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Essere mussulmani in Bosnia: fra laicità e confessione

ESSERE MUSSULMANI IN BOSNIA: FRA LAICITÀ E CONFESSIONE

di Paolo Pignocchi

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Non è mai stato facile essere mussulmani in Bosnia Erzegovina. Necessari alcuni cenni storici di contesto. Josip Broz, meglio conosciuto come Tito, perseguendo la totale laicità della Jugoslavia adottò con assoluta decisione la negazione dei mussulmani di Bosnia come realtà statale, li confinò alla sola dimensione confessionale. Lo scopo era limitare il fattore religioso del paese. Quindi invitò i mussulmani a definirsi serbi o croati. All’inizio degli anni 70 la situazione cambiò e chi era mussulmano poté definirsi tale affermando con questo la propria identità nazionale, sentiremo parlare poi di “islam politico”. Questo equilibrio fu sempre un fattore critico nella Bosnia multietnica e multireligiosa. Il rapporto fra fede e politica condizionò e condiziona i rapporti fra la Bosnia e l’Europa. Il leader degli anni del conflitto (1992-1995) Alija Izetbegovic era convinto che i nazionalismi avrebbero distrutto la Bosnia multietnica ma fu proprio lui (diversamente dal suo pensiero) a “vendere” la Bosnia, a Dayton. Non possiamo poi non considerare gli influssi esterni che, dopo il conflitto, ebbe la Bosnia, per esempio, dall’Arabia Saudita tanto che ancora oggi si parla di Bosnia come epicentro dell’estremismo islamico. Il 30 settembre 2003, Alija Izetbegovic, ormai in ospedale, rivolse un appello ai propri concittadini. “Il testamento di Alija Izetbegovic” dichiarava che: “La Bosnia sopravviverà se i Serbi resteranno Serbi, i Croati resteranno Croati e i Bosgnacchi resteranno Bosgnacchi, ma se tutti si sentiranno prima di tutto parte di questo Paese. Vorrei esortarvi a escludere la vendetta, ma a reclamare piuttosto verità e giustizia. E che nessuno ricerchi la vendetta, perché la vendetta attira la catena del male.” Ma il genocidio di Srebrenica, con più di diecimila morti mussulmani ragazzi e uomini, fu l’episodio centrale di tutta la storia dei mussulmani in Bosnia. Non averlo impedito può avere molti significati.

Dopo 25 anni da quando il mondo girò lo sguardo di fronte al peggiore crimine commesso sul suolo europeo dal 1945, le famiglie delle vittime del genocidio di Srebrenica attendono ancora giustizia.

Nel giro di alcuni giorni del luglio 1995, in quello che è passato alla storia come il genocidio più breve, vennero uccisi almeno 8372 (secondo i dati ufficiali della Commissione Masowieski) e più verosimilmente secondo i sopravvissuti almeno 10.700 mussulmani bosniaci, per la maggioranza ragazzi e uomini. Il genocidio fu perpetrato da unità dell’Esercito della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina, guidate dal generale Ratko Mladi (condannato in primo grado all’ergastolo dal Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia), in quella che nel 1993 era stata dichiarata dall’ONU “zona protetta” e che si trovava, nel 1995, sotto la tutela di un contingente olandese.

La “zona protetta” di Srebrenica fu delimitata dopo un’offensiva serba del 1993 che obbligò le forze bosniache a una demilitarizzazione sotto controllo dell’ONU. Le delimitazioni delle zone protette furono stabilite a tutela e difesa della popolazione civile bosniaca, quasi completamente mussulmana. Il 9 luglio 1995, la “zona protetta” di Srebrenica e il territorio circostante furono circondati dalle truppe dell’Esercito della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina, che l’11 luglio riuscì a entrare definitivamente nella città.

Perché Srebrenica? Perché era un’anomalia: un’enclave a maggioranza mussulmana in una parte di Bosnia ormai del tutto “serbizzata“. Per far confermare sul campo i confini della “nuova” Bosnia, che sarebbero stati sanciti negli accordi spartitori di Dayton, occorreva mettere fine a quell’anomalia. Tutti erano d’accordo che Srebrenica dovesse essere sacrificata, la storia (non la giustizia, purtroppo) ci dirà se i leader internazionali dell’epoca erano consapevoli del progetto genocida che si stava per compiere.

Dall’11 luglio, i maschi dai 12 ai 77 anni (e, come si vedrà, non solo loro) furono separati dalle donne, dai bambini e dagli anziani, apparentemente per essere interrogati; in realtà vennero uccisi e sepolti in fosse comuni. Circa 15.000 uomini e ragazzi cercarono rifugio in quella che fu chiamata la Marcia della morte fra Srebrenica e Tuzla e solo 6.000 riuscirono a salvarsi, scappando attraverso boschi e villaggi su strade accidentate e sentieri fangosi, percorrendo oltre 100 chilometri. Ancora oggi in memoria di quel percorso molte persone lo percorrono a ritroso per 35 km al giorno, in quella che oggi è chiamata la Marcia della Pace. Anche quest’anno, ci sarà questa marcia con solo 700 persone (rispetto alle migliaia degli anni passati), un numero contingentato per l’emergenza sanitaria in Bosnia.

L’orrore delle loro storie è accentuato dal fatto che i massacri si sono svolti solo in pochi giorni. Anche se si riesce a controllare le emozioni, considerando solo le cifre, il risultato è sconcertante: circondare migliaia di uomini, catturarli, ucciderli, bruciarli, scavare fosse per seppellirli - si tratta di uno sforzo mostruoso che può essere portato a termine in alcuni giorni solo se ci sono migliaia e migliaia di perpetratori. Il solo cercare di comprendere la portata del genocidio è insopportabile, ascoltare i particolari delle storie raccontate dai sopravvissuti è straziante. Immaginare migliaia e migliaia di uomini armati che perlustrano i boschi in cerca della loro preda e chiedersi: “Perché?”

