Il Piano Strategico: Nascita ed Evoluzione concettuale

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Università IUAV di Venezia – Dp – Fdp Corso Post-laurea “Azione locale partecipata e sviluppo urbano sostenibile” anno accademico 2009-10

Il Piano Strategico: Nascita ed Evoluzione concettuale

a cura di: Carosi Andrea & Sancricca Marco Maria


Indice: Abstract

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Crisi della pianificazione tradizionale e nuove dinamiche socio-politiche-economiche pag

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L’esperienza Inglese

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L'esperienza degli Stati Uniti d'America

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L'esperienza europea di Barcellona

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Il movimento “Advocacy Planning”

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La “Sindrome Nimby”

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Un esempio: il caso del terzo aeroporto di Londra

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Un esempio: l’inceneritore Fenice a Verrone

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La Pianificazione Partecipata

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Un esempio: il débat public per la gronda di Genova

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Un esempio: il piano strategico di Jesi (AN)

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La pianificazione Auto-organizzativa

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Un esempio: il caso inglese di Luton (Marsh Farm), dai rave party alle politiche nazionali, dal self-help al capacity building

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Un esempio: Casa di Plastica a Sesto San Giovanni (Milano)

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Punti di vista a confronto: un articolo sulla critica dei piani strategici (a cura di Valeria Fedeli)

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Bibliografia

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Abstract A partire dagli anni Ottanta negli Stati Uniti, e dagli anni Novanta in Europa, molte città si sono dotate di un nuovo strumento di pianificazione per lo sviluppo locale: il piano strategico. Tale strumento flessibile, democratico e costruito con un’ottica di lungo periodo si rivela la migliore scelta metodologica per orientare lo sviluppo della città, a partire per lo più da una situazione di crisi economica e di degrado sociale e urbano. Oggi la pianificazione strategica è divenuta un’ordinaria via da percorrere qualora si intenda “affrontare la sfida di un cambiamento duraturo”, in un momento storico in cui la disciplina pianificatoria deve ridefinire i propri paradigmi ed i propri strumenti, a fronte del profondo cambiamento socio-economico che caratterizza il passaggio dalla società industriale a quella post-industriale. In questo lavoro ci proponiamo di capire i perché della nascita e dell’evoluzione della pianificazione strategica nelle sue varie declinazioni e nelle rispettive scuole: americana, anglosassone ed europea (intesa come UE). Dinamiche politiche e socio-economiche, scaturite per lo più dai processi di globalizzazione, hanno cambiato le città e il loro modo di rapportarsi col territorio; conseguentemente si avverte la necessità di ripensare la pianificazione nei suoi principi base (il vecchio zoning funzionale non è più efficace), integrando ad essi i “nuovi” concetti di multiattorialità, partenariato, integrazione (sia attoriale sia degli strumenti urbanistici), governance e politiche bottom-up. Il tutto si può tranquillamente tradurre in crisi della vecchia pianificazione tradizionale, basata sull’onnicomprensività del PRG e su un processo gerarchico-piramidale. Analizzeremo casi concreti che saranno esemplificativi per ogni periodo storico facendo emergere come le nuove tecniche di pianificazione stanno evolvendo in quest’ottica. La pianificazione strategica è stata comunque da molti criticata, in quanto materia sperimentale; infatti essa è dotata di una doppia faccia: non riesce a soddisfare il “tutto e tutti” nel suo insieme pur tentando di raggiungere un buon livello di democrazia urbana.

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Crisi della pianificazione tradizionale e nuove dinamiche socio-politiche-economiche L’essere “fuori squadra” è una particolare condizione delle società contemporanee che riguarda problemi di integrazione con riferimento alla loro organizzazione spaziale. (…) è evidente che la novità delle società fuori squadra ha origine nelle difficoltà incontrate dagli stati nazionali sollecitati dal processo di globalizzazione. Arnaldo Bagnasco - Distretti e città in società fuori squadra

Con queste parole Arnaldo Bagnasco introduce una serie di concetti tutti convergenti sul tema città e, conseguentemente, sulla società; concetti importanti

come organizzazione e

integrazione spaziale e relative difficoltà incontrate dai vari stati nazionali, globalizzazione. Il concetto di città è sempre più complesso. In passato le città erano entità geografiche ben delimitate, identificabili, cui corrispondevano livelli istituzionali precisi. Oggi ciò non è più necessariamente vero. I processi di globalizzazione hanno, in maniera crescente e continua, allontanato questa corrispondenza. Come è noto, la storia dei paesi europei è strettamente connessa al processo di costruzione dello stato nazionale. In questa prospettiva, specialmente dal dopoguerra in poi, in connessione allo sviluppo in Europa dell’economia industriale fordista e dello stato sociale keynesiano, le città e i governi locali non avevano un grande ruolo. In una situazione dominata dalla grande industria, e percorsa dal conflitto di classe fra due blocchi sociali definiti e organizzati, le scelte macro-economiche e fiscali di fondo erano rimesse ad un confronto triangolare centralizzato tra governo nazionale, sindacati e associazioni imprenditoriali. Anche per quanto riguarda le politiche sociali, i governi locali erano poco più che “agenti” dello stato nazionale, attivi principalmente sul versante della fornitura dei servizi (Le Galès, 2003; Saunders, 1989). Oggi la situazione è fortemente mutata: le stesse città si presentano come importanti generatori di ricchezza, di opportunità di lavoro e di crescita della produttività, e spesso sono indicate come motori delle rispettive economie nazionali, da un lato, e come luoghi in cui si concentrano criticità e problemi in una misura sinora sconosciuta, in cui coesistono nuove ricchezze e nuove povertà, in cui spesso si realizza una difficile convivenza tra culture autoctone e culture degli immigrati, ed in cui si acuiscono i rischi ambientali, la sicurezza e l’ordine pubblico.

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Parallelamente, le città rappresentano nuovi spazi di una regolazione socio-economica e politica che non possono più essere limitate dalla dimensione nazionale. Esse sono gli snodi delle relazioni economiche e culturali globali, si confrontano direttamente con le forze del mercato internazionale, con il conseguente stravolgimento delle strategie politiche finalizzate alla crescita e allo sviluppo competitivo che ora si proiettano su scala transnazionale. In tutti i Paesi dell’area Ocse, i governi nazionali hanno aumentato lo spazio di autonomia delle città. I governi locali sono posti di fronte a decisioni politiche difficili, sono pressati da interessi contrapposti. E’ uno scenario nuovo che richiede sia idee di policy (partnership nel senso lato), sia strumenti istituzionali in continuo aggiornamento. In questi ultimi anni si è assistito anche ad una riarticolazione delle gerarchie della regolazione politica e della, se così si può dire, “piramide attoriale”. Sono cresciuti i poteri locali ma anche i poteri delle istituzioni sovranazionali. Le nazioni si sono adattate alla globalizzazione e all’integrazione economica e politica attraverso un processo di riarticolazione territoriale della sovranità. Si sono sviluppate dinamiche contestuali di upscaling e downscaling della statalità. L’esito non può essere altro che un nuovo protagonismo delle città in uno scenario istituzionale che per ora ci limiteremo a definire semplicemente molto complesso. Queste “situazioni”, mettendo in scacco le tradizionali strategie di governo urbano, hanno innescato processi di varia natura che sono andati a modificare la struttura della città, della società e dello spazio in senso lato, contribuendo a generare la condizione di società fuori squadra di cui parla Bagnasco. Problemi di integrazione con riferimento alla loro organizzazione spaziale, dunque, che si possono tradurre anche in problemi di integrazione nello spazio di parti analiticamente distinguibili di una società, intendendola come complesso sistema di interazione stabilizzato costituito da tre sottosistemi, quali cultura, economia e politica, ognuno avente specificità logiche di strutturazione. La politica (idealmente parlando) organizza la società nel suo insieme per mezzo della capacità di azione e controllo; da qui il principio della sovranità locale che esclude che possano coesistere due società sul medesimo territorio e l’importanza dello Stato nazionale, inteso come progetto di società nello spazio, che la organizza mettendola in squadra, conservando nel tempo la relativa congruenza delle sue diverse parti: economia, politica e cultura.

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Purtroppo la capacità della politica di tenere in squadra la società in passato è sempre stata scarsa a causa dell’incongruenza tra le logiche degli spazi dell’organizzazione politica, che stabilisce continuità di controllo e radicamento, e dell’economia, sollecitata dai flussi e dalle correnti di scambio. Nel II dopoguerra si raggiungono invece equilibri efficaci in termini di crescita economica ed integrazione sociale, ma negli ultimi anni del Novecento la nuova economia basata sull’informatizzazione ed il crollo dei sistemi comunisti rimettono in questione gli assetti spaziali dell’organizzazione sociale, generando la particolare e complessa condizione delle società fuori squadra. lo Stato è diventato troppo piccolo per le grandi cose e troppo grande per le piccole Daniel Bell Daniel Bell, sociologo americano, affermando che lo Stato è diventato troppo piccolo per le grandi cose e troppo grande per le piccole ha segnalato per la prima volta la tendenza delle società all’esser fuori squadra, alludendo al fatto che l'economia ha sfondato sempre più con facilità i confini degli stati nazionali, è diventata sempre più una «grande» cosa che si estende nei suoi modi di organizzarsi a livello mondiale (Bagnasco). In queste condizioni lo Stato, così come la gran parte degli organismi amministrativi, dato l’ambito spaziale di organizzazione, ha sempre più difficoltà a sviluppare politiche economiche o sociali efficaci. L’azione pubblica non è più riservata alle istituzioni pubbliche, ma piuttosto alla collaborazione contrattata e in parte istituzionalizzata tra pubblico e privato, con conseguentemente cambiamento dei modi di formazione delle politiche pubbliche, le quali derivano sempre meno da atti di government e sono sempre più frutto di attività di governance. In molti parlano ormai di superamento della fase di crisi delle città, tant’è che si ipotizza un ritorno delle città, ma è comunque necessario ripensare lo spazio urbano e non in maniera nuova e lungimirante rispetto al passato; il modello di organizzazione gerarchico-piramidale, caratterizzante l’ormai obsoleto PRG e di stampo razional-comprensivo è stato sostituito dal modello reticolare, i processi non seguono più il vecchio modello top-down a vantaggio del bottom-up. Il PRG quale strumento per interpretare e gestire i cambiamenti socio-territoriali ed economici

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si dimostra inadeguato per una molteplicità di ragioni, quali nuove dinamiche di sviluppo urbano, rigidità delle tecniche pianificatorie tradizionali, crescente velocità dei processi territoriali, complessità e varietà dei temi del governo urbano e crisi del modello gerarchicopiramidale. Il vecchio PRG, tradizionalmente inteso come lo strumento per regolare l’espansione edilizia protrattasi fino agli anni Settanta, caratterizza lo sviluppo della città. Con la dismissione delle aree industriali urbane, la scarsità delle risorse economiche e la consapevolezza di dover rallentare il consumo del suolo, la dinamica principale di sviluppo della città diviene la sua trasformazione, il recupero e la densificazione dell’edificato. Tali interventi necessitano di strumenti pianificatori maggiormente flessibili e spesso di ambito delimitato all’area oggetto di trasformazione. Inoltre il PRG, strumento obbligatorio di regolamentazione degli usi del territorio, non è in grado di gestire le nuove dinamiche di trasformazione che spesso esulano dalla tradizionale pratica urbanistica, ancorata a quella che viene definita zonizzazione funzionale del territorio. La rapidità degli attuali processi di trasformazione della città e del territorio si presenta in netto contrasto con il lungo iter di costruzione e approvazione del PRG e con il suo orizzonte temporale di validità, durante il quale non è possibile ridefinire le previsioni urbanistiche senza ricorrere allo strumento della variante, il quale segue le medesime procedure burocratiche. Di conseguenza, le previsioni formulate in sede di costruzione del piano, una volta entrate in vigore, operano in un contesto oramai mutato rispetto a quello di riferimento. La stessa concezione spaziale dell’urbano appare oggi differente rispetto alla città industriale per la quale si sviluppò lo strumento del piano regolatore. Se, da un lato, il piano deve essere più attento nella regolamentazione degli usi del territorio e nell’imposizione dei vincoli, in particolare quelli ambientali, è anche vero, dall’altro, che tale strumento non permette più un governo unitario della città. Lo sviluppo urbano ha infatti da tempo valicato i confini amministrativi, e quindi anche la scala e l’ambito del PRG, formando città-regioni, reti di città, conurbazioni, metropoli, che necessitano di altri strumenti per essere governate. Oggi la disciplina della pianificazione è chiamata ad occuparsi di una molteplicità di temi che riguardano oltre lo sviluppo urbano, come in passato, lo sviluppo locale in genere. Alla gestione delle trasformazioni urbane si associano oggi i temi della competitività economica, delle politiche sociali e della valorizzazione delle risorse ambientali, paesaggistiche, artistiche e culturali. La pianificazione tradizionale non permette la predisposizione delle politiche integrate

