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Social network, hate speech e diritti umani /Campagne Amnesty

SOCIAL NETWORK, HATE SPEECH E DIRITTI UMANI

di Chiara Di Maria

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Amnesty International ha più volte richiamato l’attenzione sulla stretta connessione tra la protezione dei diritti fondamentali e i rischi della manipolazione dell’informazione online e della diffusione del linguaggio dell’odio e della violenza

ODIO è la parola di questi tempi: poche altre possono vantare oggi la stessa risonanza mediatica. Odiare, per vero, si è sempre odiato. La parola è antica, il sentimento primordiale. Eppure, sembra quasi che non si sia mai odiato tanto, che non ci sia stato in giro così tanto odio come oggi. Quale che sia l’attendibilità empirica di questa diffusa impressione, ci sono certo buone ragioni per credere, piuttosto, che il sentimento dell’odio sia oggi mediaticamente sovraesposto; che cioè l’espressione dell’odio non abbia avuto una così massiccia visibilità pubblica in Italia da almeno quarant’anni.

Ad un’analisi più attenta potrebbe pensarsi che una tale sovraesposizione sia dovuta principalmente alla “pubblicità per interazione”.

È necessario osservare come oggi esistono diversi canali, prima inesistenti, che rendono possibile, o comunque, più agevole l’emersione verbale dell’odio in pubblico. La comunicazione al tempo dei social media ha, infatti, determinato una radicale ridefinizione delle coordinate del discorso pubblico, il quale oggi, non è più solo quello che passa per le vie, più o meno ufficiali, dei mass-media tradizionali: chiunque mettendo un like, condividendo un link, gestendo un blog, rilasciando un commento in calce ad un post, alimenta un’interazione tra discorsi (una miriade di conversazioni che si citano e rimbeccano all’infinito). Attraverso questa pubblicità per interazione, appunto, viene data maggiore possibilità di comunicazione di quella fatta in pubblico: social network come Facebook, Twitter o Instagram sono, infatti, strumenti di pubblicizzazione della comunicazione grazie ai quali buona parte di quelle conversazioni che in passato avrebbero avuto carattere privato, oggi di fatto avvengono in un luogo (virtuale) tendenzialmente aperto a tutti (la Cassazione con sentenza del 11/07/2014, n.37596 ha definito Facebook come “luogo pubblico o aperto al pubblico” ai fini della configurazione del reato di molestie e disturbo alle persone ex art. 660 c.p.).

Questa espansione della possibilità di parlare in pubblico però non è accompagnata da un’inibizione. Se normalmente, infatti, nella vita reale e non virtuale parlare in pubblico fa generalmente scattare meccanismi di pudore che finiscono per frenare molti di noi dal dire tutto quello che pensiamo, nel modo in cui l’umore del momento ci indurrebbe a dirlo, nella realtà virtuale questi stessi freni rimangono spesso, o comunque non raramente, inattivi.

Si mette in atto, infatti, un conflitto cognitivo– percettivo tra la situazione privata di partenza (di un soggetto che si trova da solo davanti ad uno schermo) e la pubblicità potenziale del luogo in cui il messaggio viene inviato, con il soggetto agente che sente più reale la prima situazione rispetto alla seconda. Tale dinamica psicologica richiama alla mente dei penalisti la figura giuridica della colpa cosciente: so che sto creando il rischio di un’offesa, e tuttavia agisco con la sicura fiducia, più o meno ragionevole, che l’uno non si tradurrà nell’altra.

Per la verità, ad un’analisi più accurata potrebbe affermarsi che all’interno di queste piattaforme di comunicazione entrino in funzione i tipici meccanismi dell’agire di massa. Ed è, infatti, la stessa comunicazione social ad essere di massa: qui è la folla indistinta di soggetti non professionalizzati nella comunicazione che parla, esprime la propria opinione.

Il problema immediato che sorge però è che agire all’interno di una massa, comporta la perdita di buona parte del senso della propria individualità e responsabilità e, parallelamente, anche la perdita di buona parte dei propri freni inibitori.

Sui social si diventa facilmente anonimi, e l’anonimato deresponsabilizza, ossia fa cadere o rende assai remota la possibilità di essere chiamati a rispondere delle condotte illecite poste in essere, e con essa anche il timore della sanzione. E quando una massa aizzata agisce, si perde la concezione di pericolo sia esso reale che percepito.

Questa sovraesposizione mediatica non è, certo, rimasta improduttiva a livello istituzionale e normativo. Non si contano, infatti, le campagne istituzionali che prendono l’odio come proprio bersaglio.

Al centro dell’attenzione vi è ovviamente la parola odio e i discorsi d’odio o Hate Speech. Nel 2016 la Commissione Europea ha cercato di affrontare l’odierno linguaggio d’odio online accettando un “Codice di comportamento contro la lotta del linguaggio d’odio illegale online” con quattro grandi partecipanti nelle piattaforme di linguaggio: Facebook, Microsoft, Twitter e Youtube. Dal punto di vista legislativo, ciò ha condotto l’Unione Europea a prendere in considerazione misure legislative per armonizzare le piattaforme online come Facebook, Twitter e Google che abbattano il linguaggio dell’odio e l’incitamento alla violenza.

È necessario rilevare, però, come sia ancora scarsa l’attenzione degli Stati membri dell’UE sulla positivizzazione del fenomeno dei discorsi d’odio. I diversi Stati (tra cui anche l’Italia), infatti, hanno provveduto in modo vario e, comunque, ovunque insufficiente a definire e sanzionare il fenomeno del discorso d’odio senza però prevedere un apparato di norme sistematicamente inserite negli ordinamenti interni, ma solo con isolate prescrizioni spesso anche non rispondenti alle attuali e sempre più moderne esigenze di tutela.

Amnesty International ha più volte richiamato l’attenzione sulla stretta connessione tra la protezione dei diritti fondamentali e i rischi della manipolazione dell’informazione online e della diffusione del linguaggio dell’odio e della violenza con la necessità di individuare regole efficaci e conformi all’equilibrio tra diritti fondamentali e valori propri dei moderni Stati democratici.

In questo quadro emergono tre questioni tecnico– giuridiche centrali tra di esse correlate cui gli Stati e la società civile tutta dovrebbero far fronte: la necessità di educare alla legalità e perseguire in materia diretta gli illeciti online, al fine di rafforzare un’etica personale della responsabilità; l’opportunità di implementare sistemi di notifica di intervento sui contenuti illeciti che circolano sui social media permettendo di eradicare tempestivamente il pregiudizio, garantendo un contraddittorio minimo ed un bilanciamento degli interessi in gioco; l’importanza di adottare politiche di collaborazione di carattere internazionale tra tutti i soggetti portatori di interessi sia sotto il profilo della provenienza che, ancora, del contrasto alla circolazione sui social media di messaggi inneggianti all’odio e alla violenza.

Per tali ragioni, accanto ad un ruolo maggiormente attivo ed efficace del legislatore nazionale e internazionale è fondamentale anche una maggiore consapevolezza e responsabilizzazione di ogni singolo utente, professionista e non, circa la inestricabile connessione tra il discorso d’odio e violazione dei diritti umani.

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