Voci - Numero 3 Anno 4 - Amnesty International in Sicilia

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VOCI

DIAMO VOCE AI DIRITTI UMANI

i fatti e le idee

AGOSTO 2018

NUMERO 3 - ANNO 4

RISPONDERE

ALLE VIOLAZIONI DEI DIRITTI UMANI CON INSERTO SPECIALE MIGRAZIONI «Quando ho acceso la prima candela di Amnesty avevo in mente un vecchio proverbio cinese: “Meglio accendere una candela che maledire l’oscurità” Questo è oggi il motto per noi di Amnesty» (Peter Benenson)


VOCI VOCI - Rivista del

Centro di Documentazione per la Promozione e l’Educazione alla Tutela dei Diritti Umani “Peter Benenson”

COMITATO DI REDAZIONE Liliana Maniscalco Responsabile Circoscrizione Sicilia Amnesty International Giuseppe Provenza Responsabile della Redazione Carmen Cera Direttrice del Centro di Documentazione per la Promozione e l’Educazione alla Tutela dei Diritti Umani “Peter Benenson” Silvia Intravaia Responsabile grafica

COLLABORANO Giorgio Beretta, Daniela Brignone, Paola Caridi, Francesco Castracane, Vincenzo Ceruso, Mouhamed Cissé, Carmen Cera, Martina Costa, (Coord. Am. Latina), (Coord. Europa), (Coord. Nord America), Marta D’Alia, Chiara Di Maria, Aristide Donadio, Vincenzo Fazio, Maurizio Gemelli, Liliana Maniscalco, Andrea Pira, Daniela Tomasino, Fulvio Vassallo Paleologo.

IN QUESTO NUMERO Rispondere alle violazioni dei diritti umani

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Missioni internazionali, porti di sbarco e scontro tra nazionalismi

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di Giuseppe Provenza

di Fulvio Vassallo Paleologo

Controllo delle esportazioni militari: agenda per il vero cambiamento

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La guerra nascosta dei droni

19

Social network, hate speech e diritti umani

21

Discorso d’incitamento all’odio e l’azione di Amnesty

23

di Giorgio Beretta

di Maurizio Simoncelli

di Chiara Di Maria

di Dario Di Maio

Coraggio, brave, courage, coraje, ‫ ﺍﻟﺷﺟﺎﻋﺔ‬25 di Martina Costa

Deontologia della sicurezza pubblica. Come garantire spazi di libertà? di Alessandra Cannizzo

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TUTTI I GIORNI www.amnestysicilia.it /amnesty-sicilia /Amnestysicilia Amnesty In Sicilia /amnestysicilia /amnestysicilia

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Editoriale

RISPONDERE ALLE VIOLAZIONI DEI DIRITTI UMANI di Giuseppe Provenza

Amnesty Summer Lab, Lampedusa 2018 / Amnesty International Italia

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e sfide ad un’umanità “umana”, che possegga come principio fondamentale il “rispetto”, divengono ogni giorno sempre più difficili da affrontare. È pur vero che la storia dell’uomo, dall’età della pietra ad oggi, è stata sempre segnata da sopraffazioni fra individui, dittature e guerre fra comunità, ma la fine del XX secolo ha segnato una svolta decisiva. Il progresso scientifico e tecnologico, iniziato all’alba del XIX secolo, fautore di una qualità della vita straordinariamente più elevata rispetto al passato, è stato trasformato in uno strumento di potere. Mentre, infatti, la parte migliore dell’umanità realizzava importanti conquiste sociali, la sua parte peggiore raffinava gli strumenti di sfruttamento volgendo a proprio favore la tecnologia più moderna. La rivoluzione francese a fine XVIII secolo, i movimenti per la conquista della democrazia nel XIX secolo, la sconfitta dell’impero zarista ad inizio XX secolo, costituirono dei progressi sociali importanti, pur se in essi stessi si generarono spesso le loro contraddizioni. Il regresso iniziato con la prima guerra mondiale ed esasperato dal sorgere di regimi oscurantisti quali il nazismo e vari fascismi nel mondo, portò alla negazione totale del concetto di “rispetto” culminata con la seconda guerra mondiale. 3

Lo sconvolgimento che ne derivò sembrò far rinascere, agli occhi dei più ottimisti, la consapevolezza, per l’umanità, della imprescindibile necessità di tornare a comprendere l’importanza del valore dell’uomo come tale. Sembrò quindi che si accendesse la luce del “rispetto” di ogni essere umano con la nascita di un organismo sovranazionale, l’Organizzazione delle Nazioni Unite, deputato a difendere la pace attraverso la difesa dei diritti umani, così come definiti dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. Tuttavia, ciò fu pura illusione. La pace non arrivò mai e sempre più il mondo è venuto a trovarsi stretto nella morsa di coloro, sempre più pochi, che manovrano a proprio piacimento l’intera umanità, ovvero ben più di sette miliardi di persone. Ed è a questo punto, o più precisamente negli ultimi trenta anni, che è avvenuta la svolta tecnologica. La velocità e la facilità con cui è oggi possibile spostare uomini ed interi eserciti, merci e produzione di merci, hanno fatto del mondo un unico luogo. La possibilità di dialogare in tempo reale con miliardi di persone ovunque si trovino, ha reso la terra un’unica “agorà” in cui pochi esperti comunicatori possono dirigere le menti, e quindi le volontà, e sostituire una apparente e falsa democrazia a quella reale, indirizzando in questo modo il mondo in funzione dell’interesse, AGOSTO 2018 N.3 / A.4 - Voci


Editoriale

soprattutto economico, di pochissimi a detrimento dei diritti della quasi totalità. Effetto drammatico di tale condizionamento è un mondo sempre più irrispettoso dei diritti umani. Nel mondo si combattono ancor oggi parecchie decine di guerre, tutte coinvolgenti popolazioni inermi spesso in fuga sia per salvare la vita, sia per la distruzione di intere città e villaggi, guerre che vedono spesso il ricorso a quei modernissimi strumenti di morte che sono i droni. Decine sono i paesi sotto l’oppressione di dittature spesso dure e spietate, paesi in cui talora si combattono le più atroci guerre e che costituiscono i luoghi d’origine di quei copiosi flussi migratori che sono al centro dell’acceso dibattito politico in corso nei paesi europei e negli Stati Uniti d’America, e che vengono gestiti sempre più frequentemente in aperta violazione dei principi fondamentali dei diritti umani e delle convenzioni internazionali e che, peraltro, sono divenuti argomento di propaganda politica basata sulla paura. È per lottare contro il degrado del rispetto dell’uomo a cui ha portato la gestione del mondo volta all’interesse di pochi potenti, in grado ormai di indirizzare i governi di tutti i paesi, influendo nel contempo sull’opinione pubblica, sui suoi interessi, sui suoi bisogni, sulle

sue paure, che sono sorte ed operano fra sempre più grandi difficoltà le organizzazioni per la difesa dei diritti umani come Amnesty International. È all’analisi dei temi più rilevanti e difficili che devono oggi affrontare le organizzazioni umanitarie e in particolare di quelli che costituiscono l’oggetto dell’attività di Amnesty International che è dedicato questo numero doppio di “Voci”, numero doppio in quanto costituito dalla parte speciale contenente l’articolo del Prof. Fulvio Vassallo Paleologo sulle problematiche in termini di relazioni internazionali nascenti dalle attuali politiche di gestione dei flussi migratori, e la parte “ordinaria” sui temi oggi più delicati: dal commercio delle armi e l’uso dei droni, al delicato ruolo che ormai giocano i social media nella formazione dell’opinione pubblica, il più delle volte in maniera distorta, dalla lotta giornalmente condotta da migliaia uomini e donne che con “coraggio” denunziano le violazioni dei diritti umani a rischio della propria incolumità, alle pressioni operate dai governi di tanti paesi, anche con il supporto degli organi di polizia e dei servizi di sicurezza. Giuseppe Provenza Responsabile del Coordinamento Europa di Amnesty International Italia Membro del Gruppo Amnesty Italia 233

VERITÀ PER GIULIO REGENI

https://www.amnesty.it/appelli/corri-con-giulio/

Voci - AGOSTO 2018 N.3 / A.4

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AGOSTO 2018 N.3 / A.4 - Voci

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MISSIONI INTERNAZIONALI PORTI DI SBARCO E SCONTRO TRA NAZIONALISMI INSERTO SPECIALE MIGRAZIONI Fulvio Vassallo Paleologo


Speciale migrazioni

Mediterraneo centrale, aree SAR / Elaborazione grafica per approssimazione / Dati cartografici © 2018 Google

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opo avere impedito l’attracco nei porti italiani alle imbarcazioni delle ONG 1, e questo senza adottare uno specifico provvedimento ministeriale, Salvini attacca ancora le attività di salvataggio (e Toninelli esegue) 2, anche dopo lo sbarco di appena cento persone nel porto di Messina 3, sbarco effettuato da una nave irlandese appartenente alla missione europea Eunavfor Med. Una missione che rientra nelle competenze PESC (Politica estera e sicurezza comune) dell’Unione Europea. Dunque sottratta alla competenza dei ministri dell’interno che comunque, come nel caso delle missioni di Frontex ospitate nel nostro paese, sono tenuti ad indicare con la massima tempestività un luogo di sbarco, qualora queste missioni fossero coinvolte in attività di ricerca e salvataggio. 4 Secondo il ministro Salvini e vicepresidente del consiglio, di fatto vero “padrone” 5 del consiglio dei  1 - http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/salvini-nave-open-arms-ha-soccorsomigranti-in-acque-libiche-mai-in-italia-stop-al-traffico-di-esseri-umani-e18ba798de65-4da3-827a-d927d2ed6427.html  2 - https://www.tpi.it/2018/07/08/premier-governo-ultime-notizie/  3 - https://www.huffingtonpost.it/2018/07/08/messina-nave-militare-irlandesecon-106-migranti-attracca-al-porto_a_23477072/?utm_hp_ref=it-homepage  4 - https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=CELEX%3A32015D0778  5 - http://www.repubblica.it/cronaca/2018/07/08/news/nave_militare_irlandese_ sbarca_a_messina_con_106_migranti-201198516/

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ministri al punto da suscitare irritazione in ambienti della marina e della difesa, neppure le navi delle missioni europee 6, una volta compiute le azioni di soccorso, imposte dai Regolamenti europei n.656 del 2014 7 e n.1624 del 2016 8 (allo stato non certo modificabili da un gruppo di ministri dell’interno riuniti in una località di montagna), dovrebbero avere accesso ai porti italiani. Senza potere sbarcare dunque i naufraghi in un place of safety (POS) come imposto dalle Convenzioni internazionali, nel tempo più rapido possibile. Per Salvini, invece, le navi militari di altri Paesi europei che salvano migranti non in zona Sar italiana e non coordinati dalla Centrale operativa (MRCC) di Roma e poi li sbarcano in Italia e’ un’altra “stortura” del sistema di soccorso nel Mediterraneo a cui il governo italiano intende dare una “spallata” per rivedere accordi che, secondo il ministro dell’interno, penalizzerebbero l’Italia 9. Dove dovranno andare allora a sbarcare le navi militari che ancora svolgono  6 - http://www.repubblica.it/cronaca/2018/07/08/news/nave_militare_irlandese_ sbarca_a_messina_con_106_migranti-201198516/  7 - https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/ TXT/?uri=uriserv:OJ.L_.2014.189.01.0093.01.ITA  8 - https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=celex%3A32016R1624  9 - https://www.quotidiano.net/cronaca/migranti-salvini-1.4025035

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Speciale migrazioni

18 aprile del 2015 15, quando aveva esteso l’area di operatività delle missioni di Frontex fino a 135 miglia a sud di Malta e Lampedusa, ma sempre con “porto di sbarco sicuro” in Italia, paese ospitante le missioni. La strage del 18 aprile 2015, il rovesciamento di un barcone, era stata conseguenza dell’affidamento dei soccorsi ad un grosso mercantile 16, come si cerca di fare ancora una volta oggi, e della mancanza di navi di salvataggio specificamente attrezzate. Oggi, cacciate via le ONG e ritirate le navi militari più a nord, quella strage può ripetersi ancora tante volte. Ci dobbiamo abituare all’indifferenza, come tanti?