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ed interdisciplinari indispensabili per gestire in modo unitario tali ambiti per lo sviluppo della città postindustriale. A partire dagli anni Ottanta il modello gerarchico viene messo in discussione anche a causa di una generalizzata carenza di risorse pubbliche per la pianificazione, che ha incoraggiato la ricerca di partnerships e di coinvolgimento degli operatori privati nei processi pianificatori, con conseguente consapevolezza di dover mobilitare anche le risorse umane e conoscitive degli stakeholders e degli operatori pubblici e privati all’interno dei processi pianificatori, ai quali si richiede ancora una maggiore trasparenza e democrazia, permettendo e coinvolgendo i cittadini ad essere parte attiva di essi. Altri due modelli di pianificazione tentano dunque di sostituirsi al vecchio: il modello bottom-up (o dal basso) nel quale è la comunità locale a promuovere l’iniziativa del processo pianificatorio, che è sviluppato e poi attuato attraverso la cooperazione pubblico-privata, la concertazione e la partecipazione. Gli esperti dicono però che tale modello risulta però applicabile solo in ambiti spazialmente delimitati, ad esempio per la riqualificazione di una piazza o di un quartiere, o per specifici settori tematici, come appunto la riqualificazione degli spazi o la rivitalizzazione economica o una particolare politica sociale. Il modello reticolare, basato sulla mobilitazione della rete di relazioni esistente tra gli attori e gli stakeholders locali. Il soggetto promotore dell’iniziativa, che può essere sia l’autorità locale sia la comunità, formula attraverso la pianificazione una politica o un insieme integrato di politiche assieme agli attori locali. Tale intenzione, costruita in modo condiviso da tutti i soggetti coinvolti, orienta poi la rete di relazioni tra gli attori stessi.

modello gerarchico-piramidale

modello reticolare

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Conseguentemente l’intero sistema organizzativo e decisionale evolve da una condizione di government ad una di governance. La governance urbana e territoriale è la capacità di integrare e dar forma agli interessi locali, alle organizzazioni e ai gruppi sociali e, allo stesso tempo, di rappresentarli all’esterno, sviluppando strategie in relazione al mercato, allo stato, alle città e agli altri livelli di governo. Le Gales – Le città europee - 2006

Il termine governance è stato opposto al termine government per intendere modalità di comportamento dei soggetti pubblici capaci di assumere un orizzonte strategico, sia quanto ad efficacia sia quanto a maggiore coscienza degli aspetti relazionali inevitabilmente connessi alla deliberazione pubblica. Si assiste dunque, perlomeno in Italia, ad una caduta della vecchia amministrazione locale, con le sue regole e procedure stabilite in sede centrale e la sua forma gerarchica per livelli; dai primi anni ’80 la governance si è andata costituendo sulla linea dei suddetti principi come largo schieramento politico d’opinione favorevole quindi alla formazione di nuovi criteri di organizzazione e gestione del governo locale, che ponesse al centro anziché il principio di competenza, come nell’esperienza precedente, il principio dell’efficacia, vale a dire della capacità di individuare e perseguire un obiettivo, misurando opportunità e pertinenza delle proprie azioni sulla base della effettiva possibilità di avvicinare l’esito positivo dell’azione. L’ambito generale degli studi di governance si può definire come quello riguardante la soluzione di problemi para-politici, nel senso di problemi relativi al raggiungimento di fini collettivi o alla realizzazione di propositi collettivi, all’interno e attraverso specifiche configurazioni di istituzioni, organizzazioni e pratiche di governo, quindi gerarchiche, o extra-governative e dunque non gerarchiche. La nozione di governance si presenta in questi termini come un utile e affascinante strumento ovvero paradigma per cogliere e studiare una nuova situazione, caratterizzata dalla molteplicità di forme di regolazione e dalla frammentazione del potere tra i vari livelli che compongono gli attuali sistemi politico-amministrativi, economici e sociali. Da quanto detto il punto di partenza della “riforma” è dato quindi dalle profonde trasformazioni che hanno investito le società occidentali negli ultimi venti anni, quali i processi di globalizzazione dell’economia, la nascita dell’UE, il passaggio a rapporti economico-sociali post-

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fordisti e le trasformazioni demografiche, che hanno minato la tenuta dell’assetto di welfare capitalism in termini di sostenibilità finanziaria e legittimità. Tutti

questi elementi hanno dunque imposto allo stato nazionale crescenti

difficoltà

nell’esercizio del ruolo di unico soggetto regolatore dell’economia, della politica e delle prestazioni sociali, nonché la crescente necessità di forme di coordinamento tra istituzioni, livelli territoriali e soggetti diversi. Per quanto riguarda l’azione delle PA e dei governi locali, la gestione della crescente complessità sociale ha indotto profonde trasformazioni relativamente ai vari momenti dell’azione pubblica. Si tenterà così di aprire nuovi percorsi di ricerca a partire dal modello di razionalità limitata proposta da Charles Lindblom dagli anni Cinquanta in poi; in questo modello le scelte di interesse collettivo dipendono da una rete di interazioni e sono l’esito di giochi decisionali intrapresi, a vario titolo, da molteplici attori (a razionalità limitata) dotati di specifiche risorse, finalità e strategie d’azione. Formalmente il responsabile delle decisioni può essere unico, ma il processo assume forme interattive, implica il confronto fra attori di parte, che dispongono sempre di una relativa autonomia, ma non possono ignorare che esistono delle interdipendenze tra i loro comportamenti, che il successo o l’insuccesso delle loro azioni individuali potrà dipendere dalla capacità di costruire di fatto, nelle pratiche, forme efficaci (seppur parziali e provvisorie). In questo quadro, piuttosto che l’adattamento dei mezzi ai fini, è più probabile un adattamento di questi ai mezzi disponibili. La supposta crisi dello stato al centro del dibattito pubblico attuale è quindi imputata agli effetti congiunti di globalizzazione e governance. Mentre la globalizzazione è vista come la causa principale dell'erosione della sovranità esterna attribuita agli stati nel sistema westfaliano, le riforme neoliberiste degli ultimi trent'anni sono ritenute responsabili per l'indebolimento della capacità impositiva dei governi centrali dalla quale dipende la loro sovranità interna. Entrambi i fenomeni vengono descritti come eventi nuovi, alle cui origini stanno trasformazioni epocali dovute a forze sociali impersonali contro cui lo stato può nulla. Gli effetti dirompenti della globalizzazione sono però comprensibili solo alla luce dei cambiamenti strutturali interni agli stati avvenuti nel frattempo. Deregulation, privatizzazione dei servizi pubblici, decentramento amministrativo, ridefinizione dei criteri di cittadinanza e devoluzione dei poteri a livello subnazionale sono fenomeni che hanno frammentato la burocrazia nazionale e neutralizzato la capacità di reazione dello stato. I tentativi difensivi

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messi in atto per controbilanciare la globalizzazione attraverso la creazione di autorità regionali e transnazionali quali l'UE si sono in fin dei conti rivelati fonte di ulteriori problemi che hanno finito per aggravare la crisi dello stato. La capacità regolativa di queste istituzioni rispetto ai tradizionali accordi intergovernativi ha infatti indebolito l'esclusività dei legami tra stato e cittadini senza peraltro diminuirne le responsabilità politiche per i fallimenti di governo: lo stato risulta perciò hollowed-out, svuotato di vitali capacità di governo e incapace a resistere all'inesorabile erosione delle linee di confine tra esterno ed interno, alto e basso, pubblico e privato (Rhodes, 1994). Principi che successivamente saranno alla base di esperienze maturate nel campo della pianificazione strategica, ma quest’aspetto sarà approfondito in seguito. In merito all'espansione e globalizzazione dei mercati occorsa negli ultimi tre decenni è possibile identificare due prospettive contrapposte: quella di coloro che ritengono tali fenomeni come il portato di innovazioni tecniche e di forze impersonali che si impongono sul politico e quella di coloro i quali vedono invece lo stato, se non come la loro causa prima, quantomeno come il soggetto agente che ha giocato un ruolo cruciale nel definire le condizioni necessarie al loro sviluppo e riproduzione. La varietà degli approcci che sostengono quest'ultima prospettiva e il valore delle ricerche portate avanti in questi ambiti giustificano i dubbi sulla validità della prima prospettiva. E’ dunque lecito chiedersi se lo stato sia affetto da una crisi irreversibile o se lo stato stesso sia l’artefice dei processi di mutamento in corso. La tesi riguardante l'erosione dello stato sembra basarsi o su una sopravalutazione delle tendenze in atto, sulle quali verte il ragionamento (globalizzazione su tutte) o sulla generalizzazione impropria dei risultati di casi studio avente un ristretto campo di applicazione. Mercati e stati continuano ad agire in maniera simbiotica e si sfruttano a vicenda per rafforzare la loro legittimità e il loro potere sulla società civile. Come è possibile allora spiegare la cessione di sovranità a soggetti sub e soprannazionali e la delega di poteri a coloro che operano attraverso le tradizionali linee di confine tra pubblico e privato? Non sono questi fenomeni che giustificano le tesi di quanti vedono lo stato come progressivamente svuotato di capacità di governo? Quello che emerge è innanzitutto l'attivismo dei governi nazionali nel promuovere e perseguire le trasformazioni ritenute la causa principale dell'erosione dello stato e delle sue capacità di

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governo; questi mutamenti hanno promosso un ribilanciamento dei poteri interni agli stati che premiano sistematicamente gli organismi esecutivi a scapito di quelli legislativi. In quest'ottica, i riferimenti a innovazioni tecnologiche epocali e a forze impersonali contro cui lo stato può nulla sono visti come parte dell'armamentario retorico con cui i governi cercano di giustificare l'adozione di politiche controverse e impopolari. Globalizzazione e governance diventano così mezzi per oscurare la distinzione tra inevitabile e desiderabile, neutralizzare la capacità d'azione delle istituzioni rappresentative e svincolare l'azione di governo dai controlli imposti dai sistemi di accountability (responsabilità) democratica tradizionali. Comunque in questo quadro le amministrazioni locali si configurano sempre più come attori fra gli altri, il cui ruolo risiede principalmente nella capacità di attivazione, mediazione e indirizzo dei diversi attori coinvolti nell’azione di governo, e di garante del rispetto delle procedure e dei principi democratici. Si assiste ad una produzione e implementazione delle politiche, con la crisi della pianificazione tradizionale e il tentativo di passaggio da un approccio verticistico e settoriale ad una modalità “di rete,” caratterizzata dalle collaborazioni interistituzionali e intersettoriali fra i vari uffici (Balducci, 2000). I cittadini, considerati tradizionalmente destinatari dei servizi pubblici e delle politiche, vengono ora attivati sia in chiave di crescente responsabilizzazione (ad esempio nell’ambito delle riforme del welfare) sia con riferimento al coinvolgimento in esperienze di progettazione partecipata. Si parla ormai da anni di azione locale integrata come un processo trasversale, pluriattoriale, interistituzionale e partecipato, in cui il termine azione sottende l’esplicitazione degli obiettivi e dei risultati attesi e la definizione di termini temporali, il termine locale sottende l’accezione di territorio inteso in termini di risorsa, elemento strategico nella costruzione del programma, ed il termine integrata sottende la disponibilità di più soggetti e settori a collaborare per definire ed attuare un programma di azione congiunta e condivisa. Per dirla alla Bobbio, si assume la complessità dell’oggetto città, si cerca cioè di coinvolgere nelle decisioni non quanti più attori possibili, ma tutti gli attori rilevanti per decisioni più efficienti (stakeholders), considerando poi che solitamente, perlomeno idealmente parlando, consensualità è sinonimo di fattibilità.

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In tale contesto vengono ad inserirsi i nuovi concetti di strategia e piano strategico, quest’ultimo come attività orientata a costruire uno scenario di futuro della città a partire dalle rappresentazioni espresse dagli stessi attori locali. Nella pianificazione territoriale, dunque, è possibile definire la strategia come un insieme integrato di azioni volto a raggiungere un determinato obiettivo in un ampio orizzonte temporale e costruito in modo condiviso dai molteplici soggetti coinvolti nel processo. La pianificazione strategica è, oggi, un processo reticolare, grazie al quale è possibile costruire una rete relazionale tra gli attori che rappresentano la società locale, al fine di individuare le possibilità di sviluppo, definendo assieme obiettivi e strategie di lungo periodo per la trasformazione della città e della società nel suo complesso.

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Indubbiamente in evidenza il ruolo cardine della partecipazione finalizzata al raggiungimento dello scopo del piano strategico. Si fonda sui principi di organica integrazione delle differenti politiche e parti coinvolte e punta alla regolazione delle azioni degli attori; è tipicamente un’attività di pianificazione di carattere integrato, nel senso che punta a valorizzare gli effetti che derivano dalla messa in rete di diverse politiche e interventi di settore, e nello stesso tempo selettivo, nel senso che aiuta a dirigere l’attenzione degli attori sulle azioni ritenute cruciali. Come effetto di massima importanza ha una responsabilizzazione delle popolazione e degli attori locali: in questo senso essa intende attivare un processo di autoriflessione degli attori circa il futuro della propria città, definire una visione che orienti le decisioni territoriali che attendono la società locale. Il piano strategico è il prodotto di questo processo, ne presenta e ne interpreta i risultati. Gli Usa, attraversati dai primi effetti della rivoluzione reganiana, sperimentano i primi piani strategici mutuati dal managment aziendale. Strategic planning e strategic management sono chiamati a promuovere modelli di implementazione incrementale che sappiano predisporre

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forme più creative e flessibili di coinvolgimento degli attori decisionali. Al centro della nuova stagione sta la ormai nota critica della pianificazione razional-comprensiva per la sua astrattezza ed inefficacia, ancora più visibili e gravi nel nuovo contesto di crisi emerso a partire dagli anni Settanta. Il contesto di questa prima stagione strategica è caratterizzato dalla trasformazione

del

paradigma

produttivo

che

porta

con

fenomeni

di

forte

deindustrializzazione metropolitana, declino demografico, crisi delle finanze locali, crescente disagio sociale e peggioramento delle condizioni ambientali complessive. Il clima è quello di un brusco arresto delle aspettative di crescita proprio dei decenni precedenti. Tutti questi fenomeni, tipici di tutte le realtà occidentali, si presentano come particolarmente rilevanti negli Usa. I limiti di questa stagione risultano essere del tutto coerenti con la matrice aziendale del nuovo modello di pianificazione: prima di tutto la prevalenza delle priorità di carattere economico nel processo di pianificazione e quindi dei soggetti portatori di interessi forti, ed in secondo luogo il carattere spesso effimero dei suoi risultati. Quindi, a partire dagli anni Novanta, in Europa e Nord America, si sviluppa una nuova stagione di pianificazione strategica volta ad intervenire sui limiti principali caratteristici della stagione precedente. Si vuole intervenire a favore di un allargamento degli interessi rappresentati nel processo di pianificazione, in particolare in direzione di quelli deboli, i cosiddetti sottorappresentati nei precedenti modelli utilitaristici, proponendo un approccio contrattualista in cui vengano valorizzati processi di auto-organizzazione locale raccordando strategia top down e buttom up. Il contesto in cui maturano le nuove esperienze è caratterizzato dall’emergere di una maggiore coscienza della sfida ambientale e delle relative concettualizzazioni della sostenibilità dello sviluppo come dalla rilevanza del paradigma dell’organizzazione in rete dei centri urbani. Si tratta di un nuovo processo attraverso il quale tutti i cittadini (quindi non solo gli interessi forti) sono chiamati ad immaginare la più desiderabile prospettiva di sviluppo del proprio territorio nell’ambito di un percorso in quattro fasi, ciascuna delle quali risponde ad una domanda specifica: “dove siamo?” vale a dire l’analisi delle condizioni di partenza, “dove stiamo andando?” cioè la previsione degli sviluppi futuri a condizioni invariate, “dove vogliamo andare?” vale a dire la vera e propria visione del futuro costruita nel corso del processo da parte degli attori partecipanti ed infine “come possiamo arrivarci?” cioè la costruzione del vero e proprio processo di pianificazione utile al conseguimento della visione individuata.

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E’ ora opportuno addentrarsi nello studio della pianificazione strategica analizzando i “casi pilota” esemplificativi di ogni stagione e declinazione strategica delle varie scuole: americana, anglosassone ed europea (intesa in termini di UE).

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L’esperienza Inglese Il Regno Unito ha introdotto fin dagli anni Sessanta del ventesimo secolo l’uso dello strumento della pianificazione strategica. L’esperienza inglese è quindi, senza dubbio, una delle più ricche in Europa per storia, esperienza acquisita ed applicazione concreta verso contesti territoriali. A differenza delle altre esperienze internazionali ed europee però, quella inglese ha saputo integrare i principi della pianificazione strategica con quelli della pianificazione ordinaria che, come si sa, focalizza la sua attenzione principalmente sull’uso dei suoli. Integrazione, multidimensionalità, partecipazione ed un forte connubio tra la dimensione strutturale e strategica, sono quindi elementi che rendono il sistema della pianificazione anglosassone all’avanguardia, tanto da riscontrare interesse ed ispirazione per gli altri sistemi di pianificazione europei. La prima famiglia dei piani strategici è introdotta con il Town and Country Planning Act del 1968 (a cui è seguita una revisione nel 1990), che struttura il sistema della pianificazione anglosassone su due livelli: uno che riguarda gli ormai consolidati strumenti di pianificazione fisica ovvero i Local Plans; l’altro riguarda invece uno degli strumenti innovativi che accompagnano i precedenti denominati Structure Plans, ovvero piani di indirizzo che delineano i grandi obiettivi dello sviluppo economico-sociale e spaziale di vasta scala e in una prospettiva di

medio-lungo

periodo.

Questa

struttura del

sistema di

pianificazione inglese,

che

successivamente, come vedremo, è stato riformato e revisionato, ha disciplinato la stesura dei piani per quasi mezzo secolo. La pubblicazione del Green Paper nel 2001, un documento che ha la funzione di raccogliere, riassumere e portare a conoscenza dell’opinione pubblica istanze e problematicità del sistema di pianificazione allora vigente, diventa un passaggio essenziale nel percorso che poi porterà all’approvazione del Planning and Compulsory Purchase Act del 2004, che delinea il nuovo sistema di governo del territorio. Questa nuova

legge

ha apportato

sostanziali

modifiche

al

sistema

di

pianificazione

anglosassone; essa infatti, ha completamente rimosso il sistema basato sui Development Plans, articolati in Structure e Local Plans, per esprimersi in Regional Spatial Strategy (RSS). Lo sviluppo del territorio viene ora disciplinato da piani strategici d’area vasta, che dovranno essere realizzati attraverso il contributo delle diverse comunità locali ricadenti all’interno delle otto regioni inglesi, ad esclusione dell’area metropolitana di Londra per cui è previsto un piano a parte. La nuova legge, pertanto, mira ad attribuire molta importanza al principio di partecipazione soprattutto per quanto concerne la trattazione delle tematiche legate allo sviluppo sostenibile; il testo normativo, proprio in riferimento a tale aspetto, sancisce addirittura l’obbligo per il

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Regional Planning Body (RPB), ovvero l’autorità regionale per la pianificazione, di produrre il Statement of Pubblic Partecipation (SPP), un documento che stabilisce chi e come deve essere coinvolto all’interno del processo di pianificazione. Un processo questo che non si conclude con l’approvazione del documento, ma con l’Annual Monitoring Report (AMR), strumento che quindi va oltre la prima fase di redazione del piano e che vuole mettere in luce le trasformazioni, i cambiamenti e le nuove problematiche emergenti dalla società e dal territorio. La RSS, diversa per ogni regione, contempla al suo interno i metodi e le tecniche che da anni contraddistinguono i piani strategici. La RSS, infatti, dovrebbe articolare una vision spaziale, una serie di futuri desiderati (detti comunemente scenari) su ciò che la regione dovrà assomigliare alla conclusione del periodo della strategia e mostrare come questa contribuirà a realizzare gli obiettivi dello sviluppo sostenibile. Dovrà quindi fornire una strategia spaziale concisa, che copra un arco temporale di 15-20 anni, che realizzi la vision, definisca i relativi scopi ed obiettivi principali, illustrati da uno schema chiave, e li porti a compimento in politiche evidenziate in modo chiaro. La strategia dovrà considerare i seguenti argomenti: identificazione della scala e distribuzione della fornitura di nuovi alloggi; priorità per i luoghi di pregio naturalistico-ambientale e paesaggistico, quali la campagna e la protezione della biodiversità; trasporto, infrastruttura, sviluppo economico, agricoltura, estrazione di minerali e trattamento ed eliminazione dei rifiuti. Il piano di sviluppo regionale e locale è dunque lo strumento per sviluppare le vision del futuro, per analizzare i problemi e le opportunità, per organizzare collaborazioni, per formulare le politiche e per implementare le azioni. Un caso particolare di pianificazione strutturalestrategica ante riforma fu il Cambridgeshire and Peterborough Structure Plan. Gli Structure Plan sono piani a carattere strutturale e strategico che fanno riferimento al Town and Country Planning Act del 1990. Questi piani non hanno un carattere prescrittivo verso i contesti territoriali cui si riferiscono, ma forniscono delle linee guida per i contesti locali appartenenti alla regione di riferimento, ovvero delle direttive che gli amministratori locali possono trasformare in politiche ed azioni concrete con i Local Plans. Tale piano è costituito sostanzialmente da cinque parti: 1. introduzione, che riassume i riferimenti normativi del piano e la metodologia adottata; 2. illustrazione delle driving forces, della vision, delle strategie e degli obiettivi generali; 3. sviluppo delle strategie in riferimento agli ambiti che caratterizzano la vita degli abitanti dell’area, che riguardano: lavoro, servizi, abitare, tempo libero, trasporti e

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ambiente; 4. sviluppo della strategia in riferimento alle due sub-aree con cui è stato suddiviso il territorio regionale che sono il territorio attorno a Cambridge da una parte e quello del Nord Cambridgeshire e Peterborough dall’altra. 5. implementazione, monitoraggio e gestione delle politiche. Dalla lettura dei documenti che compongono il piano, emerge con chiarezza la duplice veste strategica e strutturale dello strumento. La componente strategica risiede nella volontà di elaborare una visione condivisa per il futuro della regione, tenendo in considerazione le problematiche ed i bisogni dei cittadini; altro elemento che caratterizza lo stile strategico risiede poi nel processo di partecipazione, che intende avviare momenti di concertazione e coinvolgimento per la predisposizione delle strategie. Il Cambridgeshire and Peterborough Structure Plan mantiene comunque anche il suo carattere strutturale, evidenziato dalle azioni volte ad individuare le localizzazioni e i dimensionamenti per gli insediamenti dei lavoratori e delle imprese, ragionando principalmente sul ruolo decisivo che assumono le infrastrutture. Questo strumento assume quindi una base di partenza su cui poi ragionerà in termini di vision e strategie. Questa base viene riassunta dalle driving forces, ovvero dai fattori di forza che hanno guidato lo sviluppo dell’area che sono rappresentati, dal successo dell’alta tecnologia e della “business economy”, continuo aumento della popolazione, necessità di nuovi servizi ed infrastrutture, necessità di nuove case a condizioni economiche vantaggiose (specie nelle aree dove vi sono maggiori difficoltà economiche), sentito bisogno di raggiungere uno sviluppo sostenibile per l’area. A partire da questa base il piano elabora in primo luogo una vision generica che serve a riassumere l’obiettivo generale a cui lo SP (Strategic Plan) vuole tendere, il quale risiede nel garantire lo sviluppo sostenibile ed il miglioramento della qualità della vita di ogni persona che vive, lavora e frequenta la contea di Cambridgeshire e Peterborough. Tale vision di livello generale si basa sul mantenimento e miglioramento delle opportunità economiche, aumento dell’equità sociale per tutte le aree, protezione dell’ambiente e mantenimento delle singole caratteristiche di ogni località, conservazione delle risorse naturali. Il piano infine elabora anche una propria strategia generale che successivamente tratta in maniera articolata riferendosi ad ogni settore e tenendo in considerazione le due sub-aree. Tale strategia può consistere nell'identificare la scala, il modo di distribuzione dello sviluppo e le localizzazioni più opportune per far fronte ai bisogni delle comunità del Cambridgeshire e di Peterborough, delineare un quadro generale da seguire per garantire l’equità sociale e garantire una crescita economica sostenibile, per quanto riguarda le nuove infrastrutture,

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individuare un quadro di azione che favorisca l’integrazione delle nuove aree di sviluppo con gli investimenti richiesti per il trasporto, i servizi e le attrezzature per i cittadini, identificare la miglior forma di sviluppo adatta a garantire i maggiori livelli di sostenibilità.

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L'esperienza degli Stati Uniti d'America Nel 1976 il congresso commissiona all’EPA (Enviromental Protection Agency) la conduzione di uno studio sulla Baia di Cheasepeake (baia tra il Virginia e il Maryland) e sui problemi di inquinamento che la caratterizzano. Nel 1993 il congresso emana il GPRA (Governament Performance and Results Act) che prevede lo sviluppo, da parte delle agenzie governative, di piani per la realizzazione degli obiettivi prefissati e comunichino le loro performance al congresso e al pubblico americano. Infatti, come testimoniano anche urbanisti americani, il governo federale negli USA sta abbandonando la concezione di bilancio tradizionale a favore del bilancio di performance, seguendo un più chiaro e stretto allineamento tra pianificazione strategica, performance, bilancio e rendiconto finanziario. Quanto ai suoi contenuti, la legge ha prescritto a ciascuna amministrazione federale americana (circa 75 "agenzie", inclusi i 12 "dipartimenti", cioè grossi Ministeri, i cui "capi" fanno parte del Gabinetto del Presidente degli USA), di predisporre, ciascuna, un proprio: 1. "piano strategico" (Strategic Plan) avente un orizzonte temporale "non inferiore ai cinque anni", (entro settembre 1997, quindi dandogli ben quattro anni di tempo, essendo promulgata la legge nell'agosto del 1993); 2. a partire dal primo anno del piano strategico, un "Piano (annuale) delle prestazioni" (Performance Plan); 3. a conclusione di ciascun anno del piano delle prestazioni, un "Rapporto sulle prestazioni"

(Performance

Report)

relativo

a

ciascun

piano

annuale

di

prestazioni. 4. in connessione all'esecuzione di ogni Piano di prestazioni e del piano strategico nel suo complesso pluriennale, la predisposizione di un sistema di contabilità e di "flessibilità" (accountability and flexibility) direzionale, con facoltà di derogare dalle

forme

di

contabilizzazione

ordinaria

e

prescritta

(specie

per

le

remunerazioni dei dirigenti), sulla base di motivate ragioni di conseguimento degli obiettivi dei piani e con la dimostrazione di risparmi complessivi nelle operazioni introdotte. Il Piano strategico, secondo la legge Gpra, deve contenere: 1. Una dichiarazione generale di "goals” che comprenda le principali funzioni ed operazioni. L'agenzia è così obbligata a rivedere la sua missione, sulla base della legislazione esistente e sulla base di consultazioni frequenti con il Congresso, con le parti sociali,

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con i governi statali e locali; questa ridefinizione di missione costituisce un importante passo nel "reinventare" la mission processuale. 2. La descrizione delle finalità e degli obiettivi dell'agenzia, in termini di risultati da attendersi. 3. La descrizione del modo in cui quelle finalità ed obiettivi così espressi debbano o possano essere conseguiti, compresa una descrizione dei processi operativi, delle qualificazioni

e

delle

tecnologie,

nonché

delle

risorse

umane,

di

capitale,

di

informazione, ed altre, necessarie per conseguire tali finalità e obiettivi. 4. La descrizione preventiva di come le finalità di prestazione - espresse e descritte nel piano annuale delle prestazioni, si dovranno o si potranno mettere in relazione alle finalità e agli obiettivi del piano strategico (ciò che è oggetto di quello che i politologi usano chiamare le "analisi politiche", policy analysis). 5. La identificazione dei fattori chiave esterni all'agenzia, e fuori dal suo controllo (ma che possono essere sotto il controllo o l'influenza di altre agenzie o altri organi federali come il Congresso), che possono influenzare

- positivamente o negativamente

- il

conseguimento delle finalità generali e gli obiettivi del piano strategico 6. La descrizione delle variazioni di programma usate per determinare finalità ed obiettivi generali, con un prospetto per le future valutazioni. I contenuti del piano delle prestazioni che, rispetto al piano strategico, costituisce l'aspetto più "operativo" della pianificazione strategica, sono: 

La determinazione degli obiettivi di prestazione (o operativi) allo scopo di definire il livello di prestazione da conseguire per ogni attività di programma

La indicazione di detti obiettivi in forma oggettiva, quantificabile e misurabile

La descrizione sommaria dei processi operativi delle qualificazioni, tecnologie, risorse umane, capitali, informazione ecc., cioè delle risorse il cui impiego è necessario per conseguire i livelli di prestazioni indicati

La fissazione degli indicatori, o misuratori, di prestazione sulla base dei quali si intende misurare e valutare le prestazioni, i livelli di servizio, e i genere i risultati di ogni attività di programma.

La predisposizione di una base di comparazione dei risultati del programma con gli obiettivi di prestazione fissati per il programma

La descrizione dei mezzi da usare per verificare e validare i valori misurati.

La legge Gpra arriva perfino a sancire un rapido ed essenziale glossario dei termini della pianificazione strategica, onde mettere tutte le agenzie nella condizione di usare stessi termini per rispondere nei rispettivi piani strategici e di prestazione al confronto e alla valutazione dei propositi e dei cinque risultati. Inoltre fissa quindi le modalità abbastanza precise per

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assicurare un coordinamento "temporale" dei piani: piani strategici (pluriennali) e piani prestazionali (annuali) e connesse revisioni. Nel 2001 l’EPA “abbraccia” la pianificazione strategica per l’area della Baia di Cheasepeake costituendo

il

primo

caso

federale

di

pianificazione

strategica

di

area

vasta,

dove

probabilmente si sono concentrati le politiche e i finanziamenti americani più importanti. Il congresso di conseguenza ha promosso in un’iniziativa multi giurisdizionale e intergovernativa chiamata Programma della Baia di Cheasepeake, allo scopo di applicare il recupero ambientale al piano strategico. La pianificazione strategica deve assumere l’obbligo di coordinare le azioni di recupero della Baia. Ad oggi l’EPA è l’unica agenzia governativa che presenta un piano annuale e il bilancio dell’agenzia in un unico documento. Subito dopo il 2001, il congresso degli USA crea il GAO (General Accounting Office), paragonabile alla Corte dei Conti Italiana, come ente investigativo in grado di controllare l’efficacia dell’implementazione della pianificazione strategica da parte dell’EPA.

In definitiva negli USA si assiste ad una pianificazione strategica che coinvolga il disegno istituzionale, che abbia la trasparenza e la facilità di accesso alle informazioni contenute nei piani (resi pubblici attraverso la rete) determinando infine un alto grado di responsabilità che, mutuata ad una gestione della performance, contribuirà al miglioramento della governance e della gestione ambientale.

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L'esperienza europea di Barcellona Barcellona ha espresso la volontà di rilanciarsi in un’ottica di medio lungo-periodo per il rilancio delle proprie sorti, poste in dubbio dalla modificazione delle congiunture economiche e politiche globali. Si trattava perciò di una pianificazione reticolare che coinvolgesse tutti gli attori. Il pianificatore, “facilitatore visionario”, era un aiuto all’amministrazione per la progettazione della sua vision, facilitando il dialogo con le parti coinvolte, condividendo così quanto più possibile gli oneri e i “saperi locali”. Non era un tecnico comunale, ma il responsabile di un processo; peraltro la pianificazione era demandata ad un comitato scientifico, e non ad un singolo. A differenza dei piani urbanistici tradizionali, i piani strategici non sono piani regolamentati per legge; come già spiegato, la pianificazione strategica è una pianificazione di natura informale, caratterizzata da un “approccio di tipo socio-cratico”. In altre parole, nel processo di costruzione dei piani strategici: a) l’amministrazione locale promuove l’interesse pubblico attivando e strutturando reti tra i soggetti; b) gli attori locali (soprattutto personaggi, o enti, di spicco delle sfere politica e economica) aderiscono, su base volontaria, al processo di elaborazione e attuazione del piano strategico. Sulla base di alcuni esempi “felici” di pianificazione conosciuti in letteratura con l’espressione inglese di best practice, tra gli operatori del settore si è venuta formando la convinzione che i piani strategici costituiscano degli strumenti efficaci di sviluppo locale e che il loro impiego, a livello di città, debba essere promosso. Negli ultimi anni, l’adozione di piani strategici a scala urbana e metropolitana ha fatto registrare una forte accelerazione. In Europa, la stessa Commissione ha avviato numerose iniziative con lo scopo d’incentivare, tra gli Stati membri, il ricorso a questo tipo di pianificazione. E’, infatti, opinione della Commissione che la pianificazione strategica, in quanto pratica pianificatoria che promuove, a livello locale e sovralocale, l’instaurarsi e l’intensificarsi di reti di tipo cooperativo, sia allo stesso tempo, una pratica funzionale ad ottenere uno sviluppo più coeso dell’UE e un utile strumento per il perseguimento di condizioni di sviluppo più sostenibili. Molte città italiane ed europee sono ormai avviate (anche se già in ritardo!) lungo la strada della pianificazione strategica e molte di esse sono attualmente alle prese con l’aggiornamento del piano vigente o con la redazione di un nuovo piano strategico.

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Si tratta di un insieme di pratiche anche diverse, ma che hanno in comune tre principi: 1. riconoscimento e valorizzazione delle capacità auto-organizzative della società da parte di tecnici con l’uso pesante di strumenti matematici di previsione e ottimizzazione delle scelte poco attente alle condizioni politiche e finanziarie di attuabilità; 2. possibilità di cambiamento radicale dei modi di formazione delle politiche pubbliche. Come tende a verificarsi in generale oggi, anche nelle città queste derivano sempre meno da atti di government, e sempre più sono frutto di una governance alla quale concorrono

le

autorità

locali,

ma

anche

in

modo

esplicito

imprese

private,

rappresentanti di categorie, agenzie pubbliche o miste, tecnici con i loro strumenti, centri studi, associazioni, rappresentanti dello stato; problemi diversi di gestione richiedono la partecipazione di attori diversi, che devono essere legittimati a contrattare soluzioni accettate nella società, e dunque successivamente praticabili; 3. infine, un piano strategico non solo e costruito tramite una continua interazione fra gli attori della città, ma ha proprio la partecipazione come suo specifico, essenziale obiettivo; in altre parole, si tratta di costruire il piano, costruendo al tempo stesso l’attitudine, le forme, la possibilità, gli attori della partecipazione. Molte città europee, in modi diversi, hanno orientato i loro percorsi con procedure che rispecchiano i principi indicati. Per quanto riguarda l’esempio di Barcellona, il governo della capitale catalana si chiese, in previsione dei Giochi Olimpici del 1992, se questo evento, che avrebbe dirottato sulla città rilevanti investimenti e l’avrebbe resa visibile agli occhi del mondo, sarebbe stato di per se un fattore generativo sufficiente per innescare un processo di sviluppo irreversibile e durevole. Gli amministratori di Barcellona compresero che le Olimpiadi sarebbero state un’occasione irripetibile e decisero di giocarla mobilitando le potenzialità inespresse del milieu locale. Come diceva il sindaco di quegli anni, Pasqual Maragall, Barcellona disponeva di intelligenze, di fantasia, di un’incomprimibile capacità creativa. I Giochi Olimpici furono l’elemento di catalizzazione di un processo che, con ogni probabilità, si sarebbe attivato ugualmente: una scadenza precisa e non derogabile, tuttavia, impone di rispettare i tempi, i ruoli, gli impegni reciproci, di abbreviare e di semplificare le procedure. Il 9 dicembre 1987 il Comune di Barcellona con una conferenza stampa comunicava ai propri cittadini un progetto per rilanciare il ruolo economico della città. Punti salienti di tale approccio erano l’applicazione di cicli economici alle città, la necessità di affrontare la sfida di un “cambiamento duraturo” e la straordinaria importanza per la città di un evento come le Olimpiadi del 1992.

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L’aspetto innovativo della pianificazione strategica consisteva nella capacità di far comprendere ai cittadini che il futuro di una città non avrebbe avuto un andamento lineare, bensì sarebbe stato il risultato di un sistema complesso di relazioni tra i cosiddetti agenti economici e sociali presenti sul territorio. In sostanza l’obiettivo si sarebbe potuto realizzare solamente grazie alla definizione di una visione “condivisa” della città, che sarebbe potuta diventare realtà attraverso un piano di obiettivi e azioni. Alla luce di queste considerazioni è stato avviato il processo per il piano strategico, sono stati invitati gli agenti economici e sociali a far parte dei diversi organi del piano - Comitato esecutivo o Consiglio generale - e sono iniziate le analisi ed i dibattiti sulla diagnosi della città e del suo contesto sociale, economico e politico, per fornire una prima visione del futuro di Barcellona in base alle sue potenzialità ed opportunità. Il 20 marzo 1990 il sindaco in carica, Pasqual Maragall, convocava una seduta solenne del Consiglio Generale della Pianificazione per far approvare, a seguito di alcuni anni di lavori, quello che sarebbe divenuto il piano strategico, economico e sociale di Barcellona. L´obiettivo del piano consisteva nel consolidare la città di Barcellona come metropoli imprenditoriale europea, in grado di irradiare la propria forza alla macroregione in cui è situata geograficamente, con una moderna qualità della vita, socialmente equilibrata e con solide radici nella cultura mediterranea. A questo primo piano strategico ne seguirono altri due con nuovi obiettivi che si concretizzavano mano a mano che i precedenti venivano applicati e che le misure principali venivano iscritte nelle agende delle istituzioni competenti per la loro attuazione. Con il II piano (novembre 1994) in presenza di una città trasformatasi fisicamente in una vera e propria metropoli europea ci si propose di infondere nuova linfa alla trasformazione

economica

dei

settori

produttivi

della

città

ad

economia

industriale,

approfittando in particolare dei radicali cambiamenti della città stessa. Nello specifico, il piano individuava cinque linee strategiche, miranti all’innovazione infrastrutturale: 

posizionare Barcellona tra le regioni economicamente più attive ad attraenti dell’UE;

promuovere politiche per l’impiego (in particolare con riferimento ai gruppi svantaggiati (donne, giovani, over 45);

creare una ”Città della Conoscenza” (stimolo a nuovi settori imprenditoriali);

garantire la coesione sociale (stimolo alla vita culturale e creazione di spazi adatti a tale fine);

sviluppare per la città un ruolo specifico per lo sviluppo dell’Europa, della Spagna, del mediterraneo e dell’America Con il passaggio al III piano (marzo 1999) gli obiettivi della città si evolsero fino a conseguire una visione e una strutturazione del tessuto urbano nell’ambito della società della conoscenza.

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Questo piano mirava alla formazione di una nuova vision per la città, sviluppando la metropoli come una rete “polinucleare”, contrapposta alle reti mononucleari di città come Parigi o gerarchico-radiali come nel caso di Londra. I nuovi assi delle strategie erano: 

creare nuovi spazi per la new-economy;

rinforzare l’università nei campi delle nuove tecnologie e favorire lo spin-off accademico;

sviluppare infrastrutture di ricerca (parchi scientifici);

stabilire reti strategiche per la città (BCN digital e BCN biomedica);

promuovere i settori strategici (turismo, cultura, l’ambiente, la logistica, le università etc.).

Oggi Barcellona continua a puntare sulla pianificazione strategica come strumento utile per garantire il progresso economico e sociale. Nel frattempo si è avviata una fase di dibattito e di riformulazione per migliorare ed ottimizzare le impostazioni metodologiche puntando su nuovi schemi, che prevedano più convergenza ed un dialogo più approfondito tra strategia, urbanesimo (forma e funzione della città) ed ambiente. La città si trova in questi anni alle prese con il “Primo Piano Metropolitano Strategico”, strumento che si propone come la risposta alle nuove sfide sociali ed economiche del Ventunesimo secolo per dare forma ad un’area, quella metropolitana coinvolgendo tutti i settori sociali e con una metodologia d’intervento caratterizzata dal consenso, unione delle leadership e cooperazione con i beneficiari finali. La città e giunta al Terzo Piano Strategico, allargando poi nell’ultimo l’ambito territoriale ad una Regione Metropolitana di oltre 3 milioni di abitanti (Primo Piano Metropolitano Strategico). Nell’ambito del piano strategico, Barcellona ha articolato diverse funzioni e diverse attività con una Commissione Strategica, una Commissione di Prospettiva e una Commissione dei Piani Specifici che punta all’integrazione dei diversi piani (culturale, del traffico, del waterfront, della formazione). Barcellona, inoltre, ha assunto, tramite gli stimoli derivanti dal piano strategico, un ruolo molto attivo nel coordinare direttamente le strutture e gli organismi di relazione internazionale e nel creare reti di città europee e trans-europee per la cooperazione e il trasferimento della conoscenza in ambito urbano (Eurocities nel 1986; C6 città del Mediterraneo nel 1990; CIDEU, Centro Ispano-americano per lo Sviluppo Strategico Urbano nel 1994).

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Il movimento “Advocacy Planning” Per alcuni la pianificazione è pensare al futuro Bolan - 1974

Per altri la pianificazione è controllo del futuro, cioè rappresenta il disegno del futuro desiderato e le modalità atte a determinarlo Weick - 1979

Il contesto Il problema della povertà sembrava nel periodo post-bellico un residuo accidentale in una società che si presentava essenzialmente con una forte crescita demografica, negli anni in cui si concentrava l’attenzione dei “tecnici” sulla pianificazione fisica, capace di gestire la trasformazione urbana e la crescita delle città e dei suoi quartieri periferici. Ai tecnici “liberal” (come definiti da Pierluigi Crosta), la povertà venne consegnata dal sistema come problema di partecipazione da realizzare. Fino allora i livelli di expertise richiesti e le nuove tecnologie adoperate escludevano sempre più la gente comune dai processi decisionali, i pianificatori americani si riscoprivano a lavorare per il “generale interesse comune”, rivendicato negli anni Sessanta dai sindacati che si accanivano sulla città e sulla sua politica poco popolare e pubblica, creando momenti di partecipazione come forma di lotta. I saggi di Wilson, Silberman e Michael, affrontano la questione del rapporto tra il piano e il suo destinatario, cioè di quali caratteristiche socio-economiche condizionano la capacità di quest’ultimo di incidere sul processo di formazione delle decisioni di piano, risolvendole a proprio favore. Reiner, Godschalk e Mills, Davidoff, Le Peattie, e infine Kaplan propongono diverse formule di pianificazione, nelle quali il povero è il destinatario privilegiato, co-attore, protagonista del processo di pianificazione. Così, opponendosi al tradizionale urbanista, l’advocate planner si doveva impegnare anche politicamente, per difendere gli interessi di questo o di quel gruppo sociale e far sì che i cittadini giocassero un ruolo attivo rispetto alla definizione delle politiche urbane. Il termine venne coniato da Paul Davidoff in un articolo del novembre del 1965 (“Advocacy and Pluralism in Planning”, Journal of the American Institute of Planners, n. 4). Ascoltare

la

gente,

proporre

scelte,

presentare

alternative,

organizzare

lotte

contro

l’amministrazione diventavano, quindi, prerogative del progettista nel modello razionale, ed alla agenzia di pianificazione è data la facoltà di esaminare differenti alternative di

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pianificazione. Essa non può rappresentarne che alcune di queste alternative e fallisce, sicuramente, nella formulazione di alternative per quei gruppi di interesse solitamente esclusi dal processo di pianificazione; è impossibile che il pianificatore prenda decisioni basate sull’interesse dell’intera comunità, dal momento che è solo a dover rappresentare tutti i gruppi, in una situazione in cui è solo l’autorità governativa che redige i piani e non ve ne sono di sviluppati dalla minoranza, la pressione è tale che i professionisti lavoreranno solo per una agenzia pubblica, che quindi adotta una politica urbana del fare (costruire le case popolari per i ceti meno abbienti). Il concetto di advocacy è assunto dalla pratica legale. In una pianificazione pluralistica, considerare il pianificatore come avvocato vuol dire ammettere che vi sono almeno due punti di vista e che al pianificatore è dato il compito di difendere una di queste (svolge un ruolo analogo a quello dell'avvocato, cioè difende la causa del cliente). Il pianificatore “difensore” dovrebbe essere responsabile per il suo cliente cercando di rappresentare e interpretare i suoi punti di vista, essere soprattutto un pianificatore, preparare i piani per i propri clienti e provvedere a tutto ciò che riguarda la pratica pianificatoria. Il piano del difensore dovrebbe, comunque, avere le caratteristiche di un documento legale sintetico (fascicolo legale), presentare i fatti e le ragioni che supportano una proposta e i fatti e le ragioni che indichino l’inferiorità delle altre proposte, aiutare i propri clienti ad esprimere e chiarire le loro idee, avere un compito educativo, nonché dovrebbe informare gli altri gruppi, incluse le agenzie pubbliche, delle condizioni, dei problemi e delle opinioni del gruppo che egli ha rappresentato, dovrebbe informare i propri clienti dei loro diritti in fatto di pianificazione, delle leggi e delle generali operazioni del governo della città e, in particolare, dei suoi programmi, indicando anche una predisposizione alla trasparenza delle scelte e delle pratiche politiche nella PA. Inoltre, nel valutare i piani alternativi, non dovrebbe attenersi alle sole pratiche tecniche dei costi/benefici in modo semplicistico, ma dovrebbe provare a rendere più espliciti i costi e i benefici sociali facendo riferimento ai valori “che sono alla base dei piani”, il processo di valutazione andrebbe “assistito”, giacché esistono differenti sistemi di valutazione che sono essi stessi sistemi di valori. La pianificazione pluralistica è caratterizzata non più su un piano unico elaborato centralmente, ma su una molteplicità di piani valutati, attraverso metodologie adeguate, nella loro rispondenza alle esigenze della popolazione, piuttosto che chiedere al tecnico dell'ente di elaborare un certo numero di alternative significative, un metodo di pianificazione pluralistico

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favorisce la presentazione di piani alternativi da parte di gruppi con interessi diversi. Il presupposto è che ogni piano rappresenti gli interessi di un particolare gruppo di potere, e che quindi è importante per ogni gruppo con degli interessi in gioco nel processo di pianificazione, dai partiti politici, alle associazioni per i diritti civili, avere la possibilità di esprimerli. Critiche L’advocacy planning fu aspramente criticata dai colleghi di Davidoff, che consideravano gli advocate planners frustati dalla loro incapacità di integrare pianificazione fisica e pianificazione sociale, poco operativi e poco produttivi. Meno attese le critiche dei gruppi attivisti (pianificatori progressisti, sociologi) i quali, pur condividendo l’opinione che la pianificazione urbana era un concetto fondamentalmente politico, sostenevano che la rappresentazione per la popolazione “senza potere” è tanto problematica che l’intervento degli advocate planner non solo può essere inefficace, ma in alcuni casi anche dannosa. Clavel (1983) sosteneva che i clienti con difficoltà avrebbero sfruttato il know how tecnico dell’advocate planner e più facilmente potevano essere manipolati. Pur non avendo soddisfatto le aspettative, il movimento ha avuto un significativo e irrevocabile impatto sulla professione della moderna pianificazione urbana americana (e non solo), ha costituito il punto di partenza per molti pianificatori, che nel seguito della loro carriera accademica e professionale sono giunti a conclusioni differenti, spesso più radicali, come descritto dalla Sandercock (1998) nella sua storia della pianificazione multiculturale, in cui ha contribuito notevolmente a introdurre i temi della responsabilità sociale e della giustizia ridistribuiva nei programmi educativi dei pianificatori urbani nelle linee guida per la Responsabilità Sociale del Pianificatore, adottate dall’American Institute of Planners (AIP) nel 1972, i riferimenti al movimento dell’advocacy planning sono evidenti (riconoscevano gli aspetti politici e rappresentativi della pianificazione urbana), più recentemente l’American Planning Association (APA) e l’American Institute of Certified Planners (AICP) hanno unificato i loro comitati etici per costruire un unico Codice Etico. Nella prefazione si legge: “I principi etici derivano sia dai valori generali dettati dalla società sia dalla responsabilità sociale del pianificatore che serve l’interesse pubblico. Poiché i valori base della società sono spesso in competizione gli uni degli altri, anche i principi competono”.

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La “Sindrome Nimby” Mi ritrovavo in un letto caldo e improvvisamente sono parte di un piano Woody Allen - Ombre e nebbia

Il contesto Intorno agli inizi degli anni Ottanta emerge una nuova corrente chiamata sindrome NIMBY (o NInMBY), che è l’acronimo della frase anglosassone, di origine americana, “Not In My BackYard” (non nel mio cortile). La definizione si diffuse negli Stati Uniti per definire un più generico atteggiamento di rifiuto, da parte di una collettività, verso tutto ciò che non fosse percepito come appartenente alla comunità stessa, quindi anche con una certa implicazione xenofoba e di intolleranza generale verso la diversità. Il fenomeno si è evoluto nel tempo, prendendo forme disparate e più diffuse anche in funzione di un diverso atteggiamento dell'opinione pubblica, via via più sensibile alle tematiche ambientali, ed assumendo infine con notazioni anche politiche legate a forme di contestazione più estese, legate alla globalizzazione e alle istanze di disobbedienza sociale. Il Nimby potrebbe essere considerato una classificazione peggiorativa, applicata al comportamento di certi gruppi di vicinato, che consiste in fin dei conti nel produrre un giudizio di incompetenza a partecipare a una decisione pubblica. Ed infatti, secondo alcuni, l’ipotesi di un comportamento Nimby serve essenzialmente a squalificare l’emergenza di nuovi interessi che concorrono con la concezione dell’interesse generale portata avanti dai manager. Questo aspetto denigratorio dell’uso dell’appellativo Nimby risulta particolarmente evidente se si considera che definisce la figura di un oppositore allo stesso tempo razionale-utilitarista e irrazionale-patologico, insieme capace di fare un calcolo razionale dei guadagni e delle perdite e, allo stesso tempo, incapace di fondare questo calcolo su basi razionale. In questo scenario storico la partecipazione è vista come reazione localistica ai progetti di trasformazione promossi dalle istituzioni. Progetti dipendenti, nascono e muoiono col progetto; si instaurano quindi ideologie negative del “non fare”. In questo periodo il “pianificatore” è solamente visto come un tecnico che apporta al progetto (o piano) il solo contributo tecnico e di conoscenza strumentale senza però apportare un parere sociale o politico. Per lo più la figura attiva viene svolta da comitati che si formano per la lotta all’azione pubblica o privata. Oggi ritroviamo anche altri acronimi, di più recente diffusione, come BANANA, che sta per Build

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Absolutely Nothing Anywhere Near Anyone, e definisce una forma degenerativa del fenomeno Nimby, o CAVE, che identifica i gruppi di opposizione come Citizens Against Virtually Everything, NOTE, ovvero Not Over There Either, NOPE, che sta per Not On Planet Earth, e alcuni altri. Critiche Le critiche sono diverse, da una parte ci sono le problematiche rivolte allo sviluppo che viene visto come negativo in alcuni casi che addirittura sfocia nella formazione di comitati, associazioni, ecc. che preferiscono adottare una filosofia del NON FARE capace di creare disordini anche in aziende importanti e di conseguenza nell’economia. L’altra faccia della medaglia consiste nella posizione degli enti privati che spingono per l’attuazione di certi tipi di progetti che riusciranno ad aumentare il capitale dell’azienda proponente; il tutto però viene fatto alle spalle del pubblico e quindi viene visto come una situazione di prevalenza di “poteri dei forti” sui più poveri. Prevalenza che negli anni si era cercata di evitare proprio con l’advocacy planner.

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Un esempio: il caso del terzo aeroporto di Londra Il caso del terzo aeroporto di Londra è forse il più famoso negative disaster illustrato nel libro di Peter Hall. La sua vicenda abbraccia un trentennio. Come è noto si conclude con la almeno apparente rinuncia alla realizzazione aeroportuale, e con il ripiegamento su una politica di aggiustamenti incrementali delle strutture esistenti che di fatto, secondo P. Hall, faranno di Stansted, un piccolo aeroporto a Nord della città, il terzo per importanza. Quella di Stansted era stata la proposta originaria per la localizzazione del terzo aeroporto, varata da una commissione interdipendente nei primi anni Sessanta. Successivamente la proposta era stata abbandonata a seguito della ferma protesta di movimenti ed autorità locali. Riconfermata nel 1967, fu nuovamente abbandonata nel 1970 quando una commissione di inchiesta indipendente – la Roskill Commission – utilizzando le nuove tecniche dell’analisi costibenefici, aveva proposto di realizzare a Cublinghton il terzo aeroporto. Anche a Cublinghton si forma un movimento di opposizione che trova appoggio nella netta posizione contraria di un membro della Roskill Commission, Colin Buchnan, il quale sostiene che l’unica scelta compatibile con criteri di corretta pianificazione e di salvaguardia delle risorse è Foulness, sulla Manica, lontana dalle aree urbanizzate. Nel 1971 il governo decide, sembra definitivamente, per questa localizzazione. L’opposizione locale, la crisi petrolifera ed il cambiamento di colore politico del governo hanno portato ad un’ennesima revoca della decisione nel 1974, quando nuove previsioni di sviluppo del traffico aereo allontanano il momento di saturazione della capacità degli aeroporti esistenti previsto. Nel 1975 e nel 1978 viene confermata la scelta di utilizzare le strutture esistenti al meglio e, dopo il 1990, di dirottare la maggior parte del traffico in eccesso a Stansted. Anche questo caso fa capire il ruolo dei comitati e dei movimenti locali, prettamente NiMBY, contro la costruzione dell’opera che permettono discussioni istituzionali, locali e nazionali, facendo approfondire le analisi che a volte vengono fatte molto velocemente senza affrontare l’esigenza sociale.

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Un esempio: l’inceneritore Fenice a Verrone La vicenda comincia il 20 novembre 1991, quando la FARe (fiat auto recycling) presenta ai giornalisti il progetto per un’area di riciclo e demolizione degli autoveicoli giunti ormai a fine vita. Gli obbiettivi era il riciclaggio del 90% dei veicoli e lo smaltimento del restante 10%. Il punto di vista aziendale era positivo per l’autosostentamento economico in quanto si applicava una mentalità del “non si butta nulla”: un reticolo di isole ecologiche, un sistema logistico su gomma e su ferro per il trasporto, e infine di una piattaforma integrata di smaltimento erano le basi da cui partire. Il 14 giugno 1993 su “La Stampa” viene pubblicato l’avviso che la Fiat aveva richiesto, al Ministero dell’ambiente, la pronuncia di compatibilità ambientale per la realizzazione di uno dei tre impianti di termodistruzione, quello localizzato nel Comune di Verrone. Due settimane dopo con la firma del protocollo “sviluppo e ambiente”, la Fiat si impegna a far diventare il tutto da progetto sperimentale a programma nazionale. L’iniziativa coglie alla sprovvista le amministrazioni locali che lamentano di non essere state preventivamente messe al corrente delle iniziative. Infatti due giorni dopo i responsabili della Fiat ribadiscono la sicurezza del progetto e la disponibilità alla concessione del 10% della struttura per conto terzi. Il 25 luglio 1993 una delegazione biellese, composta dal sindaco, dal presidente del consorzio dei comuni e dal presidente del Cosrab (consorzio smaltimento rifiuti area biellese) viene ricevuta dal sottosegretario dell’ambiente. Il comune di Verrone il 29 luglio 1993 decide di opporsi al progetto mentre contemporaneamente si organizzano comitati contro il termo distruttore. IL 23 settembre viene fissata la data per la conferenza regionale, in modo di dare la possibilità di produrre la documentazione adatta alle amministrazioni comunali, ma tutto ciò deluse un po’ le amministrazioni biellesi che giudicarono le decisioni della regione ambigue. A seguito dell’insoddisfazione il 28 settembre 1993 venne istituita l’Associazione Difesa Ambientale (ADA). Nel frattempo la Cosrab rende noti i risultati dell’osservatorio di Oropa, dove i risultati meteorologici sono nettamente negativi rispetto alla localizzazione dell’impianto. Il 29 ottobre 1993 la Regione Piemonte esprime parere negativo.

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Nei primi mesi del 1994 la Cosrab si impegnò a tener conto primariamente delle esigenze delle comunità biellesi, così propose nel periodo seguente un tavolo di trattative al quale la Fiat aveva dichiarato l’adesione. La trattativa Cosrab-Fiat parte dall’individuazione di tre proposte localizzative, che fin dall’inizio incontra numerose opposizioni da parte dei sindaci, mentre l’ADA dichiara il proprio “NO” all’inceneritore. Nel luglio 1994 la commissione VIA giudica il progetto compatibile con le caratteristiche ambientali dei luoghi, a condizione che la Regione modifichi il proprio piano regionale. Nell’ottobre 1994 il consorzio dei comuni sposa quello dei comitati, e promuovono il proprio sostegno al ritiro del progetto Fenice da parte della Fiat. Da quel momento in poi si assiste ad una figura “doppiogiochista” della Cosrab dove, da una parte prosegue la discussione per il ritiro del progetto, dall’altra avvia una trattativa ex-novo coinvolgendo gli amministratori locali, Regione Piemonte e Ministero dell’ambiente, per discutere delle problematiche progettuali senza alcuna pregiudiziale. Nel dicembre 1994 il consorzio dei comuni intima alla Cosrab di chiudere ogni contatto con la Fiat. Nel giugno 1995 viene istituita la Provincia di Biella. L’11 agosto 1995, il Ministero dell’ambiente, di concerto con il Ministero dei beni culturali, esprime giudizio positivo circa la compatibilità del processo prescrivendo alla Fiat di introdurre modifiche per diminuire l’impatto visivo del manufatto, dopo che un mese prima il ministero aveva illuso l’amministrazione provinciale. A questo punto l’ultimo ostacolo da superare è l’approvazione della regione. Nel novembre dello stesso anno l’ADA, Legambiente e Federnatura presentano ricorso al TAR per ottenere l’annullamento della compatibilità dei Ministeri. Nell’ottobre del ’95 il presidente della regione costituisce una tavola rotonda dove vengono chiamati attori e professionisti per rendere conto della reale problematica dell’inceneritore. Successivamente la provincia inizia una negoziazione fatta di “paletti” nei confronti della Fiat, che prima della fine del ’95 producono un nuovo negoziato che fa risorgere l’azione di protesta. Il consiglio provinciale in una seduta insieme ai sindaci dei comuni ribadisce il proprio NO nei confronti dell’impianto. Nel marzo 1996 la regione approva il piano regionale per lo smaltimento dei rifiuti. A maggio si formano cortei di protesta per l’inceneritore. Si tratta di una classica situazione del tipo Nimby o Lulu (locally unwanted land use) a seconda

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che si faccia riferimento agli attori in gioco o all’oggetto del contendere, nella quale le caratteristiche intrinseche del progetto e la sua localizzazione sul territorio concorrono a mobilitare una pluralità di attori che, ritenendosi in qualche modo danneggiati, si oppongono con forza alla sua realizzazione.

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La Pianificazione Partecipata La pianificazione è necessaria quando la situazione del futuro desiderata implica l’adozione di un insieme di decisioni interdipendenti, cioè un sistema di decisioni… …la complessità deriva dalla correlazione tra le decisioni piuttosto che dalle decisioni stesse Ackoff - 1970

La pianificazione è decidere in modo integrato Schwendiman - 1973

Il contesto Le problematiche legate al linguaggio, alla sua strutturazione, ed al suo utilizzo nel processo di piano furono affrontate e messe al centro del dibattito disciplinare negli anni Ottanta da un gruppo di pianificatori statunitensi ispirati principalmente dal lavoro di John Forester, Planning in the face of power (1989). Partendo da una critica della razionalità funzionalista che caratterizzava la pianificazione di quegli anni e basandosi sulle teorie di una razionalità comunicativa come enunciate da Jurgen Habermas (1981), Forester ha sviluppato quella che è definita pianificazione comunicativa (o partecipata), capace di influenzare quasi tutte le attuali teorie e pratiche di pianificazione. La pianificazione partecipata risulta più attenta alle indagini di tipo qualitativo, alle interpretazioni che gli abitanti forniscono del territorio in cui vivono, anziché fermarsi alle sole analisi quantitative fornite dagli esperti. Per Forester la pianificazione è principalmente una forma di ascolto critico, di osservazione di comportamenti e modi di utilizzo del territorio. Le modalità di intervento sono basate sull’ascolto e sulle domande rivolte direttamente agli utenti finali del piano attraverso questionari e incontri. Il pianificatore deve, tra le altre competenze, acquisire la capacità di “costruire un dialogo informato” tra i partecipanti al processo, si affaccia la figura del facilitatore e del gestore del processo. Si forma perciò una relazione con il sistema politico basata sulla costruzione di reti attoriali, dove gran parte delle idee contenute nel pensiero di Forester sono ormai divenute parte integrante degli attuali stili di pianificazione. Arnstein nel 1969 crea uno schema di interpretazione della qualità di coinvolgimento di tutti gli

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attori partecipanti ad una tematica urbana (schema seguente).

Molte sono le tecniche, sperimentali e non, oggi conosciute per l'applicazione della partecipazione: dai focus group, agli Open Space Technology (OST); dalle semplici interviste, alle esperienze di débat public per arrivare alla più complessa giuria dei cittadini, ecc. Quindi possiamo a questo punto sostenere che il campo della cosiddetta pianificazione comunicativa è un campo in espansione che permette a volte la sperimentazione di queste tecniche non sempre risolutive e disegnate su misura per l'area in studio, ma comunque preinterrogative dello status quo urbano. Infatti si trovano testi e articoli dove si manifestano le problematiche e le potenzialità delle metodologie partecipative, ma secondo il parere dei più queste riflettono la necessità da parte di attori coinvolti di creare un quadro di pseudo autogestione dei problemi, permettendo una visione a tutto campo delle definizioni del problema stesso e di formare una classe sociale capace di interagire sulle decisioni non in modo autoritario, bensì democratico.

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Un esempio: il débat public per la gronda di Genova Il dibattito pubblico sulla Gronda di Ponente che si è svolto a Genova tra il primo febbraio e il 30 aprile 2009, è stato il primo caso in Italia di débat public relativo a una grande opera infrastrutturale. Esso si è basato sulla metodologia sperimentata in Francia dalla Commission nationale du débat public negli oltre quaranta dibattiti pubblici finora conclusi oltralpe (su autostrade, centrali elettriche, elettrodotti, rigassificatori, linee ferroviarie ad alta velocità, ecc.). L’idea di fondo del débat public è quella di aprire un confronto pubblico preventivo su una grande infrastruttura, prima che essa sia giunta allo stadio della progettazione. In Francia l’apertura del dibattito pubblico è obbligatoria in presenza di opere che superano una certa soglia di spesa. Nel caso di Genova, la scelta è stata compiuta dal Comune in accordo con il soggetto proponente (Autostrade per l’Italia - Aspi). Il dibattito pubblico si prefigge di diffondere tutte le informazioni necessarie con la massima trasparenza e capillarità, di dare voce a tutti i cittadini senza alcuna preclusione e di favorire il confronto tra di essi e il soggetto proponente. Lo scopo è quello di assicurarsi che tutte le possibili obiezioni all’opera possano essere presentate, argomentate e prese in considerazione in modo da consentire al soggetto proponente di prendere decisioni consapevoli. Per evitare il rischio di un confronto “addomesticato”, il dibattito pubblico è gestito da una Commissione indipendente che in Francia è designata da un’apposita autorità indipendente (la Commission nationale du débat public) e nel caso di Genova è stata formata – su iniziativa del Comune d’intesa con il soggetto proponente – da quattro esperti esterni al mondo genovese. La Commissione non ha il compito di pronunciarsi sul merito dell’opera né di formulare raccomandazioni ai decisori, ma svolge il ruolo di “arbitro” o di “facilitatore”. Assicura il corretto svolgimento del dibattito e favorisce lo sviluppo di un confronto basato su argomenti. Il dibattito pubblico inizia quando il progetto del soggetto proponente, redatto in linguaggio non specialistico, viene approvato dalla Commissione e pubblicato. Da questo momento il dibattito si svolge entro un periodo di tempo limitato (4 mesi in Francia, 3 mesi nel caso di Genova) nel corso del quale si organizzano incontri pubblici, sia di carattere generale che di carattere tematico nei territori interessati dall’infrastruttura. I verbali degli incontri e i materiali prodotti sono messi a disposizione del pubblico su un sito web che viene continuamente aggiornato e dove i cittadini possono inviare osservazioni e proposte sia

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mediante un forum sia mediante la presentazione di “Quaderni degli attori”. Questioni particolarmente complesse sotto il profilo tecnico possono essere approfondite in incontri più ristretti. Dopo la chiusura del dibattito, la Commissione redige una relazione finale in cui presenta le posizioni, gli argomenti e le proposte emerse nel corso del confronto pubblico. La parola passa quindi al soggetto proponente che entro un termine prestabilito dichiara se intende procedere nella progettazione dell’opera e, in caso affermativo, come intenda tener conto degli argomenti scaturiti dal dibattito e presentati nella relazione finale della Commissione. Nel caso della Gronda di Genova questo modello si è rivelato come uno strumento di grande efficacia. È riuscito a diffondere conoscenze puntuali come di rado succede per una grande opera pubblica, ad attivare la partecipazione, a stimolare le capacità critiche e progettuali tra i cittadini ed ha indotto il soggetto proponente (Autostrade per l’Italia) ad accettare il confronto svolgendo un ruolo inconsueto per una grande società privata. Il dibattito è stato anche particolarmente difficile e tormentato. Ha incontrato una veemente opposizione sul territorio. Ha rischiato più volte di rinchiudersi in una situazione di muro contro muro, ma ha anche consentito di ascoltare tutte le voci, di scoprire l’esistenza di nuovi problemi e di sollecitare proposte alternative.

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Un esempio: il piano strategico di Jesi (AN) Il documento “Jesi: Piano strategico”, prodotto nel giugno 2004 a termine del processo di preparazione del Piano Strategico da Balducci, Calvaresi, Ginocchini e Savoldi, definisce la pianificazione strategica “un’attività orientata a costruire uno scenario di futuro della città a partire dalle rappresentazioni espresse dagli stessi attori locali”. Come effetto di massima importanza ha una responsabilizzazione delle popolazione e degli attori locali: “in questo senso, essa intende attivare – e questo costituisce forse il suo risultato più importante – un processo di auto-riflessione degli attori circa il futuro della propria città, definire una visione che orienti le decisioni territoriali che attendono la società locale. Il piano strategico e il prodotto di questo processo, ne presenta e ne interpreta i risultati”. Jesi è una cittadina basso-collinare della provincia anconetana, di circa 40.000 abitanti, oggetto di uno sviluppo economico esponenziale nella seconda metà del Ventesimo secolo, grazie all’importante presenza di industrie chimiche (Pieralisi, ecc…) e sedi amministrative finanziarie (banche e attori finanziari). Con il tempo, a causa delle sue innumerevoli varianti (circa 180), il piano “Secchi” si è esaurito, da qui la volontà di definire un nuovo progetto per la “Jesi del 2020”. L’obbiettivo è quello di apprendere dall’esperienza di gestione passata, interpretare le attuali domande, attivare reti locali e sovra-locali e promuovere nuove politiche di governo del territorio. Quindi si decide di intraprendere insieme all’adeguamento del PRG (Piano Idea e Progetto comunale del suolo), l’elaborazione del Piano Strategico e il processo di Agenda 21. Dopo due mesi e stato presentato il tutto al consiglio comunale del programma di lavoro. Nel gennaio 2004 si e costituito l’ufficio di PRG presso il Comune di Jesi. La partecipazione è stato il leitmotiv di tutti i sei mesi in cui è stato prodotto il Piano, e il DIAP ha suddiviso in quattro “filoni” il processo completo. Nel filone cittadino sono stati fatti dei colloqui con i cittadini, organizzati focus groups e un’ottantina circa di interviste. Il Filone dei quartieri, il quale ha visto partecipare i rappresentanti delle diverse circoscrizioni e diverse assemblee cittadine, coinvolti in diverse indagini e incontri nelle singole comunità. Filone delle istruzioni che ha coinvolto quattro scuole locali. E il Filone tematico postumo alla presentazione dell’Agenda Strategica dove sono stati creati dei tavoli di lavoro, uno per ciascuna tematica predefinita. Dall’inizio delle attività è stato pure attivato un sito web, archivio dei documenti ufficiali e luogo di contatto tra gli attori e i gestori del piano, atto a mantenere la trasparenza dei processi e tenere informata la società.

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È d’obbligo fare una distinzione tra gli attori coinvolti nella produzione del piano, e quelli interessati alla sua esistenza e alle pratiche e politiche connesse. Il DIAP ha coinvolto i primi nelle quattro succitate fasi del processo. La cittadinanza insieme alle associazioni locali, alle categorie economiche e professionali a alle amministrazioni comunali e dei quartieri sono stati coinvolti nei focus groups e ai tavoli di lavoro, nelle assemblee cittadine e nel corso delle interviste. Per alcune scuole sono stati approntati dei lavori e delle sedute specifiche. Diverse agenzie tecniche e gruppi industriali sono stati coinvolti in fase avanzata per la condivisione delle conoscenze e delle volontà in merito al tema dello sviluppo infrastrutturale di area vasta (il Corridoio Esino). Per quanto riguarda gli attori attivabili, la relazione finale del DIAP del 2004 elenca gli attori ponendoli in relazione alle nove cosiddette “strategie” di azione strategica. Distingue gli stakeholders tra nazionali, regionali, provinciali, sovracomunali e locali, e per ciascuno indica le strategie per le quali sono portatori di interesse. Una nota della relazione del piano strategico dice quanto segue: “Gli attori che compaiono in questa (in seguito riportata) tabella sono soltanto alcuni di quelli potenzialmente coinvolgibili attorno alle strategie suggerite dal piano: già presenti nei network delle politiche esaminate o il cui contributo e ritenuto più facilmente attivabile. Evidentemente possono essercene molti altri (come le amministrazioni centrali dello Stato, o la stessa Unione Europea), il cui ingresso nella “mappa della governance” dipende tuttavia dalla capacità della rete locale di costruire reti di governance più dense, sia in senso orizzontale che verticale”. La pianificazione strategica è un’attività

orientata

a

costruire

uno

scenario

di

futuro

della

città

a

partire

dalle

rappresentazioni espresse dagli stessi attori locali”. (Balducci A., Calvaresi C., Ginocchini G., Savoldi P., 2004). Il piano individua e analizza la realtà reticolare della città nei suoi diversi livelli, cioè i sistemi che la caratterizzano, e propone nove strategie che insieme concorrono al raggiungimento delle visions future di Jesi. Si usa qui il plurale visions perché le proposte sono differenziate e complementari tra di loro. Pertanto gli studiosi del DIAP non hanno voluto scegliere un termine singolo o un solo obiettivo. LE RETI: La rete di economie: Jesi è un distretto caratterizzato da un’alta eterogeneità di produzioni, industriali e artigianali; La rete delle società locali: maglia di centri autonomi, dinamici, operosi; La rete di ambienti e paesaggi: contesto ricco di risorse e peculiarità; La rete delle infrastrutture: sistema complesso di flussi di persone e merci. LE STRATEGIE: Territorio Coeso: implementare i rapporti virtuosi con i territori vicini per affrontare la sfida della globalizzazione; Territorio Verde: valorizzazione della Vallesina

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(connesso ad Agenda 21 Locale); Territorio Eccellente: dare forza all’eccellenza e alla competitività; Territorio Capace: rafforzare e sfruttare le risorse umane; Jesi grande: prevenire la dispersione insediativa; Jesi nostra: governare il commercio della casa soddisfacendo tutte le richieste, e riqualificando il patrimonio edilizio in termini di qualità e sostenibilità; Jesi viva: incentivare i cicli creativi e di intrattenimento dedicati al tempo libero e allo svago; Jesi fluida: favorire la fluidità del sistema di trasporto e di sosta; Jesi lenta: “città slow, a bassa velocità ma ad alta qualità” per compensare i ritmi concitati della competizione e della globalizzazione.

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La Pianificazione Auto-organizzativa “Processi di aggregazione molecolare. Non abbiamo più bisogno del partito, bisogna sperimentare dal basso con un processo collettivo e plurale di auto-rappresentazione e autorganizzazione politica, per passare da forme primordiali a forme più complesse di organizzazione.” Paolo Cacciari

Il contesto La questione centrale, però, di tutti questi apporti alla pianificazione rimane sempre la stessa: cosa può fare il pianificatore per affrontare queste disuguaglianze? La maggior parte è arrivata ad asserire la necessità di un approccio capace di rafforzare dall’interno i gruppi per i quali si schieravano (empowerment) e che tutto ciò andava praticato al di fuori della burocrazia ufficiale (Peattie 1987, 1994), connotando la pianificazione in questi contesti come processo di mobilitazione sociale. Le diverse forme di mobilitazione sociale assegnano un ruolo primario alle pratiche partecipative, sviluppando un modello nel quale l’interazione tra popolazione locale e organi di pianificazione, connotata da un presunto rafforzamento dell’identità collettiva e

dall’autodeterminazione politica

e sociale dei

soggetti

coinvolti,

assume la

forma

dell’opposizione e della rivendicazione delle proprie capacità progettuali e di “autogestione”. Sembrano appartenere a questo nuovo modello d’intervento, le recenti teorie di sviluppo per i paesi del terzo mondo elaborate in programmi di sostegno finanziati dall’ONU, fondate sulla produzione di soluzioni “dal basso” e sull’incentivo di attività di auto-costruzione e di self-help da parte delle popolazioni locali (Sachs, 1988). Per concludere, l’obiettivo della pianificazione “radicale”, specie nelle sue forme più recenti, è ristabilire un controllo sociale sulla tecnica a favore delle minoranze emarginate, dando voce alle diverse identità razziali, culturali, di genere sessuale, fornendo nuova importanza al concetto di “differenza”, elemento cardine di un nuovo ideale di pianificazione (Sandercock, 1998). L’identificazione delle modalità con cui riuscire a valorizzare le differenze nei processi di piano rimane una delle grandi sfide. Va notato come, nonostante l’importanza data pratica, rimane, però, piuttosto esiguo il numero delle concrete applicazioni di tale approccio, anche se si può valutare rilevante il valore di “orizzonte” auspicabile che questo modello detiene nella disciplina pianificatoria.

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Un esempio: il caso inglese di Luton (Marsh Farm), dai rave party alle politiche nazionali, dal self-help al capacity building Con la fine degli anni Sessanta e l'inizio degli anni Settanta la crisi industriale invertì decisamente il trend di sviluppo del territorio di Luton. Uno dei quartieri nuovi nati per aumentare l'offerta lavorativa e quella abitativa è Marsh Farm, nato sulla base del “modello Radburn” che è un concetto urbanistico di matrice americana pensato per tenere separati il traffico pedonale da quello automobilistico. La qualità però è andata scemando nel tempo, portando il quartiere all'abbandono e al degrado delle aree verdi e degli spazi pubblici. Ma non è che una piccola visione di una più profonda crisi. Marsh Farm, largamente multietnico, è un quartiere periferico della città, che ne fa risentire anche ai sistemi di opportunità lavorativa e di sostegno alle famiglie che causò il fallimento del tentativo della localizzazione di un attività industriale. La vicenda inizia quando un gruppo di ragazzi (a Marsh Farm circa il 50% ha meno di venticinque

anni

di

età)

intravede

la

possibilità

di

uscire

dal

“ghetto”

attraverso

l'organizzazione di feste (raves), creando un collettivo sociale del quartiere, il collettivo Exodus, tutto questo veniva realizzato in terreni privati, agricoli e non, che venivano presi in affitto. Con il passare del tempo capiscono che questa attività potrebbe avere dei risvolti positivi per quanto riguarda l'aggregazione sociale e la riqualificazione del quartiere, infatti accolsero come una sfida i risvolti politici di quel periodo avvicinandosi alla politica locale e anche nazionale. Fu così che negli anni seguenti lo Stato inglese avvertì l'esigenza di creare delle normative fatte su misura per tipi particolari di quartieri in degrado (new deal for communities). Una di queste fu chiamata proprio MFCDT (Marsh Farm Community Development Trust) che portò il “capo” del collettivo Exodus ad essere membro dell'organo istituzionale per la gestione dei servizi del quartiere con il sussidio dei fondi statali. Il caso sinteticamente presentato sollecita diverse riflessioni a proposito delle possibili ridefinizioni del rapporto tra prospettive di rigenerazione dei quartieri in crisi e progetti di coinvolgimento dei loro abitanti e delle organizzazioni attive a livello locale. Spinge innanzitutto a riconsiderare la mission, il contenuto e la forma delle cosiddette politiche partecipate, che oggi in Italia restano prevalentemente ancorate ad una interpretazione debole della partecipazione (come consultazione, quando non solo come informazione e comunicazione) e quasi sempre orientate alla mera costruzione del consenso attorno a scelte di trasformazione fisica (per altro speso già definite nei loro contenuti essenziali). In generale nel campo delle pratiche di rigenerazione la prospettiva people-based, al di là della indubbia valenza retorica, sembra mettere in evidenza la possibilità di una inversione nel rapporto tra pratiche

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partecipative e orientamenti di sviluppo: muovendo da una interpretazione della partecipazione intesa come dispositivo per ancorare localmente certe prospettive di sviluppo definite esogenamente,

il

passaggio

sembra

essere

quello

verso

una

interpretazione

della

partecipazione come veicolo per riconoscere, promuovere e rafforzare le condizioni locali dello sviluppo. In particolare, in base alla prospettiva capacity building promossa da NDC il contenuto e la forma dei programmi di intervento nei quartieri tendono a mutare all’insegna di: - uno spostamento di attenzione dalla ricerca di soluzioni esogene ai problemi della società locale all’incremento della capacità endogena di trattarli (e a tal scopo vengono concessi finanziamenti a più riprese vincolati alla qualità dei risultati raggiunti); - una ridefinizione della relazione con il progetto fisico di ristrutturazione delle infrastrutture collettive: da fine ultimo dei processi partecipativi a strumento, occasione, pretesto per attivare percorsi partecipativi orientati a conseguire obiettivi più ambiziosi; - una riconversione della partecipazione da occasione per offrire il contributo specifico degli abitanti ad un sistema di ruoli e funzioni predefinito, a opportunità per problematizzare la natura delle competenze da mobilitare all’interno del processo di rigenerazione.

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Un esempio: Casa di Plastica a Sesto San Giovanni (Milano) Nel 1972 quando fu costruita, l’architetto aveva in mente un modo rivoluzionario di costruire la casa, fatta da pezzi prefabbricati industriali di plastica assemblabili; questo permetteva un abbattimento dei costi e del tempo di costruzione. I primi problemi si riscontrarono con i primi inquilini (per lo più della classe operaia locale), quando si accorsero che la casa aveva grossi problemi di riscaldamento, in più essendo una casa popolare era situata in una posizione non proprio agevole che non permetteva una socializzazione ai residenti. Agli inizi del 1980 un bambino muore nel parchetto, dove si trovava una fogna a cielo aperto dell’area industriale, con la conseguenza che i residenti cominciarono ad allontanarsi da quel luogo preferendo un altro tipo di alloggio e di quartiere. Negli anni successivi rimasero in pochi, di cui la maggioranza era costituita da immigrati del Mezzogiorno. La loro cultura li portò ad avere rapporti di fratellanza e self-help all’interno dell’edificio creando situazioni di mutuo-rapporto, ricostruirono il tetto e organizzarono feste di condominio nelle cantine. I problemi di riscaldamento rimanevano troppi e molti degli abitanti si ammalavano con polmoniti e/o bronchiti diffuse anche tra i più piccoli abitanti della casa. Per questo nei primi anni Novanta venne per la quasi totalità abbandonata e il Comune iniziò un dibattito di anni e anni, sull’abbattimento o meno dell’edificio e sulla sua effettiva abitabilità. Un gruppo di un centro sociale, ACTION, decise di occupare la casa, approfittando del caos totale dell’amministrazione, con una mossa non proprio legale che determinò la nuova ripopolazione/rioccupazione della casa. In questo caso furono tutti immigrati del Sud America che, con la loro forza d’animo e bagaglio culturale, riuscirono a far riprendere vita, nel vero senso della parola, a casa plastica, tinteggiando di un nuovo colore le pareti e gli interni della casa e sistemando tutti gli impianti idrici e elettrici; in più, a differenza degli abitanti del meridione, riescono a riabilitare tutta l’area intorno alla casa rivitalizzando il giardino e il parchetto, dove nelle giornate più calde si organizzano feste di condominio, creando un ambiente di autogestione della casa. Per anni nell’amministrazione comunale si continuarono a formare pareri diversi all’interno degli stessi partiti. Da una parte si vedeva la casa come un luogo di bassa valenza architettonica e come un alienazione rispetto al contesto comunale, dall’altra si vedeva quell’edificio come un luogo di rifugio per tanti utenti stranieri che forse non avrebbero trovato casa. Nel 2004 venne istituito un contratto di quartiere sull’edificio. Questo portò ad una politica che cercava in qualche modo di riqualificare l’area anche attraverso l’istituzione di una cooperativa

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Casa Plastica così che tramite forum tutti gli attori in gioco potessero esprimere la propria opinione in proposito. Questa nuova situazione portò ad una nuova visione della gestione, quasi autogestita in una partecipazione tra abitanti, vicini, autorità competenti e comune. Anche in questo caso si può intravedere come da un attività di “autogestione” si può arrivare a normative e “aiuti” istituzionali, un po' per il coraggio delle comunità locali, un po' per la pubblicità di un certo luogo. Il contratto di quartiere è uno strumento italiano per le riqualificazioni in ambiti di diffuso degrado delle costruzioni e dell’ambiente urbano, e caratterizzato da carenze di servizi in un contesto di scarsa coesione sociale e di marcato disagio abitativo, che tutt'oggi riesce a supportare quella specie di necessità autogestita di casa plastica.

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Punti di vista a confronto: un articolo sulla critica dei piani strategici (a cura di Valeria Fedeli) Da più di un decennio si parla di pianificazione strategica in Italia. La restituzione dei casi ha costituito una delle modalità più diffuse, e forse più fertili, nella sperimentazione e per la costruzione di prime riflessioni, nel quale la multidisciplinarietà dei soggetti è stata coinvolta a 360°. Tutto ciò ha creato una rete di scambio di esperienze che ha portato a due fenomeni: 1. costituirsi di una rete di città strategiche : che si propone di promuovere: dalla governance locale, alla gestione del governo metropolitano; dal prodotto città, al benchmarking; ed infine il rafforzamento dal punto di vista della città in Europa. Tutto ciò ha creato una rete di scambio d’esperienze (ReCS). 2. promozione a livello di governo locale: permettendo una visione condivisa e dinamica del proprio futuro e del proprio posizionamento competitivo. Viene identificato come “il disegno politico dello sviluppo”. In sintesi il PS è lo strumento tramite il quale le città si danno strategie per assolvere il proprio ruolo di nodi di eccellenza dell’armatura infrastrutturale europea, nazionale, regionale e di motori del processo di coesione dello spazio. Ma quali sono i nodi cruciali riscontrati dall’approccio italiano e non solo? Il primo, e principale, è riferito all’equivoco dell’attore collettivo (Le Galés, 2002), dove si pone un uguaglianza nella definizione di un piano strategico, tra città e attore collettivo, sbagliata in quanto l’attore collettivo non è omogeneo e soprattutto viene visto, erroneamente, come capace di formulare il cosiddetto “bene pubblico della città”. Il secondo riguarda l’ipotesi della città come società (Le Galés, 2000), dove lega il farsi attore della città al loro essere riconoscibili e descrivibili come società locali, seppure incomplete. Città globalizzate, come Londra e Parigi, rendono poco la rappresentazione come attore collettivo, città europee di dimensione intermedia ammetterebbero, invece, questa lettura. Sempre Le Galés (2003) riporta un'altra ipotesi sulla visione della governance, in quanto deve essere vista come strumento esplorativo che permette di evidenziare i limiti analitici in uso nel rappresentare il modificarsi della società e delle sue forme di organizzazione economica, politica e sociale. Stiamo assistendo ad un fenomeno di ridisegno dello Stato concependo rappresentazioni prodotte da effetti, con possibilità sfavorevoli di una sorta di chiusura delle regole a livello territoriale. A questo si ricollega, sfortunatamente, il principio fallimentare nell’assorbire supporti. Sempre l’autore afferma, recuperando il riferimento alle communitas, e alla possibilità che la città (per lo più europee), possa essere campo di produzioni originali e

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specifiche forme di governance (tutto ciò è però un ipotesi). Per la Haley, oggi stiamo assistendo ad una “relational conception of geography” dove la pianificazione strategica è messa in tensione dal nostro riconoscimento degli spazi che è sempre filtrato dalla nostra percezione di essi, in sintesi non bisogna parlare di integrazione, ma di percezione costruttiva sociale dello spazio. Amin (2004) riporta l’approccio non attraverso le rappresentazioni statiche scalari, l’autore dichiara che assomiglierebbero a “mess of squiggles across a map” (una sorta di scarabocchi su mappa), poiché le iterazioni sociali, economiche, politiche, culturali, ecc…, non sono rappresentabili. Questo porta a tre tipi di conseguenze: 1. la difficile definizione dei confini, “there is no definable regional territory to rule over”, non si riconosce un territorio geografico definito all’interno del quale gli attori possano controllare e gestire uno spazio socio-politico; 2. la debolezza della soluzione istituzionale, “Again, there is something wrong with this, but what is on offer is an imitative model of democracy, rather than an opportunity for a different and more expanded politics of place”, non esiste una forma tradizionale di istituzionalizzazione che possa risolvere i problemi di democrazia locale, però tutto ciò è un’opportunità di sviluppo della politica a livello locale. 3. l’inattualità delle tesi identitarie, “…that cultural globalism has become the everyday filter through which regional attachment or sense of place is developed and expressed (Paasi, 2002). The result is not necessarily a weakened sense of place, but a heterotopic sense of place (…) made up of influences that fold together the culturally plural and the geographically proximate and distant”, il senso del luogo si evolve in un discorso eterotopico, creato dall’influenza di tutti, pluralità culturali geografiche prossime e distanti. Da questo, per Amin (2004), derivano degli esiti per la politica locale e ne suggerisce due ingressi. Politics of proprinquity (“politics of everyday life”), “the politics of propinquity may be read as a politics of negotiating the immanent effects of geographical juxtaposition between physical

spaces,

overlapping communities, contrasting cultural

practices”, politiche di

negoziazione degli effetti geografici della giustapposizione tra spazio fisico e contrasti culturali. Politics of connectivity (“politics of place”), politiche che producono la vita pubblica e il costruirsi del pubblic realm (reame pubblico), “thus conceived, a region, should be able to be claimed also by distant others, and should be able to link up with developments elsewhere on the basis of genuine normative complementarity”. A queste tesi si affacciano quelle di Frug (2002) e di Pratchett (2004), che propongono una re-

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interpretazione drastica del concetto di autonomia, mettendo in evidenza come l’attuale condizione riduca di fatto la loro sovranità e le loro prospettive di autodeterminazione, mette in tensione sia la possibilità di pensare alla città come attore individuale che come attore collettivo, nonostante i recenti processi di riforma legati a decentramento e federalismo, le città si scoprono sempre più lontane da quell’esercizio dell’autonomia. Ulteriori ipotesi arrivano dai contributi di Crosta (2004), sugli usi molteplici del territorio che la gente fa e le iterazioni sociali prodotte dalla multipla presenza degli individui in un locale, non solo la relazione tra governo dei luoghi e governo delle persone non è più vista in modo tradizionale, ma anche il locale (che non è più un luogo) deve essere visto come costrutto di iterazioni sociale. In questa prospettiva a essere messi in tensione sono proprio da un lato l’attorialità (il farsi attore), dall’altro i processi decisionali e l’attenzione posta con forza sulle modalità di organizzazione della rappresentazione e della partecipazione. In sintesi In questa discussione e nelle pratiche in corso è possibile riscontrare molti interrogativi circa le riflessioni fino ad ora avanzate. Da un lato i piani strategici appaiono con chiarezza uno dei campi per trattare “il mito modernizzato della città europea”, dove identità (carattere simbolico mobilitante) e autonomia (azione decisionale locale forte) giocano da protagoniste. Dall’altro emerge (Amin) proprio la debolezza degli stessi piani che deficitano di un’efficienza e parzialità proprio riguardo la garanzia alla democrazia, attraverso la decisione collettiva, e ai meccanismi di tipo istituzionalista, attraverso l’integrazione degli attori all’interno della città. Borelli (2005) afferma infatti che: “Le città europee sono alla ricerca di nuove forme di governance, attraverso la pianificazione strategica”, ancora una volta la testimonianza che la pianificazione strategica deve essere assorbita come un laboratorio di sperimentazioni di politiche volte alla visione futura urbana e all’evoluzione della politica locale.

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