Lei

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Il lento passo mi ricordava le onde del mare, che in un continuo moto perpetuo si infrangono dolcemente sulla riva, come delicatamente accompagnate dal flebile soffio del vento. Nessun rumore dietro di lei, se non quello dell’instancabile drappo vellutato, ondeggiante sulle fini caviglie. Era da tanto che non udivo l’incantevole suono dell’arpa, segregato nell’antro più segreto ed oscuro. Io stavo seduto al solito tavolino dello Swasta, quello posizionato nell’angolo in fondo alla sala. Non sono sicuro del perché stessi sempre su quel tavolino; non so se fosse l’irresistibile attrazione della distanza dalla luce, o l’eccitazione provocata dallo sporco, sudicio e stantio odore del marcio ripetersi del quotidiano. Poi quel suono. La porta si aprì, e fu la fine. Si sedette al bancone, appoggiando la borsa nello sgabello di pelle consunta, accanto a lei. Prese una sigaretta, tenendola tra le estremità dell’indice e del medio. L’accese. Il fumo saliva in una danza estatica di spirali, sinuose verso il soffitto. Io ristagnavo sulla vecchia sedia di legno e muffa, spegnendo l’ennesimo ingiallito mozzicone di tabacco. L’acre odore di catrame, depositato sulle dita, penetrava le mie narici, mentre sorseggiavo un amaro, anch’esso ingiallito, come la mia anima.


Aveva già mandato giù tre Montenegro quando mi accorsi del silenzio. Tutti tacevano; persino quel figlio di puttana di Claudio, il figlio del proprietario, ora se ne stava seduto davanti alle macchinette, ma fissando a testa bassa chissà quale cumulo di polvere. Erano assorti in qualche faccenda o pensiero, o in qualche pensiero di qualche faccenda. Chi fissava la bottiglia quasi finita, chi fumava meccanicamente. Scambiava due parole col tizio dietro al bancone, ma non ribatteva. Asciugava quegli opachi bicchieri che come me si sono giocati la vita qui dentro, stando a testa in giù col sangue alla testa, su una mensola impolverata. I capelli biondi scivolavano lungo la schiena, e il suo sguardo… Quel suono. Ancora. Poi un altro e un altro ancora. Si legavano e susseguivano come farfalle librate e trasportate dal vento. Sentivo quella melodia come sentivo lo schifo che provavo nell’essere al suo cospetto. Non potevo alzarmi, non potevo muovermi. Con che coraggio avrei potuto invadere quel territorio di luce? Avevo intuito abbastanza da capire che anche lei, come me, era lì per se stessa. Che anche lei si specchiava nel riflesso deformato di quei finti oracoli inebrianti. Ma al contrario mio, lei lo faceva con un sorriso che parlava di amarezza e consapevolezza. Ecco cos’era: una donna che si riposava dall’ennesima ardua battaglia, il cui nome nel campo echeggiava ancora, ma urlato sottovoce per preservare il fragile sguardo di diamante.


Anche un solo movimento e avrei spezzato la perfetta atmosfera. Solamente essendoci, quella donna aveva ristabilito l’equilibrio, ondeggiante come le verdi e fragorose chiome che danzano assieme al vento. Si alzò, lasciò cadere la sigaretta per terra e la spense con la punta della scarpa, assecondando il moto sinuoso degli eventi. Incrociai i suoi occhi per un secondo, mentre si girava. Quello sguardo… Lo Swasta era ancora in silenzio quando la porta si richiuse. Mi alzai e andai al bancone, portandomi appresso, lentamente e con fatica, il sordido peso della coscienza. Lo sgabello era vuoto, ma ancora il suo profumo danzava sulle note di quella melodia. Quella sera, l’arpa aveva ripreso a suonare, incessante, che accompagnava verso il riposo le stanche onde cristalline. Cristalline, come il suo sguardo.


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