra, Regno Unito l’8 ottobre 2020 © HASAN ESEN/ANADOLU AGENCY via Getty Images

L’immagine della Cina è quella di un paese che, sebbene sulla strada di una modernizzazione e di una crescita economica talmente rapide e impetuose da avere pochi precedenti nella storia, non abbia imboccato anche quella di una crescita dal punto di vista sociale e politico e che non riesce a metabolizzare un aspetto che caratterizza la maggior parte delle società moderne: il dissenso, la cui gestione è demandata a un efficace quanto violento apparato repressivo. Così non soltanto attivisti per la democrazia, difensori dei diritti umani, membri di ONG, avvocati, giornalisti, 30


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Manifestanti cantano durante una manifestazione contro il controverso China Western Poverty Reduction Project, davanti all’edificio della World Bank a Washington, DC. All’evento hanno partecipato centinaia di attivisti per i diritti umani, difensori dell’ambiente e cittadini - 30 agosto 1999 © JOYCE NALTCHAYAN/AFP via Getty Images

blogger, o chiunque si faccia portavoce di idee e concezioni politiche differenti da quella del Partito Comunista, ma anche credenti che si riconoscono in chiese non direttamente gestite dal partito, persone LGBTI e attivisti di minoranze etniche che rivendicano la sopravvivenza della loro lingua e delle loro tradizioni vengono vissuti come una minaccia per lo status quo da reprimere con durezza. Per farlo il governo cinese può contare su un sistema giudiziario asservito al partito e su un complesso legislativo che, non facendo adeguate differenze fra reati violenti e di opinione e prevedendo varie forme di detenzione amministrativa che consentono di mantenere in incommunicado per mesi, rappresenta una vera miniera di imputazioni e di strumenti per colpire qualunque espressione di dissenso o di uscita da canoni imposti dallo stato. Anche se non più sotto i riflettori della comunità internazionale come alcuni anni fa, tutto ciò coinvolge il tema delle minoranze etniche, proprio perché legate alla rivendicazione di un’autonomia che prima ancora di essere politica è di pensiero, di identità culturale, linguistica e religiosa. Tutto questo è identificato come una minaccia alla sicurezza della madrepatria e trattato alla stregua di terrorismo nonostante la Cina, con i suoi 56 gruppi etnici riconosciuti, si consideri un paese multietnico. In realtà è in atto da decenni un processo lento ma inesorabile di erosione dei loro fondamenti culturali, nella malintesa concezione che questi siano un ostacolo al progresso e al raggiungimento del benessere materiale. 31

In questa logica, nell’agosto di quest’anno il governo cinese ha vietato l’uso della lingua mongola sostituendola con il mandarino nelle scuole della Mongolia Interna, regione nel nord del paese. Un ennesimo affronto che ha causato una forte mobilitazione e uno sciopero pacifico di insegnanti, studenti e genitori, represso con durezza dalle forze dell’ordine con arresti e la promessa di taglie per la segnalazione degli ispiratori della protesta. Anche se le forme più esteriori della protesta sono state represse, la tensione continua a rimanere alta nella regione. In Xinjiang, la regione del Turkestan cinese, la repressione delle rivendicazioni linguistiche e culturali si lega a quelle religiose, identificate a priori con il fondamentalismo e il terrorismo di matrice islamica. Dal 2017 è in vigore il “regolamento sulla deradicalizzazione”, che prevede l’internamento di chiunque sia sospettato in centri chiamati con il pittoresco quanto improprio nome di “centri per la formazione professionale”, ma che di fatto non sono altro che campi di detenzione allestiti per l’indottrinamento politico, il lavaggio del cervello e l’assimilazione culturale forzata. In nome della sicurezza nazionale e del contrasto al terrorismo, sono internate in questi luoghi centinaia di migliaia di persone – si stima oltre un milione – tra uiguri, kazaki e appartenenti ad altre minoranze. Oltre ad attivisti, intellettuali o militanti in movimenti autonomisti, altre persone sono detenute perché giudicate “estremiste” o perché la loro barba era DICEMBRE 2020 N.2 / A.6 - Voci


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“abnormemente lunga”, o che si coprivano il capo col velo, digiunavano, pregavano regolarmente, rifiutavano di bere alcolici o possedevano libri sull’Islam o sulla cultura uigura. Tra le personalità detenute ci sono Ilham Tohti, un economista, scrittore e professore uiguro condannato all’ergastolo nel 2014, e Tashpolat Teyip, ex rettore dell’università dello Xinjiang, condannato a morte nel 2017 con una sospensione di due anni; entrambi erano stati accusati di “separatismo”. Nemmeno l’esilio o la fuga volontaria dal paese mette al sicuro chi è entrato nel mirino dell’intelligence cinese. Il governo cinese trova modo di raggiungerli, sottoporli a intimidazioni attraverso le ambasciate, o con minacce telefoniche e azioni sulle app di messaggistica e tenta persino di riportarli indietro facendo pressioni sugli altri governi. Secondo il Congresso Mondiale Uiguro, circa un milione e 600 mila uiguri vivono fuori dalla Cina, per lo più in Kazakistan, Kirghizistan e Uzbekistan o in altri paesi asiatici. In Tibet la situazione non è certo migliore. Sembra, e ci si augura, che sia definitivamente terminata la stagione delle autoimmolazioni quando il 10 marzo 2018, una ricorrenza fondamentale per i tibetani che ricorda l’insurrezione di Lhasa contro l’occupazione cinese del 1959, Tsekho, un giovane tibetano, si è cosparso di benzina e si è dato fuoco. è stato l’ultimo, o almeno l’ultimo di cui si è saputo, di una serie di oltre 150 tibetani, monaci e laici, che dal 2009 ha deciso questa forma di protesta estrema, pacifica e nel contempo terribilmente violenta, un estremo tentativo di accendere insieme ai loro corpi l’attenzione del mondo per una lotta che ha scelto di essere non violenta nei confronti dei loro oppressori, utilizzando come campo di battaglia unicamente il proprio corpo. Come i monaci vietnamiti negli anni ’60, o Ian Palach. Ma che questa volta purtroppo il mondo non ha saputo e voluto vedere, in una vera e propria psicosi che pervade le classi dirigenti anche delle democrazie occidentali per cui “non si può irritare la Cina”. Anche se la repressione in Tibet ha un carattere meno diffuso e palese rispetto a quella del Xinjiang, non è meno dura. L’attenzione delle autorità è da anni concentrata sui monasteri, un tempo centro della vita non solo religiosa ma anche sociale e politica, oggi gestiti da funzionari del partito comunista. I monaci che vi risiedono devono passare non soltanto per l’approvazione dell’autorità politica, ma sono sottoposti a periodiche campagne di “istruzione patriottica”. Se i monaci per poter praticare la loro religione devono esprimere la loro fedeltà al partito, realizzando così un paradosso davvero estremo, altrettanto paradossale è l’episodio del 2019 per cui Voci - DICEMBRE 2020 N.2 / A.6

sono stati puniti 215 funzionari del partito accusati di “credere alla religione”. Il controllo sociale si estende anche ai laici sia nelle città come Lhasa che nelle campagne e, come in Xinjiang è sistematicamente negata qualsiasi forma di libertà di espressione e di assembramento. I nomadi sono forzatamente trasferiti e ghettizzati in squallidi agglomerati urbani ed è negato lo studio della lingua tibetana e il suo utilizzo nell’apprendimento delle materie scolastiche e in diversi casi persino per l’insegnamento religioso. Un caso che sta diventando il simbolo della situazione in Tibet è quello di Rinchen Tsultrim, un monaco di ventinove anni appartenente al monastero di Nangshig nella Contea di Ngaba, impegnato nella difesa del diritto dei tibetani a praticare e preservare la loro lingua, arrestato assieme a due confratelli il 1°agosto 2019 e tradotto nel carcere di Ngaba Bakham in stato di completo isolamento. I monaci arrestati insieme a lui erano stati rilasciati dopo pochi giorni ma di Rinchen non è pervenuta alcuna notizia fino al 23 marzo 2020, quando le autorità cinesi hanno ufficialmente comunicato ai famigliari che il loro congiunto era detenuto in quanto “traditore separatista” senza fornire alcuna informazione sulle sue condizioni di salute e il luogo esatto della sua detenzione. Sembra che il religioso fosse da tempo sotto sorveglianza per alcune conversazioni e scambi di messaggi in chat con alcuni esuli tibetani all’estero. Certamente parlando della Cina l’impressione è che siano stati sprecati decenni preziosi per facilitare il passaggio di questa fetta consistente della popolazione mondiale verso un maggiore rispetto dei diritti umani fondamentali. Oggi, con una Cina sempre più potente e influente a livello internazionale appare tutto molto più difficile. Però è una battaglia che è fondamentale combattere perché dal suo esito dipenderà molto per quello che sarà l’idea di diritti umani che si affermerà nel corso di questo secolo nel mondo. Sarà un pessimo segnale se fossero lasciati soli gli attivisti pro democrazia di Hong Kong, i tibetani, gli uiguri, i medici che chiedono una maggiore trasparenza sulla situazione sanitaria, chi in Cina lavora per una informazione libera e pluralista o chi sostiene le comunità più svantaggiate. Anche se sembra che buona parte del resto del mondo non se ne stia accorgendo.

Paolo Pobbiati Insegnante, ex Presidente di Amnesty International Italia

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CRIMEA: SISTEMATICA PERSECUZIONE DELLA COMUNITA’ DEI TATARI di Giuliano Prandini

Emir-Usein Kuku, difensore dei diritti umani e attivista, con sua moglie Meriem Kuku © Achivio Privato

In tre giorni, dal 18 al 20 maggio 1944, quasi duecento mila Tatari furono deportati dalla Crimea in Asia Centrale, soprattutto in Uzbekistan. Il motivo? Ufficialmente la collaborazione dei Tatari con la Germania Nazista durante la Seconda Guerra Mondiale. Nei carri bestiame che li trasportavano morirono circa ottomila persone, decine di migliaia furono poi le vittime per le dure condizioni dell’esilio. Nel 1956 Khrushchev condannò le politiche di Stalin, consentì il ritorno della maggior parte dei gruppi etnici deportati, ma non dei Tatari. Fu solo con la Perestroika e l’ascesa di Mikhail Gorbachev 1 al potere che, alla fine degli anni ottanta, duecentosessanta mila Tatari poterono ritornare in Crimea. L’esilio era durato 45 anni. Dopo la dissoluzione dell’URSS la Crimea, che Khrushchev nel 1954 aveva incluso nella Repubblica Sovietica Socialista dell’Ucraina, rimase a far parte dell’Ucraina. Nel marzo 2014 l’annessione della Crimea da parte della Federazione Russa, dichiarata illegale dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, portò a un ulteriore deterioramento delle condizioni dei Tatari. Ogni forma di dissenso fu perseguita. Il

Reshat Ametov, attivo nei social media in difesa della comunità Tatara, fu rapito il 3 marzo 2014. Il suo corpo con segni di tortura fu ritrovato il 15 marzo 2014. / Ph.: khpg.org

Mejlis, il principale organismo rappresentativo della comunità, fu sciolto per “estremismo”, i due suoi ultimi presidenti Mustafa Dzhemiliev e Refat Chubarov furono espulsi dal paese, altri leader, Ilmi Umerov e Akhtem Chiygoz, furono arrestati ed espulsi.

1  -  https://en.wikipedia.org/wiki/Mikhail_Gorbachev

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Ervin Ibraginov, impegnato nella difesa dei diritti dei Tatari e della cultura locale, scomparso Il 24 maggio 2016 / Ph: web-facebook

Esponenti Tatari vennero uccisi, altri scomparvero forzatamente. Reshat Ametov, attivo nei social media in difesa della comunità Tatara, fu rapito il 3 marzo 2014. Il suo corpo con segni di tortura fu ritrovato il 15 marzo 2014. Il 24 maggio 2016 Ervin Ibraginov, esponente Tataro impegnato nella difesa dei diritti dei Tartari e della cultura locale, risultò scomparso. Più recentemente, il 12 novembre 2019, Emir-Usein Kuku e cinque coimputati sono stati condannati, a pene da 7 a 19 anni per aver organizzato “crimini terroristici”. Emir-Usein Kuku è un difensore dei diritti umani e un prominente membro della comunità Tatara. Egli è stato condannato dopo un processo iniquo semplicemente per aver difeso i diritti della comunità Tatara in Crimea. È stato accusato di far parte di Hizb ut-Tahrir, un movimento Islamista al bando in Russia per “terrorismo”, ma non in Ucraina. Non risulta comunque che egli abbia mai avuto a che fare con

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L’attivista Tataro Rafis Kashapov, arrestato nel dicembre 2014 e condannato a tre anni di carcere nel settembre 2015 per una serie di brevi post su un popolare social network in lingua russa. /Ph.: web

Hizb ut-Tahrir e nega qualsiasi coinvolgimento con questa organizzazione. Le misure repressive contro i Tatari colpiscono anche nella Repubblica di Tatarstan (Federazione Russa). L’attivista Tataro Rafis Kashapov fu condannato a tre anni di detenzione il 15 settembre 2015 per la sua denuncia della partecipazione Russa nel conflitto in Ucraina orientale e per le discriminazioni nei confronti dei Tatari in Crimea. Le infondate accuse di “organizzazione estremista” nei confronti del Mejlis devono essere ritirate, deve cessare la persecuzione degli attivisti Tatari che si esprimono pacificamente contro l’annessione della Crimea, devono essere rispettati i diritti di riunione, associazione ed espressione.

Giuliano Prandini Membro del Coordinamento Europa Amnesty International Italia

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MEDZ YEGHERN, “IL GRANDE CRIMINE” LO STERMINIO DEGLI ARMENI di Giuseppe Provenza

Immagine tratta dalla storia dell’ambasciatore Morgenthau, scritta da Henry Morgenthau, Sr. e pubblicata nel 1918, p.314 - Didascalia dal libro: “THOSE WHO FELL BY THE WAYSIDE” (QUELLI CHE CADONO PER LA STRADA). “Scene come questa erano comuni in tutte le province armene, nei mesi primaverili ed estivi del 1915. La morte nelle sue varie forme - massacro, fame, esaurimento - distrusse la maggior parte del profughi. La politica turca era quella dello sterminio con il pretesto della deportazione”.

Quando l’Impero Ottomano entrò in guerra, nell’ottobre del 1914, era guidato, fin dal 1908, dal “Movimento dei Giovani Turchi”. Il Movimento, nato nell’ambito dell’esercito proclamando obiettivi democratici, aveva ottenuto il ripristino della costituzione, concessa da tempo e mai applicata, e la concessione della libertà di stampa. Tuttavia il prevalere, nell’ambito dello stesso movimento, di frange ultranazionaliste, aveva portato l’Impero ad entrare in guerra a fianco di Germania e Austria-Ungheria e contro, in primo luogo, l’Impero Zarista. La fazione più estremista del partito, sotto la spinta della guerra, aveva sostenuto l’esigenza di rafforzare l’unità nazionale mediante l’omogeneizzazione culturale, religiosa e linguistica dell’intera popolazione, composta in realtà da tante etnie. Fra queste, particolarmente numerosa era la comunità armena, di religione cristiana ortodossa, nei confronti della quale il regime sollevò il sospetto di collaborazione con la Russia, con cui confinavano i territori a prevalenza armena, descrivendo gli armeni 35

come dei traditori che costituivano delle vere e proprie minacce per l’Impero Ottomano. In realtà gli armeni erano visti dal regime come il principale ostacolo alla creazione di uno stato turco omogeneo con unica lingua ed unica religione, occupando una vasta area ad oriente dell’Impero, parlando una lingua non turca e professando una religione diversa dall’Islam. Contro il popolo armeno, quindi, si concentrò l’azione del movimento al potere al fine del conseguimento dell’obiettivo prefissato. L’accusa del tradimento, fra l’altro, forniva una giustificazione alla sconfitta subita nel gennaio del 1915 dall’esercito Ottomano da parte di quello russo, in cui si disse che militassero migliaia di armeni “traditori”. Era la notte del 24 aprile 1915 quando i più importanti personaggi di etnia armena della città di Costantinopoli, oggi Istanbul, furono arrestati e deportati. In relazione a ciò la data del 24 aprile resta, per gli armeni, il giorno in cui si ricorda il genocidio. In quei giorni le vittime della retata furono parecchie centinaia e molti di essi furono barbaramente uccisi nei giorni seguenti nelle carceri dell’Impero. DICEMBRE 2020 N.2 / A.6 - Voci


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Ma quello fu, in realtà, soltanto l’inizio di un periodo di deportazione di massa della popolazione armena, che si prolungò anche dopo la sconfitta dell’Impero Ottomano nella guerra mondiale. Da Costantinopoli la persecuzione degli armeni si spostò nei territori a prevalenza armena. Iniziarono così i sequestri dei loro beni, riassegnati a turchi, e la deportazione di milioni di persone, uomini, donne, bambini, anziani, verso l’odierna Siria, allora parte dell’impero Ottomano, in un viaggio a piedi, durante il quale morì la gran parte dei deportati per la fame, la sete, le malattie, lo sfinimento. Scriveva il 7 ottobre 1915 il New York Times, riferendo fatti denunciati dal console italiano: “La procedura abituale era quella di radunare l’intera popolazione di una città designata. Una parte della popolazione fu gettata in prigione e il resto fu portato fuori città e nei sobborghi gli uomini furono separati dalle donne e dai bambini. Gli uomini venivano poi portati in un posto conveniente, fucilati e attaccati con la baionetta, le donne e i bambini venivano quindi messi sotto un convoglio di soldati del tipo inferiore e inviati in una destinazione lontana. Sono stati guidati dai soldati giorno dopo giorno. Molti caddero per strada e molti morirono di fame, perché non venivano loro fornite provviste. Furono derubati di tutto ciò che possedevano, e in molti casi le donne furono spogliate e costrette a continuare la marcia in quelle condizioni. Molte delle donne impazzirono e gettarono via i loro figli. Il percorso della carovana era segnato da una fila di cadaveri. Comparativamente poche persone giunsero a destinazione.” Secondo rapporti diplomatici statunitensi nel luglio del 1915 migliaia di soldati armeni furono prima disarmati e poi, condotti presso delle cave, furono fucilati in massa dai soldati turchi ed abbandonati nelle cave. In seguito a questi massacri da parte di alcuni armeni vennero costituiti dei centri di resistenza che il più delle volte si conclusero con nuovi massacri. Una testimonianza agghiacciante della spietatezza del governo nei confronti degli armeni è fornita dal dispaccio inviato dal ministro Taalat Pascià al governatore turco di Aleppo il 15 settembre 1915: “Siete già stato informato del fatto che il governo, su ordine del partito (Unione e Progresso), ha deciso di sterminare l’intera popolazione armena… Occorre la vostra massima collaborazione… Non sia usata pietà per nessuno, tanto meno per le donne, i bambini, gli invalidi… Per quanto tragici possano sembrare i metodi di questo sterminio, occorre agire senza alcuno scrupolo di coscienza e con la massima celerità ed Voci - DICEMBRE 2020 N.2 / A.6

efficienza. Coloro i quali si oppongono a questo ordine non possono continuare a rimanere negli organici dell’amministrazione dell’impero”. I numeri di questo genocidio sono molto dibattuti. Tuttavia la cifra più comunemente accettata è di 1.500.000 morti. Finita la guerra, venne intentato a Costantinopoli un processo ad alcuni membri del partito dei giovani turchi per l’eccidio degli armeni (negando comunque i termini di eccidio e genocidio) più per addossare a questi le responsabilità che per reali scopi di giustizia. Il 10 agosto 1920 i paesi vincitori della prima guerra mondiale sottoscrissero il trattato di Sèvres per la definizione del nuovo assetto territoriale dell’Impero Ottomano, guidato adesso dal Primo Ministro Kemal Atatürk, futuro Presidente, dal 1923, della Repubblica Turca, dopo la deposizione del Sultano. All’Armenia fu assegnata gran parte dell’ex Caucaso ottomano, incluse regioni (ad esempio la provincia di Trebisonda, importante porto sul Mar Nero) nelle quali ormai non c’era una presenza significativa di popolazione armena, dopo i massacri e le deportazioni cui era stata sottoposta. Il Trattato fu, tuttavia, ignorato dal governo kemalista che non ne accettava le condizioni, sicché svanì la nascita di un’Armenia indipendente comprendente sia i territori russi che quelli turchi. Si  era intanto costituita nel 1917 la Repubblica Federale  Democratica  Transcaucasica  che comprendeva gli attuali stati dell’Azerbaijan, della Georgia e dell’Armenia, per poi divenire nel 1922 Repubblica Socialista Federativa Sovietica Transcaucasica. Nel 1936 nacque la Repubblica Socialista Sovietica Armena come repubblica a sé stante facente parte dell’Unione Sovietica, occupando soltanto una piccola porzione di quello che per secoli era stato il territorio armeno e di ciò che il trattato di Sèvres aveva assegnato al suo popolo. L’Armenia è quindi divenuta indipendente nel 1991 in seguito alla dissoluzione dell’Unione Sovietica. Quella recente del popolo armeno è stata quindi in un primo tempo la storia di un genocidio, ma è diventata, successivamente, la storia di un popolo abbandonato dal resto del mondo ai voleri dei più forti. Giuseppe Provenza Membro del Comitato Direttivo di Amnesty International Italia Membro del Gruppo Amnesty Italia 233

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I ROM, UNA LUNGA STORIA DI DISCRIMINAZIONE di Annalisa Zanuttini

Foto: Museo statale di Auschwitz-Birkenau / auschwitz.org - Una delle poche fotografie rimanenti di una prigioniera di un campo “zingaro” (ZigeunerLager).

Un pregiudizio antico Sono molto antiche le origini di quelle popolazioni che oggi vanno sotto il nome di Rom, includendo i gruppi che costituiscono la minoranza romani (gli altri gruppi sono sinti, manouche, romanichals, kale e caminanti). Ognuno può essere diviso in comunità più piccole con caratteristiche etniche, linguistiche e socioculturali differenti. Comunque, tutti loro condividono un linguaggio comune (il romaní o romanes), l’origine e la storia. Ma al di là delle ragioni che hanno spinto questo popolo ad abbandonare le proprie terre per iniziare a spingersi verso l’Europa balcanica e poi verso Occidente, è fondamentale capire che molto presto, a partire dal XVI secolo, viene loro imposto il marchio di “vaganti” con tutte le accezioni negative e persecutorie che tale stigma comportava. Inoltre, il pregiudizio antico che li relegava in una società minore con una sottocultura ha comportato che la loro storia sia diventata invisibile sia nei documenti che nelle cronache dell’Occidente. Secondo vari studiosi il loro luogo d’origine è la zona nord-occidentale dell’India, dalla quale sono emigrati nel IX e X secolo, probabilmente per sfuggire all’invasione dei mongoli. La loro migrazione verso l’Europa li ha portati in Persia, Turchia, Grecia ed Egitto; infine sono entrati nell’Europa occidentale intorno ai secoli XIV e XV.

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L’antico viaggio dei Romanì dall’India verso l’Europa.

Nel 1300 le prime bande di “zingari “che si affacciavano nelle terre occidentali e anche in Italia si mescolavano alle folle di pellegrini e viandanti in movimento per sfuggire la fame o per raggiungere la Terra Santa o altri luoghi di pellegrinaggio. Tra i pochi documenti arrivati sino a noi si menziona la “Grande Banda” guidata da un certo Andrea che nel 1440 si proclamava “duca di Egitto” e sosteneva di essere in viaggio per motivi di penitenza, per espiare il peccato di avere rinnegato il Dio cristiano sotto le minacce degli infedeli e per questa ragione si recava a Roma, sperando di ottenere dal pontefice Martino V una lettera salvacondotto che gli permettesse di muoversi liberamente. DICEMBRE 2020 N.2 / A.6 - Voci


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Molto presto la percezione di questo popolo, definito come il “popolo maledetto” in quanto discendente, secondo la leggenda, dal figlio di Cam maledetto da Noè, si identifica non più con quella del pellegrino medioevale, protetto perché in viaggio per fede, ma con quella del vagabondo, che suscita paura in quanto diverso, potenziale ladro e delinquente, disturbatore dell’ordine pubblico, non assimilabile alla società dominante.

In una simile visione socio politica l’oscurantismo e il pregiudizio non avevano più ragione di esistere e gli uomini in teoria erano tutti uguali.

Da metà del 1400 in poi la maggior parte dei paesi europei ha attuato politiche discriminatorie e di persecuzione nei confronti degli “zingari”: bandi di espulsione e divieto di sosta nei vari territori, pena la forca per gli uomini e la fustigazione per donne e bambini, alle donne poi era vietato leggere la mano e predire il futuro, considerate pratiche demoniache.

Alle persecuzioni spesso cruente dei secoli precedenti si sostituiva una politica di controllo e di normalizzazione, che prevedeva la rinuncia da parte delle comunità al loro stile di vita e spesso anche alla loro lingua.

Lo Stato Pontificio emise bandi particolarmente severi e giunse all’arruolamento forzato di molti “zingari” dimoranti a Roma e nei dintorni per destinarli alle galee pontificie in vista della guerra contro i Turchi, che poi si concluse con la battaglia di Lepanto del 1571. Nonostante la paura del diverso e la criminalizzazione da parte delle autorità pubbliche, i rapporti degli “zingari” con le popolazioni locali non sono stati sempre improntati alla diffidenza e all’intolleranza, infatti spesso gli “zingari” riparavano e fabbricavano oggetti, offrivano possibilità di scambi, di commercio e di spettacoli a comunità isolate. Un aspetto particolare di questa convivenza si ha nel Meridione italiano dove le comunità “zingare” vivono, anche se appartate, accanto alle popolazioni locali, entrando a vario titolo nella religiosità popolare: la figura della zingara che ha particolari mansioni in certi riti è un esempio di questa coabitazione. Il fascino esercitato dagli” zingari” sulle persone semplici, con quelle che venivano considerate pratiche magiche o divinatorie, infastidiva non solo le pubbliche autorità, ma in modo particolare la Chiesa cattolica, che dopo il Concilio di Trento, convocato nel 1543 per arginare la Riforma protestante di Lutero, intervenne profondamente nella vita della società civile per preservare la fede cattolica. La lotta contro l’eresia colpì non solo pensatori, scienziati, eretici, ma anche gli usi e le tradizioni degli “zingari” considerati non conformi alla vita cristiana.

Il pensiero illuminista Nel XVIII secolo l’avvento dell’illuminismo vede nello spirito razionalistico e nella fede nel progresso i presupposti per migliorare la società sotto la guida illuminata della monarchia. Voci - DICEMBRE 2020 N.2 / A.6

In realtà nel pensiero dei regnanti sull’impero degli Asburgo ovvero di Maria Teresa d’Austria, di suo figlio Giuseppe II e del re di Spagna Carlo III lo stile di vita delle comunità “zingare” era un impedimento alla loro perfetta assimilazione e integrazione nella società.

Per i gruppi che si opponevano era prevista la sottrazione dei figli piccoli: che venissero trasferiti in collegi per farne dei buoni cristiani.

Il positivismo Nella seconda metà dell’Ottocento si afferma il positivismo, ovvero la scienza basta sulla osservazione dei dati e dei fatti, si sviluppa anche l’antropologia che prevede lo studio della specie umana basato sulle diverse caratteristiche biologiche, sociali e culturali. Anche questa volta l’antico pregiudizio sugli “zingari” sembra prevalere nel pensiero degli studiosi: Cesare Lombroso nella sua opera principale del 1879 “L’uomo delinquente” inquadra gli zingari in una specifica razza di delinquenti con tutti le principali perversioni. Dopo la fine della Prima guerra mondiale con il crollo dell’Impero asburgico e con la divisione dei suoi territori si assiste ancora a un grande movimento delle comunità, cominciando da quelle che nel 1855 si erano liberate dalla schiavitù in Romania. In ogni caso gli spostamenti dei vari gruppi continuano a costituire per le autorità di pubblica sicurezza un problema di polizia perché si pensa gli “zingari” siano oziosi e vagabondi, che vivono come parassiti sulle spalle della società e questa è la peggiore delle colpe.

Il fascismo e il nazismo La dittatura fascista in Italia potenzia l’atteggiamento precedente, aumentando il rigido controllo dell’ordine pubblico, la marginalizzazione dei soggetti, potenzialmente molesti, il disprezzo per le razze considerate inferiori. Nella Germania nazista, ossessionata dall’idea della purificazione della razza nordica, prese corpo l’orribile disegno di distruzione delle cosiddette razze inferiori come gli Ebrei o i Rom e i Sinti che venivano

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Umanità violata: storie di popoli perseguitati

identificati come elementi asociali o corruttori del sangue tedesco. Molto si è scritto sulla Shoah, mentre ancora non è stato studiato abbastanza lo sterminio di Rom, Sinti e Camminanti. Nella loro lingua, i Rom lo chiamano Porajomos, che significa “Grande Divoramento”, oppure Samudaripen, che significa “tutti morti”. Non ci sono stime esatte del numero di Rom, Sinti e Caminanti sterminati: 250mila, 500mila, 1 milione? Non lo sapremo mai. Il Porajmos non fu improvviso, né inaspettato, come non lo fu la Shoah. Come gli Ebrei, anche i Rom, i Sinti e i Caminanti, unificati nel termine dispregiativo “zingari” erano da secoli percepiti come una sorta di corpo “estraneo” e “diverso” dal resto degli europei, additati cinicamente da molti leader politici e religiosi come la causa dei mali delle comunità nelle quali si trovavano a passare. Solo nel 2000 la Chiesa Cattolica ha chiesto ufficialmente perdono per aver taciuto sulle persecuzioni dei Rom. Anche nel più grande Campo di annientamento nazista, Auschwitz, gli “zingari” erano separati dagli altri deportati. A Birkenau erano rinchiusi, in un settore specifico, il ZigeunerLager. Nella notte del 2 Agosto 1944 i triangoli marrone (questo era il colore assegnato loro dai Tedeschi, erano i “brauner”) si ribellarono al progetto nazista di ucciderli. Combattendo quasi a mani nude, uccisero alcuni aguzzini ma, alla fine, furono tutti sterminati: 5 mila, tra uomini, donne e bambini. Dei 23 mila “zingari” deportati ad Auschwitz, 20 mila furono assassinati e quella data, il 2 Agosto del 1944, si ricorda come la data simbolo del Porajmos.