Volontaria aiuta un bambino migrante a sbarcare dalla nave della guardia costiera italiana “Diciotti” nel porto di Pozzallo, in Sicilia, il 19 giugno 2018, a seguito di un’operazione di salvataggio di migranti e rifugiati in mare. © GIOVANNI ISOLINO/AFP/Getty Images

attività di ricerca e salvataggio a nord delle coste libiche? Forse nei paesi di bandiera, magari all’altro capo dell’Unione Europea, oppure in Libia, come ordinò Maroni nel 2009 sul caso Hirsi ed altri, poi finito con una condanna dell’Italia da parte della Corte Europea dei diritti dell’Uomo? 10 Intanto le navi militari italiane e straniere, dopo il ritiro imposto alle ONG 11, saranno costrette ad assumere responsabilità molto più grandi che in passato, anche perché sono le prime a monitorare in acque internazionali la presenza di imbarcazioni in situazioni conclamate di distress (pericolo imminente di affondare) e non possono certo rimanere a guardare senza intervenire. In realtà il governo italiano, diretto dal ministro dell’interno, cerca di fare pesare un ennesimo ricatto sulla pelle dei migranti per modificare la regola della competenza Dublino del primo paese di sbarco, un tentativo già effettuato in vista del Consiglio europeo di Bruxelles del 28-29 giugno, con un tragico epilogo di morti in mare (tre stragi in quattro giorni, dal 28 giugno al 2 luglio 12, con oltre trecento morti). Una “stortura”, il soccorso in acque internazionali fuori dalla SAR italiana, che il governo Letta aveva introdotto dopo le stragi del 3 e dell’11 ottobre 2013 13, con il lancio dell’operazione Mare Nostrum 14, e che l’Unione Europea aveva confermato dopo la strage del  10 - http://unipd-centrodirittiumani.it/it/schede/Hirsi-Jamaa-e-altri-c-Italia-illegalii-respingimenti-verso-la-Libia-del-2009/249  11 - http://www.vita.it/it/article/2018/07/05/le-ong-sono-state-rimossechirurgicamente-dal-mediterraneo/147485/

Gli “accordi” tra stati ed Unione Europea, relativi alle missioni Frontex (ieri Triton, oggi Themis) o Eunavfor Med (Sophia), di cui parla Salvini ad una opinione pubblica, tenuta nella disinformazione più totale, vanno considerati nel quadro dei diversi Regolamenti europei che hanno direttamente forza di legge (vale anche per i ministri) sul territorio di qualunque stato UE, si tratta di “accordi” che non possono essere modificati senza una decisione unanime di tutti gli stati membri. Prospettiva che, come si è visto nel caso del Regolamento Dublino, appare oggi del tutto irrealizzabile, proprio per lo scontro tra opposti nazionalismi, che Salvini pretende invece di unificare in un unico “asse delle leghe”, a livello europeo. Le missioni di Frontex e la missione Sophia (Eunavfor Med) in Mediterraneo hanno diverse finalità, anche se alcune di queste possono sovrapporsi, e dipendono da diverse catene di comando. Ma di fronte all’obbligo di soccorrere in acque internazionali naufraghi in situazioni di “distress” e di indicare (da parte degli stati ospitanti) un porto sicuro di sbarco (place of safety) 17, nel rispetto del principio di non respingimento dettato dalla Convenzione di Ginevra del 1951 e dall’art.4 del Quarto Procollo allegato alla CEDU (divieto di respingimento collettivo, adesso anche art.19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea), le prassi confermano fino ad oggi che questi obblighi non possono che ricadere sul paese che ospita le missioni. La possibilità di sbarco dei naufraghi nel “porto più vicino”, riconosciuta dalle Convenzioni internazionali nel caso dei mercantili, per completare più rapidamente le operazioni SAR nelle quali si trovano coinvolti i mezzi commerciali, non può prevalere sulle norme che tutelano la vita, la dignità ed i corpi delle persone17. Quale che sia la finalizzazione della missione internazionale (Frontex o Eunavfor

12 - http://www.lastampa.it/2018/06/30/esteri/la-strage-dei-bimbi-nelmediterraneo-rimasto-senza-ong-C907zogmR1rWTJSThsxTuJ/pagina.html  13 - http://espresso.repubblica.it/attualita/2017/05/09/news/cosi-annega-unprofugo-tutte-le-telefonate-del-naufragio-dei-bambini-1.301045  14 - https://www.ednh.news/it/da-mare-nostrum-a-triton-il-profilo-delle-missioni-disalvataggio-tra-italia-e-ue/

15 - http://palermo.repubblica.it/cronaca/2015/04/19/news/almeni_700_migranti_ morti_in_un_naufragio_a_nord_della_libia_solo_28_superstiti-112315076/  16 - https://www.internazionale.it/storia/naufragio-mediterraneo-700-morti  17 - http://www.refworld.org/docid/54b365554.html

Cover Ph.: “Porta di Lampedusa, Porta d’Europa”, opera di Mimmo Paladino in ceramica refrattaria e ferro zincato, alta 5 metri. 2008 Lampedusa © Privato

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Med) nella quale una nave si trovi impegnata, se scatta l’evento SAR, ricorre l’obbligo immediato di intervento, anche se nessuna autorità nazionale responsabile del coordinamento, collabora. Prima di tutto viene la salvaguardia della vita umana in mare, con la possibilità di chiedere protezione, poi si discute sui conflitti di competenza, e non il contrario17. In base al Regolamento Frontex n.656 del 2014, “la cooperazione con i paesi terzi limitrofi è essenziale per impedire l’attraversamento non autorizzato delle frontiere, contrastare la criminalità transfrontaliera ed evitare la perdita di vite umane in mare. Conformemente al regolamento (CE) n.2007/2004 e purché sia garantito il pieno rispetto dei diritti fondamentali dei migranti, l’Agenzia può cooperare con le autorità competenti di paesi terzi, in particolare per quanto riguarda l’analisi del rischio e la formazione, e dovrebbe agevolare la cooperazione operativa tra Stati membri e paesi terzi. Quando la cooperazione con i paesi terzi avviene nel territorio o nelle acque territoriali di tali paesi, gli Stati membri e l’Agenzia dovrebbero osservare norme e standard almeno equivalenti a quelli stabiliti dal diritto dell’Unione”. Secondo il Regolamento EU n.656 del 2014, (al Considerando 8) “durante operazioni di sorveglianza di frontiera in mare, gli Stati membri dovrebbero rispettare i rispettivi obblighi loro incombenti ai sensi del diritto internazionale, in particolare della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, della Convenzione internazionale per la salvaguardia della vita umana in mare, della Convenzione internazionale sulla ricerca e il salvataggio marittimo, della Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale e del suo protocollo per combattere il traffico di migranti via terra, via mare e via aria, della Convenzione delle Nazioni Unite relativa allo status dei rifugiati, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti, della convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo e di altri strumenti internazionali pertinenti”. Lo stesso Regolamento Frontex n.656 del 2014, (Considerando 12) “dovrebbe essere applicato nel pieno rispetto del principio di non respingimento quale definito nella Carta e quale interpretato dalla giurisprudenza della Corte e della Corte europea dei diritti dell’uomo. Conformemente a tale principio, nessuno dovrebbe essere sbarcato, costretto a entrare, condotto o altrimenti consegnato alle autorità di un paese in cui esista, tra l’altro, un rischio grave di essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura, alla Voci - AGOSTO 2018 N.3 / A.4

Rescue at Sea. A Guide to Principles and Practice as Applied to Refugees and Migrants - UNHCR January 2015

persecuzione o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti, o in cui la vita o la libertà dell’interessato sarebbero minacciate a causa della razza, della religione, della cittadinanza, dell’orientamento sessuale, dell’appartenenza a un particolare gruppo sociale o delle opinioni politiche dell’interessato stesso, o nel quale sussista un rischio di espulsione, rimpatrio o estradizione verso un altro paese in violazione del principio di non respingimento”. Al Considerando 13 lo stesso Regolamento europeo aggiunge: “L’eventuale esistenza di un accordo tra uno Stato membro e un paese terzo non esime gli Stati membri dai loro obblighi derivanti dal diritto dell’Unione e internazionale, in particolare per quanto riguarda l’osservanza del principio di non respingimento, quando gli stessi Stati sono a conoscenza, o dovrebbero esserlo, del fatto che lacune sistemiche nella procedura di asilo e nelle condizioni di accoglienza dei richiedenti asilo in quel paese terzo equivalgono a sostanziali motivi per ritenere che il richiedente asilo rischi concretamente di subire trattamenti inumani o degradanti, o quando tali Stati sanno o dovrebbero sapere che quel paese terzo mette in atto comportamenti in violazione del principio di non respingimento”. Quali garanzie esistono in Libia

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per i potenziali richiedenti asilo riportati a terra dopo essere stati intercettati in acque internazionali, dove fino a qualche settimana fa potevano essere soccorsi dalle navi delle ONG? Secondo l’art.10 del Regolamento n.656 del 2014 gli Stati dell’Unione europea possono collaborare con paesi terzi che siano titolari di zone SAR riconosciute a livello internazionale, ma nel caso di mancata risposta, o di evidente impossibilità di salvaguardare la vita umana in mare, la dignità e l’accesso alla procedura di asilo a terra, per quanto osservato in precedenza, la responsabilità del coordinamento e della individuazione del porto di sbarco spetta allo stato che “ospita” l’operazione Frontex 18 o Eunavfor Med, a prescindere dalla bandiera della nave europea chiamata eventualmente a realizzare l’intervento SAR (ricerca e soccorso). Dunque in base al Regolamento n.656 del 2014, o si ritiene che la Libia offra nella sua interezza luoghi sicuri di sbarco, circostanza esclusa anche di recente dalle Nazioni Unite e dall’Unione Europea, oppure l’Italia, paese ospitante delle missioni aeronavali europee non può rifiutarsi e deve indicare un luogo di sbarco sicuro nel suo territorio 19. Chiunque non ottemperi a questo precetto si può rendere responsabile di vari reati, a titolo omissivo, e delle loro possibili conseguenze mortali 20. Gli esigui contingenti di persone soccorse 21 in questo periodo nel Mediterraneo centrale (con un calo del 70 per cento rispetto allo stesso periodo dello scorso anno) seppure con un aumento esponenziale delle vittime, non legittimano neppure l’attivazione dei meccanismi di solidarietà previsti dall’art.12 del Regolamento, che comunque non fanno alcun richiamo a modifiche temporanee dello stesso Regolamento Dublino, consistendo nel rinforzo delle unità e del personale dell’Agenzia, da impiegare a fini di contrasto dell’immigrazione irregolare e di controllo delle frontiere. Finalità che sarebbero pregiudicate, anche se in subordine al rischio di gravi perdite umane, ove gli stati ospitanti dovessero ritardare la individuazione di un luogo di sbarco sicuro nel proprio territorio. Quando l’Unione europea ed i ministri dell’interno parlano di sicurezza e di rischi, purtroppo, si riferiscono ai confini ed alle barriere terrestri e marittime, non certo alla sicurezza di chi è costretto a migrare, transitando magari da un paese fallito come la Libia, o a quella di coloro che comunque, malgrado tutto, sono riusciti ad arrivare.  18 - https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=LEGISSUM:l33216  19 - http://www.vita.it/it/article/2018/06/11/quella-di-salvini-e-una-violazione-deldiritto-internazionale/147167/  20 - https://www.linkiesta.it/it/article/2018/07/07/porti-chiusi-e-salvataggi-piudifficili-ormai-nel-mediterraneo-muore-u/38720/  21 - https://www.internazionale.it/bloc-notes/annalisa-camilli/2018/07/03/mortimigranti-mediterraneo-libia

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EUNAVFOR MED Operation Sophia - Photogallery

Il successivo Regolamento UE n.1624 del 14 settembre 2016 relativo alla Guardia di frontiera e costiera europea che integra il precedente Regolamento UE su Frontex del 2014, non intacca il riconoscimento dei diritti fondamentali nelle operazioni di soccorso in mare, cercando invece di istituire una collaborazione multi agenzia, anche allo scopo di una analisi dei rischi per la sicurezza (in caso di arrivi più consistenti) e di dare maggiore effettività alle operazioni di identificazione (hotspot) e rimpatrio con accompagnamento forzato (anche tramite voli congiunti). Il Regolamento n.1624 del 2016 fa solo un riferimento alle operazioni di ricerca e soccorso per le persone in pericolo in mare, per confermare che sono AGOSTO 2018 N.3 / A.4 - Voci


