“HOTEL HOUSE: KEBAB DI VIOLENZE” Convegno “TRACCE URBANE” Ferrara 28-29 giugno 2012 Polo Umanistico degli Adelardi, via Adelardi 33 autori: PCB (Andrea Carosi, Daniele Lamanna, Marco Maria Sancricca) Hotel House e contesto Percorrendo le Marche lungo la strada statale litoranea SS16 Adriatica, ci si imbatte in un'anomalia architettonica: un condominio di cemento armato, 16 piani di puro modernismo che si materializzano improvvisamente. Un enorme scoglio a pianta cruciforme, situato in posizione periferica rispetto al centro urbano, che interrompe un susseguirsi di “campagna litoranea” e basse costruzioni. Questo colosso in muratura, figlio dell'eccitazione economica degli anni Settanta, comunemente conosciuto sotto il nome di Hotel House (da ora in poi HH), si trova a Porto Recanati, piccolo borgo marinaro di 12.000 anime della provincia di Macerata e località turistica situata a pochi chilometri da uno dei principali distretti calzaturieri italiani. Nel contesto questo “mostro di cemento” (così denominato da molti abitanti della zona) si manifesta in tutta la sua unicità non solo per la mole imponente, ma anche per alcune caratteristiche affatto peculiari: se da un lato infatti esso ospita al suo interno circa un sesto dell’intera popolazione comunale (circa 2.000 persone: cifra variabile a seconda delle stagioni), dall’altro tale popolazione è assolutamente “anomala” per il contesto portorecanatese. Sono infatti circa trenta le nazionalità che abitano al suo interno: Senegal, Bangladesh, Tunisia, Albania, Pakistan, Romania, Macedonia, Marocco, solo per citare le comunità più numerose. In tal senso l’HH è sia un fuoriscala architettonico (poiché le sue dimensioni difficilmente si adattano al panorama portorecanatese) che un fuoriscala sociale rispetto al contesto in cui si inserisce: infatti la densità di popolazione che vi abita unita alla concentrazione multietnica non hanno paragoni nella regione. Esso tuttavia non è altro che un esempio che mette in risalto una delle principali dinamiche metamorfiche degli spazi urbani, caratterizzati dalla presenza sempre maggiore di nuove etnie “migranti” nei contesti abitativi, nelle attività economiche e nei luoghi di socializzazione. Ma quali teorie, quali ideologie architettoniche, urbanistiche, sociali ed economiche stanno alla base del concepimento prima e della costruzione poi di un “elemento” del genere, isolato “dal mondo”, circondato dai campi e da grandi infrastrutture? “L’HH è una nuova città che sorge concepita secondo i più moderni criteri urbanistici… Opera unica nel suo genere e più rilevante iniziativa edilizia per il turismo residenziale… L’HH è destinata a contribuire in maniera determinante allo sviluppo economico della riviera maceratese… sento il dovere di ringraziare tutti i parlamentari della DC, i sindaci e le autorità locali… Alle popolazioni tutte il saluto più cordiale, con la certezza che l’opra contribuirà a portare quella prosperità che esse meritano” (Antonio Sperimenti)
L'architetto Antonio Sperimenti, progettista dell’opera, inaugura così nei primi anni Settanta l’HH. L’ambizione del progetto, sospinta dagli strascichi della teoria modernista e iper-funzionalista, è la realizzazione di una “megastruttura” che possa ospitare i vacanzieri della middle class crescente. Un Hotel, perché vissuto pienamente solo nelle stagioni calde, ma anche una “casa” (ovvero house), poiché gli appartamenti sono di proprietà. E' dunque lecito interrogarsi circa le volontà e le ideologie sottese alla realizzazione di quest’opera imponente. Quella che può essere definita come “etica pop”, che ha contraddistinto certe costruzioni in voga tra la fine degli anni Sessanta e l'inizio degli anni Settanta, sta alla base del progetto: una nuova dottrina orientata al consumo, rivolta alle masse di nuovi benestanti che ricercano la “modernità” e il comfort a prezzi vantaggiosi. “E’ mai possibile tracciare una vera distinzione tra i mezzi di comunicazione di massa come strumenti di informazione e di divertimento e come agenti di manipolazione e di indottrinamento? Tra l’automobile come iattura e come comodità? Tra gli orrori e i comodi dell’architettura funzionale?” (L’uomo a una dimensione, Herbert Marcuse) Così l’architetto Sperimenti concepisce l'HH come una nuova forma urbana in grado di soddisfare le sempre più pressanti esigenze di un turismo crescente: un blocco unitario suddiviso in piccoli appartamenti che si affacciano sul mare, lontano dal caos urbano, dedicati alla classe media e sfruttati per lo più durante il solo periodo estivo. In questo senso quel “Gulliver di cemento in terra di lillipuziane casette monofamiliari” è un intervento progettato con l’obiettivo di p romuovere una sorta di gentrification stagionale; “una moderna stazione balneare che sia capace di fornire servizi per i turisti dell'Europa meridionale”, con queste parole l’architetto progettista descrive l’HH: tali erano la sua convinzione e le aspirazioni che questo monumento al turismo di massa avrebbe portato dietro di sé. Un progetto violento (per la comunità locale) La costruzione viene contemplata e compresa nel famoso “Progetto 80” della Democrazia Cristiana, che in quegli anni sosteneva e foraggiava la creazione di complessi architettonici capaci di perseguire ed orientare lo sviluppo economico dell'Italia nel nuovo millennio. All'epoca la microeconomia locale del borgo di Porto Recanati era sorretta prevalentemente dalla “piccola pesca”: sebbene in assenza di un vero e proprio porto infatti, il paese lavorava con il mare tramite imbarcazioni piccole e leggere (la tipologia più utilizzata era la “lancetta”). Questa, sostenuta da un pressione turistica crescente, garantiva all’economia del paese una sussistenza frugale poco interessata al turismo balneare estivo di massa. In un contesto come questo, fatto di pescatori, piccoli commercianti e agricoltori, si inserisce con prepotenza il progetto dell’HH, con l’impatto e la violenza che contraddistinguono le grandi speculazioni immobiliari degli anni
Settanta. Non basta. Insito nei progetti di stampo modernista è un atteggiamento “violento” nei confronti del contesto. L’idea della cosiddetta “tabula rasa”, che vede nelle pieghe del territorio, dense di storia, memoria e tradizioni, un foglio bianco sul quale “disegnare il futuro” (i progetti come la tanto acclamata“Ville Radieuse” di Le Corbusier esemplificano molto bene l’approccio classico dei progettisti “moderni” al ridisegno del territorio), denota un atteggiamento progettuale poco attento nei confronti delle popolazioni locali ed estremamente sicuro di sé. E’ forse la memoria di un’epoca di aspri conflitti, di indigenza, di guerra e di regimi totalitari che instillò nel cuore dei progettisti “mo derni” quell’atteggiamento sprezzante tipico di chi può prendere ogni decisione senza passare attraverso alcun tipo di contrattazione con le popolazioni. La situazione storica in cui emerge il “progetto modernista”, d’altra parte, racconta il passato di un ’Europa martoriata che necessitava, in tempi relativamente brevi, di sistemi innovativi per la risoluzione di problemi imminenti: sfollati di guerra, baracche fatiscenti, quartieri martoriati da ricostruire, erano parte del panorama contemporaneo per i modernisti. E’ in un clima di violenza che la tipologia dell’ Unitè d’abitacion (della “casa popolare” densa che si sviluppa in verticale) prende piede e si sviluppa: nel primo dopoguerra si diffonde in tutto il continente in un clima per cui la necessità di r icostruire in fretta non permetteva grandi margini di contrattazione. Il modernismo progetta e costruisce delle “macchine per l’abitare”: funzionali ed ottimizzate per la vita dell’uomo “moderno”. Il passaggio da Unitè d’abitacion a HH sta proprio in questa espressiva metafora: se i complessi di abitazioni popolari del primo dopoguerra erano “macchine per l’abitare”, l’HH è una “macchina per l’abitare in vacanza”. In questo emerge con evidenza quell’ etica “pop” di cui si accennava sopra: sebbene le caratte ristiche tipologiche e progettuali dell’edificio rammentino un passato recente “moderno” e “razionalista”, l’indole dell’edificio è assolutamente “postmoderna”, ovvero annegata in un presente consumista e proiettata in un futuro di ultra-benessere. Questa è forse la più violenta contraddizione viva nell’HH: l’utilizzo di retoriche e tecnologie progettuali nate in un contesto di penuria e gravi difficoltà, per ospitare una nuova classe media (piccolo borghese) che ben presto comincerà a desiderare villini monofamiliari e appartamenti spaziosi (preferibilmente in zone ad alto valore paesaggistico). L’HH è quindi il caso di un progetto in cui la “violenza” è parte integrante della stessa “idea di città” da cui esso muove: fuoriscala rispetto al contesto, idealmente autosufficiente tanto da auto-emarginarsi rispetto al paese, rivolto ad una classe sociale “in costruzione” e quindi “inafferrabile”, questo gigante non poteva, con la sua mole e con questi presupposti, entrare in conflitto con Porto Recanati e con l’Italia intera. La (De)Evoluzione di “Gulliver”: da “Etica Pop” a “ghetto” Nel periodo immediatamente successivo alla realizzazione del complesso, l’architetto Sperimenti, per motivazioni affatto sconosciute e tuttavia presumibilmente legate a problemi economici, si tolse la vita. Certo è che già dopo tre anni, il progetto HH cominciava ad arrancare: un ingente accumulo di debiti per consulenze insieme alla mancata realizzazione di buona parte delle strutture di servizio (necessarie “da
progetto” per rendere efficiente e funzionale l’intero edificio) lo rendevano “zoppo” in partenza. In poco tempo parte dei proprietari incominciò a cedere in affitto gli appartamenti durante i mesi lavorativi. Pian piano, nel decennio compreso orientativamente tra il 1980 e il 1990, la situazione prese a degenerare: attratte dal tenore sempre più basso dei prezzi d’affitto molte popolazioni occasionali e “di passaggio” cominciarono a popolare l’HH nelle stagioni “non attraenti” per il turismo. Si insediarono dapprima delle donne di “buon costume”, che diedero all'edificio la cattiva nomea di “palazzo delle puttane”: in dieci anni l’HH era già un polo di aggregazione multietnica abitato da molti extracomunitari venuti dal nord Africa e dai Balcani in cerca di lavoro. Da qui alla nascita del “ghetto verticale”, dello spauracchio per i bambini, del feticcio che incarna tutti i mali della società locale, il passo è breve: la dimensione “fuoriscala”, unita ad una storia inquietante e, soprattutto, alla sua vocazione di “ospite delle popolazioni minoritarie”, ne fanno in men che non si dica l’oggetto delle invettive e dello “sfogo” di tutta la cittadinanza portorecanatese e marchigiana. In pochissimo tempo l’HH diviene il simbolo di tutto il “male” della regione e dell’Italia intera: è lo spazio, il luogo, il totem che incarna la “separazione” tra stranieri e italiani, tra cittadini e individui senza identità per lo Stato, tra “diritto” e “stato d’eccezione” (Agamben). In quel vuoto pneumatico che separa il tessuto urbano di Porto Recanati dall’HH si viene a costituire una sorta di varco socio-dimensionale attraversando il quale ci si trova immersi in una realtà diversa, lontana, straniera, negletta, pericolosa, violenta. Nell'immaginario collettivo l'HH si poteva configurare, con grande facilità, come il perfetto simbolo della criminalità e della marginalità sociale. Gli stessi portorecanetesi cominciarono a creare una vera e propria “mitologia” sul palazzo, tanto che le nuove generazioni sono cresciute con una conoscenza ereditari a distorta: molti di loro parlano di muri forati dalle pallottole di mille sparatorie mai avvenute o addirittura di bambini cresciuti “a latte e cocaina”, manco fosse la periferia di Bogotà. Oltre alla separazione fisica e alla natura dell’edificio, a marc are la differenza e a fomentare l’emarginazione del “gigante” sono intervenuti i media: “ Bivacchi, vetri rotti, porte incendiate”. “Viaggio nel degrado dell’Hotel House”, “Le telecamere della Rai all’Hotel House”. “Appello di residenti e istituzioni per un condominio senza spacciatori”, Rombini (La Destra): “Non basta il patto sulla sicurezza: l’Hotel House va abbattuto”, “L’inquilino più pericoloso dell’Hotel House: la camorra”, ecc, sono solo alcuni esempi degli articoli che escono sui giornali locali e n on, a scadenza pressoché quotidiana. L’HH, facile bersaglio per qualunque tipo di invettiva, è diventato negli anni il capro espiatorio mediatico sul quale riversare tutte le frustrazioni della comunità. E tuttavia, sebbene vi siano certamente dei problemi legati all’emarginazione del “gigante” ed alla sua composizione multietnica, la violenza con la quale i media infieriscono sull’HH è assolutamente artefatta: si tratta di attaccare il feticcio, l’amuleto, l’oggetto di culto che incarna il “male assoluto”, il “problema numero uno”. La comunicazione mediatica che sproloquia sulle vicende dell’HH non fa altro che riprodurre una “violenza simbolica” che incanala le paure locali in un unico punto dello spazio, facendo passare in secondo piano qualsiasi altro problema. Eppure tale violenza rischia
di generare conflitti asperrimi ed a fomentare un’auto ghettizzazione, affatto necessaria, da parte degli inquilini dell’HH. Reietto, mutilato, violato dai media, complesso come una “babele”, l’HH diviene il luogo perfetto per l’annidarsi dei “violenti sociali”, ovvero di coloro i quali compiono azioni ritenute illegali dalle stesse istituzioni incapaci di gestirne l’efficienza e la minima “sussistenza”. Lo spaccio di droga e la prostituzione tendono ad avvicinarsi ai luoghi più “marginali”, più “invisibili” e nascosti. La marginalità dovuta all’ostracismo sociale ad esso praticato fa dell’HH una valvola di sfogo spaziale delle popolazioni più difficilmente incasellabili. Si tratta di un circolo vizioso: più si punta il dito contro il “gigante malvagio”, più viene emarginato e più esso tende ad assomigliare alla descrizione che ne viene data dal sentimento comune e dai mezzi di comunicazione. Le più spettacolari ed inutili operazioni di polizia di tutta la Regione Marche si sono concentrate sull’HH: blitz in elicottero, perquisizioni, sequestri e ripetute installazioni di telecamere fanno di questo “mondo verticale” l’oggetto principe del “rituale biopolitico” (Foucault, Negri). La pressione continua da parte dell’autorità trasforma questo spazio nel “Campo di Marte” per le “prove di forza” dell’autorità: in questo contesto i corpi degli inquilini, nonché il corpo stesso dell’edificio, vengono “violentati” e privati senza sosta di piccole porzioni di libertà. Indirizzando sugli abitanti dell’HH le azioni del ”braccio armato” delle istituzioni, su di essi viene impresso (volente o nolente) un marchio d’infamia difficilmente estinguibile, che li costringe all’auto-emarginazione e all’auto ghettizzazione. Nel “rituale biopolitico” si manifesta la xenofobia dell’istituzione pubblica. Hotel House: “urbanesimo ghettizzato” di campagna In tempi più recenti si è assistito all’esasperazione dell’odio e al rifiuto sempre più netto nei confronti dell'HH e di chi lo abita, desolante conseguenza, oltre che dell'ignoranza e della mediocrità di molti, anche delle politiche repressive poste in essere per contrastare l’immigrazione (il rafforzamento della “Lega Nord” marchigiana, una contraddizione in termini, è un fattore che esemplifica molto bene entrambi questi fattori). L’apice di questa “strategia della tensione” catalizzata sul diverso, è stato toccato in varie occasioni, manifestandosi sotto forma di “rivolte” e maltrattamenti indirizzati verso gli “altri”, gli extracomunitari, i migranti: la violenza del potere ha generato quella paura diffusa che, nei casi più estremi, si manifesta sotto queste sembianze (alcune vicende di cronaca dell'ultimo decennio palesano questa condizione). Le suddette manifestazioni di “violenza” sembrerebbero convergere tutte nella stessa direzione: forme di “violenza nella città”, se considerate ed affrontate da un punto di vista prettamente spaziale, fermo al sillogismo dialettico costituito appunto dai termini “spazio” e “violenza”, in cui lo spazio è lo sfondo di rappresentazioni e pratiche sia individuali che collettive, subendo passivamente tutto ciò che su di esso si manifesta. Ma lo spazio, urbano e peri-urbano, rurale e costiero, ma anche pubblico o privato, interno od esterno, è sì
lo sfondo su cui si svolgono i processi quotidiani di cui sopra, ma uno sfondo che fa da basamento fondamentale a tutto ciò che su di esso si muove, a tutto ciò che su di esso e per esso esiste: spazio e figura, moto e forma, sono reciprocamente fusi e percepiti, in totale aderenza con quel pensiero futurista dei primi del Novecento. Ancora. La fugacità del reale si manifesta nello spazio, in tal caso forse prettamente urbano, che può dunque esser visto come una tessitura relazionale fatta di coesioni e differenze, spiriti cooperativi e conflittuali (portorecanatesi/migranti, intolleranza/spirito di fratellanza, spersonalizzazione/spirito comunitario). Una conflittualità che non necessita di esser considerata ed interpretata meramente come carattere negativo e dunque da eliminare, poiché comunque caratterizza e nutre la composizione e la dialettica delle attuali società urbane (Lindblom, Crosta): gli immigrati, relegati negli spazi segregati e marginali (abitanti dell'HH), le classi medie che affollano gli spazi del consumo e le utenze trasversali dell'urbano (portorecanatesi), le più disparate pratiche della partecipazione e del coinvolgimento cittadino, ecc. La moltitudine dei soggetti sociali, delle loro rappresentazioni e delle loro pratiche, sia attive che passive, sottende dunque una “tattica” che rideclina le modalità di descrizione dello spazio urbano, spostando l’accento sulla dimensione socio-politica della città, facendo emergere sia le dinamiche del potere, della politica e delle “politiche” della e nella città, sia il ruolo di comportamenti e pratiche inusuali, minime ed interstiziali. E' in questi termini che si può chiaramente parlare di “violenza della città” nei confronti di chi essa la vive, di chi su di essa transita in maniera trasversale; luoghi, pratiche e rappresentazioni spaziali che favoriscono la violenza comunque dettate e determinate da chi lo spazio lo organizza e in un certo qual modo lo manipola: una sorta di spazio violento, che dapprima era spazio in sé, che comunque ha subito passivamente tale metamorfosi. Spazio violento divenuto tale in maniera passiva, si è appena detto; ma ad opera di chi, se non da parte del privato (capitalista, affarista, immobiliarista, speculatore, ecc. ecc.) e delle troppe volte consenzienti Pubbliche Amministrazioni (i cui “ruoli” spesso addirittura si sovrappongono coincidendo con quelli dei privati). Privato e “Pubblico”, speculazioni e cattive gestioni, mediocrità ed indifferenza della gente “comune”, sono le ruote ad hoc di un meccanismo che produce situazioni come quella dell'HH, che assume in tal modo la connotazione di spazio della “violenza del privato”: il taglio della fornitura di acqua potabile nei vari appartamenti del condominio effettuato dalla ditta erogatrice ASTEA a cavallo tra il 2008 ed il 2009 è un chiaro esempio di come si possano instaurare dinamiche assolutamente antisociali e antidemocratiche qualora l’erogazione di un servizio pubblico sia affidata ad una società semi-privata, appunto. Il “razionamento” (azione “violenta” di per sè) della fo rnitura idrica (nel periodo “culmine” si è arrivati addirittura a garantire due sole ore di acqua potabile settimanale in ogni appartamento) a seguito di un indebitamento dell'HH nei confronti dell'ASTEA, generato dalla speculazione e dalla cattiva gestion e degli amministratori condominiali. Ancora. Il funzionamento di soli due dei quattro ascensori di cui è dotato lo stabile (fino a poco tempo fa uno), è
indice di una “violenza fisica” subita da chi l'HH lo abita, costretto a sopportare stress anomali. Vivere infatti in un condominio di sedici piani senza poter utilizzare l’ascensore crea disagi enormi facilmente intuibili, specie per determinate categorie di persone, alla stessa stregua dell’erogazione “a tempo” di un bene primario come l’acqua, che costituisce un atto di violenza estrema da parte del “pubblico”, incapace di tutelare gli interessi dei suoi cittadini (un terzo dei condomini avevano infatti residenza a Porto Recanati) e decisamente orientato a giustificare l’azione del privato (privatore d’acqua). Giustizia (spaziale): work in progress È a questo punto chiaro come alle condizioni di iniziale indifferenza e successiva intolleranza da parte degli italiani nei confronti dei migranti ha fatto seguito una condizione di sfida, ancora una volta da parte degli “oriundi” nei confronti degli “altri”. Una sfida del centro urbano (spazialmente definito in maniera passiva) nei confronti della periferia, sub-urbana (spazialmente definita in maniera ancor più passiva del centro). Ma anche una sfida intesa come auto-organizzazione da parte degli abitanti dell'HH nella riconquista dei propri spazi, sia fisici che sociali, e nella riaffermazione proprio di quei valori di democrazia e giustizia venuti meno. Giustizia intesa sia come armoniosa convivenza ed integrazione tra portorecanatesi e abitanti dell'HH, sia come necessaria “rivalsa” della periferia sulla città. Questa determina una sorta di resilienza della cittadinanza houssiana nel perorare certe situazioni nel tempo. Negli ultimi tempi si intravedono spiragli auto-organizzativi e di cooperazione tra migranti e “nostrani” che fanno ben sperare, e che perlomeno sono indice di una volontà innata di riconquista di quelle forme di giustizia venute meno, sotto gli attacchi della “parte buona” della società. L 'ingresso di un amministratore che si mette dalla parte dei residenti houssiani e l'intervento da parte di più di un'associazione che vuole aiutare il “quartiere grattacielo” (ass. Lo Specchio, ass. UNIMEC, ass. dei Senegalesi, ecc.), fanno ben sperare in un prossimo futuro di collaborazione e coesione tra la Pubblica Amministrazione e l'HH. Già da un anno a questa parte, gli stessi residenti hanno costituito un “gruppo organizzato” che ha permesso alcune forme di auto-organizzazione ed auto-gestione. La co struzione del pozzo per ovviare alla quasi totale mancanza di fornitura di acqua potabile (gennaio 2009) ne è l'emblema (giustizia vs violenza del privato). In passato si sono sperimentate formule di avvicinamento tra i condomini extracomunitari dell'HH e i portorecanatesi, messe in atto attraverso giornate di pulizia di porzioni della spiaggia di Porto Recanati e momenti di scambio culturale all'insegna delle varie arti e tradizioni culinarie tipiche di ogni nazione ed etnia di appartenenza dei condomini: queste occasioni di incontro hanno riscosso nella maggior parte dei casi degli ottimi risultati (giustizia vs spazio della separazione). La formazione di ronde auto-organizzate costituite dai condomini stessi per allontanare i tossicodipendenti,
gli spacciatori ed i malintenzionati, costituisce un'altra importante manifestazione della voglia di cambiamento e di giustizia (giustizia vs violenza sociale), radicata nelle popolazioni del palazzo. Il risultato è che ad oggi (giugno 2012) i condomini non lamentano più la presenza di certe “categorie” all'interno dell'HH, con il risultato che il livello di percezione della sicurezza appare nettamente aumentato. Ultimamente si stanno sperimentando addirittura forme serie, concrete e soprattutto funzionali di raccolta differenziata dei rifiuti, indice di un attaccamento allo spazio fisico nuovo: una sorta di affermazione dello spirito di cittadinanza attiva (probabilmente riscontrabile oramai più all'interno degli spazi dedicati all'HH che in giro per il centro urbano di Porto Recanati). Determinate forme di "in-giustizia legalizzata" (localizzazione dell'HH, potere mistificatorio dei media, speculazioni, interruzione di fornitura idrica, ecc. ecc.) nei migliori casi possono dunque venir contrastate da pratiche di autoorganizzazione ed auto-gestione (a volte forse “illegali”, stando ai dettami dell'ordinamento societario, ma comunque legittime, se il fine giustifica i mezzi, per dirla alla Machiavelli) alla ricerca di una osannata giustizia. E quando la ricerca di giustizia si materializza per mezzo di “lotte per conciliare le giustificate (probabilmente) pretese tanto dell'ego quanto dell'alter di trovarsi simultaneamente proprio nel medesimo spazio, di occupare proprio la medesima traccia corporea nello spazio e proprio nello stesso tempo” (Philippopoulos-Mihalopoulos, 2011), si ha una sorta di “ascesi” verso forme di "giustizia spaziale” (spatial justice). L'attributo della “spazialità” è di fondamentale importanza non solamente perchè questa giustizia viene descritta in termini spaziali, ma sopratutto perchè è solo attraverso lo spazio che essa può essere compresa. “Vi sono due caratteristiche che rendono necessario tale attributo: primo, in un'ottica ontologica, la natura radicale di questa giustizia che opera in modi diversi dalla sua abituale concettualizzazione temporale o sociale; e secondo, nella corrispondente ottica epistemologica, l'ubicazione della giustizia è dentro e fuori lo spazio giuridico, proprio perchè essa fa parte del diritto ed al tempo stess o lo trascende” (Philippopoulos-Mihalopoulos, 2011). Tendenze e vision Come non sfruttare dunque questo momento estremamente positivo e proficuo in termini di fermento autoorganizzativo per consolidare ciò che di “buono” già c'è e per costruire nuove pr atiche risolutive per le sorti dell'HH, ancora visto dai più come “spazio disturbante”. Auspicabile è la formazione di una sorta di “growth machine” (Logan, Molotch), ovvero una “macchina dello sviluppo” identitario-culturale e socio-economico che, partendo da un patto sociale implicito (Gallino, 1990), possa fornire una nuova interpretazione dell'HH e di chi lo abita nei confronti di Porto Recanati e dei portorecanatesi.
In definitiva si potrebbe generare una “de-costruzione de-evolutiva” dell'edificio. Da “edificio per il turismo” (nascita, anni Settanta), passando per “edificio di disturbo dello sviluppo” (decadenza, trentennio
successivo), a “polo di eccellenza per il multiculturalismo e l''integrazione� portorecanatese, ma non solo (ricerca di rivalsa e giustizia spaziale, oggi).
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