8 minute read

Repubblica Popolare Cinese: la repressione e le minoranze etniche

REPUBBLICA POPOLARE CINESE: LA REPRESSIONE E LE MINORANZE ETNICHE

di Paolo Pobbiati

Advertisement

15 ottobre 2020. La Cina ottiene un seggio nel Consiglio ONU per i Diritti Umani, il massimo organo per la tutela dei diritti nel mondo. Certo si trova in buona compagnia: in questa tornata sono stati eletti dall’Assemblea Generale anche Russia, Cuba, Pakistan e Uzbekhistan. Non certo paladini dei diritti umani, danno più l’idea di un gruppo di volpi messe a fare la guardia a un pollaio. In questo contesto che di fatto delegittima non solo il Consiglio ma tutta la comunità internazionale, non può non colpire l’assoluta indifferenza nei confronti di ciò che stava avvenendo proprio in quelle settimane ad Hong Kong - la violenta repressione del movimento filo democratico e la nuova legislazione sulla sicurezza nazionale – e di quanto la mancanza di trasparenza e di una informazione libera in Cina abbia avuto conseguenze tragiche sulla diffusione della pandemia di Covid 19 nel resto del mondo.

Ma se queste due questioni sono comunque sotto gli occhi della stampa internazionale, le violazioni dei diritti umani in Cina hanno aspetti forse meno visibili ma molto più diffusi ed altrettanto gravi. Teniamo presente che in Cina risiede il 20% della popolazione mondiale e non è un mistero che l’influenza economica e politica di Pechino sul resto del mondo sia da anni in crescita assieme al suo PIL, e non soltanto in Africa o nel sudest asiatico. Sarebbe un grave errore pensare che tutto ciò non ci riguardi.

L’immagine della Cina è quella di un paese che, sebbene sulla strada di una modernizzazione e di una crescita economica talmente rapide e impetuose da avere pochi precedenti nella storia, non abbia imboccato anche quella di una crescita dal punto di vista sociale e politico e che non riesce a metabolizzare un aspetto che caratterizza la maggior parte delle società moderne: il dissenso, la cui gestione è demandata a un efficace quanto violento apparato repressivo.

Così non soltanto attivisti per la democrazia, difensori dei diritti umani, membri di ONG, avvocati, giornalisti, blogger, o chiunque si faccia portavoce di idee e concezioni politiche differenti da quella del Partito Comunista, ma anche credenti che si riconoscono in chiese non direttamente gestite dal partito, persone LGBTI e attivisti di minoranze etniche che rivendicano la sopravvivenza della loro lingua e delle loro tradizioni vengono vissuti come una minaccia per lo status quo da reprimere con durezza. Per farlo il governo cinese può contare su un sistema giudiziario asservito al partito e su un complesso legislativo che, non facendo adeguate differenze fra reati violenti e di opinione e prevedendo varie forme di detenzione amministrativa che consentono di mantenere in incommunicado per mesi, rappresenta una vera miniera di imputazioni e di strumenti per colpire qualunque espressione di dissenso o di uscita da canoni imposti dallo stato.

Anche se non più sotto i riflettori della comunità internazionale come alcuni anni fa, tutto ciò coinvolge il tema delle minoranze etniche, proprio perché legate alla rivendicazione di un’autonomia che prima ancora di essere politica è di pensiero, di identità culturale, linguistica e religiosa. Tutto questo è identificato come una minaccia alla sicurezza della madrepatria e trattato alla stregua di terrorismo nonostante la Cina, con i suoi 56 gruppi etnici riconosciuti, si consideri un paese multietnico.

In realtà è in atto da decenni un processo lento ma inesorabile di erosione dei loro fondamenti culturali, nella malintesa concezione che questi siano un ostacolo al progresso e al raggiungimento del benessere materiale.

In questa logica, nell’agosto di quest’anno il governo cinese ha vietato l’uso della lingua mongola sostituendola con il mandarino nelle scuole della Mongolia Interna, regione nel nord del paese. Un ennesimo affronto che ha causato una forte mobilitazione e uno sciopero pacifico di insegnanti, studenti e genitori, represso con durezza dalle forze dell’ordine con arresti e la promessa di taglie per la segnalazione degli ispiratori della protesta. Anche se le forme più esteriori della protesta sono state represse, la tensione continua a rimanere alta nella regione.

In Xinjiang, la regione del Turkestan cinese, la repressione delle rivendicazioni linguistiche e culturali si lega a quelle religiose, identificate a priori con il fondamentalismo e il terrorismo di matrice islamica. Dal 2017 è in vigore il “regolamento sulla deradicalizzazione”, che prevede l’internamento di chiunque sia sospettato in centri chiamati con il pittoresco quanto improprio nome di “centri per la formazione professionale”, ma che di fatto non sono altro che campi di detenzione allestiti per l’indottrinamento politico, il lavaggio del cervello e l’assimilazione culturale forzata.

In nome della sicurezza nazionale e del contrasto al terrorismo, sono internate in questi luoghi centinaia di migliaia di persone – si stima oltre un milione – tra uiguri, kazaki e appartenenti ad altre minoranze. Oltre ad attivisti, intellettuali o militanti in movimenti autonomisti, altre persone sono detenute perché giudicate “estremiste” o perché la loro barba era “abnormemente lunga”, o che si coprivano il capo col velo, digiunavano, pregavano regolarmente, rifiutavano di bere alcolici o possedevano libri sull’Islam o sulla cultura uigura. Tra le personalità detenute ci sono Ilham Tohti, un economista, scrittore e professore uiguro condannato all’ergastolo nel 2014, e Tashpolat Teyip, ex rettore dell’università dello Xinjiang, condannato a morte nel 2017 con una sospensione di due anni; entrambi erano stati accusati di “separatismo”.