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ancora avviate e svolte a norma del regolamento (UE) n.656/2014 del Parlamento europeo e del Consiglio e del diritto internazionale, in situazioni che possono verificarsi nel corso di operazioni di sorveglianza delle frontiere in mare. È prevista la possibilità di azioni congiunte per la sorveglianza delle frontiere esterne, terrestri o marittime. Secondo l’art.21.4 del Regolamento, “nello svolgimento dei loro compiti e nell’esercizio delle loro competenze, i membri delle squadre rispettano pienamente i diritti fondamentali, compreso l’accesso alle procedure di asilo, e la dignità umana. Qualsiasi misura che essi adottino nello svolgimento dei loro compiti e nell’esercizio delle loro competenze deve essere proporzionata agli obiettivi perseguiti dalla misura stessa. Nello svolgimento dei loro compiti e nell’esercizio delle loro competenze essi non discriminano le persone in base al sesso, alla razza o all’origine etnica, alla religione o alle convinzioni personali, alla disabilità, all’età o all’orientamento sessuale”. Come prevede l’art.34 del Regolamento n.1624 del 2016, “la guardia di frontiera e costiera europea garantisce la tutela dei diritti fondamentali nell’esecuzione dei suoi compiti a norma del presente regolamento in conformità del pertinente diritto dell’Unione, in particolare la Carta, il diritto internazionale pertinente, compresi la Convenzione del 1951 relativa allo status di rifugiati e il suo protocollo del 1967, così come degli obblighi inerenti all’accesso alla protezione internazionale, in particolare il principio di non respingimento”. Nell’esecuzione dei suoi compiti, la guardia di frontiera e costiera europea provvede affinché nessuno sia sbarcato, obbligato a entrare o condotto in un paese, o altrimenti consegnato o riconsegnato alle autorità dello stesso, in violazione del principio di non respingimento, o in un paese nel quale sussista un rischio di espulsione o di rimpatrio verso un altro paese in violazione di detto principio. In base all’art.54 del Regolamento n.1624 del 2016, per quanto attiene alle sue attività e nella misura necessaria per l’espletamento dei suoi compiti, l’Agenzia agevola e incoraggia la cooperazione tecnica e operativa tra Stati membri e paesi terzi nel quadro della politica dell’Unione in materia di relazioni esterne, in particolare con riferimento alla protezione dei diritti fondamentali e al principio di non respingimento. L’Agenzia e gli Stati membri osservano il diritto dell’Unione, tra cui norme e standard che fanno parte dell’acquis dell’Unione, anche quando la cooperazione con i paesi terzi avviene nel territorio di detti paesi. L’instaurazione di una cooperazione con i paesi terzi consente di promuovere norme europee in materia di gestione delle frontiere e di rimpatrio. La Guardia di frontiera e di costiera europea non può dunque sbarcare in Africa alcun naufrago Voci - AGOSTO 2018 N.3 / A.4

Frontex Annual Risk Analysis 2017 - https://frontex.europa.eu/assets/Publications/Risk_Analysis/Annual_Risk_Analysis_2017.pdf

soccorso in acque internazionali riconsegnandolo alle autorità libiche, né può avere accesso ai porti libici, eventualmente indicati da autorità SAR, alle medesime finalità di sbarco in un porto sicuro. L’unica autorità statale competente ad indicare il luogo di sbarco, garantendo un POS (place of safety) è quella del paese ospitante la missione europea, che nel caso delle missioni Themis di Frontex 22 e Sophia di Eunavfor MED 23 è l’Italia. Con Themis, missione Frontex fortemente voluta da Minniti, ed adesso “a disposizione di Salvini” 24, avrebbe avuto termine la sorveglianza nell’area di 138 miglia dalla Sicilia parzialmente sovrapposta alla zona Sar maltese, affidata all’Italia sia per il coordinamento dei soccorsi sia per l’accoglienza in propri Pos. Secondo alcuni, con l’avvio dell’Operazione Themis di Frontex22, sarebbe addirittura “decaduto” l’obbligo dell’Italia di indicare alle unità di Frontex un porto sicuro di sbarco sul proprio territorio, ma le prassi non sono cambiate in passato, anche se gli interventi sono stati meno frequenti a fronte del grande calo degli arrivi, diminuiti di oltre il 70 per cento rispetto all’anno precedente. Anche chi in ambienti militari osserva che sarebbe “decaduto l’automatico trasporto  22 - http://www.interno.gov.it/it/notizie/themis-nuova-operazione-navale-frontex  23 - http://www.consilium.europa.eu/it/press/press-releases/2018/05/14/eunavformed-operation-sophia-operation-to-contribute-to-better-information-sharing-oncrime-in-the-mediterranean/  24 - https://openmigration.org/analisi/themis-la-missione-di-frontex-voluta-daminniti-di-cui-ora-dispone-matteo-salvini/

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in Italia dei migranti 25 recuperati in mare”, da noi accettato sin dal 2014, rileva però che “le deroghe appaiono tuttavia poca cosa rispetto ai principi di solidarietà che dovrebbero governare anche il Sar. Vani sono i nostri tentativi di spostare l’attenzione dell’Ue dalla sicurezza delle frontiere marittime a quella del salvataggio. In attesa che si approvi la riforma del sistema di Dublino 26 la partita va per ora giocata attraverso accordi Sar tra noi e i vicini.” La “partita” per una vera riforma del sistema Dublino, che si allontana giorno dopo giorno non può essere giocata chiudendo i porti ed allontanando le Ong, dunque ancora una volta sulla pelle dei migranti. La recente istituzione di una zona SAR libica, intervenuta dopo la notificazione all’IMO di Londra da parte delle autorità del governo di Tripoli 27 si scontra con il dato ineludibile che attualmente, su un tratto di costa di almeno 1000 chilometri da sorvegliare, il governo di Tripoli, che neppure controlla l’intera Tripolitania, dispone soltanto di tre motovedette di media grandezza, oltre alcuni gommoni. Mezzi concepiti per intercettare e minacciare, non per soccorrere, privi come sono delle necessarie dotazioni di sicurezza per attività SAR (Search and rescue). Le fotografie, recenti e meno recenti, dei soccorsi operati dai libici rendono molto bene la situazione reale. Quanto previsto adesso dal recente decreto legge approvato dal Consiglio dei ministri, non modificherà in modo sostanziale la situazione, trattandosi della cessione ai libici di due imbarcazioni di altura della lunghezza di circa 30 metri, che nella maggiore ipotesi di capienza potranno salvare 100 persone, mentre sui gommoni sovraccarichi che partono dalla Libia, spesso contemporaneamente, si contano fino a 120140 persone. Per non parlare dei livelli di corruzione sistemica 28 che ancora si riscontrano tra le milizie che controllano i porti da cui escono i mezzi della cd. Guardia costiera libica o direttamente imbarcate in mare. Per controllare e bloccare i gommoni diretti verso nord, ma anche per ricercare o sorvegliare l’ingente contrabbando di petrolio dalla Libia verso Malta e il resto dell’Unione Europea. Eppure malgrado tutto questo, ed una situazione assolutamente instabile, persino a Tripoli, si rispolverano gli accordi del 2008 tra Berlusconi e Gheddafi, citati del resto anche nel Memorandum d’intesa tra governo italiano ed autorità di Tripoli, sottoscritto il 2 febbraio 2017. Accordi preceduti da  25 - http://www.affarinternazionali.it/2017/12/migranti-italia-diritti-libia/  26 - http://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/europa/2017/10/19/da-pe-primo-vialibera-a-riforma-dublino_  27 - http://www.vita.it/it/article/2018/06/28/la-libia-ha-dichiarato-la-sua-zona-sarlo-conferma-limo/147392/  28 - https://openmigration.org/analisi/quattro-domande-cruciali-sulla-libia-anancy-porsia/

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FRONTEX Joint Operation Themis 2018 - Photogallery

AGOSTO 2018 N.3 / A.4 - Voci


Speciale migrazioni

Il Colonnello Moamer Kadhafi viene salutato dall’allora Primo Ministro italiano Silvio Berlusconi al suo arrivo per la sua prima visita in Italia il 10 giugno 2009 all’aeroporto di Ciampino - © CHRISTOPHE SIMON/AFP/Getty Images

un Protocollo operativo che anticipava già nel 2007 (governo Prodi) 29 quanto si vorrebbe completare oggi. Ma ora si fa balenare la possibilità che ai libici (di Tripoli) oltre alle motovedette, arrivino cinque miliardi di euro, soltanto dall’Italia, e dunque a carico dei contribuenti, perché l’Unione Europea, con il fantomatico Africa Trust, ha già fatto sapere che non verserà più di qualche decina di milioni di euro 30. Anche gli attuali stanziamenti di spesa decisi dal governo italiano sono irrisori. Le altre dieci “motovedette” promesse alla Guardia costiera “libica” sono piccoli motoscafi adatti per la navigazione costiera 31, con una capacità di carico limitata, in caso di soccorso, a qualche decina di persone, dunque del tutto insufficienti per garantire effettive attività SAR (ricerca e soccorso) nella vasta zona che viene adesso riconosciuta sulla carta alla loro competenza. Non si può dunque ritenere che la notifica della zona sar “libica” all’IMO corrisponda ad un sostanziale disimpegno delle autorità SAR confinanti, dunque le autorità maltesi, ed in primo luogo, sulla base delle prassi consolidate nei rapporti con la Valletta, quelle italiane. Sono comunque le autorità italiane che rimangono allo stato le uniche che coordinano le operazioni delle navi delle missioni europee, come  29 - http://fortresseurope.blogspot.com/2006/01/italia-libia-firmato-laccordo-peril.html  30 - https://www.agi.it/breakingnews/migranti_ue_stanzia_90_5_milioni_per_ africa_29_milioni_in_libia-4119352/news/2018-07-06/  31 - https://www.a-dif.org/2018/07/03/un-decreto-legge-per-la-guardia-costieradella-libia-che-non-esiste-la-pianificazione-della-strage/

Voci - AGOSTO 2018 N.3 / A.4

è avvenuto da ultimo con lo sbarco a Messina del 7 luglio scorso 32. Nonostante l’avvicendamento del comando dell’Operazione Eunavfor Med, l’operazione rimane “ospitata” nei porti italiani. Non potrebbe svolgere altrimenti le sue missioni a nord della costa libica. Il 31 agosto 2017, a bordo della nave anfibia San Giusto ormeggiata a Taranto, alla presenza del ministro della Difesa italiano, Roberta Pinotti, del ministro della Difesa spagnolo, Maria Dolores de Cospedal Garcia, del comandante dell’operazione, ammiraglio Enrico Credendino, il contrammiraglio Andrea Romani ha ceduto l’incarico di force commander dell’operazione Sophia al contrammiraglio della Marina spagnola Javier Moreno 33. L’Italia rimane dunque “paese ospitante” della missione Sophia di Eunavfor Med 34, che si avvale stabilmente delle basi della Marina militare a Taranto, ad Augusta ed a Messina. I numeri parlano chiaro, nel 2017 ben 130.000 persone sono state soccorse nelle acque che oggi vengono ritenute ricadere nella zona SAR “libica” da mezzi militari, privati e commerciali “sotto il coordinamento” della centrale operativa della Guardia costiera italiana  32 - http://www.ansa.it/sito/notizie/cronaca/2018/07/08/migranti-in106-a-messina-accolti-da-magliette-rosse.-salvini-chiedero-stop-naviinternazionali_98268b3f-a05b-498e-8e98-1666cc28a072.html  33 - http://www.analisidifesa.it/2017/09/eunavfor-med-agli-spagnoli-il-comandodelle-forze-in-mare/  34 - https://www.operationsophia.eu/wp-content/uploads/2018/04/Mission.pdf

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Speciale migrazioni

(IMRCC di Roma) 35. Anche se le partenze dalla Libia sono calate del 70 per cento, si può ritenere che i libici potranno provvedere con i mezzi che si ritrovano a soccorrere almeno 50.000 persone quest’anno? E se anche questo avvenisse, che fine farebbero queste persone riportate in Libia, dal momento che OIM ed UNHCR riescono a evacuare dai centri di detenzione di quel paese, in un anno, appena qualche migliaio di persone” in condizioni particolari di vulnerabilità, come minori non accompagnati e donne con bambini piccoli? E tutti gli altri che fine faranno? Si vuole fare finalmente una valutazione delle conseguenze mortali dell’allontanamento delle ONG? 36 Se l’Italia volesse dismettere la propria qualità di “paese ospitante” delle operazioni Frontex ed Eunavfor Med nel Mediterraneo centrale, oltre all’ennesimo prevedibile scontro con Malta, potrebbe andare incontro ad una procedura di infrazione a livello di Corte di Giustizia dell’Unione europea. Non tanto e non solo perché attenterebbe alla vita delle persone a rischio di naufragio nell’area di operatività delle missioni europee, ma anche perché questa sua scelta intaccherebbe il perseguimento delle finalità di controllo delle frontiere e di contrasto dell’immigrazione irregolare 37, imposto con valore normativo inderogabile dai due Regolamenti appena richiamati e da precisi deliberati delle Nazioni Unite (in particolare n.2146 (2014) e n.2362 (2017) del Consiglio di sicurezza dell’ONU. Gli accordi bilaterali non possono derogare i trattati internazionali sottoscritti a livello di Nazioni Unite o di Consiglio d’Europa. Non contento di questo ennesimo stop che arriva da Bruxelles 38, sempre utile comunque ad alimentare il becero populismo nazionalista che sta dilagando in Italia, moltiplicando i consensi della lega, Salvini adesso si prepara al prossimo vertice di ministri dell’interno, gli uomini forti dei governi europei, riuniti ad Innsbruck al primo Consiglio informale della presidenza austriaca. Il ministro dell’interno, ma nella qualità di vicepresidente del Consiglio spesso in sovrapposizione agli altri ministri, ritiene di potere sfruttare una emergenza, per riaprire la trattativa sul Regolamento Dublino rinegoziando i porti di sbarco delle missioni internazionali. Tra gli altri obiettivi, la costruzione di un asse di partiti populisti in Europa, anche in vista del rinnovo del Parlamento europeo il prossimo anno.  35 - http://www.guardiacostiera.gov.it/attivita/Documents/attivita-sarimmigrazione-2017/annuale%202017%20ita.pdf  36 - https://www.unhcr.it/risorse/carta-di-roma/fact-checking/ong-salvataggi-mare11-domande-risposte-chiarezza  37 - http://www.difesaonline.it/evidenza/diritto-militare/operazione-eunavfor-medii-o-sophia-e-lazione-delle-nazioni-unite-e  38 - http://www.ilgiornale.it/news/mondo/migranti-commissione-ue-non-lirimanderemo-libia-1547816.html

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Adesso Salvini minaccia: “Dopo aver fermato le navi delle Ong, giovedì (12 luglio) porterò al tavolo europeo di Innsbruck la richiesta italiana di bloccare l’arrivo nei porti italiani delle navi delle missioni internazionali attualmente presenti nel Mediterraneo. Purtroppo i governi italiani degli ultimi 5 anni avevano sottoscritto accordi (in cambio di cosa?) perché tutte queste navi scaricassero gli immigrati in Italia, col nostro governo la musica è cambiata e cambierà”. Immediata la protesta del ministro della difesa Trenta, responsabile della Marina militare 39, che questa volta lamenta l’ennesima invasione di campo da parte dell’onnipresente ministro dell’interno. Il ruolo di vicepremier non può consentire a nessuno di scardinare le competenze ministeriali, ed il principio di collegialità del governo, stabiliti dalla Costituzione italiana. È evidente il tentativo di coinvolgere, giocando tutto sulla criminalizzazione delle ONG e sull’abbandono programmato di centinaia di migranti in acque internazionali, le grandi navi militari delle missioni Frontex ed Eunavfor Med in operazioni di “riconsegna” dei naufraghi ai libici, direttamente in mare, oppure a terra. Un tentativo che non è ancora riuscito. Anzi un rappresentante della Commissione Europea 40 ha ricordato a Salvini che le vigenti normative europee vietano alle navi delle missioni europee ( incluse quelle italiane) la riconsegna ai libici, diretta, o indiretta, dei naufraghi soccorsi nel Mediterraneo Centrale. Ed è per questa ragione che, dopo avere rifiutato il coordinamento, le autorità italiane hanno indicato Messina, come porto sicuro di sbarco ad una nave della missione Eunavfor Med che aveva svolto la sua attività di soccorso in quella che dal 28 giugno si vuole definire come “zona Sar libica” 41, ma nella quale i libici di Tripoli e la Guardia costiera che vi fa riferimento, non è evidentemente in grado di intervenire. Come denunciato in diverse occasioni dai comandanti delle navi delle ONG che per questa ragione sono diventati nemici da eliminare al più presto. Come si sta cercando di fare, con motivazioni sempre più pretestuose a Malta 42. Siamo di fronte all’ennesima tattica elettorale di un ministro dell’interno che continua ad operare come il capo di un partito, ed al tempo stesso come il padrone dell’intero governo, una tattica già sperimentata, e fallita, alla vigilia del Consiglio Europeo del 28 e del

39 - https://www.ilfattoquotidiano.it/2018/07/08/migranti-nave-irlandese-amessina-106-sbarcati-toninelli-ce-lo-impone-folle-accordo-sophia-salvini-portichiusi/4478875/  40 - http://www.ilgiornale.it/news/mondo/migranti-commissione-ue-non-lirimanderemo-libia-1547816.html  41 - https://www.theguardian.com/world/2018/jul/03/mediterranean-migrantsdrown-three-days-libya-italy?CMP=share_btn_tw  42 - https://www.aljazeera.com/topics/country/malta.html AGOSTO 2018 N.3 / A.4 - Voci


Speciale migrazioni

Fotogramma di una ricostruzione video del caso della Sea Watch contro la Guardia costiera libica, di Forensic Oceanography e Forensic Architecture, Maggio 2017 http://www.lavoroculturale.org/rapporto-forensic-oceanography/

29 giugno scorsi 43. Si individua un bersaglio, prima le ONG, adesso le missioni europee, di fatto accomunate nell’accusa, già rivolta a Mare Nostrum, e poi anche a Frontex, di essere un fattore di attrazione (pull factor) rispetto alle partenze dei gommoni dalla Libia. Si maschera in questo modo la mancanza di una vera politica capace di rispettare i diritti fondamentali delle persone, a partire dal diritto alla vita. Poi si spara una richiesta improponibile all’Unione europea 44, che in questa fase non riesce a decidere nulla per lo scontro tra i diversi nazionalismi, ed è comunque vincolata al rispetto dei Regolamenti e delle Direttive approvate negli anni scorsi. Infine si incassa il consenso elettorale, rimarcando che adesso in Europa sono costretti a discutere sulle proposte italiane, anche se in realtà i risultati che si portano a casa sono molto modesti, se non nulli, come dimostra il fallimento italiano all’ultimo vertice di Bruxelles. Seguito dallo stop repentino arrivato dall’Unione Europea sulla proposta italiana di utilizzare per i rimpatri fondi europei aventi una diversa destinazione 45. Si lamenta di essere abbandonati dall’Unione Europea, ma poi si diventa strumento dell’unica proposta che i capi di governo riescono ad individuare, sulla pelle dei migranti intrappolati in Libia. Tutta la politica di Salvini, e purtroppo in precedenza anche buona parte di quella di Gentiloni e Minniti, punta  43 - http://www.repubblica.it/politica/2018/06/24/news/vertice_ue_ecco_la_ proposta_italiana_in_dieci_punti-199920005/  44 - https://www.internazionale.it/bloc-notes/christian-raimo/2018/07/03/salvinipontida  45 - http://www.repubblica.it/politica/2018/07/06/news/la_ue_blocca_il_progetto_ del_viminale_di_rimpatrio_dei_migranti_utilizzando_42_milioni_di_fondi_ comunitari-201035474/

Voci - AGOSTO 2018 N.3 / A.4

sulla collaborazione con il governo di Tripoli e la Guardia costiera “libica” per bloccare le partenze, per lasciare ai libici gli interventi di intercettazione in acque internazionali 46, in una zona SAR costruita a tavolino e recentemente inserita nei data base dell’IMO (Organizzazione internazionale del mare), in modo di aumentare il numero dei migranti bloccati in mare e confinati nei centri di detenzione in Libia, siano essi governativi o gestiti dalle milizie. Luoghi la cui disumanità è sottolineata ancora in questi giorni dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, che però sta lavorando alacremente alla organizzazione di un grande “centro di accoglienza” a Tripoli 47. Anche se le prospettive di resettlement di coloro che verranno “accolti” in questa nuova struttura perché riconosciuti meritevoli di protezione, si collocano nel Niger ed in altri paesi a sud della Libia. Con il sicuro risultato che, in assenza di paesi europei disposti ad accettarli attraverso corridoi umanitari, anche queste persone particolarmente vulnerabili, saranno costrette a rimettersi in viaggio nelle mani dei trafficanti. Il disegno di Salvini, potremmo dire il suo manifesto elettorale, che continua ad agitare anche da ministro dell’interno e vicepresidente del Consiglio, è quello di delegare alla Guardia costiera libica veri e propri respingimenti collettivi, coordinati di concerto con la Marina italiana 48, come del resto avveniva già a partire dai primi mesi di quest’anno, con la missione  46 - http://www.lavoroculturale.org/rapporto-forensic-oceanography/  47 - https://www.agensir.it/quotidiano/2018/7/6/migranti-mignone-unhcr-a-tripoliapre-centro-per-rifugiati/  48 - https://www.asgi.it/asilo-e-protezione-internazionale/libia-soccorsi-migranti/

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Nauras di stanza a Tripoli e con il trasferimento della competenza di Sar Coordinator (MRCC) 49 dalla Centrale operativa della Guardia costiera italiana di Roma ad una non meglio identificata Centrale operativa libica, o più spesso direttamente a singole unità della stessa Guardia costiera di Tripoli, che non si può certo definire “libica”. Per questo motivo le navi delle missioni europee presenti di fronte alla costa libica devono collaborare alle attività di intercettazione, ma non dovranno più sbarcare potenziali richiedenti asilo in Italia. I governi europei, e quelli italiani, dal governo Gentiloni-Minniti al governo Salvini-Di Maio sono tutti responsabili di gravi crimini contro l’umanità, per le modalità disumane con cui hanno gestito i rapporti con le autorità di Tripoli e con la sedicente Guardia costiera “libica”. Lo ha già affermato una sentenza del Tribunale permanente dei Popoli 50, che nel dicembre del 2017 ha condannato sia l’Italia che l’Unione Europea per gli accordi con la Libia. Le decine di testimoni già ascoltati in quella occasione sono in continuo aumento, ed i loro racconti, anche di quelli che hanno conosciuto i respingimenti delegati alla Guardia costiera di Tripoli, sono sempre più terribili. Che la Libia non offra porti sicuri di sbarco (place of safety) lo hanno affermato successivamente sentenze dei giudici italiani, come a Ragusa ed a Palermo 51, e aggiornati rapporti delle Nazioni Unite e delle più grandi Organizzazioni non governative. Eppure per il governo italiano, ancora oggi, la nave irlandese che ha soccorso naufraghi in acque internazionali, in quella che viene ritenuta - senza averne i requisiti come una zona SAR (Search and Rescue) “libica”, avrebbe dovuto sbarcare i naufraghi in un porto della Tripolitania, o dirigere verso l’Irlanda. Se avesse davvero ceduto al trasferimento di competenze dalla centrale operativa italiana (MRCC) di Roma, ad una qualche autorità di coordinamento a Tripoli, lo sbocco necessitato dell’azione di soccorso sarebbe stato il respingimento di fatto 52 delle persone verso la regione dalla quale erano fuggiti i migranti, venendo anche meno ai suoi compiti di “law enforcement”, di contrasto dei flussi migratori illegali, che, a differenza di Frontex, costituisce lo scopo principale della missione Eunavfor Med. Lo confermano in modo inconfutabile i documenti adottati a Bruxelles, probabilmente ignoti a Salvini, che nel suo periodo di parlamentare europeo si è distinto per le numerose assenze.

La direzione che sembra prendere l’Unione Europea, già emersa nel pre-vertice informale del 24 giugno 53, ed adesso consolidata nei documenti prodotti dalla presidenza austriaca, è quella di creare aree di sbarco “sicure” definite “piattaforme di sbarco” 54 in Libia, sempre che sia possibile evitare di infrangere divieti sanciti dalle Convenzioni internazionali, che si cerca di aggirare favorendo gli accordi bilaterali tra alcuni paesi UE più esposti, come la Grecia e l’Italia, ed i paesi terzi dai quali si teme l’arrivo del maggior numero di migranti, come la Turchia e la Libia, o quello che ne rimane. In Europa nelle zone più vicine alle frontiere esterne, si vogliono creare nuovi Hotspot, non più finalizzati alla prima identificazione ed alla Relocation (ormai fallita) 55, come si prevedeva nel 2015, ma trasformati in centri di detenzione e di selezione per i migranti che sono immediatamente rimpatriabili, o perché privati del diritto di accedere alle procedure di protezione, oppure perché denegati dopo un esame brevissimo, durato magari un paio di settimane, senza alcuna effettiva possibilità di ricorso. Si sta lavorando, a Bruxelles e nelle capitali europee, per trovare nuove risorse per centri di detenzione nei paesi di primo ingresso e per i rimpatri con accompagnamento forzato ed i rimpatri volontari, che spesso sono l’unica alternativa ad una lunga detenzione. Tutto questo senza nessuna modifica sostanziale che scardini, come chiediamo da tempo, il criterio fondamentale del vigente Regolamento Dublino, la competenza del paese di primo ingresso per l’esame e l’accoglienza dei richiedenti asilo. Un criterio che danneggia soprattutto l’Italia per effetto del quale nei prossimi mesi verranno fatti rientrare nel nostro paese decine di migliaia di richiedenti asilo denegati in Austria, in Germania, in Francia, in Olanda, in Svezia. Anche da quei paesi con cui la lega di Salvini cerca di costruire una lega europea delle leghe. Una mistione di nazionalismi che porterà allo scontro, tutti contro tutti, nel cuore dell’Europa, e potrebbe mettere a rischio anche la libertà di circolazione Schengen e a quel punto la stessa sopravvivenza dell’Unione Europea. Per non parlare delle migliaia di morti e dispersi che queste politiche produrranno giorno dopo giorno, Non ne parliamo ancora qui, ma li ricorderemo con le nostre azioni quotidiane. Fulvio Vassallo Paleologo ADIF - Associazione Diritti e frontiere Docente di Diritto d’Asilo e Statuto Costituzionale dello Straniero

49 - http://www.lavoroculturale.org/rapporto-forensic-oceanography/  50 - http://questionegiustizia.it/articolo/il-tribunale-permanente-dei-popolicondanna-l-ital_11-04-2018.php

53 - http://www.statewatch.org/news/2018/jul/eu-disembarkation-un-letter.htm

51 - http://questionegiustizia.it/articolo/open-arms-e-sea-watch-la-richiesta-diarchiviazione-della-procura-di-palermo_21-06-2018.php

54 - https://reliefweb.int/report/world/european-council-regional-disembarkationplatforms-key-objective

52 - http://www.lavoroculturale.org/rapporto-forensic-oceanography/

55 - http://www.today.it/politica/unhcr-migranti-relocation.html

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Armi e conflitti

CONTROLLO DELLE ESPORTAZIONI MILITARI: AGENDA PER IL VERO CAMBIAMENTO di Giorgio Beretta

ATT - Third Conference of State Parties - Ginevra, 11 Settembre 2017 / mwatana.org

N

on raggiungono il record storico siglato nel 2016 dal governo Renzi. Ma segnano comunque la seconda performance dal dopoguerra. E, soprattutto, confermano la propensione da parte dei recenti governi italiani a fare affari di armi con le monarchie autoritarie del Golfo Persico, in totale disprezzo delle violazioni dei diritti umani, del loro coinvolgimento nei conflitti mediorientali e finanche nel sostegno a gruppi terroristici.

Il mega-contratto per navi militari al Qatar Sto parlando delle autorizzazioni all’esportazione di armi e sistemi militari: nel 2017 si sono attestate a 10,3 miliardi di euro, inferiori solo ai 14,6 miliardi del 2016 (Si veda l’articolo: “Italia: indecente record nell’export di armamenti” – Voci Settembre 2017) 1. Il calo è dovuto soprattutto alla differenza di valore tra i due maxi-contratti siglati nei due anni con due paesi della penisola araba. Mentre nel 2016 l’affare di Alenia-Aermacchi (gruppo Leonardo, ex Finmeccanica)

per la fornitura al Kuwait di 28 Eurofighter era valso 7,3 miliardi di euro, il contratto firmato da Fincantieri col Qatar nel 2017 è di “soli” 4 miliardi di euro. Si tratta di quattro corvette multiruolo complete di sistemi da combattimento e munizionamento, una “nave da sbarco” LPD – Landing Platform Dock e due pattugliatori OPV – Offshore Patrol Vessel comprensivi di sistema di combattimento) e di missili da difesa aerea della MBDA Aster 30 Block 1 e VL Mica oltre agli antinave Exocet MM-40 Block 3. Un ampio arsenale bellico che la sottosegretaria di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri, on. Maria Elena Boschi, nella sezione di sua competenza ha liquidato sbrigativamente definendola una «fornitura di navi e di batterie costiere».

Sempre più armi ai regimi autoritari Ma l’elenco dei regimi autoritari a cui l’Italia anche nel 2017 ha autorizzato forniture di armamenti è lungo e vario. Si comincia con l’Arabia Saudita (52 milioni di euro), a cui vanno aggiunti altri 245 milioni di euro per gli Efa “Al Salam” e i Tornado “Al

1 - http://www.amnestysicilia.org/wordpress/voci-numero-3-anno-3/

Voci - AGOSTO 2018 N.3 / A.4

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Armi e conflitti

Yamamah” riportati nei programmi intergovernativi. E si prosegue con Turchia (266 milioni), Pakistan (174 milioni), Algeria (166 milioni), Oman (69 milioni), Iraq (55 milioni), Emirati Arabi Uniti (29 milioni), Marocco (7,7 milioni), Egitto (7,3 milioni), Kuwait (2,9 milioni) e Turkmenistan (2,2 milioni). Come ha rilevato con un comunicato la Rete italiana per il Disarmo, «il risultato è evidente: gli affari “armati” dell’industria a produzione militare italiana si indirizzano sempre di più al di fuori dei contesti di alleanze internazionali dell’Italia verso le aree più problematiche del mondo». I Paesi non appartenenti all’UE o alla NATO sono infatti destinatari del 57% delle autorizzazioni all’esportazione rilasciate nel corso del 2017. E circa il 48% sono per i Paesi MENA, cioé del Medio Oriente e Nord Africa: una zona in cui conflitti, tensioni e violazioni dei diritti umani sono sotto gli occhi di tutti.

Nuove forniture di bombe per l’Arabia Saudita Spiccano soprattutto quei 52 milioni di euro di autorizzazioni per l’Arabia Saudita. In gran parte sono per bombe aeree del tipo MK82, MK83 e MK84 prodotte dalla RWM Italia, l’azienda che ha sede legale a Ghedi, in provincia di Brescia, e lo stabilimento a Domusnovas in Sardegna. Reperti di queste bombe sono stati ritrovati dagli esperti dell’Onu nelle città yemenite bombardate dalla Royal Saudi Air Force. Nel 2017 le nuove forniture ai sauditi di queste bombe hanno superato i 45 milioni di euro: rappresentano un record non solo per la piccola azienda di Domusnovas, dove la RWM Italia le produce per conto della multinazionale tedesca Rheinmetall, ma per l’intera produzione ed esportazione italiana di ordigni bellici.

Nonostante tre risoluzioni del Parlamento europeo abbiano ribadito la necessità di imporre un embargo sugli armamenti nei confronti dell’Arabia Saudita in considerazione delle gravi violazioni del diritto umanitario nell’ambito del conflitto in corso in Yemen, lo scorso settembre il Parlamento italiano non ha fermato queste esportazioni 2. Rigettando le risoluzioni proposte dalle opposizioni, la Camera ha di fatto deciso di non accogliere la richiesta delle associazioni della società civile (tra cui Amnesty International – Italia) che avevano chiesto di sospendere queste esportazioni. Il giorno prima del voto alla Camera, il Parlamento europeo si era espresso, con una risoluzione votata ad ampia maggioranza, in modo inequivocabile: (il Parlamento europeo) «Ritiene che le esportazioni all’Arabia Saudita violino almeno il criterio 2 (della Posizione Comune) visto il coinvolgimento del paese nelle gravi violazioni del diritto umanitario accertato dalle autorità competenti delle Nazioni Unite; ribadisce il suo invito del 26 febbraio 2016 relativo alla necessità urgente di imporre un embargo sulle armi nei confronti dell’Arabia Saudita». Evidentemente per alcuni partiti ciò che si può votare a Strasburgo non si può, anzi non si deve, votare a Roma.

Una nuova denuncia internazionale Lo scorso aprile, la Rete Italia per il Disarmo insieme all’’European Center for Constitutional and Human Rights (Ecchr) e all’organizzazione yemenita per i diritti umani Mwatana, ha presentato una nuova denuncia penale 3 alla Procura della Repubblica italiana di Roma. L’esposto chiede che venga avviata un’indagine sulla responsabilità penale dell’Autorità italiana che  2 - https://www.osservatoriodiritti.it/2017/09/22/guerra-yemen-camera-vendita-armi/  3 - https://www.disarmo.org/rete/a/45314.html

IN EVIDENZA Grafici dall’articolo: “Italia: indecente record nell’export di armamenti” – Voci Settembre 2017 Italia - Export di armamenti: Autorizzazioni e consegne - Anni 1990-2016

Esportazioni di armanenti italiani 2016 - Autorizzazioni per zone geopolitiche Africa Subsahariana 0,7%

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(in miliardi di euro costanti)

14,6

America Latina 1,0%

14

Nord America 2,6% 12,0

12

Asia 2,1%

Altri Europei e Osce 0,3% Oceania 0,2%

Zone Geopolitiche

Valori (in euro)

%

Medioriente e Nordafrica Europa e membri Nato dell’UE Nord America Asia America Latina Africa Subsahariana Altri Europei e Osce Oceania TOTALE

8.609.280.340 5.015.820.147 381.554.438 305.921.270 147.984.582 97.497.276 43.373.418 36.346.286 14.637.777.758

58,8 34,3 2,6 2,1 1,0 0,7 0,3 0,2 100,0

Europa e membri Nato dell’UE 34,3%

10 8,7 8

Medioriente e Nordafrica 58,8%

7,4 6,4

6

5,7

5,5

5,5

4,9 4,5 4

2

1,7

2,2

2,7

2,3 1,6

2,8

3,4

4,1

3,3

2,9

1,9

1,8 1,3

3,1 2,9

2,4

2,8

1,8

1,4

1,4 0,7

0,6

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1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013 2014 2015 2016

Autorizzazioni (Esteri+Difesa)

Consegne

Autorizzazioni+Intergovernativi

Elaborazione di G. Beretta sui dati della Relazione della Presidenza del Consiglio Elaborazione di G. Beretta sui dati della Relazione della Presidenza del Consiglio

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AGOSTO 2018 N.3 / A.4 - Voci


Armi e conflitti

autorizza le esportazioni di armamenti (Unità per le autorizzazioni dei materiali d’armamento – UAMA) e degli amministratori della società produttrice di armi Rwm Italia S.p.A. per le esportazioni di armamenti destinate ai membri della coalizione militare guidata dall’Arabia Saudita coinvolti nel conflitto in Yemen. Una denuncia estremamente dettagliata che riporta il caso di un raid aereo effettuato l’8 ottobre 2016, verosimilmente dalla coalizione militare guidata dall’Arabia Saudita, che ha colpito il villaggio di Deir AlHajari, nello Yemen nord-occidentale, distruggendo la casa della famiglia Houssini e uccidendo sei persone, tra cui una madre incinta e quattro bambini. Sul luogo dell’attacco sono stati rinvenuti i resti di bombe e un anello di sospensione prodotti da Rwm Italia. «Quello nello Yemen è un conflitto in cui vengono commessi crimini di guerra» – ha commentato Riccardo Noury di Amnesty International – «L’idea che l’Italia possa essere stata complice di crimini di guerra attraverso la produzione, l’autorizzazione, l’esportazione e l’uso di bombe partite dallo stabilimento della RWM Italia dovrebbe produrre orrore».

Il Palamento UE: “Si applichino le norme dell’ATT” La già citata Risoluzione del Parlamento europeo è particolarmente rilevante. Attraverso di essa, l’Europarlamento non solo ha chiesto maggior rigore e trasparenza sulle esportazioni di sistemi militari da parte dei Paesi membri ma, soprattutto, ha ribadito l’obbligo di attenersi alle norme del “Trattato sul commercio di armi” (Arms Trade Treaty – ATT). Il Parlamento europeo ha infatti espressamente chiesto agli Stati membri di «effettuare un esame più dettagliato della produzione su licenza da parte dei paesi terzi e a garantire il rafforzamento delle salvaguardie contro gli usi indesiderati; chiede l’applicazione rigorosa della Posizione comune per

quanto riguarda la produzione su licenza in paesi terzi; incoraggia gli Stati membri ad esaminare la posizione assunta dal paese terzo e il suo status in relazione all’ATT al momento di decidere in merito a trasferimenti che rafforzerebbero la capacità di tale paese in termini di produzione e/o esportazione di attrezzature militari». Ma c’è di più. Il Parlamento europeo rileva, infatti, «che non tutti i parlamenti nazionali dell’Unione esercitano un controllo sulle decisioni del governo in merito al rilascio di licenze elaborando, tra le altre cose, relazioni annuali sulle esportazioni di armi». Per questo ha chiesto «un rafforzamento generale della vigilanza parlamentare e pubblica».

Un’agenda per il cambiamento Un compito, quest’ultimo, al quale la Rete italiana per il Disarmo non si è mai sottratta. All’indomani dell’insediamento del nuovo governo, Rete Disarmo ha infatti chiesto un confronto con le Commissioni Esteri e Difesa, sul controllo delle esportazioni militari, sulla riduzione della spesa militare, la ridefinizione di obiettivi e strumenti delle missioni militari all’estero, la partecipazione dell’Italia a processi concreti di disarmo nucleare, il definanziamento della produzione di mine anti-persona e bombe a grappolo, la messa al bando preventiva delle armi completamente autonome, la difesa civile non armata e nonviolenta, le azioni di controllo sull’utilizzo dei droni armati. Un’ampia, ma necessaria agenda, che non può essere elusa da quello che si definisce il “Governo del cambiamento”.

Giorgio Beretta Sociologo, membro della Rete Italiana per il Disarmo

STOP ALLE ARMI ITALIANE IN YEMEN

https://www.amnesty.it/appelli/le-armi-italiane-non-possono-continuare-distruggere-le-vite-dei-civili-yemeniti/

Voci - AGOSTO 2018 N.3 / A.4

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Armi e conflitti

LA GUERRA NASCOSTA DEI DRONI di Maurizio Simoncelli

Un Reaper MQ-9 Remote Piloted Air System (RPAS) si prepara al decollo in Afghanistan - 17 March 2011 / Ph.: Corporal Steve Follows RAF - MOD © Crown copyright

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li sviluppi tecnologici nel settore aerospaziale militare hanno portato ad un crescente utilizzo dei droni, che sono velivoli guidati a distanza da un equipaggio variamente composto. I droni militari possono avere un duplice uso, quello con finalità ISTAR (cioè rilevazione, sorveglianza, controllo ecc.) e quello di attacco. Nel corso degli ultimi anni l’utilizzo dei droni militari è andato espandendosi sia quantitativamente sia qualitativamente al punto che gli analisti prevedono che in futuro l’intera aviazione militare sarà formata da questi nuovi mezzi che evitano rischi vitali per gli equipaggi presenti a bordo negli aerei a pilotaggio tradizionale. In tal modo in caso di conflitto si può ipotizzare la teoria delle perdite zero per chi li utilizza: al massimo potrebbe essere abbattuto il velivolo, ma l’equipaggio collocato a distanza anche di molti km non correrebbe alcun rischio. Vi sono droni come il Global Hawk in grado di volare 30 ore consecutive, guidato a distanza da diversi equipaggi che successivamente si possono intercambiare senza interrompere mai le attività della missione del velivolo. Se inizialmente furono Israele e gli Stati Uniti i primi ad utilizzarli, essi ormai sono in dotazione di una quarantina di paesi e il loro uso va diffondendosi sempre più, dato che permettono missioni di attacco rischiose in territori ostili senza rischi per le vite umane dei piloti. Ma il rischio rimane per le vite delle persone che si trovano nell’area dell’obiettivo al punto 19

che neppure i dati forniti dalla National Intelligence Agency statunitense nel 2016 riescono a precisare quante sono le vittime di questi attacchi. Ancor meno si hanno dati attendibili sui cosiddetti danni collaterali, cioè sui civili innocenti uccisi e feriti. A parte gli errori di valutazione (tristemente famoso fu l’attacco ad una festa di matrimonio in Pakistan), proprio l’utilizzo di queste armi in territori dove non si è presenti direttamente, ma solo attraverso la rilevazione satellitare, aerea o telefonica (il segnale del cellulare) aumenta enormemente i margini di errore nella valutazione che avviene attraverso sì tecnologie sofisticate (monitor, radar ecc.), ma comunque non infallibili data comunque la decisione umana. Inoltre, non di rado, vengono utilizzati non in situazioni di conflitto aperto, ma per l’eliminazione selettiva di precisi obiettivi soprattutto nell’ambito della guerra permanente al terrorismo, così come la definì Bush jr. all’indomani dell’attentato alle Twin Towers. I droni, dotati di bombe o di missili, colpiscono improvvisamente l’obiettivo, magari per strada o in un appartamento, nelle cui vicinanze scorre la vita quotidiana della popolazione, che viene drammaticamente coinvolta nell’attacco. Si pongono pertanto diversi problemi. In primo luogo in una situazione di conflitto conclamato la popolazione civile è di fatto allertata e cerca di mettersi al sicuro, mentre i combattenti, in base al diritto internazionale AGOSTO 2018 N.3 / A.4 - Voci


Armi e conflitti

di guerra, devono cercare di limitare al massimo i danni nei confronti dei civili medesimi. In secondo luogo, se nel conflitto armato le due parti si sparano reciprocamente, nel caso dell’attacco improvviso del drone teso all’eliminazione fisica del singolo o del gruppo si pone la questione giuridica dell’esecuzione extragiudiziale attivata spesso in assenza di una sentenza definitiva di morte, per di più eseguita spesso sul territorio di un altro stato, che potrebbe non consentire o anche non avere nel proprio ordinamento la pena capitale. Per fare un esempio, si potrebbe immaginare un attacco di un drone straniero contro un presunto terrorista sul territorio italiano, senza informare il nostro governo e senza rispettare il nostro dettato legislativo che non prevede la condanna a morte. In terzo luogo, la collaborazione di un governo con un altro, ospitando le basi dei droni armati del secondo, pone ulteriori interrogativi in merito ad eventuali azioni di esecuzioni extragiudiziali e alle diverse responsabilità. In quarto luogo, come già accennato, non esiste trasparenza sull’informazione in merito a queste azioni e sulla catena di comando, nonché sui processi decisionali: nel caso statunitense molte operazioni sono affidate alla CIA, cioè proprio ai servizi segreti. L’Italia attualmente è dotata di droni militari con funzione ISTAR, ma ha richiesto agli USA le componenti per trasformarli con finalità d’attacco, fatto che si dovrebbe concretizzare nel volgere di pochi mesi. Questo rilevante passaggio funzionale da ricognizione a mezzo di attacco non ha visto però un’elaborazione politica e dottrinale che ne definisse le modalità d’uso, la casistica, la catena di comando ecc.

Chi e quando si deciderà di usarli? E dove? Contro chi? Se non siamo in guerra dichiarata o nell’ambito delle nostre cosiddette missioni di peacekeeping, che in realtà combattono, l’uccisione non rientra nelle possibilità delle nostre forze armate. Infine, non va dimenticato che queste nuove tecnologie dei droni, oltre a diffondersi nelle varie forze armate regolari ed anche in quelle irregolari (tipo ISIS), sono soggette anche a contromisure elettroniche, che possono disturbarne i segnali e deviarne gli attacchi. Non sono l’arma risolutiva, ma solo un altro passo nella corsa tecnologica che già si proietta verso le LAWS, le armi autonome, che da sole si attivano, operano e colpiscono, senza più neppure l’ausilio umano remoto. Si va verso la spersonalizzazione crescente della guerra di pari passo con la sua facilitazione, proprio perché assente l’elemento umano. Ma le guerre, anche se dimenticate e apparentemente lontane, periferiche, provocano morte e distruzione, miseria e profughi, disperazione e terrorismo, che nel mondo globalizzato ci raggiungono e coinvolgono comunque. Maurizio Simoncelli Storico ed esperto di geopolitica, Vicepresidente e cofondatore dell’Istituto di Ricerche Internazionali Archivio Disarmo (IRIAD)

IN EVIDENZA https://www.amnesty.it/campagne/armi-diritti-umani/

FERMIAMO LE COMPLICITÀ ITALIANE NEL PROGRAMMA DRONI DEGLI USA

https://www.amnesty.it/appelli/fermiamo-le-complicita-italiane-nel-programma-droni-degli-usa/

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SOCIAL NETWORK, HATE SPEECH E DIRITTI UMANI di Chiara Di Maria

Amnesty International ha più volte richiamato l’attenzione sulla stretta connessione tra la protezione dei diritti fondamentali e i rischi della manipolazione dell’informazione online e della diffusione del linguaggio dell’odio e della violenza / Ph.: immagine gratis - Pixabay

ODIO

è la parola di questi tempi: poche altre possono vantare oggi la stessa risonanza mediatica. Odiare, per vero, si è sempre odiato. La parola è antica, il sentimento primordiale. Eppure, sembra quasi che non si sia mai odiato tanto, che non ci sia stato in giro così tanto odio come oggi. Quale che sia l’attendibilità empirica di questa diffusa impressione, ci sono certo buone ragioni per credere, piuttosto, che il sentimento dell’odio sia oggi mediaticamente sovraesposto; che cioè l’espressione dell’odio non abbia avuto una così massiccia visibilità pubblica in Italia da almeno quarant’anni. Ad un’analisi più attenta potrebbe pensarsi che una tale sovraesposizione sia dovuta principalmente alla “pubblicità per interazione”. È necessario osservare come oggi esistono diversi canali, prima inesistenti, che rendono possibile, o comunque, più agevole l’emersione verbale dell’odio in pubblico. La comunicazione al tempo dei social media ha, infatti, determinato una radicale ridefinizione delle coordinate del discorso pubblico, il quale oggi, non è più solo quello che passa per le vie, più o meno ufficiali, dei mass-media tradizionali: chiunque mettendo un like, condividendo un link, gestendo un 21

blog, rilasciando un commento in calce ad un post, alimenta un’interazione tra discorsi (una miriade di conversazioni che si citano e rimbeccano all’infinito). Attraverso questa pubblicità per interazione, appunto, viene data maggiore possibilità di comunicazione di quella fatta in pubblico: social network come Facebook, Twitter o Instagram sono, infatti, strumenti di pubblicizzazione della comunicazione grazie ai quali buona parte di quelle conversazioni che in passato avrebbero avuto carattere privato, oggi di fatto avvengono in un luogo (virtuale) tendenzialmente aperto a tutti (la Cassazione con sentenza del 11/07/2014, n.37596 ha definito Facebook come “luogo pubblico o aperto al pubblico” ai fini della configurazione del reato di molestie e disturbo alle persone ex art. 660 c.p.). Questa espansione della possibilità di parlare in pubblico però non è accompagnata da un’inibizione. Se normalmente, infatti, nella vita reale e non virtuale parlare in pubblico fa generalmente scattare meccanismi di pudore che finiscono per frenare molti di noi dal dire tutto quello che pensiamo, nel modo in cui l’umore del momento ci indurrebbe a dirlo, nella realtà virtuale questi stessi freni rimangono spesso, o comunque non raramente, inattivi. AGOSTO 2018 N.3 / A.4 - Voci


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Si mette in atto, infatti, un conflitto cognitivo– percettivo tra la situazione privata di partenza (di un soggetto che si trova da solo davanti ad uno schermo) e la pubblicità potenziale del luogo in cui il messaggio viene inviato, con il soggetto agente che sente più reale la prima situazione rispetto alla seconda. Tale dinamica psicologica richiama alla mente dei penalisti la figura giuridica della colpa cosciente: so che sto creando il rischio di un’offesa, e tuttavia agisco con la sicura fiducia, più o meno ragionevole, che l’uno non si tradurrà nell’altra.

È necessario rilevare, però, come sia ancora scarsa l’attenzione degli Stati membri dell’UE sulla positivizzazione del fenomeno dei discorsi d’odio. I diversi Stati (tra cui anche l’Italia), infatti, hanno provveduto in modo vario e, comunque, ovunque insufficiente a definire e sanzionare il fenomeno del discorso d’odio senza però prevedere un apparato di norme sistematicamente inserite negli ordinamenti interni, ma solo con isolate prescrizioni spesso anche non rispondenti alle attuali e sempre più moderne esigenze di tutela.

Per la verità, ad un’analisi più accurata potrebbe affermarsi che all’interno di queste piattaforme di comunicazione entrino in funzione i tipici meccanismi dell’agire di massa. Ed è, infatti, la stessa comunicazione social ad essere di massa: qui è la folla indistinta di soggetti non professionalizzati nella comunicazione che parla, esprime la propria opinione.

Amnesty International

Il problema immediato che sorge però è che agire all’interno di una massa, comporta la perdita di buona parte del senso della propria individualità e responsabilità e, parallelamente, anche la perdita di buona parte dei propri freni inibitori.

In questo quadro emergono tre questioni tecnico– giuridiche centrali tra di esse correlate cui gli Stati e la società civile tutta dovrebbero far fronte: la necessità di educare alla legalità e perseguire in materia diretta gli illeciti online, al fine di rafforzare un’etica personale della responsabilità; l’opportunità di implementare sistemi di notifica di intervento sui contenuti illeciti che circolano sui social media permettendo di eradicare tempestivamente il pregiudizio, garantendo un contraddittorio minimo ed un bilanciamento degli interessi in gioco; l’importanza di adottare politiche di collaborazione di carattere internazionale tra tutti i soggetti portatori di interessi sia sotto il profilo della provenienza che, ancora, del contrasto alla circolazione sui social media di messaggi inneggianti all’odio e alla violenza.

Sui social si diventa facilmente anonimi, e l’anonimato deresponsabilizza, ossia fa cadere o rende assai remota la possibilità di essere chiamati a rispondere delle condotte illecite poste in essere, e con essa anche il timore della sanzione. E quando una massa aizzata agisce, si perde la concezione di pericolo sia esso reale che percepito. Questa sovraesposizione mediatica non è, certo, rimasta improduttiva a livello istituzionale e normativo. Non si contano, infatti, le campagne istituzionali che prendono l’odio come proprio bersaglio. Al centro dell’attenzione vi è ovviamente la parola odio e i discorsi d’odio o Hate Speech. Nel 2016 la Commissione Europea ha cercato di affrontare l’odierno linguaggio d’odio online accettando un

“Codice di comportamento contro la lotta del linguaggio d’odio illegale online” con quattro grandi partecipanti nelle piattaforme di linguaggio: Facebook, Microsoft, Twitter e Youtube. Dal punto di vista legislativo, ciò ha condotto l’Unione Europea a prendere in considerazione misure legislative per armonizzare le piattaforme online come Facebook, Twitter e Google che abbattano il linguaggio dell’odio e l’incitamento alla violenza.

ha più volte richiamato l’attenzione sulla stretta connessione tra la protezione dei diritti fondamentali e i rischi della manipolazione dell’informazione online e della diffusione del linguaggio dell’odio e della violenza con la necessità di individuare regole efficaci e conformi all’equilibrio tra diritti fondamentali e valori propri dei moderni Stati democratici.

Per tali ragioni, accanto ad un ruolo maggiormente attivo ed efficace del legislatore nazionale e internazionale è fondamentale anche una maggiore consapevolezza e responsabilizzazione di ogni singolo utente, professionista e non, circa la inestricabile connessione tra il discorso d’odio e violazione dei diritti umani.

Chiara Di Maria Vice Responsabile Circoscrizione Sicilia di Amnesty International Italia

IN EVIDENZA https://www.amnesty.it/campagne/conta-fino-a-10/

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DISCORSO D’INCITAMENTO ALL’ODIO E L’AZIONE DI AMNESTY di Dario Di Maio

Gli stati sono tenuti a vietare il discorso d’odio, cosa che Amnesty International chiede di fare per legge ed in modo rispondente ai criteri di necessità e proporzionalità, al fine di tutelare parallelamente e il più possibile la libertà di espressione / Ph.: immagine gratis - Pixabay

Il termine HATE  SPEECH, ovvero “discorso l’ostilità nei confronti delle minoranze, dei migranti d’incitamento all’odio”, non ha una definizione delle seconde generazioni» 1 universalmente accettata in diritto internazionale. In tal senso (ed è quello che preferisco) quindi, il Citando l’art.20, paragrafo 2, del Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici delle Nazioni Unite, 1966:

«Qualsiasi appello all’odio nazionale, razziale o religioso che costituisca incitamento alla discriminazione, all’ostilità o alla violenza deve essere vietato dalla legge». Sulla base, invece, della definizione che ha dato il Consiglio d’Europa:

«(…) Il termine “discorso di incitamento all’odio (hate speech)” deve essere inteso come l’insieme di tutte le forme di espressione che si diffondono, incitano, sviluppano o giustificano l’odio razziale, la xenofobia, l’antisemitismo ed altre forme di odio basate sull’intolleranza e che comprendono l’intolleranza espressa attraverso un aggressivo nazionalismo ed etnocentrismo, la discriminazione, 23

discorso d’odio è un tipo di discorso che facendo leva attraverso mezzi di comunicazione di massa, discorsi pubblici, manifestazioni politiche propagandistiche, nonché sui nuovi mezzi di comunicazione (Facebook, Twitter, Instagram ecc…), cerca di incitare all’odio, alla paura, alle discriminazioni o persino alla violenza contro una persona o un gruppo di persone sulla base di caratteristiche come etnia, genere, orientamento sessuale, disabilità, appartenenza linguistica, religiosa, culturale, ecc.

La repressione all’incitamento all’odio tuttavia non è facile, perché molto spesso non è fatta da dichiarazioni clamorose di odio e di appello alla violenza ma di allusioni, informazioni enfatizzate o oscurate, interpretazioni di numeri e statistiche. Per lavorare contro il discorso d’odio bisogna lavorare  1  -  Raccomandazione del Comitato dei Ministri n.20 del 1997 del Consiglio d’Europa

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religiose, donne, persone LGBTI, disabili, ecc. Il significativo numero di manifestazioni quotidiane di razzismo è un richiamo costante alla persistente importanza di questo problema sociale e politico nel contesto globale contemporaneo. La ricorrenza degli episodi in numerosi Paesi in tutto il mondo dimostra che il potere delle idee razziste rimane forte, trova espressione in movimenti ideologici e partiti politici, e che a volte queste hanno conseguenze fatali. “Conta fino a 10” è una campagna di sensibilizzazione sull’uso del linguaggio.

Gli stati sono tenuti a vietare il discorso d’odio, cosa che Amnesty International chiede di fare per legge sulle mentalità che lo producono e per cambiare ed in modo rispondente ai criteri di necessità e le mentalità bisogna lavorare sull’educazione dei proporzionalità, al fine di tutelare parallelamente e giovani e degli adulti, nelle scuole, nei luoghi di il più possibile la libertà di espressione. lavoro. E’ proprio sui Social media (Facebook, Twitter) ma anche Blog e siti web, che Amnesty International Italia ha deciso di affrontare il problema con una campagna di monitoraggio e sensibilizzazione.

Conta fino a 10 è una campagna di sensibilizzazione di durata biennale incentrata sull’uso del linguaggio, 2

e che pone come obiettivo specifico il monitoraggio, la prevenzione e il contrasto del discorso stereotipato, discriminatorio o violento attraverso i canali che oggi abbiamo in maggioranza a disposizione e che si configurano come un’arma a doppio taglio, capace cioè di accrescere le nostre conoscenze ma anche, e soprattutto, diffondere un odio ingiustificato contro le minoranze. Razza ed etnia sono le più frequenti categorie di discriminazione riportate dall’OSCE/ODHIR. Sono gruppi vulnerabili: rifugiati, migranti, stranieri, minoranze etniche, minoranze linguistiche, minoranze

Va chiarito infatti il rapporto che sussiste tra discorso d’odio e libertà di pensiero e in tal senso la Cassazione con sentenza (37581/2008), afferma che l’art.21 della Costituzione italilana secondo cui vige “il principio costituzionale della libertà di manifestazione del pensiero” non ha valore assoluto ma va coordinato con altri valori costituzionali di pari rango. Nello specifico, il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero, incontra il limite derivante dall’art.3 della Costituzione italiana che consacra solennemente la pari dignità e la eguaglianza di tutte le persone senza discriminazioni di razza e a questo fatto si somma il necessario rispetto delle Convenzioni internazionali sulle discriminazioni.

Dario Di Maio Studente d’Ingegneria Civile Socio attivista del Gruppo Italia 290 di Amnesty International Italia

2 - https://www.amnesty.it/campagne/conta-fino-a-10/

STOP ALLA VIOLENZA ONLINE

https://www.amnesty.it/appelli/stop-alla-violenza-online-su-toxictwitter/

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CORAGGIO, BRAVE, COURAGE, CORAJE, ‫ﺍﻟﺷﺟﺎﻋﺔ‬ di Martina Costa

Amnesty International / Foto di Stefano Gizzarone

“Le persone che difendono i diritti umani promuovono il cambiamento sociale, si impegnano per l’uguaglianza e per la giustizia, sono un sostegno per un mondo libero dalla crudeltà e dalla sofferenza. E questo deve essere riconosciuto da tutti noi.” Dr Mudawi Ibrahim Adam

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ante sono le persone che ancora oggi, in diverse parti del mondo, vanno incontro a numerosi rischi e pericoli al fine di lottare per il riconoscimento e la tutela dei nostri diritti. Viviamo in un’epoca intrisa di paura, divisione e criminalizzazione, e, in questo contesto, difendere i diritti umani può risultare un’attività pericolosa. Sebbene il XX secolo sia stato testimone di progressi socio politici inimmaginabili, oggi le garanzie sigillate con alcuni dei manifesti sui diritti umani - la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948, il Patto Internazionale sui Diritti Economici, Sociali e Culturali e il Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici del 1966, la Dichiarazione sui Difensori dei Diritti Umani del 1998 - sembrano perdere progressivamente la loro validità. Ignorate ed impugnate in ogni dove, diventano Carte prive di valore.

Gli spazi di libertà si sono progressivamente ridotti, legittimati da un’esigenze di sicurezza e protezione intera. I fatti vengono oggi affrontati come minacce e garantire sicurezza e ordine pubblico sembrano essere diventate le uniche priorità nazionali. La securitizzazione degli avvenimenti ha portato ad anteporre la sicurezza degli Stati e la protezione dei loro confini, alla solidarietà e alla tutela dei diritti umani. Securitizzando i fenomeni, è dunque possibile parlare dei migranti come clandestini, di Taner Kılıç come terrorista, di Edward Snowden come spia, di Shima Babaee come minaccia alla sicurezza nazionale. E allora, cos’è “Coraggio”? Vita, lotta, unione e forza. È saper dire di no a un’ingiustizia e saperlo gridare.

Coraggio da un anno e mezzo è anche una campagna globale di Amnesty International. 1 Una campagna che vuole diffondere le storie e lottare al fianco delle centinaia di persone che nel mondo, rischiano la loro libertà e la loro stessa vita, perché lottano e non si arrendano. È una campagna che punta a difendere e legittimare il ruolo dei difensori e delle difensore dei diritti umani e a porre fine alla restrizione dello spazio d’azione della società civile.  1 - https://www.amnesty.it/campagne/coraggio/

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Donne native della popolazione Lenca protestano per l’uccisione dell’ambientalista dell’Honduras Berta Cáceres di fronte al pubblico ministero di Tegucigalpa. È stata uccisa il 2 marzo 2016 dopo anni di campagne contro la costruzione di una diga idroelettrica. 5 aprile 2016 © ORLANDO SIERRA/AFP/Getty Images

Il perché di questa campagna è dettato dai numeri: nel 2015, 156 persone impegnate nella difesa dei diritti umani sono state uccise, cifra salita a 281 nel 2016.

E se la certezza di vivere in una società equa e tutelati da un assetto normativo solido, ci renda liberi di manifestare costantemente la nostra opinione, questo non è così in tutte le parti del mondo.

Le persone che si ribellano sono oggi più che mai sotto attacco. Soggetti a infamie, calunnie e stigmatizzazioni, i difensori e le difensore dei diritti umani, vengono spesso accusati di essere criminali, terroristi o agenti stranieri. Una volta criminalizzati mediaticamente e isolati dal contesto della protezione internazionale, risulta più facile delegittimare in un colpo le loro istanze, sterilizzando le loro lotte.

In Russia 2, per esempio, negli ultimi anni, governo, media e organizzazioni filo-governative hanno diffuso narrazioni negative sui difensori dei diritti umani.

Ma non solo. Sono soggetti a persecuzioni giudiziarie, ritorsioni, vessazioni e intimidazioni, oltre che soggetti a potenziali sorveglianze e censure. Anche lo spazio per la società civile si va progressivamente riducendo, ostacolando il diritto di associazione e la libertà di assemblea pacifica. Questi individui devono anche confrontarsi con l’inadeguata protezione contro gli attacchi nei loro confronti. Il livello di impunità di chi perpetra queste violenze è altissimo. Migliaia di persone sono state fatte sparire o uccise, per aver lottato contro l’ingiustizia o contro i trasgressori dei diritti umani. Gli attacchi provengono non solo dai governi, ma anche da attori non statali, come imprese, gruppi armati e gruppi della criminalità organizzata. Chi sono i difensori e le difensore dei diritti umani? Oppositori politici, giornalisti e avvocati, ma anche lavoratori agricoli, studenti e insegnanti. Sono soggetti che lottano contro l’abuso di potere di stati e aziende, tutelano l’ambiente, difendono le minoranze, e lottano in favore dei soggetti vulnerabili: donne, lgbti, migranti.

Coraggio, brave, courage, coraje, ‫ﺍﻟﺷﺟﺎﻋﺔ‬ Coraggiosi lo si è per noi stessi ma soprattutto per gli altri. È lottare per una causa che non conosce un solo nome. E così una singola istanza, la lotta portata avanti da un solo uomo o una singola donna, diventa una battaglia comune. Il noi sostituisce l’io una lotta che non colpisce un singolo individuo, perché ovunque vi siano violazioni dei diritti umani, è l’umanità intera a perirne. Lottare per i diritti umani oggi è davvero un lavoro pericoloso. Ma è proprio oggi che questo lavoro è più che mai essenziale. Lottare per la libertà di espressione, per denunciare episodi di sessismo, omofobia e razzismo, condannare la tortura, la pena di morte e l’abuso di potere di forze governative e militari.

La campagna Coraggio di Amnesty International

si rivolge a tutti noi al fine di accendere la scintilla del coraggio e lottare per ciò che è giusto. Lavorare per una società più equa è possibile. Chiedere il riconoscimento e la protezione di chi rischia la propria vita per i nostri diritti e lavorare assieme affinché le loro cause diventino universali. Martina Costa Responsabile Campagne Circoscrizione Sicilia di Amnesty International Italia

2 - https://www.amnesty.it/mondiali-calcio-russia-campo-la-squadra-coraggio/

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DEONTOLOGIA DELLA SICUREZZA PUBBLICA. COME GARANTIRE SPAZI DI LIBERTÀ? di Alessandra Cannizzo

CC BY-SA 2.0 Andrea Benjamin Manenti

Qual è la prima parola che vi viene in mente pensando alla polizia? Con questa domanda ha avuto inizio la formazione sulla campagna “Spazi di libertà” che è stata recentemente annunciata da Amnesty International Italia e che prenderà il via in autunno. 1 La formazione ha visto coinvolti attivisti provenienti da tutto il territorio nazionale, e partendo dalla condivisione di esperienze e riflessioni sulle controverse normative attinenti alla gestione dell’ordine pubblico, ha consentito di delineare meglio gli aspetti chiave di cui la campagna dovrà occuparsi.

Background legislativo, tra certezza ed equità Il 12 aprile 2017 il testo del decreto sulla sicurezza delle città (DL 14/2017), fortemente voluto dai ministri Minniti e Orlando, è diventato una legge dello Stato che mira a “prevenire i fenomeni di criminalità diffusa” e a “promuovere legalità e rispetto del decoro urbano”. 2 Dopo qualche mese, la Circolare Gabrielli 3  1 - https://www.amnesty.it/campagne/spazi-di-liberta/  2  -  Tra le principali disposizioni: introduzione del daspo urbano per chiunque impedisca l’accesso e la fruizione di aree pubbliche, stretta antiwriter e parcheggiatori abusivi, ma anche l’arresto in flagranza differita.  3 - https://www.lisaservizi.it/sites/default/files/uploads/circ_gabrielli_07062017. pdf

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del 7 giugno 2017 ha voluto precisare maggiormente i dettagli riguardanti l’organizzazione e lo svolgimento delle manifestazioni pubbliche, imponendo studi di fattibilità e misure di sicurezza standard, i cui costi talvolta si sono rivelati insostenibili, specialmente per le organizzazioni più piccole e nei centri più piccoli (la sagra del mandorlo in fiore veniva di fatto equiparata ad un concerto di Madonna). Un elemento chiave della nuova disposizione riguarda il cambio di competenza nella valutazione delle richieste per pubbliche manifestazioni. Oggi è, infatti, compito dei Comuni (e non più delle Prefetture) vagliare i piani presentati dalle organizzazioni, e saranno pertanto gli uffici dei municipi a dover raccogliere tutta la documentazione, valutare i profili di safety e security e poi rilasciare il nulla osta per lo svolgimento dell’attività. Nuove indicazioni operative sono arrivate infine il 18 luglio 2018 dal ministero dell’Interno, che ha diramato una direttiva 4 riguardante i “modelli organizzativi e procedurali per garantire alti livelli di sicurezza in occasione di manifestazioni pubbliche”, nel tentativo di correggere le rigidità esistenti e  4 - http://www.interno.gov.it/servizi-line/circolari/circolare-18-luglio-2018-modelliorganizzativi-e-procedurali-garantire-alti-livelli-sicurezza-occasione-manifestazionipubbliche AGOSTO 2018 N.3 / A.4 - Voci


Campagne Amnesty

Dopo il primo test effettuato a Roma il 24 febbraio 2018, Amnesty International ha inviato i suoi osservatori alla manifestazione che si è svolta a Firenze il 19 maggio 2018.

consentire alle amministrazioni comunali di calibrare le misure cautelari valutando le specifiche potenziali criticità legate a ciascun evento. Tutto ciò mi rimanda ad un principio caro all’analisi delle politiche pubbliche, ovvero quello del think globally, act locally, in base al quale il principio di prossimità/sussidiarietà dovrebbe garantire una maggiore adeguatezza delle misure implementate in base al contesto locale. è altresì vero che ciò determina grandi margini di discrezionalità, che si sono già palesati soprattutto in riferimento all’ampissima latitudine dello spettro d’azione delle ordinanze sindacali, le quali talvolta sembrano sconfinare nell’incostituzionalità. Al riguardo, è interessante rilevare come la sicurezza urbana sia intesa come un bene pubblico giuridico che si costituisce al di sopra degli altri, circostanza che di fatto legittima azioni limitative e repressive che altrimenti sarebbero, per l’appunto, incostituzionali. È a questo punto essenziale precisare che al fine di garantire il rispetto della libertà di associazione, delle restrizioni possono essere previste, ma devono sempre essere necessarie e proporzionate. Nell’antica Cina imperiale, l’imparzialità del giudice e la cosiddetta certezza del diritto su cui si basa il nostro ordinamento, erano considerati fattori che potevano compromettere il benessere degli individui su cui era chiamati a decidere, e infatti, i mandarini, funzionari riconosciuti per il grande valore morale, disponevano di un grande potere discrezionale, che consentiva loro di fare considerazioni ad hoc, per un’applicazione non assoluta e certa, ma equa del diritto. Secondo alcuni esponenti dell’attuale esecutivo, il percorso recentemente intrapreso “introduce elasticità e buonsenso” nella gestione della sicurezza e dell’ordine pubblico, però è anche vero, che i decision-maker dell’Italia di oggi non sono quelli dell’antica Cina imperiale. Voci - AGOSTO 2018 N.3 / A.4

Ontologia e sociologia della paura Come ogni anno, lo scorso dicembre Il Viminale ha reso pubblici i dati relativi alla sicurezza in Italia nel 2017: un anno segnato dalla diminuzione del numero di reati. La domanda quindi sorge spontanea, se i reati in Italia sono in calo, perché inasprire le norme aumentando il senso di insicurezza percepita dalle persone? è evidente che la retorica della sicurezza è oggi usata per ottenere consenso politico, facendo leva sulla paura, soprattutto della criminalità di strada. Il risultato è un’allarmante criminalizzazione delle fasce più svantaggiate della popolazione, come i richiedenti asilo, i senza fissa dimora, e i cittadini in condizioni di particolare vulnerabilità socio-economica, che più degli altri si trovano ad essere di fatto oggetto di moltissime ordinanze sindacali in nome di una politica di tolleranza zero. Si parla tanto di tolleranza zero negli ultimi tempi, ma esperimenti nella sua applicazione si trovano già negli anni’80, ad esempio nella New York del 1984.

L’esperimento ha attirato le attenzioni di Amnesty International che nel 1996 ha redatto un rapportoin cui emerge che: 5 ff le richieste di risarcimento per danni legati a perquisizioni violente da parte della polizia aumentano del 50%; ff le denunce penali per abusi e comportamenti arbitrari delle forze dell’ordine crescono del 41%; ff nel biennio 1993-1994 il numero di civili uccisi nel corso di operazioni di polizia cresce del 35%; ff in un quinquennio i risarcimenti a civili per le violenze subite raddoppiano.  5 - Amnesty International, Police Brutality and Excessive Force in the New York City Police Department, 1 June 1996, AMR/51/36/96, disponibile su: http://www. refworld.org/docid/3ae6a9e18.html [ultimo aggiornamento 28 Agosto 2018]

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Sconvenienti dati a parte, la retorica della sicurezza ha tante teorie criminologiche che la legittimano, e una di queste è la famosa teoria delle finestre rotte 6, la quale afferma che la repressione di piccoli reati, contribuisce a creare un clima di ordine e legalità che riduce il rischio di crimini più gravi. Ad esempio, l’esistenza di una finestra rotta (da cui il nome della teoria) potrebbe generare fenomeni di emulazione, portando qualcun altro a rompere un lampione, dando così inizio a una spirale di degrado urbano e sociale. Personalmente, non mi sento di negare completamente forme di correlazione tra diversi tipi di reati e condizioni che potrebbero in qualche modo favorirli, ma sicuramente mi sento obbligata a promuovere e supportare politiche di segno opposto rispetto alla tolleranza zero, politiche che non criminalizzano i più deboli e volte a curare un rapporto costante con la cittadinanza e tra i cittadini al fine di prevenire i reati, anziché perseguirli a oltranza. La vaghezza e la discrezionalità legate ai temi affrontati in questo articolo sicuramente rappresentano una

sfida per chi è chiamato a ricostruire e a mettere in atto il puzzle normativo in materia di sicurezza, per questo Amnesty International chiede accountability alle istituzioni per tutto ciò che attiene la dignità dell’individuo e le libertà di espressione e di associazione, incoraggiando maggiori responsabilità individuali da parte delle forze dell’ordine attraverso l’introduzione dei codici identificativi sui caschi. Tale misura è al momento fortemente osteggiata dal Ministro dell’Interno ma accolta favorevolmente da parte del Capo della polizia, anche perché, non solo consentirebbe di identificare coloro che non svolgono il proprio lavoro in maniera ortodossa ma anche garantirebbe maggiore tutela a tutti i poliziotti che fanno davvero di tutto per costruire e garantire quell’ambitissima pace sociale.

Alessandra Cannizzo Membro del Coordinamento Migranti e Rifugiati Focal point Sicilia per la campagna Spazi di libertà

6  -  George L. Kelling e James Q. Wilson, Broken Windows: The police and neighborhood safety, in Atlantic Monthly, 1º marzo 1982.

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«Io ho un sogno, che un giorno questa nazione si leverà in piedi e vivrà fino in fondo il senso delle sue condizioni: noi riteniamo ovvia questa verità, che tutti gli uomini sono creati uguali.» (Martin Luter King – Washington – 28 agosto 1963) www.amnestysicilia.org

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