Nel processo di primo grado nei confronti dell’ex leader militare serbo bosniaco Ratko Mladi, terminato con la condanna all’ergastolo, il Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia ha riconosciuto le responsabilità individuali di Mladi, in quanto comandante dell’esercito serbo bosniaco, giudicandolo colpevole di 10 imputazioni su 11. L’ex generale serbo bosniaco è stato giudicato responsabile, tra l’altro, di genocidio, persecuzione per motivi etnici e religiosi ai danni di mussulmani bosniaci e croato bosniaci, sterminio, deportazione, omicidio, terrore, attacchi illegali contro i civili e cattura di ostaggi. Il processo è stato uno dei più lunghi della storia, a causa della vastità delle accuse, della quantità di prove (compresi 592 testimoni) e dei vari tentativi della difesa di ritardare o far terminare il procedimento giudiziario. Il processo d’appello è stato più volte rinviato per motivi di salute dell’imputato e poi a causa della pandemia da Covid-19. https://www.irmct.org/en/cases/mict-13-56

Sarebbe meglio non fosse piuttosto che sia così come oggi è / la nostra Srebrenica Nulla di morto né di vivente in lei può più abitare / Sotto un cielo plumbeo / l’aria di piombo / mai nessuno / ha imparato a mettersi nei polmoni / Da lei fugge tutto / ciò che ha gambe / con le quali possa / e sappia dove / fuggire / Da lei fugge tutto / anche ciò che da nessuna parte / se non sotto la terra nera / può fuggire

(Le lacrime delle madri di Srebrenica di Abdullah Sidran)

Circa 6.700 corpi umani (anche se la ICMP International Commission of Missing Persons parla di piu’ di 7.000) sono stati riconosciuti, solo 33 nel 2019, sono stati riesumati, identificati e sepolti nel Memoriale di Potocari dove ogni 11 luglio si svolge una dolorosa cerimonia commemorativa: tra questi, 421 bambini, un neonato e una donna di 94 anni. Sono numerose perciò le persone che non hanno ancora neanche una tomba dove piangere i loro cari uccisi nel genocidio.

L’Istituto nazionale per le persone scomparse subisce, anno dopo anno, tagli dei finanziamenti e questo accresce le difficoltà di riuscire, col passare del tempo, a dare un nome a poveri resti umani.

I leader politici e le leggi della Repubblica serba di Bosnia ed Erzegovina, una delle due entità che gli accordi di Dayton del 1995 hanno creato nella Bosnia post-guerra, non hanno ancora riconosciuto il genocidio di Srebrenica, al quale non vi è alcun riferimento persino nei programmi scolastici. Il processo di riconciliazione non ha fatto passi avanti, anche per un clima islamofobico dilagante, e le divisioni tra i gruppi nazionali all’interno del paese proseguono.

Nonostante i processi conclusi dal Tribunale Penale per l’ex Jugoslavia e quelli ancora in corso presso il cosiddetto “Meccanismo residuale internazionale” nei confronti dei principali ideatori del genocidio di Srebrenica, e la condanna di altri 74 imputati, il numero dei casi giudiziari irrisolti è estremamente lungo e, salvo i casi particolarmente gravi, tutte le cause “minori” sono passate ai tribunali locali.

Amnesty International è molto preoccupata per l’impunità dilagante che ne è derivata. I processi per crimini di diritto internazionale nei tribunali della Bosnia ed Erzegovina sono molto lenti e condizionati da fattori esterni, tra cui l’assenza di programmi di protezione per i sopravvissuti e i testimoni. In assenza della necessaria volontà politica, la stragrande maggioranza delle persone sospettate di crimini di guerra e crimini contro l’umanità non verrà mai chiamata a rispondere del suo operato. Nel frattempo prende campo il negazionismo: Per questo le “Madri di Srebrenica”, sdegnate e amareggiate, hanno chiesto ufficialmente al Comitato per il Nobel di revocare l’assegnazione del riconoscimento per la letteratura a Peter Handke.

A distanza di 25 anni, le donne di Srebrenica continuano a piangere i loro morti. Alcuni resti non si troveranno mai più. Le autorità della Bosnia Erzegovina post-Dayton le hanno lasciate sole.

Paolo Pignocchi: Resp. del Coordinamento Europa di Amnesty International Italia

Hatidza Mehmedovic, una donna bosniaca musulmana, sopravvissuta alle atrocità di Srebrenica nel 1995, prega davanti al muro commemorativo con i nomi delle vittime dell’offensiva serbo-bosniaca del luglio 1995. Hatidza ha seppellito suo marito e due figli nel cimitero commemorativo di Potocari dopo dieci anni di ricerca dei loro resti tra quelli raccolti da varie fosse comuni nella Bosnia orientale.

26 Maggio 2011 a Potocari vicino a Srebrenica © ELVIS BARUKCIC/AFP via Getty Images

Donne musulmane bosniache parenti delle vittime del genocidio di Srebrenica in visita nei luoghi dell’esecuzione di massa del 1995 dei loro cari, raccolgono fiori e cartucce di proiettili in una diga dove centinaia di persone sono state uccise.

13 Luglio 2020 a Petkovac vicino a Srebrenica, in Bosnia ed Erzegovina © DAMIR SAGOLJ via Getty Images

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