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Voci - numero 1 anno 4 /Diritti civili

AGENDO CON CRUDELTÀ. UNA RIFLESSIONE A PARTIRE DAL NUOVO REATO DI TORTURA

di Vincenzo Ceruso

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Nulla è cambiato. Il corpo trema, come tremava
prima e dopo la fondazione di Roma, nel ventesimo secolo prima e dopo Cristo, le torture c’erano e ci sono, solo la Terra è più piccola e qualunque cosa accada, è come dietro la porta”

W. Szymborska, La gioia di scrivere. Tutte le poesie, Adelphi, Milano, 2017, p.54.

La legge sulla tortura è stata recentemente introdotta nel nostro ordinamento, a distanza di trent’anni dall’entrata in vigore, il 27 giugno 1987, della Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. L’articolo 613 bis inizia con queste parole: “Chiunque con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà …” (1) .

La tortura viene sanzionata come un reato comune.

Chiunque può commetterlo. Ma è davvero così? La storia ci dice altro. Ci dice che, ben lontana dall’essere un tabù, per lungo tempo essa è si è manifestata quale “pratica violenta del potere” (2) e si configura, anche oggi, come una estrema affermazione punitiva della sovranità statale. In quanto tale, non può essere commessa da chiunque, ma solo da un pubblico ufficiale.

La storia di Bolzaneto è lì a ricordarlo.

Bolzaneto è un quartiere di Genova sorto attorno al castello di Montebello, nel XIV secolo, lungo le sponde del torrente Polcevera, che conta oggi circa 15.000 abitanti. Qui, in una ex caserma dell’esercito, tra il 20 e il 21 luglio del 2001, furono portati centinaia di uomini e donne. La caserma Nino Bixio del VI Reparto Mobile della Polizia di Stato, che era stata adibita a sito penitenziario provvisorio, fu il luogo in cui questi cittadini europei, in prevalenza italiani ma non solo, furono trattenuti illegalmente (non fu loro consentito di avvisare i familiari, un avvocato o, nel caso di cittadini stranieri, il consolato o l’ambasciata), foto segnalati e successivamente presi in carico dalla Polizia Penitenziaria. Durante queste procedure essi subirono maltrattamenti, umiliazioni e torture, cioè “una sostanziale compromissione dei diritti umani fondamentali” (3) , prima di essere trasferiti, il 23 dello stesso mese, in un altro luogo di detenzione.

Ascoltiamo una sola delle tante testimonianze: Terminata la fotosegnalazione, Remorgida racconta di essere stato accompagnato in una cella diversa, trovandovi “persone sedute a terra”, ma “poco dopo un agente con la divisa scura ci ha obbligato ad alzarci tutti e ad assumere nuovamente la posizione di testa contro il muro, mani dietro la schiena e gambe divaricate” e ciò “per circa due ore” (4).

Coloro che si muovevano dalla posizione subivano pesanti violenze. In realtà i soprusi si manifestavano ugualmente, anche se si riusciva nello sforzo di non muoversi per un lungo tempo. Un altro testimone ha raccontato “di essere stato costretto a stare nella cella a gambe larghe e fronte al muro, così a lungo da svenire prima della visita medica e che tale imposizione veniva ottenuta infliggendo calci alle gambe e colpi sulla schiena, a lui e agli altri nella cella” (5). I funzionarie gli agenti ascoltati durante il processo non hanno negato di avere ordinato ai prigionieri di mantenere quella postura a lungo, ma hanno giustificato questa procedura con “la necessità della posizione vessatoria in cella per impedire che i reclusi svellessero le grate dei finestroni delle celle” (6). L’intera caserma, riferiscono concordemente i testimoni, somigliava ad un girone dell’Inferno dantesco: i prigionieri “erano coperti di sangue, soprattutto il viso, ancora sgocciolante, il sangue che continuava a colare, a scorrere” (7). A rendere ancor più insopportabile la permanenza nelle celle era il rumore. L’intero ambiente era caratterizzato da un “elevato livello sonoro, dove le urla delle vittime si sommavano alle urla degli aguzzini” (8). Anche questa diffusione del rumore aveva un suo significato nell’economia della tortura, poiché non solo le sevizie non conoscevano soluzione di continuità, ma la stessa percezione delle sevizie da parte delle vittime era costante e senza interruzione. La privazione del riposo, dell’acqua, del cibo e dei servizi igienici elementari, moltiplicavano l’afflizione e l’umiliazione fisica e psichica.

Il fatto che trattamenti inumani e degradanti, fino alla tortura, si verifichino in luoghi che sono sottoposti ad un controllo totale da parte di chi esercita un pubblico ufficio, lascia sorgere molti dubbi sulla forma di vigilanza che, in una democrazia, sarebbe doveroso esercitare su tali spazi. Forse il problema, o uno dei problemi, è che non vi dovrebbero essere spazi sottoposti ad un controllo totale. E forse nessuno dovrebbe poter disporre del controllo totale sulla vita di un altro individuo.

(1) - Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana, Introduzione del delitto di tortura nell’ordinamento italiano, 18 luglio 2017.

(2) - D. Di Cesare, La tortura, Bollati Borlinghieri, Milano, 2016, p. 22.

(3) - Corte di Appello di Genova, Sentenza nel procedimento penale contro Perugini Alessandro e altri, 5 marzo 2010, p. XXXIV. Si veda anche R. Settembre, Gridavano e piangevano. La tortura in Italia: ciò che ci insegna Bolzaneto, Einaudi, Torino, 2014.

(4) - Corte di Appello di Genova, Sentenza nel procedimento penale contro Perugini Alessandro e altri, 5 marzo 2010, p. 21.

(5) - Idem, p. 57.

(6) - Idem, p. 6.

(7) - Idem, p. 24

(8) - Idem, p. 64.

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