7 minute read

L’ultimo genocidio degli Yazidi

L’ULTIMO GENOCIDIO DEGLI YAZIDI

di Alessandro Luparello

Advertisement

Iraq del nord. Metà estate. Domenica. Forse se ne percepivano i prodromi, forse. Nero attorno. Come una bandiera diventata simbolo di morte e vessillo di propaganda, come i villaggi incendiati al passaggio dei miliziani jihadisti, come i veli integrali imposti alle donne, come la terra gettata sulle fosse comuni, come l’orrore dei proclami e delle esecuzioni.

Alle prime ore del 3 agosto 2014 la furia devastatrice di Daesh si è abbattuta con estrema crudeltà, ferocia e potenza (ma in modo tutt’altro che scoordinato e casuale) sui villaggi della piana di Nineveh. L’obiettivo non era quello di rafforzare il controllo territoriale pseudo-statuale del c.d. Califfato islamico (proclamato da Al Baghdadi il 29 giugno) ma di colpire una specifica minoranza curda, pacifica e molto chiusa che abitava (e abita) quell’area: gli Yazidi.

Daesh, che pure ha perseguitato tutte le minoranze (mandei, cristiani siriaci, sciiti, turcomanni), contro gli yazidi ha metodicamente pianificato ed eseguito con intransigenza e lucidità una vera azione genocida. Unico obiettivo: sradicarli, eliminarne le fondamenta culturali, distruggerne i templi, incendiarne case e campi, avvelenarne i pozzi. Degli yazidi non sarebbe dovuto rimanere nulla, nulla che sarebbe potuto tornare a vivere lì in futuro. Genocidio, appunto (riconosciuto come tale dall’ONU il 16 giugno 2016: “They came to destroy: ISIS crimes against the Yazidis”).

Gli Ēzidī (in curdo) / Yazīdī (in arabo) sono una comunità religiosa di etnia e lingua curde, molto esigua nei numeri (circa 3-500’000 persone) e molto localizzata geograficamente (principalmente nel nord dell’Iraq e, in minima parte, in Siria e nel Caucaso). Il loro tratto distintivo è rappresentato sostanzialmente dalla religione professata; questa ha origini antichissime (sebbene se ne rilevino diverse stratificate contaminazioni da islam, ebraismo e cristianesimo) ed è molto identitaria: non sono ammessi matrimoni con persone di altre religioni e non sono ammesse, né in un senso né nell’altro, conversioni; ciò indubbiamente ha contribuito e contribuisce in modo significativo alla chiusura e all’isolamento della comunità e all’esoterismo che ne circonda la dottrina (tramandata peraltro prevalentemente in forma orale).

Gli yazidi sono monoteisti: credono in un unico Dio che ha creato tutto e tutti, inclusi il bene e il male, e che si manifesta attraverso sette angeli, il principale dei quali -Melek Ṭāʾūs- ha le sembianze di un pavone. La figura di Melek Ṭāʾūs (angelo che ha vissuto la ribellione e il successivo pentimento) è stata -erroneamente e in modo controverso- associata a Iblīs o Shaytan (diavolo dell’Islam, che corrompe l’animo umano allontanandolo dall’unico Dio, Allah); tale (strumentale) interpretazione, ha portato gli yazidi ad essere marchiati ingiustamente come “adoratori del diavolo” e ha quindi -di fatto- fornito un alibi per giustificare repressioni e violente persecuzioni. Anche, ultima di una lunga serie, quella di Daesh.

Il piano genocida di Daesh appare nitido e quasi banale nella sua crudeltà:

Ÿ- uomini e ragazzi, kuffar (miscredenti), giustiziati sommariamente sul posto;

- bambini rapiti per farne, attraverso violenze e indottrinamento, combattenti;

- donne e ragazze, sabaya (schiave di guerra), usate come schiave sessuali per i miliziani.

E così il 3 agosto 2014, coi miliziani arrivati da Mosul e Tal Afar nei villaggi della minoranza yazida, è iniziato l’assedio. Molti sono stati travolti, molti altri sono riusciti a fuggire, a piedi, in un esodo drammatico sul monte Sinjar che ha lasciato un enorme numero di morti (soprattutto per fame e sete) lungo il percorso.

Gli uomini, come racconta un sopravvissuto all’attacco del 3 agosto al villaggio di Tel Qasab, sono stati subito uccisi:

Hanno separato gli uomini dalle donne e i bambini. Ci hanno fatto camminare, poi ci hanno chiesto di convertirci ma nessuno ha voluto. Siamo rimasti in silenzio. Allora ci hanno fatto voltare di schiena e hanno sparato. Se ne sono andati ma io ero ancora vivo

(Amr Muhammar Abu)

I ragazzini invece sono stati rapiti tutti, ad eccezione di quelli troppo piccoli, e sottoposti a conversioni forzate, indottrinamento, maltrattamenti, asfissiante propaganda e addestramento militare. Lo scopo era da un lato cancellarne le radici yazide (finanche i nomi e la lingua), distorcerne ricordi, tradizioni e affetti fino ad annullarne l’identità, dall’altro farne combattenti. E combattenti (suicidi) del Califfato, quei bambini lo sono diventati davvero.

Molte volte, quando ci troviamo di fronte l’Isis, vediamo i bambini che si lanciano verso di noi. Gli hanno fatto il lavaggio del cervello. Non sappiamo mai se, quando si avvicinano, sono in fuga o sono stati mandati per uccidere. Molti nostri combattenti sono morti così. Si tratta di una decisione incredibilmente difficile, non sai cosa fare, perché se non li uccidi saranno loro a uccidere te

(Aziz Abdullah Hadur, comandante Peshmerga)

Quando ci addestravano, ci dicevano che l’ISIS era la nostra unica famiglia, che i nostri genitori erano degli infedeli e che il nostro primo compito sarebbe stato quello di tornare per ucciderli. Non ci era permesso piangere, ma io pensavo a mia madre, a quanto poteva essere preoccupata per me e cercavo di piangere in silenzio

(Nasrin, 12 anni)

Per le donne e le ragazze yazide il piano di Daesh prevedeva altro:

Daesh credeva di poter distruggere l’identità yazida mettendo le mani e rivendicando i corpi di donne e ragazze

(Lynn Zovighian, attivista)

E quindi, caricate sui pullman e portate a Raqqa o a Mosul, infedeli e -come tali- disumanizzate, venivano vendute come sabaya per diventare schiave sessuali. Privilegio e diritto di combattenti, attrazione per i foreign fighters. Il mercato, con tanto di prezzo, era allestito online, siti web e canali Telegram. Vendute, abusate, violentate e poi rivendute. Ancora e ancora.

Seveh ha 17 anni ed è stata venduta sette volte. Ha tentato il suicido tre volte, l’ha salvata l’altra prigioniera che era con lei. Sua sorella di 11 anni si è uccisa dandosi fuoco nel campo profughi in cui vivono con la famiglia, a Zakho, nel Kurdistan iracheno. Le storie sotto le tende bianche dell’Onu cambiano solo per l’atrocità dei particolari

(Sara Lucaroni, giornalista, L’Espresso)

Tra le ragazze, quel 3 agosto, c’era anche Nadia Murad Basee, ventunenne, studentessa di Kocho, col sogno di diventare estetista. La sua voce, straordinariamente forte, è un fiume placido ma potente e inarrestabile, una candela nel buio. Ci parla della sua storia ma travalica la sua persona, diventa voce del suo popolo, delle donne abusate, dei rifugiati. Nadia è una persona appassionata, decisa e resiliente, che ha deciso di vincere paure e stereotipi e trasformare il proprio dolore in lotta per la giustizia. Esile ma straordinariamente forte, ha scelto di raccontare i propri traumi (rivivendoli) decine di volte pur di far conoscere all’ONU, ai potenti della Terra, a tutti, la tragedia che si stava consumando nel silenzio e nell’inerzia del mondo.

A Nadia Murad è stato assegnato nel 2018 il premio Nobel per la Pace ma la sua lotta non è ancora finita: negli anni Daesh è stato (militarmente ma non culturalmente) sconfitto eppure il progetto genocida di sterminio della comunità yazida continua. è necessario e urgente salvare i rapiti, proteggere il reinsediamento dei profughi nella propria terra natia, accogliere i bambini.

Tantissimi yazidi vivono ancora lontani: alcuni in Europa (specie in Germania), molti nei campi profughi UNHCR (tra cui, per molti versi terribile, quello siriano di al-Hol), troppi ancora rapiti, dispersi.

Quasi 3000 Yazidi sono ancora dispersi dal genocidio. Abbiamo bisogno che la comunità internazionale formi una coalizione, sostenuta dalle Nazioni Unite, per cercare i nostri dispersi

(Salwa, attivista e sopravvissuta)

Nella ricerca “Legacy of Terror - The plight of Yezidi child survivors of ISIS” Amnesty International (1) parla di circa 2000 bambini yazidi (che spesso non ricordano la propria lingua o il volto dei genitori) tornati alle loro famiglie dopo aver subito rapimenti, torture, stupri e altre atroci violenze, compreso l’obbligo di prendere parte ai combattimenti. Hanno ancora ferite, malattie e menomazioni fisiche. Soffrono di stress posttraumatico, ansia e depressione, manifestati anche attraverso aggressività, flashback e incubi. Peggiore ancora è la sorte per quei bambini frutto della violenza dei miliziani.

Sopravvissuti a crimini orribili, questi bambini ora affrontano l’eredità del terrore. La loro salute mentale e fisica dev’essere una priorità negli anni a venire se si vuole che essi si reintegrino del tutto nelle loro famiglie e nelle loro comunità

(Matt Wells, Amnesty)

Anche il cruciale aspetto della giustizia è stato consapevolmente eluso (pressoché universalmente), eppure senza verità e giustizia è di fatto impossibile ricostruire davvero -e su nuove basi di convivenza- la vita di una comunità. Secondo il diritto umanitario, i membri di Daesh (inclusi i combattenti stranieri) possono essere ritenuti responsabili di crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio, ma

molti governi non vogliono processare chi ha compiuto questi crimini. E le prove sono schiaccianti

(Nadia Murad)

Molte persone hanno visto il genocidio del mio popolo dai propri salotti. Guardavano con orrore e incredulità mentre la mia comunità era soggetta a violenze indicibili. E quando un conflitto o una tragedia scompare dalle notizie in prima pagina, si ritiene che non sia più un problema. Il genocidio è ancora in corso perché 200.000 yazidi sono ancora sfollati, migliaia di donne e bambini sono ancora dispersi o prigionieri e quelli che provano a ritornare a casa non trovano più nulla

(Nadia Murad)

Alessandro Luparello: Responsabile del Gruppo Italia 044 di Amnesty International Italia

NOTE:

(1) “Legacy of Terror - The plight of Yezidi child survivors of ISIS” Amnesty International https://www.amnesty.org/download/Documents/MDE1427592020ENGLISH.PDF

Nadia Murad Basee Taha dà un volto alle migliaia di donne yazide che sono state violentate dai membri dell’ISIS. I suoi sforzi per porre fine alla violenza sessuale come arma in guerra le sono valsi il Premio Nobel per la Pace 2018

Ph: © Picture Alliance/dpa/V. Simanek

This article is from: