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La dignità non ha prezzo

LA DIGNITÀ NON HA PREZZO

di Paola Caridi

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Sulla nostra personale carta geografica, quella che molti europei e occidentali si portano dentro la testa, c’è una macchia. Una sorta di buco nero, una piccola pennellata a oriente del Mar Mediterraneo. Spesso indistinguibile. Eppure, in un mondo per così dire normale, sarebbe impossibile non vedere quella striscia di terra. Gerusalemme è a poco più di un’ora di macchina, ad andare piano. Appena 80 chilometri. Amman è lontana il doppio. Ma i 400 chilometri che separano il Cairo dal piccolo lembo di terra lungo il Mediterraneo sono già più complicati, perché è tutto deserto, il deserto del Sinai, quello su cui si addossa Sharm al Sheykh.

Gaza non è poi così lontana. Eppure è come se fosse stata ingoiata dalla terra, per noi che (non) la guardiamo. Dietro un pezzo di mare chiuso, pattugliato dalla marina militare israeliana. Dietro un muro di cemento armato, sorvegliato dalle forze armate di Tel Aviv. Meno di 400 km quadrati ingoiati dalla terra, scomparsi come in un gorgo nella nostra personale mappa geografica. Dentro, vivi, ci sono due milioni di persone. Uno, due, tre, quattro, cinque… dieci…centocinquanta…. due milioni di persone di cui conosciamo il numero e non la faccia. La metà vive in estrema povertà. I dati forniti dall’Unrwa, l’agenzia dell’Onu che dal 1950 si occupa della vita dei profughi palestinesi, sono tanto scarni quanto drammatici: oltre un milione di persone, la metà degli abitanti di Gaza, vive sotto la soglia di povertà. Cioè, in pratica, non arriva a guadagnare più di tre dollari e mezzo al giorno, quando va bene. Quando, per così dire, va bene. Perché i due terzi di quel milione, oltre seicentomila persone, non riescono ad arrivare a oltre un dollaro e mezzo al giorno. Un dollaro e mezzo.

Donna palestinese passa il checkpoint di Hebron

Fonte: B’Tselem - btselem.org

I due milioni di persone che vivono e muoiono a Gaza non hanno nome, così come succede per le persone di tante nazionalità che provano a migrare e ad arrivare da noi, sulle coste siciliane oppure lungo la vergognosa rotta balcanica. I due milioni di palestinesi di Gaza non possono neanche provarci, a migrare, salvo rarissime eccezioni.

Quando si pensa alla questione palestinese, si possono percorrere varie strade. Il binario della cronologia oppure la linea della dignità.

Il binario della cronologia è ineludibile, certamente. È un lungo elenco di guerre e di tregue e di accordi e di risoluzioni dell’Onu e di violazioni che si susseguono almeno dal 1948. Dalla prima guerra arabo-israeliana che ha segnato linee profonde su quella cartina geografica: la creazione dello Stato di Israele e, sull’altro lato, la nakba, la catastrofe palestinese. E il 1948, data simbolo, è solamente uno degli snodi della Storia che si possono prendere come punto di partenza comunque arbitrario.

Oppure si può fare un’altra scelta, che certo contiene (e come potrebbe non farlo!) quel lungo elenco che si pronuncia come una litania. È la linea della dignità.

Non è difficile seguirla, la linea della dignità. Basta fermarsi e cercare di capire chi sono, dove si trovano, come vivono quei due milioni di palestinesi chiusi a Gaza. Il simbolo di un popolo, quello palestinese, frammentato nei diversi rivoli in cui – dal 1948 – è stato suddiviso. La linea della dignità consente di definire al dettaglio le violazioni a cui è sottoposto un intero popolo. Un popolo che non è concentrato a Gaza, ma che è sparpagliato tra la Cisgiordania (o meglio, quello che resta della Cisgiordania, in cui vivono 400mila coloni israeliani), il settore orientale di Gerusalemme in cui vivono anche circa 200mila coloni israeliani, e la stessa Israele, la cui popolazione è formata per circa il 20 per cento da palestinesi rimasti dopo il 1948. Circa sei milioni di persone, in totale, a cui si aggiungono i circa 3 milioni di palestinesi che vivono nei campi profughi in Giordania e Libano, in cui sono stati convogliati in gran parte anche i due-volte-rifugiati palestinesi che per decenni avevano vissuto in Siria.

Nove milioni di persone, più o meno, che non godono appieno dei diritti inalienabili che vanno riconosciuti a ciascun essere umano. Chi può godere di pieni diritti, infatti, è solo chi, tra i palestinesi, possiede un passaporto diverso. I diritti di cittadinanza, cioè, gli sono riconosciuti da un altro Stato. Ai palestinesi, insomma, è imposta questa doppia perdita di dignità: non solo non godono di diritti inalienabili, ma devono anche indossare un altro abito – essere cittadini di un altro Stato – per poter essere liberi.

Gaza è il simbolo chiaro di tutto questo. Il simbolo della condizione palestinese. È la parte per il tutto. Solo a Gaza, vivono due milioni di persone a cui è impedito di accedere a diritti fondamentali: la mobilità (uscire da Gaza), il lavoro, il benessere, la libertà di espressione, la libertà di vivere e scegliere l’istruzione, il diritto a bere acqua potabile, a pescare nelle acque di fronte a Gaza, a esser curati negli ospedali, a non morire soffocati per la diossina sprigionata dai rifiuti bruciati. A non morire di covid19 come topi in gabbia, perché a Gaza mancano non solo le cure idonee e le terapie intensive, ma anche i tamponi per diagnosticare la malattia.

Tutti diritti negati perché nella Striscia di Gaza, amministrata da Hamas, un potere politico divenuto regime, si nasce, si vive e si muore come in una prigione, chiusa da uno Stato, Israele, che è Stato occupante, con tutti i suoi doveri. Di Gaza, dell’ingresso o meno degli aiuti umanitari, dell’uscita o meno degli studenti che hanno ottenuto borse di studio, di malati gravi, di emigranti, è infatti Israele a detenere le chiavi. Responsabile dello stato in cui versa la popolazione palestinese, in quanto Stato occupante dal 1967. Gaza è stata via via strangolata dagli anni Novanta in poi, sino a che, nel 2007, dopo la presa del potere da parte di Hamas, è stata chiusa, serrata del tutto. Nessun rapporto con l’esterno. Si vive e si muore nei 400 km quadrati.

Che Israele sia responsabile del destino dei palestinesi, compresi quelli di Gaza, in quanto Stato occupante, lo affermano le Nazioni Unite, nelle tonnellate di rapporti dedicati alla questione palestinese e all’occupazione di Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme est da parte di Israele dal 1967 a oggi. Lo reiterano le decine di risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. La soluzione per non dover più rispettare i doveri di Stato occupante è banale: basterebbe non occupare più la Palestina.

Non è così semplice, ma soprattutto non è più all’ordine del giorno. Di nessuno. Stati, comunità internazionale, semplici cittadini. I palestinesi sembrano non esistere più, nonostante vi sia ancora un’agenzia dell’Onu, l’Unrwa, che con la sua stessa esistenza definisce e indica che quella questione, la questione palestinese, è ancora aperta.

Paola Caridi: Giornalista e storica, esperta di sistemi politici del Medio Oriente e Nord Africa.

Una spiaggia a Gaza

/ Foto: Marcin Monko - https://www.flickr.com/photos/marcinmonko/5323304239/

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