Nemmeno l’esilio o la fuga volontaria dal paese mette al sicuro chi è entrato nel mirino dell’intelligence cinese. Il governo cinese trova modo di raggiungerli, sottoporli a intimidazioni attraverso le ambasciate, o con minacce telefoniche e azioni sulle app di messaggistica e tenta persino di riportarli indietro facendo pressioni sugli altri governi. Secondo il Congresso Mondiale Uiguro, circa un milione e 600 mila uiguri vivono fuori dalla Cina, per lo più in Kazakistan, Kirghizistan e Uzbekistan o in altri paesi asiatici.

In Tibet la situazione non è certo migliore. Sembra, e ci si augura, che sia definitivamente terminata la stagione delle autoimmolazioni quando il 10 marzo 2018, una ricorrenza fondamentale per i tibetani che ricorda l’insurrezione di Lhasa contro l’occupazione cinese del 1959, Tsekho, un giovane tibetano, si è cosparso di benzina e si è dato fuoco. è stato l’ultimo, o almeno l’ultimo di cui si è saputo, di una serie di oltre 150 tibetani, monaci e laici, che dal 2009 ha deciso questa forma di protesta estrema, pacifica e nel contempo terribilmente violenta, un estremo tentativo di accendere insieme ai loro corpi l’attenzione del mondo per una lotta che ha scelto di essere non violenta nei confronti dei loro oppressori, utilizzando come campo di battaglia unicamente il proprio corpo. Come i monaci vietnamiti negli anni ’60, o Ian Palach. Ma che questa volta purtroppo il mondo non ha saputo e voluto vedere, in una vera e propria psicosi che pervade le classi dirigenti anche delle democrazie occidentali per cui “non si può irritare la Cina”.

Anche se la repressione in Tibet ha un carattere meno diffuso e palese rispetto a quella del Xinjiang, non è meno dura. L’attenzione delle autorità è da anni concentrata sui monasteri, un tempo centro della vita non solo religiosa ma anche sociale e politica, oggi gestiti da funzionari del partito comunista. I monaci che vi risiedono devono passare non soltanto per l’approvazione dell’autorità politica, ma sono sottoposti a periodiche campagne di “istruzione patriottica”. Se i monaci per poter praticare la loro religione devono esprimere la loro fedeltà al partito, realizzando così un paradosso davvero estremo, altrettanto paradossale è l’episodio del 2019 per cui sono stati puniti 215 funzionari del partito accusati di “credere alla religione”.

Il controllo sociale si estende anche ai laici sia nelle città come Lhasa che nelle campagne e, come in Xinjiang è sistematicamente negata qualsiasi forma di libertà di espressione e di assembramento. I nomadi sono forzatamente trasferiti e ghettizzati in squallidi agglomerati urbani ed è negato lo studio della lingua tibetana e il suo utilizzo nell’apprendimento delle materie scolastiche e in diversi casi persino per l’insegnamento religioso.

Un caso che sta diventando il simbolo della situazione in Tibet è quello di Rinchen Tsultrim, un monaco di ventinove anni appartenente al monastero di Nangshig nella Contea di Ngaba, impegnato nella difesa del diritto dei tibetani a praticare e preservare la loro lingua, arrestato assieme a due confratelli il 1°agosto 2019 e tradotto nel carcere di Ngaba Bakham in stato di completo isolamento. I monaci arrestati insieme a lui erano stati rilasciati dopo pochi giorni ma di Rinchen non è pervenuta alcuna notizia fino al 23 marzo 2020, quando le autorità cinesi hanno ufficialmente comunicato ai famigliari che il loro congiunto era detenuto in quanto “traditore separatista” senza fornire alcuna informazione sulle sue condizioni di salute e il luogo esatto della sua detenzione. Sembra che il religioso fosse da tempo sotto sorveglianza per alcune conversazioni e scambi di messaggi in chat con alcuni esuli tibetani all’estero.

Certamente parlando della Cina l’impressione è che siano stati sprecati decenni preziosi per facilitare il passaggio di questa fetta consistente della popolazione mondiale verso un maggiore rispetto dei diritti umani fondamentali. Oggi, con una Cina sempre più potente e influente a livello internazionale appare tutto molto più difficile. Però è una battaglia che è fondamentale combattere perché dal suo esito dipenderà molto per quello che sarà l’idea di diritti umani che si affermerà nel corso di questo secolo nel mondo.

Sarà un pessimo segnale se fossero lasciati soli gli attivisti pro democrazia di Hong Kong, i tibetani, gli uiguri, i medici che chiedono una maggiore trasparenza sulla situazione sanitaria, chi in Cina lavora per una informazione libera e pluralista o chi sostiene le comunità più svantaggiate. Anche se sembra che buona parte del resto del mondo non se ne stia accorgendo.

Paolo Pobbiati: Insegnante, ex Presidente di Amnesty International Italia

Cittadini mongoli protestano presso il Ministero degli Affari Esteri di Ulaanbaatar, capitale della Mongolia, contro il piano cinese di ridurre l’insegnamento in mongolo nelle scuole della vicina regione cinese della Mongolia Interna.

31 agosto 2020 © BYAMBASUREN BYAMBA-OCHIR/AFP via Getty Images

Protesta a sostegno del popolo uiguro. Londra, Regno Unito l’8 ottobre 2020

© HASAN ESEN/ANADOLU AGENCY via Getty Images

Manifestanti cantano durante una manifestazione contro il controverso China Western Poverty Reduction Project, davanti all’edificio della World Bank a Washington, DC. All’evento hanno partecipato centinaia di attivisti per i diritti umani, difensori dell’ambiente e cittadini.

30 agosto 1999 © JOYCE NALTCHAYAN/AFP via Getty Images

This article is from: