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La guerra nascosta dei droni /Armi e conflitti

LA GUERRA NASCOSTA DEI DRONI

di Maurizio Simoncelli

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Gli sviluppi tecnologici nel settore aerospaziale militare hanno portato ad un crescente utilizzo dei droni, che sono velivoli guidati a distanza da un equipaggio variamente composto. I droni militari possono avere un duplice uso, quello con finalità ISTAR (cioè rilevazione, sorveglianza, controllo ecc.) e quello di attacco. Nel corso degli ultimi anni l’utilizzo dei droni militari è andato espandendosi sia quantitativamente sia qualitativamente al punto che gli analisti prevedono che in futuro l’intera aviazione militare sarà formata da questi nuovi mezzi che evitano rischi vitali per gli equipaggi presenti a bordo negli aerei a pilotaggio tradizionale. In tal modo in caso di conflitto si può ipotizzare la teoria delle perdite zero per chi li utilizza: al massimo potrebbe essere abbattuto il velivolo, ma l’equipaggio collocato a distanza anche di molti km non correrebbe alcun rischio. Vi sono droni come il Global Hawk in grado di volare 30 ore consecutive, guidato a distanza da diversi equipaggi che successivamente si possono intercambiare senza interrompere mai le attività della missione del velivolo.

Se inizialmente furono Israele e gli Stati Uniti i primi ad utilizzarli, essi ormai sono in dotazione di una quarantina di paesi e il loro uso va diffondendosi sempre più, dato che permettono missioni di attacco rischiose in territori ostili senza rischi per le vite umane dei piloti. Ma il rischio rimane per le vite delle persone che si trovano nell’area dell’obiettivo al punto che neppure i dati forniti dalla National Intelligence Agency statunitense nel 2016 riescono a precisare quante sono le vittime di questi attacchi. Ancor meno si hanno dati attendibili sui cosiddetti danni collaterali, cioè sui civili innocenti uccisi e feriti. A parte gli errori di valutazione (tristemente famoso fu l’attacco ad una festa di matrimonio in Pakistan), proprio l’utilizzo di queste armi in territori dove non si è presenti direttamente, ma solo attraverso la rilevazione satellitare, aerea o telefonica (il segnale del cellulare) aumenta enormemente i margini di errore nella valutazione che avviene attraverso sì tecnologie sofisticate (monitor, radar ecc.), ma comunque non infallibili data comunque la decisione umana.

Inoltre, non di rado, vengono utilizzati non in situazioni di conflitto aperto, ma per l’eliminazione selettiva di precisi obiettivi soprattutto nell’ambito della guerra permanente al terrorismo, così come la definì Bush jr. all’indomani dell’attentato alle Twin Towers.

I droni, dotati di bombe o di missili, colpiscono improvvisamente l’obiettivo, magari per strada o in un appartamento, nelle cui vicinanze scorre la vita quotidiana della popolazione, che viene drammaticamente coinvolta nell’attacco.

Si pongono pertanto diversi problemi. In primo luogo in una situazione di conflitto conclamato la popolazione civile è di fatto allertata e cerca di mettersi al sicuro, mentre i combattenti, in base al diritto internazionale di guerra, devono cercare di limitare al massimo i danni nei confronti dei civili medesimi. In secondo luogo, se nel conflitto armato le due parti si sparano reciprocamente, nel caso dell’attacco improvviso del drone teso all’eliminazione fisica del singolo o del gruppo si pone la questione giuridica dell’esecuzione extragiudiziale attivata spesso in assenza di una sentenza definitiva di morte, per di più eseguita spesso sul territorio di un altro stato, che potrebbe non consentire o anche non avere nel proprio ordinamento la pena capitale. Per fare un esempio, si potrebbe immaginare un attacco di un drone straniero contro un presunto terrorista sul territorio italiano, senza informare il nostro governo e senza rispettare il nostro dettato legislativo che non prevede la condanna a morte. In terzo luogo, la collaborazione di un governo con un altro, ospitando le basi dei droni armati del secondo, pone ulteriori interrogativi in merito ad eventuali azioni di esecuzioni extragiudiziali e alle diverse responsabilità. In quarto luogo, come già accennato, non esiste trasparenza sull’informazione in merito a queste azioni e sulla catena di comando, nonché sui processi decisionali: nel caso statunitense molte operazioni sono affidate alla CIA, cioè proprio ai servizi segreti.

L’Italia attualmente è dotata di droni militari con funzione ISTAR, ma ha richiesto agli USA le componenti per trasformarli con finalità d’attacco, fatto che si dovrebbe concretizzare nel volgere di pochi mesi. Questo rilevante passaggio funzionale da ricognizione a mezzo di attacco non ha visto però un’elaborazione politica e dottrinale che ne definisse le modalità d’uso, la casistica, la catena di comando ecc.

Chi e quando si deciderà di usarli? E dove? Contro chi? Se non siamo in guerra dichiarata o nell’ambito delle nostre cosiddette missioni di peacekeeping, che in realtà combattono, l’uccisione non rientra nelle possibilità delle nostre forze armate.

Infine, non va dimenticato che queste nuove tecnologie dei droni, oltre a diffondersi nelle varie forze armate regolari ed anche in quelle irregolari (tipo ISIS), sono soggette anche a contromisure elettroniche, che possono disturbarne i segnali e deviarne gli attacchi. Non sono l’arma risolutiva, ma solo un altro passo nella corsa tecnologica che già si proietta verso le LAWS, le armi autonome, che da sole si attivano, operano e colpiscono, senza più neppure l’ausilio umano remoto. Si va verso la spersonalizzazione crescente della guerra di pari passo con la sua facilitazione, proprio perché assente l’elemento umano.

Ma le guerre, anche se dimenticate e apparentemente lontane, periferiche, provocano morte e distruzione, miseria e profughi, disperazione e terrorismo, che nel mondo globalizzato ci raggiungono e coinvolgono comunque.

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Un Reaper MQ-9 Remote Piloted Air System (RPAS) si prepara al decollo in Afghanistan - 17 March 2011 / Ph.: Corporal Steve Follows RAF - MOD © Crown copyright

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