Oggi La minoranza romaní comprende circa 12 milioni di persone che vivono in tutto il mondo (otto milioni delle quali in Europa). Condividono una storia comune di persecuzione e discriminazione che è alla base della loro migrazione e dei continui spostamenti. A partire dagli anni Sessanta, nuove ondate migratorie provenienti dalla Jugoslavia sono arrivate nei vari Paesi europei, a causa della crisi economica. Poi la guerra nella ex Jugoslavia ha moltiplicato i flussi dei profughi, che fuggivano, spesso senza documenti, perché i loro paesi di provenienza si sono sfatti nel caos del conflitto. I Rom sono la minoranza etnica più povera e discriminata d’Europa, oggetto di pregiudizi, violenze e intolleranze.

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Vedono violati continuamente i principali diritti umani di cui devono godere tutti. Il diritto a un’abitazione adeguata e a non essere sgomberati, il diritto a ricevere cure mediche, il diritto per i ragazzi e le ragazze ad andare a scuola, il diritto per gli adulti a un lavoro dignitoso. Non vi sono dati certi su quanti ROM vivano in Italia. Il Consiglio di Europa parla di circa 140 mila persone pari allo 0,23% della popolazione; studi più recenti dicono che circa 26 mila Rom vivono in campi informali o in alloggi inadeguati e i bambini spesso soffrono di quella che viene definita la “patologia del getto”: malnutrizione, scabbia, tubercolosi, ansia, depressione. Da molto tempo ormai Amnesty International è in prima fila insieme alle altre ONG che si occupano della difesa dei Rom, per la protezione dei loro diritti economici e sociali tra cui quello all’alloggio. La campagna “Io Pretendo Dignità” (2009-2014) ha contribuito all’affermazione del diritto all’alloggio e alla protezione dagli sgomberi forzati delle minoranze più fragili compresi i Rom. Anche la campagna “Per Un’Europa Senza Discriminazione” (2010-2016) ha combattuto contro pratiche discriminatorie e per l’applicazione del diritto dei Rom a un alloggio adeguato in vari Paesi: Italia, Francia, Romania, Bulgaria e Serbia. In questo ultimo decennio Amnesty International ha inviato missioni di ricerca nei vari Paesi dove i diritti dei Rom sono maggiormente violati: Italia, Francia, Romania, Repubblica Ceca, Ungheria e Bulgaria. Attraverso rapporti accurati sono state denunciate e documentate tutte le violazioni e si è richiesto ai vari governi e alla Comunità europea di intervenire per abrogare leggi, pratiche e abitudini che consentono queste violazioni, nel convincimento che solo eliminando l’impunità vi potranno essere cambiamenti sostanziali nella vita delle comunità Rom.

Annalisa Zanuttini Membro del Coordinamento Europa Amnesty International Italia

IN EVIDENZA DUE PESI DUE MISURE - Le Politiche abitative dell'Italia discriminano i ROM https://www.amnesty.org/download/Documents/12000/eur300082013it.pdf

LASCIATI FUORI - Violazioni dei diritti umani dei ROM in Europa

https://issuu.com/amnestyinternational_italia/docs/lasciati_fuori-_violazioni_dei_diritti_ dei_rom_in_

DICEMBRE 2020 N.2 / A.6 - Voci


«Io ho un sogno, che un giorno questa nazione si leverà in piedi e vivrà fino in fondo il senso delle sue condizioni: noi riteniamo ovvia questa verità, che tutti gli uomini sono creati uguali.» (Martin Luter King – Washington – 28 agosto 1963) www.amnestysicilia.org

VOCI

DIAMO VOCE AI DIRITTI UMANI i fatti e le idee


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